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Autore: Beauty    05/04/2019    1 recensioni
Nel mondo delle favole, tutto ha sempre seguito un preciso ordine. I buoni vincono, i cattivi perdono, e tutti, alla fine, hanno il loro lieto fine. Ma le cose stanno per cambiare.
Quando un brutale omicidio sconvolge l'ordine del Regno delle Favole, governato dalla perfida Regina Cattiva, ad indagare viene chiamato, dalla vita reale, il capitano Hadleigh, e con lui giungono le sue figlie, Anya ed Elizabeth. Attraverso le fiabe che noi tutti conosciamo, "Cenerentola", "Biancaneve", "La Bella e la Bestia"..., le due ragazze si ritroveranno ad affrontare una realtà senza più regole e ordine, in cui niente è come sembra e anche le favole più belle possono trasformarsi nel peggiore degli incubi...
Inizia così un viaggio che le porterà a scoprire loro stesse e il Vero Amore, sulle tracce della leggendaria "Pietra del Male" che, se nelle mani sbagliate, può avere conseguenze devastanti...
Il lieto fine sarà ancora possibile? Riusciranno Anya ed Elizabeth, e gli altri personaggi delle favole, ad avere il loro "e vissero per sempre felici e contenti"?
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo VII
 
The Prisoner
 
 
 
Una graziosa fanciulla di nobili origini
chiamata lady Marian per nome
viveva nel Nord, in un magnifico palazzo,
poiché ella era una dama di grande spicco
 
F. J. Child, Robin Hood e lady Marian
 
 
 
LE PRIGIONI ERANO COLLOCATE NEI sotterranei del palazzo di Lindorm, ed era raro che un barlume di luce che non provenisse dalle torce accese filtrasse attraverso le pietre umide e squadrate delle segrete.
Ma a lady Marian la luce faceva male, ormai.
La sua cella aveva una sola finestra incastonata di sbarre, troppo in alto per poter essere raggiunta e troppo piccola perché i raggi solari potessero entrare in modo completo e continuo; e trentasei mesi di prigionia erano stati sufficienti affinché lady Marian si ritraesse nell'ombra come un topolino spaventato, abbracciandosi le ginocchia e affondando il volto nell'incavo creato dal suo grembo in modo che la luce non le facesse bruciare gli occhi ogniqualvolta un raggio impertinente osava violare l'oscurità della celletta.
La Regina Cattiva l'aveva rinchiusa là dentro tre anni prima, e da allora la porta era sempre rimasta sigillata tranne che per tre volte al giorno, quando, a orari regolari, un Indifferente la socchiudeva e si affacciava sulla soglia con il suo sguardo spento e faceva scivolare sul pavimento la ciotola contenente il rancio.
Gli Indifferenti non parlavano mai, e lady Marian era abituata al silenzio. Le segrete non erano rumorose; perfino le guardie limitavano i loro discorsi a mormorii e bisbigli troppo bassi per poter essere uditi dai prigionieri. Le uniche occasioni in cui quell'alone silenzioso veniva infranto era quando la Regina Cattiva o il capitano Thorne decidevano di punire qualcuno.
E' da stamattina che sento urlare. Ma perché non lo portano altrove?
Era già difficile dormire – il pagliericcio era così impregnato di umidità che si era sfatto dopo poche settimane della sua prigionia, e il pavimento era durissimo, per non parlare dei topi...la notte precedente Marian era stata svegliata da due ratti che le stavano rosicchiando il vestito, chi le garantiva che se non li avesse ammazzati stritolandoli fra le catene non avrebbero fatto lo stesso con le sue caviglie? –, con il chiasso secco e cadenzato delle frustate e dei gemiti di dolore di quel poveraccio la sua stanchezza e la sua emicrania non potevano che peggiorare.
Chiuse gli occhi e provò a rilassarsi e a ignorare quella cacofonia, ma era comunque difficile trovare sollievo in quelle condizioni. Dormire era l'unico passatempo che poteva permettersi. In tre anni aveva elaborato un programma giornaliero che, si era detta, le sarebbe servito per non impazzire: questo era avvenuto nelle prime settimane, quando ancora sentiva le pareti della cella schiacciarlesi contro e quando ancora credeva che sarebbe uscita da lì presto; era una strategia momentanea, si era detta: mangiava e dopo ogni pasto dormiva, poi cercava sempre di camminare su e giù nel ristretto spazio e per quanto le catene glielo consentissero, almeno quattro o cinque volte al giorno per circa dieci minuti, in modo da non atrofizzare i muscoli delle gambe; e quando Cassius non montava di guardia, a bassa voce ripeteva tutte le filastrocche e gli scioglilingua che conosceva, e di tanto in tanto canticchiava qualche stralcio di vecchia ballata.
Ovviamente non era durata poco come aveva sperato e nessuno era venuto a liberarla, ma la routine era rimasta, così come l'obiettivo di non perdere la testa.
Anche se me la faranno perdere presto, se vanno avanti con questa musica...!
Ogni colpo secco di frustata era seguito da un gemito o un urlo di dolore. Certo, il disgraziato si stava impegnando per provare a soffrire in silenzio, ma lo si sentiva lo stesso. Marian strizzò gli occhi e si rannicchiò in posizione fetale, prendendosi il capo fra le mani. Le tempie le martellavano come tamburi di una processione.
Rantolò di dolore e sul volto le si dipinse una smorfia quando sentì i polsi bruciarle. Un rivolo di sangue aveva macchiato l'anello di ferro e ora stava scendendo lungo l'osso metacarpale e il mignolo. Marian scattò seduta, emise un soffio felino e provò a infilare la manica del vestito all'interno dell'anello per tamponare e attenuare il dolore. La stoffa assorbì il sangue, scurendosi in un modo che alla ragazza sembrò poco naturale, quasi nero. Si dimenticò comunque subito della cosa, attribuendo la strana sfumatura alla penombra della cella.
Due anelli di metallo arrugginito le erano stati serrati attorno ai polsi, e agganciati ad essi vi erano un paio di catene fuse con dei ganci infissi nelle pietre del pavimento. Non glieli avevano mai più tolti, e dopo tre anni il ferro le aveva del tutto martoriato la carne, graffiato la pelle, e spesso dalle ferite spillava sangue.
Prestando attenzione a non farli sfregare più di tanto, lady Marian si sollevò dal pavimento. I gemiti erano cessati e gli schiocchi della frusta si facevano meno frequenti, avviandosi verso la cessazione.
Che l'abbiano ammazzato?
Riconobbe la mascella marcata di Cassius oltre le sottili sbarre della graticola – i cardini dello sportello avevano ceduto un anno e mezzo prima per colpa di un pugno troppo violento della guardia, e nessuno ne aveva mai messo uno nuovo. Marian assottigliò le labbra. Le carceri del castello erano un postaccio, l'ultimo dei luoghi in cui un membro della Guardia Reale degno di tale nome avrebbe voluto essere assegnato; si aveva a che fare con la feccia – prigionieri illustri, certo, in quanto prigionieri della sovrana, ma pur sempre tali e quindi feccia –, c'era poco ricambio di turni e ci si trovava a montare di fronte alle celle per ore e ore, spesso anche per tutto il giorno e tutta la notte prima di poter avere un po' di riposo.
- Immagino occorreranno uomini addestrati - aveva considerato in proposito il nuovo capitano della Guardia Militare, tale Alexandre Navarre, dopo pochi giorni dalla sua assunzione e dal suo arrivo a Lindorm. Stava discorrendo con il capitano Thorne di fronte al grande camino del salone dell'ala est, di fronte a una bottiglia di vino rosso della regione dei Quadling.
Lady Marian non aveva ricavato molta soddisfazione da quel tizio. L'impressione che aveva avuto di lui quando era arrivato alla reggia di Lindorm era stata tutto sommato confermata: Navarre sembrava uno che detestava i convenevoli e ancora di più detestava il capitano Thorne. Era difficile da spiegare a parole, ma lady Marian riusciva a percepire una sottile ostilità che ammantava l'atmosfera ogni volta che Navarre e Thorne si trovavano nella stessa stanza o si scambiavano quelle poche parole di rito.
Ma non pare esserci niente di losco, si era però ritrovata a constatare con una punta di delusione. Può darsi che sia solo antipatia.
- Nel Regno da cui provengo la residenza regia non disponeva di carceri - aveva aggiunto Navarre proprio mentre lady Thorne calava un inutilissimo due di fiori. Lei e lady Marian erano sedute a un tavolino che si trovava quasi dalla parte opposta del salone, e si faceva una fatica dannata a sentire cosa i due uomini si stessero dicendo. Lady Marian doveva solo ringraziare che parlassero con un tono di voce normale, se avessero bisbigliato sarebbe stato impossibile capirci alcunché.
Se fosse dipeso da lei, avrebbe trovato qualche scusa per sedersi a ridosso di una delle finestre a ricamare, vicino al camino, ma quell'oca di lady Thorne era sempre ansiosa di trovarsi un luogo il più distante possibile da quello in cui si trovava il marito, e se avesse insistito troppo avrebbe finito con il dare nell'occhio.
- Tocca a voi - aveva pigolato lady Thorne rivolgendole un sorriso gentile e sciocco. Aveva partorito da poco, non aveva ancora ripreso a indossare il corsetto e l'abito lasciava intravedere le forme più morbide residuo della gravidanza. Lady Marian era all'epoca appena quindicenne, e lady Danielle Thorne non le era mai piaciuta: non le ispirava antipatia come il marito, ma le dava l'idea di un esserino ebete e inutile, talmente spaurito e sottomesso da dare sui nervi.
Il sentimento di avversione si era acuito quando si era vista soffiare da sotto il naso il ruolo di dama di compagnia della principessa Rosarossa e della principessa Biancaneve proprio dalla moglie del capitano ventiquattro mesi addietro; era stata la Regina Cattiva a stabilire così, perché a quel tempo Marian era stata promessa in sposa e aveva dovuto lasciare la reggia di Lindorm per quella di Nottingham.
Il matrimonio era andato a monte e lei era tornata, stavolta come spia della Resistenza, ma il ruolo di dama di compagnia delle Loro Altezze era rimasto a Danielle. Marian non gliel'aveva perdonato. Le principesse le avevano sempre ispirato la stessa simpatia della Morte Rossa, ma ricoprire tale ruolo avrebbe potuto giovare alla sua missione; senza contare che faticava a tollerare il pensiero di essere stata rimpiazzata da una donna più che trentenne che poco aveva da spartire con delle bimbette di dieci e dodici anni com'erano le Loro Altezze, che non aveva nessuna arte nella conversazione, che non contenta di essere riuscita ad avere il primo figlio per grazia ricevuta dopo ben nove anni di matrimonio aveva pure scelto di allattare il suo bambino appena nato come una contadina qualunque invece di affidarlo a una balia come tutte le nobildonne, e a cui avevano perfino dovuto insegnare a giocare a zara.
Gioco a cui rimaneva comunque scarsa.
Lady Marian aveva calato un'intera scala di carte con una punta di soddisfazione che non si curò di nascondere, e aveva regalato alla moglie del capitano anche un sorrisetto compiaciuto quando tirò verso di sé il denaro posto in palio, ma non aveva distolto la propria concentrazione dalla conversazione in corso fra Navarre e Thorne.
- Non portiamo qui tutti i ladruncoli e le puttane che la Guardia Militare raccatta - il capitano Thorne aveva incrociato le braccia al petto, steso le gambe in avanti con le caviglie incrociate e appoggiato le spalle allo schienale della poltrona.- Le prigioni di Lindorm sono riservate ai traditori della Corona e a coloro che Sua Maestà reputa...importanti.
Lady Thorne aveva lasciato cadere un paio di carte sul tavolo, e si era affrettata a raccoglierle, ma le mani avevano continuato a tremarle. Marian aveva notato già da tempo che quella donna veniva colta da un forte nervosismo quando si trovava a condividere lo spazio con il marito. I suoi occhi sembravano diventare più grandi ogni volta che il capitano Thorne parlava.
- E come farò a sapere chi Sua Maestà vuole che sia condotto nelle prigioni di Lindorm?- Navarre si era riempito mezzo bicchiere e aveva ingerito il vino in un solo, rapido sorso.
- I vostri uomini condurranno chi arrestate nelle prigioni cittadine. Se Sua Maestà lo ordinerà, sarò io a inviarvi un messo con le generalità del prigioniero che dovrete trasferire a Lindorm. Lo stesso avverrà qualora il trasferimento debba essere effettuato alla Purificazione...
- Non conosco questo luogo.
- E' il posto dove mandiamo i bastardi più pericolosi. Un merdaio, parola mia - lady Marian era rabbrividita. Per anni aveva avuto a che fare con il capitano Thorne, e nonostante vivesse e lavorasse alla reggia di Lindorm non aveva mai perso la sua parlata da carrettiere. E aveva pure il coraggio di fregiarsi di un titolo nobiliare,
Nonostante si sia venduto pure quello per pagarsi i debiti.
Nei mesi precedenti lady Marian aveva scoperto dei dettagli sul passato di Gabriel Thorne che per la Resistenza erano stati ininfluenti, ma che per lei erano stati la conferma della bassa stima che già nutriva per quell'uomo.
- Ma in tal caso sarà Sua Eccellenza il giudice Lord a inviarvi un messo. Per il resto, sentitevi pure libero d'inviarmi tutte le teste di cazzo che compongono le vostre fila. Un annetto nelle prigioni di Lindorm e gli passa la voglia di fare stronzate.
- Avete detto poco fa che le carceri della reggia sono riservate ai traditori della Corona - a lady Marian, nonostante la lontananza, non era sfuggito il modo in cui Navarre aveva contratto la mascella.
- Ma mica come prigionieri, come guardie!- Thorne aveva emesso una risata catarrosa.- E' lì che mando le teste calde. Lo considero...formativo, diciamo così.
- So gestire da solo i piantagrane - Navarre si era alzato con tanta furia che quasi aveva rovesciato la bottiglia di vino e i due bicchieri; anche il tavolino aveva traballato. Lady Marian era sobbalzata e il tremore alle mani di lady Thorne era aumentato così tanto che tutte e sette le sue carte erano crollate sul tavolo.- Con permesso - Navarre era scattato sull'attenti, aveva fatto un rapido inchino a Thorne ed era uscito dal salone.
Cassius era uno di quelli che all'epoca il capitano della Guardia Militare aveva definito piantagrane; Marian non aveva idea di cosa avesse combinato, ma era stata la prima guardia a montare di fronte alla sua cella la notte in cui l'avevano imprigionata e, cambio turno a parte, stazionava lì da tre anni.
Qualche volta l'aveva sentito lamentarsi con altre guardie di quel lavoro ingrato ed esprimere ad alta voce le sue speranze che il capitano Thorne lo reintergrasse nel corpo addetto alla sorveglianza delle ale del castello.
E invece spero che tu marcisca qui fino a che non sarai così decrepito da non reggerti più in piedi.
Si avvicinò alla porta. Le catene si tesero e il ferro degli anelli graffiò di nuovo i polsi di lady Marian. Cercando di non farsi scoprire da Cassius, provò a sbirciare nel corridoio. C'erano poche torce accese, e di nuovo era calato il silenzio.
- Che cazzo fai?!
Balzò indietro di un passo alla manata di Cassius contro le sbarre. Il monociglio incolto della guardia e i suoi occhi infossati fecero capolino alla finestrella della porta. Lady Marian serrò le labbra ed espirò dal naso.
- Seduta!- abbaiò Cassius.- Torna in fondo alla cella, vacca.
- Chi è che hanno torturato?
Altre due poderose e secche manate fecero tremare sbarre e porta, e la cacofonia legnosa e metallica rimbombò contro le pareti della cella. Lady Marian sogghignò, e recuperò il passo di cui era indietreggiata.
- Torna a leccarti la figa nell'angolo, ho detto, cagna rognosa che non sei altro!
- Nervoso, Cassius?- gli regalò un sorriso amabile. Non poté non pensare che un tempo, quando scopriva i denti, era certa che il suo sorriso avrebbe fatto capitolare qualsiasi essere di sesso maschile, talmente erano dritti e bianchi. Dritti lo erano ancora, e ringraziando i Traghettatori non ne aveva persi, in tre anni, ma dovevano essere gialli come pannocchie, e ogni giorno pregava che non le venissero le carie.
Ma per questo scimmione basta e avanza.
E poi, l'obiettivo non era sedurlo. L'obiettivo era procurarsi un po' di divertimento.
- Allontanati dalla porta e rimetti il culo sul pavimento, altrimenti...
- Altrimenti, cosa? Cosa mi fai, Cassius?- avvicinò quanto più poteva il volto alla finestrella; le catene ai polsi si tesero e gli anelli le graffiarono i polsi, ma la soddisfazione di far imbestialire quel brutto ceffo quasi smorzava il bruciore.- Devo forse ricordarti che Sua Maestà ha ordinato di non toccarmi?
La guardia diede una raffica di secche manate alle sbarre, digrignando i denti ed emettendo un ruggito sommesso di rabbia – ecco, da bravo, sfogati, tanto questa è l'unica cosa che potrai fare! – fino a che dal fondo dell'androne provenne il suono secco di un oggetto di legno – una lancia – che batteva due volte contro la pietra del pavimento. Il suono si ripeté, più vicino, poi di nuovo una terza, una quarta, una quinta volta, sempre più vicino, fino a che anche Cassius, rimessosi in posizione, batté per due volte la punta inferiore della lancia a terra.
- Sua Maestà la Regina!- riecheggiarono una serie di voci, una dopo l'altra, accompagnate dallo schiocco delle lance.- Sua Maestà la Regina!
- Sua Maestà la Regina...- aggiunse svogliatamente Cassius, per poi passare l'onere dell'annuncio alla guardia successiva. Lady Marian si ritrovò seduta sul pavimento senza neanche essersi resa conto di aver compiuto alcun movimento.
Non c'era nessuna ragione per cui la Regina Cattiva avrebbe dovuto scendere nelle prigioni. Dopo un anno, lady Marian era certa che Maxime Beaumont fosse morto, dunque quella visita doveva essere per forza riservata a lei.
Udì la lancia di Cassius picchiettare contro la pietra del pavimento quando la guardia si mise sull'attenti, e dalla finestrella scorse la sagoma grottesca di un'Indifferente che armeggiava con il catenaccio.
La porta si aprì lasciando entrare la luce.
Il bagliore emanato dalle torce e dal chiarore dell'alba che filtrava dalle strombature nel corridoio non era molto forte, ma entrò con prepotenza nella cella distruggendone la penombra, e l'effetto fu quello di un incendio divampato improvvisamente in uno stanzino buio. Colpì gli occhi di Marian facendoglieli bruciare, e la ragazza serrò le palpebre e alzò istintivamente i pugni in segno di difesa, riparandosi il viso.
- C'è troppa luce, mia protetta?
Lady Marian dovette sbattere più e più volte le palpebre prima di riuscire a mettere a fuoco le figure di fronte a sé. La Regina Cattiva era come se la ricordava, non era cambiata neanche di un dettaglio in quei tre anni, dall'ultima occasione in cui l'aveva vista – il suo arresto. I capelli neri e lisci le ricadevano elegantemente in ciocche folte e setose fino alle reni, il volto maturo e affascinante non era solcato da neppure una ruga, ma la pelle era liscia e rosea, mentre gli occhi verdi conservavano ancora quel brillio in cui erano misti crudeltà e intelligenza perversa, quello stesso brillio che lady Marian aveva scorto innumerevoli volte in un numero infinito di occasioni, quando ancora era la sua protetta, prima che diventasse la spia della Resistenza, prima che la Regina Cattiva scoprisse del suo tradimento e la facesse rinchiudere nelle segrete.
La monarca era abbigliata con un lungo vestito color rosso sangue – il colore proibito – con gonna ampia e maniche svasate, e la scollatura abbondante il cui bordo era decorato da una sottile striscia di pizzo bianco. Sul capo portava una semplice tiara dorata con incastonato al centro un rubino.
Tutta la sua figura emanava imponenza e nobiltà, e non faceva altro che mettere in ombra la figurina magra, spaurita e rannicchiata al fianco della sovrana. Lady Marian riconobbe che, a differenza della matrigna, la principessa Rosarossa era cambiata, cresciuta. Di certo non era più la dodicenne petulante che piagnucolava se il té era tiepido. Era diventata molto somigliante alla sorella maggiore, ma era meno bella rispetto a Biancaneve e le forme da donna erano strette e castigate in un orribile vestito color salmone. Stava tre passi indietro alla Regina Cattiva, con le mani giunte in grembo e la testa china. I capelli erano sciolti e fra di essi era stato posto un fermaglio a forma di girasole.
Più che a una principessa, somigliava all'ultima delle dame di compagnia.
Lady Marian stava appena iniziando a chiedersi che fine avesse fatto la principessa Biancaneve, quando la Regina Cattiva parlò ancora.
- Ho pensato di farti una visita, cara Marian - le rivolse un sorriso cordialmente e crudelmente freddo.- Ti trovo parecchio sciupata, devo dire. Non assomigli più molto a una lady...
Lady Marian era molto più giovane di quanto dimostrasse; aveva appena compiuto vent'anni, ma il suo volto provato da tutto quel tempo trascorso dietro le sbarre gliene attribuiva almeno cinque in più. Indossava ancora l'abito che aveva addosso quando era stata arrestata, ma la stoffa viola scuro era lercia e strappata ai bordi della gonna e delle maniche. Le unghie delle mani sottili erano sporche e mangiucchiate, i capelli una volta morbidi e mossi erano ridotti a una massa castana arruffata e unticcia, mentre gli occhi tradivano tutta la stanchezza e la rassegnazione di chi non aveva più nulla in cui sperare.
Lady Marian si sentiva sconfitta, anche se non voleva ammetterlo a se stessa; si sentiva sconfitta da tre anni, quando un uomo che credeva suo amico aveva tradito lei e i loro compagni, lasciando che venisse arrestata e agevolando la scalata al potere della Regina Cattiva.
Si sentiva sconfitta, questo era vero; ma per nulla al mondo l'avrebbe dato a vedere alla sovrana. E per nulla al mondo si sarebbe lasciata insultare e umiliare più di quanto già la Regina Cattiva non avesse fatto.
Sono e sarò pur sempre una lady. E se le cose fossero andate diversamente, stareste parlando con la regina consorte di Nottingham, dannata strega...!
- Perché siete qui?- sibilò, sollevando fieramente lo sguardo.- Non sono dell'umore per ricevervi, né mai lo sarò.
- E' forse proibito visitare una vecchia amica?
- Voi non siete mia amica.
- Quanta scortesia...- commentò la Regina Cattiva, noncurante.- Constato con dispiacere che le buone maniere che ti ho insegnato si sono perdute, in questi tre anni. E dire che se ci avessi pensato due volte, prima di decidere di tradirmi, ora non saresti inginocchiata su un pagliericcio umido e con delle catene ai polsi...ma non voglio parlare di questo. C'è invece qualcosa che ti farà piacere conoscere...
- Non voglio sapere niente da voi, di qualsiasi cosa si tratti.
- Davvero? Neppure se riguarda la Salvatrice?
Lady Marian sentì il cuore perdere un battito.
La Salvatrice.
Per quanto tempo l'avevano aspettata? Trent'anni? Di più?
Le attraversò la mente il dubbio che la Regina Cattiva le stesse mentendo, chissà con quale subdolo fine, ma subito comprese che sarebbe stato improbabile. La sovrana non avrebbe mai potuto scherzare su una cosa simile. Se c'era qualcuno che temeva la Salvatrice più di chiunque altro, era lei.
Lady Marian conosceva la profezia. Era destino che la Salvatrice giungesse per ristabilire l'ordine, ma...non diceva nulla su quando, con esattezza. E lady Marian doveva ammettere di non aver neppure pensato a lei quando, cinque anni prima, aveva tradito la Regina Cattiva. Aveva creduto nella Resistenza, non nella Salvatrice. Era stata cieca; non si era resa conto, allora, che tutto stava lentamente ma inesorabilmente precipitando; e per due anni, fino al suo arresto, aveva continuato la sua missione convinta che le forze unite di tutti loro sarebbero bastate...ma se la Salvatrice era arrivata, alla fine, voleva dire che l'Oscurità era vicina. Molto vicina.
E i fratelli Grimm stanno per tornare.
La Regina Cattiva sorrise, compiaciuta nel vedere l'espressione sconvolta di lady Marian. Rosarossa si azzardò appena a sollevare lo sguardo, ma poi riabbassò subito il capo come un cagnolino obbediente.
- Sapevo che questa notizia avrebbe stuzzicato la tua attenzione, mia protetta...
- Avete poco da ridere, Vostra Maestà - Marian le sorrise trionfante senza curarsi dei denti ingialliti e di celare lo scherno nel pronunciare quel Vostra Maestà.- Sapete cosa significa? Avete perso. La Salvatrice vi fermerà. Non riuscirete a riportare indietro i Grimm, lei...
La Regina Cattiva la interruppe con una risata sommessa ed elegante; quella reazione colse lady Marian talmente alla sprovvista che fu in grado di zittirla.
- Temo che tu sia nel torto, mia protetta.
- Le frasi fatte non funzionano con me, dopo anni dovreste averlo capito.
- Io non sarei così certa di ciò che dici, se avessi visto che razza di sciocche sono le due potenziali candidate...e se sapessi che il Primo Ministro si sta già occupando di loro.
Lady Marian si sentì come se stesse cadendo in un buco nero, cadendo con la consapevolezza che la sua caduta non avrebbe mai avuto fine, e nonostante ciò non sarebbe sopravvissuta.
- Tu sei stata una dei tanti a perderci, quando lui ha deciso di stare dalla parte giusta. La mia.
- Maledetti!- gridò lady Marian, fuori di sé.- Siate maledetti entrambi! Traditore...!- ansimò.- Merita che il Baron Samedi lo trascini nel Regno delle Ombre! E' colpa sua! Ha infranto il giuramento, ci ha traditi...! Maledetto, se solo osa...
- Tutto questo affannarti non ti servirà a nulla, Marian...- fece la Regina Cattiva con tranquillità.- Tu conosci anche meglio di me l'abilità del Primo Ministro. Sarà solo questione di tempo prima che mi consegni i cuori e le teste delle ragazze, e tu non potrai farci nulla...
- Se la Salvatrice è arrivata, la Resistenza lo saprà a sua volta...!- ribatté Marian. Non ne aveva la certezza, ma voleva disperatamente crederlo.- Il Primo Ministro non è l'unico a conoscere la Foresta Incantata! Il Principe Filippo manderà qualcuno a fermarlo...e quando finalmente uscirò di qui, io...
- Come hai detto, prego?
Per assurdo che fosse, la Regina Cattiva le aveva posto la domanda con un tono che davvero lasciava intendere stupore, o che non avesse compreso. Anche il modo in cui aveva sollevato le sopracciglia – impercettibile, ma a lady Marian non era sfuggito – manifestava una certa sorpresa.
La prigioniera non si fece cogliere in contropiede.
- Mi tireranno fuori da qui - disse risoluta.- La Resistenza...
- Guardia!- chiamò la Regina Cattiva. Cassius sobbalzò appena per essere stato interpellato, e quell'ordine repentino sembrò aver colto alla sprovvista anche Rosarossa, che fece il gesto di appiattirsi contro la parete della cella.
Cassius rivolse alla sovrana un rapido inchino, in attesa degli ordini.
- Libera la prigioniera e conducila all'esterno della cella.
Marian vide Rosarossa e Cassius dilatare all'unisono gli occhi per lo stupore, ma nessuno fiatò. Lei stessa si ritrovò a boccheggiare come un'ebete, senza che il suo cervello riuscisse a produrre un pensiero di senso compiuto o una qualsiasi spiegazione a ciò che stava accadendo.
Cassius girò la chiave nelle serrature degli anelli, che si aprirono e caddero a terra. Lady Marian non riuscì a trattenersi dall'emettere un sibilo a fior di labbra: il bruciore ai polsi si era acutizzato quando l'aria aveva colpito i graffi. La ragazza vide che gli anelli di ferro le avevano lasciato dei doppioni incisi nella carne, cicatrici rossastre con taglietti e croste che le circondavano i polsi.
Non se ne sarebbero andati mai via, comprese.
Cassius le afferrò una spallina del vestito e la fece alzare in piedi.
Rosarossa si portò una mano alle labbra fingendo preoccupazione e sconvolgimento, ma i suoi occhi rivelavano solo un morboso interesse.
- Lasciala - ordinò la Regina Cattiva, e Cassius spinse lady Marian fuori dalla cella.
Gli occhi le fecero ancora più male stando così a contatto con la luce delle torce accese. Lady Marian trasse un lungo respiro; aveva fissato il pavimento per tutta la breve traversata, ma ora trovò la forza di guardarsi intorno.
Il corridoio era deserto, la Regina Cattiva e la principessa e Cassius erano alle sue spalle. Sicuramente la stavano fissando, ma nessuno faceva nulla per trattenerla. Le sarebbe bastato scattare e correre il più veloce possibile, ora che non c'erano più catene né celle a trattenerla, ma non si mosse.
C'era qualcosa di troppo strano.
Si aspettava che sarebbe accaduto qualcosa, e così fu.
Cominciò con un cerchio alla testa, che si fece sempre più intenso fino a diventare un'emicrania insopportabile che dalla fronte si estese fino alla nuca. Lady Marian si prese le tempie pulsanti fra le mani, scoprendo che l'intero volto era in fiamme, e nel mentre la vista le si annebbiò. Le sagome delle celle e delle torce divennero ombre che andavano via via svanendo a loro volta.
Era come se qualcuno le stesse aprendo il cranio a metà. Si accorse di stare tremando e di sudare freddo, e le gambe le cedettero. Cadde in ginocchio mentre il calore dalla testa s'irradiava in tutto il suo corpo.
Non c'erano fiamme, eppure stava bruciando viva. Cominciò a contorcersi e a urlare per il dolore.
La Regina Cattiva restò ancora per qualche istante a osservare lady Marian che strillava e si dimenava arsa da un fuoco invisibile, poi si rivolse di nuovo alla guardia.
- Riportala nella sua cella.
Cassius eseguì, e trascinò lady Marian fino a farla rotolare sul pagliericcio umido.
Le fiamme smisero istantaneamente di bruciare.
Marian smise di strillare. Si accorse di avere il volto inondato di lacrime. Esaminò le proprie mani alla ricerca di ustioni, ma non ne trovò né lì né altrove. Cercò di raccapezzarsi e riprendere fiato.
- Un sortilegio di clausura - spiegò la Regina Cattiva.- Prendo sempre le mie precauzioni, quando si tratta di investimenti importanti. Ora sai che cosa ti accadrà nella remota possibilità in cui qualcuno cerchi di liberarti - Cassius le aveva rimesso gli anelli; lady Marian non comprendeva il senso di quel gesto.- Resterai qui fino a che non si compirà la tua sorte. Il tuo destino è stato scritto ben dodici anni fa...sei la prima, Marian.
La Regina Cattiva fece un cenno alla guardia, e Cassius seguì lei e una rattrappita Rosarossa fuori dalla cella. Lady Marian udì il catenaccio che veniva rimesso al suo posto e scorse un'ultima volta il bel viso crudele della sovrana oltre la finestrella provvista d'inferriate, prima che anche quello scomparisse.
Lady Marian respirò affannosamente, tentando di riprendersi.
Sortilegio di clausura...la Salvatrice....
(Sei la prima)
D'un tratto, un rumore stridulo alle sue spalle la fece sobbalzare. Lady Marian si voltò. Sul muro erano state incise delle parole nella pietra.
 
 
Senza cuore è la Regina,
solo il Vero Amore salverà la prima bambina.
 
 
Dalla scritta iniziò a colare inchiostro nero.
 
L'ultima frustata trovò la sua schiena pressoché desensibilizzata.
Sentì il torturatore grugnire per la fatica; immaginò che si stesse asciugando il sudore dalla fronte. Lui, Eric, di sudore era madido, e la sua schiena era ridotta a una ragnatela sanguinante.
Ma se ci fosse stato Navarre a quest'ora non avrei avuto più la carne.
- Apri le manette - ordinò il capitano Thorne dietro di lui.
L'Indifferente strisciò con le spalle ricurve e il capo chino fino a lui, e obbedì. Il Cacciatore cercò istintivamente quelle pupille spente. Quando gli anelli di ferro agganciati alle catene infisse al soffitto si aprirono, Eric tornò a sentire le braccia. Un tenue formicolio cominciò a salirgli dagli avambracci fino alle falangi mentre crollava inginocchiato nella pozza di sangue e inchiostro.
Vedere quel liquido nero gli fece se possibile più male delle frustate stesse.
L'Indifferente si allontanò in silenzio, con la stessa espressione spenta.
- Se fosse dipeso da me, l'avrei ridotto come quel Beaumont, un anno fa - Eric si voltò a guardare oltre la propria spalla. Il capitano Thorne stava osservando la sua schiena martoriata con l'unico occhio che aveva, ma parlava con il torturatore, un uomo basso e grasso con la testa calva e le guance arrossate che annaspava come un suino mentre cercava di riprendersi dalla fatica.- Quello sì, che è stato un lavoro coi fiocchi - si complimentò.
- Non sono stato io - annaspò il torturatore.- Il capitano...il capitano della Guardia Militare...- sputò fuori.- Me lo ricordo come se fosse ieri. Ha insistito per occuparsi personalmente di lui.
La seppur accennata smorfia di compiacimento abbandonò il volto del capitano Thorne. L'Indifferente si trascinò fino alla porta della cella e l'aprì.
Thorne gli sferrò un cazzotto in pieno stomaco. L'Indifferente si portò le mani all'addome e si appoggiò con il dorso alla parete, ma non emise un verso, e le sue pupille rimasero spente.
Il capitano uscì dalla cella, e il torturatore lo seguì.
Eric guardò l'Indifferente, e questi ricambiò lo sguardo, ma di nuovo, nei suoi occhi e sul suo volto non comparve nessuna emozione. Infine, anche lui lasciò la cella.
Il Cacciatore si trascinò lontano dalla pozza di sangue nero, fino a distendere le gambe e a poggiare la nuca contro il muro. Gli avevano squarciato la camicia sul dorso per frustarlo, e adesso la stoffa gli ricadeva molle e sbrindellata sulle spalle e il torace.
I postumi e le frustate lo avevano spossato fino all'inverosimile. Ma non poteva permettersi di dormire, non adesso che credevano di averlo sotto controllo.
Quando era stato maledetto, aveva promesso a se stesso che avrebbe lasciato uscire il Lupo solo durante le notti di luna piena, ed era stato catturato e a pagare le conseguenze dei suoi buoni propositi erano state Cappuccetto Rosso e sua nonna.
Non avrebbe permesso che la Regina Cattiva usasse il Lupo un'altra volta.
 
 
***
 
 
ELIZABETH SENTÌ CHE IL SANGUE le si era gelato nelle vene.
Cenerentola si assicurò ancora una volta che il catenaccio alla porta fosse ben saldo, quindi si voltò verso di lei. Elizabeth vide che era affannata e spaventata, tutta la sicurezza che aveva visto in lei pareva scomparsa, e questo non fece altro che terrorizzarla ancora di più.
- Che fai lì impalata?!- sbottò.- Hai sentito cosa ho detto? Stanno arrivando i soldati!
- I...i soldati?- boccheggiò Elizabeth. Dall'esterno della casa aveva iniziato a provenire il suono di cavalli al galoppo, che man mano che si avvicinava si univa a un vociare umano.
- La Guardia Militare della Regina Cattiva. Quelli sono anche peggio degli orchi - bisbigliò Cenerentola prima di rivolgere la sua attenzione altrove. Elizabeth la vide aprire un cassetto di una delle credenze ed estrarne due coltelli da carne. Cenerentola gliene porse uno.
- Prendilo!- la incitò, vedendo l'espressione perplessa della ragazza.- Avanti! Che aspetti? Potrebbe servirti...!
Elizabeth annuì e prese il coltello con le mani che tremavano. Cenerentola si portò l'indice alle labbra e restò in ascolto. Il galoppo si era arrestato a poca distanza dalla casa. Ora si udivano chiaramente solo voci che parlavano animatamente, risate sgangherate, e poi una che si levò sopra le altre, le quali tacquero dopo averne ricevuto l'ordine. Nonostante le persiane accostate, oltre la finestra iniziarono a intravedersi sagome scure.
Elizabeth si accorse che Cenerentola stava trattenendo il fiato.
La porta d'ingresso venne scossa da violenti colpi.
- Aprite!- tuonò una voce maschile, oltre i battenti sbarrati dell'ingresso e della cucina.- E' la Guardia Militare. C'è nessuno? Aprite, in nome della Regina!
- Dannazione...!- imprecò Cenerentola sottovoce; trascinò Elizabeth per un braccio fino alla parte opposta della cucina, aprì lo sgabuzzino e ce la spinse dentro; la seguì in una frazione di secondo, accostando la porta in modo che le nascondesse entrambe, ma lasciando comunque aperto uno spiraglio in modo da poter vedere ciò che stava succedendo nella cucina.
- Aprite, ho detto!
Elizabeth rivolse uno sguardo interrogativo a Cenerentola, la quale le fece cenno di accostarsi a lei.
- L'uscita sul retro è troppo lontana da qui, non arriveremmo in tempo...- scandì a mezza voce, quasi impercettibilmente.
- Pensi che entreranno?- sussurrò Elizabeth di rimando; non aveva capito il perché di tanto allarme – da figlia di un poliziotto le era stato insegnato a fidarsi delle autorità –, ma a quanto pareva i soldati della Guardia Militare non dovevano essere dei tipi con cui scherzare.
Un tonfo sordo le fornì la risposta; Elizabeth realizzò che avevano sfondato la porta, la cui sorte toccò poco dopo anche al battente della cucina. La stanza adiacente si riempì di passi e di voci, che però, se si alzavano troppo, venivano subito rimesse in riga dalla medesima, imperiosa, che le aveva zittite poco prima.
Elizabeth si sollevò sulla punta per vedere meglio oltre la spalla di Cenerentola: dalla porta socchiusa riusciva a scorgere due figure maschili, vestite completamente di nero, con mantello ed elmo, ma nella stanza dovevano esserci almeno cinque persone.
- Che stanno facendo qui?- sussurrò.
- Quello che fanno da un mese a questa parte: razzia - bisbigliò Cenerentola di rimando.- Erano già venuti quando Anastasia e Genoveffa erano ancora vive, ma quando si sono accorti che avevano il colera sono fuggiti più veloci del vento. La Guardia Militare dovrebbe proteggere la gente comune, ma da quando gli orchi hanno attaccato usano la situazione di emergenza come scusa per le loro porcate...saccheggiano le case e rapiscono le donne...non puoi nemmeno immaginare cosa hanno fatto alla figlia del lattaio...- Cenerentola scosse la testa.- Vengono, rubano e se ne vanno, e poi tornano dopo qualche giorno...ormai qui non c'è quasi più nulla, presto se ne andranno in un altro villaggio...
Uno degli uomini si era seduto al tavolo della cucina, posando gli stivalacci infangati sul ripiano, mentre un altro vi aveva posto sopra una damigiana. Tutta la stanza si era riempita di risate sguaiate, oggetti venivano spostati con incuria e di tanto in tanto qualche vetro veniva rotto. Elizabeth vide che Cenerentola aumentava la stretta intorno al manico del coltello a ogni minuto che passava.
Uno dei soldati batté violentemente una mano sul ripiano del tavolo, facendolo tremare, ridendo alla battuta di un compagno. Un secondo dopo, un secondo pugno scosse il mobile, e le due ragazze udirono la medesima voce che già aveva messo in riga gli uomini qualche minuto prima.
- Non siamo in un postribolo!- ululò.
I soldati moderarono i toni e da quel che si udiva parvero ricomporsi, ma continuarono comunque a spostare roba e a intascare l'argenteria e gli oggetti di valore che trovavano.
- Voi due - riprese la voce di poco prima.- Appena avete finito qui salite al piano di sopra e controllate nelle altre stanze. Non è rimasto nessuno in questa casa - aggiunse con convinzione.- Prendete solo ciò che vi serve e sbrigatevi. Vi lascio quindici minuti, non di più.
Per un colpo di fortuna, il soldato che aveva parlato si era portato proprio nello spicchio di spazio che la porta socchiusa dello sgabuzzino permetteva di esplorare. Qualcuno aveva posato sul tavolo dei bicchieri e aveva fatto cenno al soldato se volesse a sua volta da bere. Lui rifiutò con un gesto sdegnoso, ai limiti del maleducato.
Si trattava di un uomo sulla quarantina, con i capelli castani raccolti in un codino dietro la nuca, il naso grande e ingobbito, e un profilo duro tanto quanto lo erano gli occhi marroni.
- Quello è il capitano Navarre...- soffiò Cenerentola.- E' il capo della Guardia Militare della Regina. L'ho già visto all'opera, è un bastardo.
I soldati stavano continuando a ingozzarsi di vino e a intascarsi tutto ciò che ritenevano potesse fare al caso loro. Elizabeth sentì che il battito cardiaco si era un poco regolarizzato, ma aveva ancora paura.
Cenerentola stava in guardia, non perdeva un singolo movimento di quanto si stava svolgendo nella stanza adiacente. Elizabeth si chiese quando sarebbero uscite da lì.
 
 
***
 
 
LADY THORNE RICOMINCIÒ A RESPIRARE solo quando sentì il suo bambino non ancora nato augurarle il buongiorno dandole dei calcetti. Una lacrima le sfuggì dalle ciglia dell'occhio, e subito si affrettò ad asciugarla.
Ida, che stava tentando da più di mezz'ora di lavare via una macchia particolarmente ostica dal pavimento, se ne accorse.
- Qualcosa non va, padrona?
Lady Thorne era seduta alla toeletta, con i capelli sciolti e ancora la vestaglia e la camicia da notte. Il suo riflesso nello specchio le regalò un sorriso tremolante.
- Scalcia.
Ida tirò un sospiro e giunse brevemente le mani, prima di rituffare la spazzola nell'acqua insaponata del secchio e riprendere a stofinare.
- Sia ringraziata Maman Brigitte...!- esclamò.- Siete un po' più tranquilla, adesso, vero?
Lady Thorne annuì, ma il suo sorriso sapeva ancora di pianto. Come al solito, pensò Ida. Lady Danielle prese la spazzola dalla toeletta e iniziò a pettinarsi i capelli.
Rael, già vestito e seduto sul materasso del letto di sua madre, alzò lo sguardo dal libro che teneva fra le mani. Lady Thorne gli rivolse il medesimo sorriso rotto, ma Ida aveva notato che ormai i suoi occhi erano come una diga pronta a rompersi. Lasciò perdere la macchia sul pavimento – tanto non verrà via...il sangue è la cosa peggiore da lavare, lo dice anche la mamma – e si diresse verso la toeletta, ponendosi alle spalle di lady Thorne.
Le prese la spazzola dalle mani.
Danielle si asciugò altre due lacrime con le nocche.
- Avanti, date a me...!- Ida le rivolse il suo miglior sorriso incoraggiante, iniziando a pettinarle i capelli.
Non c'è nulla di più rassicurante al mondo di qualcuno che ti spazzola i capelli, diceva sempre la nonna a lei e a sua cugina...peccato che poi desse di quegli strattoni che poco mancava sradicasse loro il cuoio capelluto, ma vabbé, quello era un altro discorso.
Ida fece del suo meglio per essere delicata.
- Scusa...- sussurrò lady Thorne.
- Fatevi forza, padrona...guardate il lato positivo: se scalcia, vuol dire che sta benone! Giusto?
Danielle annuì, e a Ida sembrò che si fosse un poco rinfrancata.
Ma mica poi tanto...
Ida lavorava come cameriera per quella famiglia da un anno e mezzo, e aveva notato che il padrone tendeva a visitare lady Danielle più spesso, ora che era incinta. Solo che la sera prima Ida l'aveva visto, che aveva la luna storta. Gli era rimasta dal falso allarme, quando lady Thorne aveva creduto di avere le doglie e l'aveva avvisato – e l'aveva ordinato lui che lo si chiamasse quando sua moglie stava per partorire –, ma poi era solo una piccola contrazione.
Ida scostò la chioma della sua padrona di lato per pettinarla meglio, e Danielle la riportò dov'era per coprire il livido. Un ematoma andava scurendosi dalla giugulare alla mandibola, e un altro faceva capolino all'angolo delle labbra. Un taglietto piccolo, ma che Ida aveva impiegato ben dieci minuti per tamponare – le ferite alla testa sanguinano sempre di più – era il ricordino lasciato dallo spigolo della toeletta sulla tempia della sua padrona.
Il padrone l'aveva stretta per la gola e le aveva rifilato un pugno sul labbro; da quand'era incinta, Ida notava che ci andava giù più piano del solito, ma la sera precedente doveva essere veramente furioso, perché s'era dimenticato di ogni prudenza e riguardo e aveva spinto la moglie a terra. Lady Danielle era riuscita ad attutire la caduta aggrappandosi prima alla superficie della specchiera e poi allo sgabello, ma aveva comunque battuto la testa contro la toeletta e non era riuscita a impedire che il suo pancione urtasse contro il pavimento.
- Oh, su, non fate la bambina...!- borbottò Ida, spostandole di nuovo i capelli di lato.- L'ho già visto, che credete?
- A quindici anni certe cose non si dovrebbero vedere...- mormorò lady Thorne, guardandosi le mani. E nemmeno a cinque, sembrava voler aggiungere, mentre sbirciava suo figlio dal riflesso dello specchio.
Ida alzò le spalle.
- Ne ho viste di peggio, sapeste...!
In realtà non era vero. Ida non era abituata a vedere un marito che picchiava la moglie. Suo padre era un uomo talmente mingherlino e placido che non riusciva neanche a immaginarselo mentre metteva le mani addosso a quel donnone di sua madre, e neanche nelle famiglie in cui era stata a servizio in precedenza aveva mai assistito a dei pestaggi in piena regola. Se così fosse stato, rifletteva ogni tanto, allora avrebbe saputo cosa dire a lady Thorne.
Aveva trascorso con lei la notte, seduta sul bordo del letto mentre la sua padrona soffocava i singhiozzi per non svegliare il figlio più grande, perché quello non ancora nato non si era più mosso nella pancia da quando aveva sbattuto il ventre a terra. Quel bastardo del capitano aveva quasi ammazzato il bambino per il quale tanto si preoccupava.
Ida continuò a spazzolare i capelli della sua padrona, e mentre li acconciava – tre trecce raccolte sulla nuca – gettava qualche sporadica occhiata al bambino accovacciato sul letto. Quando sua cugina Sofia era nata, così le raccontava la mamma, lo zio aveva bestemmiato il Baron Samedi per un'ora, perché voleva un maschio che ereditasse il mulino; Thorne un erede ce l'aveva, eppure lo schifava talmente tanto che non vedeva l'ora di avere il sostituto, e Ida non riusciva a comprenderne il motivo.
- Da dove vieni, Ida?- le chiese lady Thorne all'improvviso; Ida sbatté le palpebre perplessa, in un anno e mezzo non le aveva mai posto domande personali.
- Da Brema - rispose poi, senza trattenere una smorfia.- Ne avrete sentito parlare di sicuro. La chiamano la città della musica, anche se proprio città non è, sono due casette in croce...
- Mio zio mi ci portò, una volta, ad assistere a una fiera - le labbra livide di lady Thorne si distesero in un sorriso lontano e malinconico.- Avevo...circa la tua età. Mi piacerebbe tornarci, un giorno.
Ida si trattenne dal rispondere che lei non ci sarebbe tornata neanche a pedate, e si limitò a rivolgerle un sorriso tirato.
Finì di acconciarle i capelli in silenzio, e si mise a riordinare le forcine e i fermagli. Lady Thorne si alzò a fatica, tenendosi una mano sul pancione gonfio. Esitò un attimo, come se non sapesse bene che cosa fare, poi si diresse verso il letto.
Ida finse di non vedere mentre s'inginocchiava sul pavimento. In un anno e mezzo non si era mai neanche azzardata a pulire sotto al letto della sua padrona, immaginava che ci fossero gli acari che ballavano la contraddanza, ma aveva capito fin da subito che era una zona proibita. Lady Thorne ci teneva qualcosa, e Ida non aveva mai chiesto che cosa. Non aveva mai neanche sbirciato. Non perché fosse una persona discreta o di saldi principi, la tentazione di sollevare l'orlo della coperta e dare un'occhiatina la coglieva più volte nel corso di una sola giornata, ma aveva sempre desistito.
Non per dare un dispiacere a lady Thorne...ma per quello che suo marito potrebbe farle se anche a lui venisse l'idea di guardare là sotto.
La mamma diceva che la curiosità uccise il gatto. Ida si sentiva spesso un gatto, e altrettanto spesso percepiva lady Thorne come un micino bagnato e malaticcio in balia di quel segugio da caccia di suo marito. Era meglio evitare qualunque cosa gli rendesse più facile stanarla.
Danielle fece una fatica immensa a rimettersi in piedi, e se non ci fosse stato il bordo del materasso non ci sarebbe neanche riuscita. Ida vide che teneva in mano una busta sigillata.
- Vorrei chiederti un favore...- mormorò, e Ida sapeva già di che favore si trattasse. Era lo stesso da quando il ventre aveva cominciato a gonfiarlesi. Si limitò ad annuire e a prenderle la busta dalle mani.
- Mi raccomando...- soffiò lady Danielle un attimo prima che la cameriera uscisse.- Fai...fai attenzione...
- Passerò dal retro delle cucine, come sempre - la rassicurò Ida.- Da lì non passa mai nessuno.
Danielle si sedette sul letto e attese il clack della porta, poi si trascinò fino a suo figlio. Distese le gambe e tirò Rael a sé in modo che poggiasse la schiena contro il suo pancione.
- Si è sporcato - il bambino accennò ad alcune macchie d'inchiostro che avevano rovinato un disegno tracciato a carboncino. Il libro che teneva fra le mani era stato scritto a mano, in corsivo, con una calligrafia elegante che tracciava le lettere con inchiostro nero; le pagine – più di trecento – erano ingiallite e un po' rovinate ai bordi. Non aveva una copertina, ma sulla prima pagina la stessa mano aveva riportato il titolo e l'autore.
 
 
Tassonomia, Classificazione, Storia
&
Studio dei fossili
dei Draghi nell'Era Oscura
 
Uno scritto della signorina Danielle Kovach-Thorne
 
 
Rael teneva il volume aperto sulla prima pagina del capitolo ventitreesimo, intitolato Storia del Re di Lindorm e della Fondazione del Terzo Regno. La pagina raccontava la leggenda del Lindorm, mentre quella affianco era occupata dal disegno del drago stesso. Danielle non vedeva quella figura da anni, ma ricordava quanta fatica avesse fatto per tracciarla. Era sempre stata più brava a scrivere che a disegnare, ma aveva lavorato sodo affinché ogni ritratto di quel volume fosse il più storicamente accurato possibile. Aveva confrontato le varie informazioni sul Lindorm e fatto ricerche per decretare quali fossero vere e quali frutto della distorsione del tempo e delle varie versioni, aveva passato al setaccio la biblioteca del maniero dello zio Walter per trovare quante più immagini possibili e aveva gettato via una quantità imbarazzante di fogli prima di ritenersi soddisfatta del suo schizzo.
Le macchie d'inchiostro ormai secco coprivano le linee del muso e delle fauci del Lindorm. Danielle passò una mano fra i capelli corvini di suo figlio – erano foltissimi e li portava lunghi fino al collo – e vi affondò una guancia.
- E' una macchia vecchia di più di dieci anni. Vuoi che te lo legga io?
- Riesco da solo per il momento, grazie, madre.
- Ti fa ancora male il braccio?
Rael scosse il capo con energia in segno di diniego, e Danielle per l'ennesima volta si ritrovò a non riuscire a comprendere se le stesse nascondendo la verità. Una settimana prima, lei e Rael stavano giocando nel corridoio principale dell'Ala Nord, il bambino non aveva prestato attenzione ed era andato inavvertitamente a sbattere contro la gamba del capitano Thorne. Suo marito lo aveva guardato come lo guardava sempre, come se fosse stato un cucciolo deforme che andava soppresso, e gli aveva dato un calcio facendolo cadere per un'intera rampa di scale fino al pianerottolo successivo. Danielle aveva urlato e si era precipitata in lacrime a soccorrere suo figlio. Rael si era rimesso in piedi praticamente subito, ma per quattro o cinque giorni aveva accusato un forte dolore al braccio destro, su cui era atterrato a peso morto.
Danielle era stata sollevate e stupita che non se lo fosse rotto, ma già da quand'era piccolissimo aveva intuito che suo figlio avesse le ossa resistenti. Lady Thorne lo guardò: da seduto le sue gambe arrivavano alle caviglie della madre, a cinque anni era alto come un bambino di otto o nove.
- Mea maisva kdaj hasted...- sussurrò.- Ti ricordi cosa significa, vero?
Rael annuì impercettibilmente, ma Danielle ne ebbe la conferma ancora prima, quando suo figlio poggiò la nuca contro il pancione e le sfiorò il dorso della mano.
Danielle gli accarezzò ancora i capelli.
- Questo pomeriggio andrò a portare delle orchidee alla piccola Porzia...ti va di venire con me?
 
La porta che dava sul retro delle cucine si apriva su un cortiletto in disuso da anni, che veniva impiegato come luogo dove gettare pentole e cassette rotte o dove le sguattere si appartavano di nascosto nelle pause dal lavoro con i propri corteggiatori. Era circondato da un muretto di cinta che, tramite un cancelletto, dava accesso agli altri giardini privati della reggia di Lindorm. Nessuno lo usava mai e nessuno abitava più nelle stanze soprastanti che si affacciavano su di esso.
Ida lo attraversò spedita. Non si avvide della principessa Rosarossa, affacciata alla finestra sopra di lei.
 
 
***
 
 
New York, 2015. Ore 8.23 a.m.
 
 
 
ANYA HADLEIGH USCIVA SEMPRE DI casa alle sei e mezzo spaccate, perché aveva calcolato che, contando il tempo che il suo scalcinato pick-up impiegava per accendersi e per attraversare quella porzione trafficata di New York in macchina, viaggio in cui era compresa anche una sosta di dieci minuti esatti in un Dunkin' Donuts per fare colazione – prendeva sempre due bicchieri di caffè, poi non c'era da stupirsi se era isterica...! –, occorrevano due ore per essere all'Once Upon a Time Café almeno alle nove meno un quarto. Detestava arrivare in ritardo o all'ultimo secondo, quando succedeva poi era di malumore per mezza giornata. Avrebbe potuto dormire un'ora in più e non avere sul groppone lo stress del traffico mattutino se avesse dato ascolto a suo padre e avesse preso la metropolitana – ma Anya si sarebbe fatta ammazzare pur di ascoltare un consiglio di Richard, non aveva comprato quella macchina scassata per lasciarla arrugginirsi in un vicolo di Harlem, le prendeva male al pensiero di doversi fare dieci minuti di strada a piedi d'inverno sotto la pioggia o la neve per raggiungere la stazione della metro più vicina e le veniva più comodo prendere l'auto perché così, quando staccava al turno del pomeriggio, poteva passare a prendere sua sorella a scuola.
Andava a prendere Elizabeth ogni volta che poteva per evitarle di prendere l'autobus, dato che circa un anno prima la piccola di casa Hadleigh aveva fatto ritorno a casa con il naso sanguinante e Anya era venuta a sapere che alcuni ragazzi del secondo anno che facevano la strada di ritorno con lei l'avevano presa di mira e non la smettevano di tormentarla. E quando aveva un turno serale e non poteva passare a prenderla appena poteva s'imboscava nel bagno del personale alla faccia del suo capo e le telefonava per assicurarsi che fosse arrivata e stesse bene. Faceva la spesa il giovedì o il venerdì, e da quando la scuola era finita e si era lasciata con il suo ultimo ragazzo non usciva mai la sera o nei giorni liberi.
Elizabeth Hadleigh si svegliava insieme alla sorella maggiore, ma camminava da sola fino alla fermata dell'autobus. Spesso aveva problemi anche all'andata, ma non l'aveva mai raccontato ad Anya o al padre. Entrava a scuola alle otto e mezza e non ne usciva fino alle cinque del pomeriggio, cinque giorni su sette; più tardi se, come il pomeriggio precedente, aveva avuto un incontro ravvicinato con le sue aguzzine. Tornava a casa e non ne usciva più, nemmeno nel week-end.
Quanto al capofamiglia, Richard Hadleigh era quello che più di tutti passava il suo tempo fuori casa. Usciva alle sette del mattino, raggiungeva la centrale di polizia in metropolitana – aveva la patente, ma non aveva mai più ricomprato un'auto da quando, un anno prima della sua scomparsa, la moglie aveva, in circostanze non ben chiarite, sfasciato la sua Kia mandandola a sbattere contro la parete di una casa in Briarwood – e vi trascorreva tutta la giornata fino alle nove di sera – le otto, la domenica – quando rincasava. Anche lui nessun amico, nessuna donna dopo la moglie, niente tempo libero.
Greg a volte si stupiva di se stesso per quanto fosse riuscito a imparare alla perfezione le abitudini di quella famiglia. Abitudini piuttosto grigie e noiose. Ogni volta che le ricapitolava sfogliando il block-notes su cui aveva annotato ogni spostamento con annesso giorno e orario, gli tornava alla mente quand'era piccolo e suo padre, per il suo compleanno, lo portava al lago ai confini delle Terre Fiere a pescare con le mani e i denti.
Ora quel lago è prosciugato, ricordò mentre pagava il whiskey. Ne aveva bevuti quindici in due ore ed era ancora lucido. Si godette l'espressione attonita del barista mentre lo osservava allontanarsi dal bancone senza barcollare e avviarsi verso l'uscita con le proprie gambe.
Raggiunse la moto e aspettò un altro quarto d'ora per sicurezza, ma già sapeva che cosa era accaduto. Nessuno era uscito da quella casa, e il pick-up di Anya era ancora parcheggiato dove l'aveva lasciato la sera prima. Le ragazze avevano attraversato il Portale.
Greg attraversò la strada e raggiunse la scala antincendio della palazzina in cui vivevano gli Hadleigh. Non smise un attimo di guardarsi intorno mentre saliva, ma non c'erano poliziotti e i pochi passanti erano senzatetto o ubriachi che non avrebbero visto o fatto caso a un ladro d'appartamenti.
Raggiunse la finestra. Sbirciò all'interno per assicurarsi che davvero non ci fosse nessuno, e quando vide la cucina con la luce spenta e senza nemmeno le tazze della colazione nel lavello, perse ogni tipo di esitazione. Recuperò il piede di porco dalla tasca dei jeans. Due settimane prima aveva passato metà della nottata a lavorare sulla serratura della finestra, attento a non lasciare segni che avrebbero fatto capire che era stata forzata, ma solo al fine di allentare la maniglia.
Bastò un rapido giro del piede di porco e la finestra si aprì con un sommesso cigolio.
Greg balzò all'interno della cucina. La luce del mattino permetteva di vedere senza bisogno di premere l'interruttore. Sapeva che sarebbe stato improbabile trovare qualcosa là dentro, ma prima di passare alla stanza adiacente aprì il frigo. Moriva di fame. Greg sapeva che Anya aveva fatto la spesa il pomeriggio precedente, ma non trovò nulla di suo gradimento fino a che non fiutò il contenuto di un involucro di carta.
Carne trita.
Lo aprì, prese una manciata di carne, se la ficcò in bocca e richiuse involucro e frigo mentre masticava, e passò nel salotto. L'appartamento era talmente piccolo che era facile averne una visione completa dopo un singolo e rapido esame. E Greg notò immediatamente quanto anonimo fosse quel posto; era una stanza con un divano e una poltrona, una televisione e un tavolino su cui era chiaro che non fosse mai stato posato nessun vassoio con del té o degli alcolici. Non era un ambiente né ricco né povero, era solo mediamente anonimo.
L'unica nota di personalità risiedeva nell'unica cornice della stanza, posata sul tavolino e contenente due fotografie: la prima ritraeva Anya Hadleigh nel giorno del diploma, che sorrideva forzata, annoiata e vagamente schifata all'obiettivo; il sorriso era più allegro, sincero e sdentato nella seconda fotografia, in cui una Anya Hadleigh di tre o quattro anni era affondata in un divano diverso da quello che Greg aveva di fronte e teneva sulle ginocchia una Elizabeth con i capelli legati in due codini e un pigiamino rosa con su la stampa di un coniglietto bianco.
Greg si era aspettato che non avrebbe trovato molto, almeno non esposto. Chi voleva in giro per casa le fotografie della propria moglie, dopo quel che era accaduto? Ma nemmeno una tale povertà e tristezza.
Riprese la concentrazione. Aveva messo in conto che Richard Hadleigh avrebbe fatto sparire dalla circolazione gli effetti personali della moglie; doveva solo sperare che non avesse gettato via ogni cosa. Decise di prendersi il suo tempo, e cominciò ad aprire tutti i cassetti, le ante e a frugare in qualsiasi luogo plausibile e non, facendo bene attenzione a riporre poi tutto com'era prima.
Gli bastava solo un oggetto, in fondo.
Ha detto che ne basta solo uno, solo un'unica cosa appartenuta a Christine Hadleigh.
 
 
***
 
 
IL LUPO NON USCIVA SOLO alla luce della luna piena. Da quando era stato maledetto, il plenilunio non era l'unico momento in cui diventava un mostro.
Tutto ciò che era, vedeva, sentiva, era mostruoso.
Ma ora, la sua bestialità poteva tornare utile.
Il Cacciatore chiuse gli occhi cercando di concentrarsi. Il buio era scomparso, il sole era sorto, la notte s'era ritirata. Questo non poteva vederlo, ma lo sentiva.
Eric avvertiva l'alba e il tramonto pur senza vederli, sapeva se fuori stava piovendo anche se lo scroscio dell'acqua non giungeva fino ai sotterranei del castello, sentiva i bisbigli dei servitori nell'ala più lontana, le scorribande dei topi nelle pareti, ogni sussurro, ogni bisbiglio, ogni flebile respiro, ogni singolo passo delle guardie della Regina Cattiva.
Ora di fronte alla sua cella stazionava un solo soldato. La Regina Cattiva aveva creduto forse che le frustate e la maledizione sarebbero bastate a tenerlo a bada, ma non aveva calcolato che essere un Uomo Lupo non voleva dire solo trasformarsi in assassino ogni plenilunio e avere tutti e cinque i sensi più affinati.
Essere un Uomo Lupo voleva dire anche forza bruta; voleva dire velocità; voleva dire che con un pugno sarebbe stato in grado di sfondare una porta. Questo Eric ci aveva impiegato un po' di tempo per capirlo, ma ora che era consapevole delle sue nuove capacità era ben deciso a sfruttarle. Il dolore delle frustate e del ricordo di ciò che aveva fatto a Cappuccetto Rosso e alla nonna non faceva che dargli maggior sicurezza.
Non userai il Lupo una seconda volta.
Inspirò a fondo costringendosi a riprendere lucidità. Non poteva permettersi distrazioni in quel momento; non c'era in gioco solo la sua libertà, ora.
La Salvatrice è giunta.
Benché possedesse solo pochi e sfuocati ricordi di quando si trasformava, il Cacciatore riusciva a rammentare le due giovani contro cui la Regina Cattiva l'aveva scatenato, fortunamente senza riuscire nel suo intento di ucciderle. Una delle due era la Salvatrice, ne era certo. E lui doveva trovarle.
Ma prima doveva liberarsi da quella prigione.
Si alzò in piedi, avvicinandosi lentamente alle inferriate della porta. Velocità e forza bruta. Ecco cosa gli occorreva. Aveva atteso che le sentinelle fossero lontane dalla sua postazione prima di agire. Non ci avrebbero messo molto per accorgersi di cosa stava succedendo, ma quando se le fosse ritrovate alle calcagna avrebbe già avuto un certo vantaggio.
Il soldato che stazionava di fronte alla sua cella aveva un profilo giovane e sbarbato, probabilmente non era neanche ventenne. Eric esitò. Gli sarebbe stato facile far passare le braccia attraverso le sbarre, afferrargli il capo e girarglielo fino a udire il crack del collo che si spezzava, ma non voleva uccidere un ragazzo giovane. Non voleva uccidere se non fosse stato strettamente necessario.
Cappuccetto Rosso e la nonna non sono state le prime...
Si riprese. Cercò di non pensare a Tristan Beaumont e ai suoi fratelli. Rapido, fece passare le braccia oltre le sbarre. La guardia voltò il capo, ma Eric gli afferrò la testa e gli premette una mano sulla bocca affinché non urlasse e lo tirò verso la porta in modo da fargli sbattere la fronte contro il legno. Un colpo, due, tre, e gli occhi della guardia si ribaltarono. Eric la lasciò cadere a terra priva di sensi. Afferrò poi le sbarre infisse nella finestrella della porta; i muscoli del collo e delle braccia si contrassero mentre la forza dell'Uomo Lupo si liberava e la porta veniva scardinata con un gran fracasso.
Eric non perse tempo, uscì dalla cella e prese a correre lungo lo stretto corridoio delle prigioni.
Il baccano aveva disturbato il sonno dei detenuti che ancora dormivano, e già udiva i mormorii di quelli che si stavano svegliando venire sovrastati dalle urla e dai passi affrettati delle guardie. Non ci sarebbe voluto molto prima che ne arrivassero delle altre.
Doveva andarsene da lì, e subito.
  
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