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Autore: Imperfectworld01    07/04/2019    0 recensioni
Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede.
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.
Megan Sinclair è la brava ragazza del quartiere, quella persona affidabile su cui si può sempre contare, con ottimi voti a scuola e con un brillante futuro che la attende.
E poi, all'improvviso, una sera cambia tutto. Una notte, un omicidio e un segreto. Un segreto che Megan, con l'aiuto di un improbabile alleato, cercherà di mantenere sepolto a tutti i costi.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non sei stata tu

La situazione a scuola sembrava essersi tranquillizzata. Non del tutto, ovvio. Ma le persone, esattamente come accade ai bambini dopo pochi giorni dall'aver ricevuto il giocattolo nuovo, sembravano essersi già stufate. Erano stufe di parlare di me, di Emily, volevano soltanto andare avanti.

Persino Olivia sembrava aver mollato la presa, ma forse era solo perché la convocazione nell'ufficio della preside Fitzpatrick l'aveva spaventata al punto di cessare la guerra e smetterla di diffondere quei volantini, i quali erano spariti dalla circolazione. Tutti tranne uno, che avevo conservato e consegnato all'avvocato Finnston, il quale non aveva fatto altro che ripetermi, fin dall'inizio, che avrei dovuto informarlo di qualsiasi cosa e che anche un'apparente banalità sarebbe potuta essermi utile all'udienza preliminare, quindi l'avevo avvisato di quegli episodi successi a scuola e gli avevo fornito la prova di quanto dicevo.

Feci quelle riflessioni mentre ero intenta ad aprire il mio armadietto, che proprio quella mattina aveva deciso di non collaborare ed essere più difettoso del solito. «Ti prego, almeno tu vedi di funzionare!» lo implorai, cosa che, purtroppo, servì a poco.

«Perché stai cercando di scassinare l'armadietto di un altro studente?»

Non riconobbi subito la voce di chi mi rivolse la parola, così come compresi subito il senso di ciò che mi disse. Pertanto decisi di rinunciare alla mia impresa, almeno per il momento, e di voltarmi nella direzione di chi aveva parlato. Scorsi Lucy, la quale mi rivolse un piccolo sorriso: «Quello è il mio. Il tuo è questo qui» disse, indicando un armadietto posto proprio di fianco a quello che mi stavo affaccendando ad aprire già da un quarto d'ora.

Mi passai una mano sulla fronte e scossi la testa: «Scusa, non ci avevo proprio fatto caso». Poi mi spostai verso il mio armadietto e in quattro e quattr'otto riuscii ad aprirlo.

«Tranquilla, non c'è problema. Comunque alla fine ho parlato con Tracey e mi ha detto che per lei va bene, e anche la preside Fitzpatrick ci ha dato il via libera.»

Annuii, prima di rendermi conto che non avevo idea di a che cosa si riferisse. «Aspetta, il via libera per cosa?»

«Per la commemorazione di Emily, questo venerdì alla partita» rispose, e la mia espressione sembrò suggerirle che ne avevo piene le scatole di quella faccenda, perché aggiunse: «So che forse vorresti non sentir più parlare di questa storia, ma in fondo penso che anche la scuola debba poter avere la sua occasione di dirle addio. Ti sembrerà strano, penserai che a nessuno importasse di lei prima che succedesse tutto e che quindi non abbia alcun senso organizzare una cosa del genere, ma in fondo un senso ce l'ha: era una ragazza che veniva nella nostra scuola, della nostra età, con cui forse in molti non hanno mai parlato, compresa me, ma la vedevamo comunque ogni giorno... e ora non c'è più. Paragonato a quello che starai provando tu non sarà niente, ma ti assicuro che sono rimasta davvero molto scossa, e come me molti altri.»

Mi irrigidii, sentendo la voragine farsi più ampia e il respiro cominciare a mancarmi. Poi, non so come, riuscii ad assumere il controllo delle mie emozioni e a impedire che prendessero il sopravvento. Ed ecco che la voce dentro la mia testa, la stessa che mi incolpava di tutto, la stessa che mi aveva suggerito di farla finita il giorno del funerale di Emily, la stessa che mi teneva sveglia la notte, la stessa che mi aveva resa un'altra persona, mi disse: "Mantieni la calma. Respira. Puoi farcela. Tu sei Megan Sinclair".

E funzionò: ripresi la calma, evitando l'ennesimo attacco d'ansia.

«È davvero così?» chiesi a quel punto a Lucy, la quale attendeva una mia risposta.

«Certo, ha lasciato tutti sconvolti e sono stati in molti ad aver ritenuto giusto fare un ultimo piccolo gesto in suo onore.»

«Non è un piccolo gesto: è molto bello quello che volete fare, Lucy. Se Emily fosse... sì, insomma, lo apprezzerebbe» dissi.

Lucy mi rivolse un altro sorriso, forse l'unico spontaneo e sincero che mi aveva dedicato fino a quel momento, l'unico che non mostrava pena nei miei confronti. Poi fece per voltarsi e dirigersi in classe, ma io la richiamai: «Ehi, aspetta. Posso farti una domanda?».

«Qualsiasi cosa» scrollò le spalle.

«Perché sei così gentile con me? Tutti gli altri a scuola mi evitano come la peste, mentre tu... be', non lo fai. E mi parli con spontaneità, senza timore che possa aggredirti da un momento all'altro, o qualsiasi altro sia il motivo che spinge tutti gli altri a evitarmi.»

«Come altro dovrei comportarmi?» domandò, come se le avessi posto una domanda sciocca. La mia espressione parlò ancora una volta per me, e infatti si affrettò a giustificare la sua risposta: «Lo so, lo vedo come ti trattano gli altri, e personalmente non li capisco: come possono pensare che tu possa aver fatto una cosa del genere?».

Era così convinta di quello che diceva, che per un attimo riuscii a sentirmi più leggera, come se fossi innocente.

"Ma tu sei innocente, anche se non vuoi crederci: non sei un'assassina."

«Se sono rimasti sconvolti da questa storia come dici tu, forse è proprio per questo che hanno reagito così: hanno soltanto paura.» Esitai un attimo, prima di porle la domanda che morivo dalla voglia di farle e attorno alla quale stavo girando già da un po': «Tu perché non ne hai, di paura?».

Scoppiò in una risata fragorosa. «Fai sul serio? Da quando una litigata fra migliore amiche basta a far sì che una uccida l'altra? Se così fosse, allora dovrebbero triplicare il numero delle carceri presenti negli Stati Uniti, non ti pare? E poi, a differenza di quello che si dice in giro, io so che non sei stata tu l'ultima a vederla. Non è dopo la vostra litigata che Emily è scomparsa dalla festa: poco dopo la vostra discussione l'avevo vista parlare con Dylan.»

•••

Non sapevo come iniziare il discorso con Dylan senza far sì che il tutto degenerasse in un'altra litigata. Eppure un modo dovevo trovarlo: non me ne sarei stata zitta, senza sapere che cosa si erano dette le due persone che, a quanto sapevo, non avevano mai avuto a che fare l'uno con l'altra.

«Hai tolto la benda» dissi, passando delicatamente le mie dita sulla sua mano. Notai che gli era rimasta una cicatrice, doveva essersi procurato un taglio davvero profondo. Smisi di fissare la ferita nel momento stesso in cui intrecciò le sue dita alle mie e si portò la mia mano sul viso. «Ti va di fare la strada con me?» gli proposi.

«Non torni con Tracey ora che ha ripreso a venire a scuola?»

«Lo farei, ma preferisco passare un po' di tempo da sola con il mio ragazzo» risposi, prima di avvicinarmi e dargli un veloce bacio sulle labbra.

Sorrise e cominciammo ad avviarci verso casa mia, mano nella mano. Una volta arrivati circa a metà strada, presi coraggio e parlai: «Allora, sei carico per la partita di venerdì?».

«Megan Sinclair che si interessa allo sport? Che succede?» domandò fingendosi sorpreso. Gli tirai una sberla scherzosa sul petto. «In effetti non mi interessa, ma verrei solamente per vedere te giocare.»

«Non devi farlo se non vuoi. In fondo ci sono già le cheerleader a fare il tifo per me, sai, quelle tizie in gonnella, generalmente con gambe chilometriche...» A quel punto lo interruppi, facendo il suo stesso gioco: «Mmh, no, non ho presente. Di solito mi concentro più sui giocatori, sai, quelli con quelle braccia muscolose e quei didietro ben allenati».

«E da quando guardi i didietro dei maschi?».

«Tutte le ragazze lo fanno» risposi semplicemente.

«Ciò significa che guarderanno anche il mio questo venerdì?» chiese incuriosito, e anche un po' confuso.

«Ci devono solo provare» dissi e Dyl scoppiò in una forte risata che contagiò anche me. Poi mi attirò a sé e mi baciò più e più volte, prima di sorridere e dirmi: «Tanto lo sai che in quel momento io avrò occhi solo per la palla. Scherzo, scherzo! Anche per te» tese le mani in avanti, come a volersi proteggere da me.

Solo allora mi accorsi che avevo deviato completamente il discorso e che non avrei dovuto parlargli di questo, bensì di Emily. Eppure, quando ero con lui, mi era difficile seguire ciò che diceva la mia mente, il più delle volte mi lasciavo guidare soltanto dal cuore, e la mia concentrazione ne risentiva. «Comunque,» ripresi a quel punto il discorso «prima della partita ci sarà anche una commemorazione in onore di Emily, eseguita dalla banda o qualcosa del genere» dissi.

La sua espressione mutò subito da rilassata a seria. «La gente non ha proprio niente da fare, eh?» commentò.

«Sì, ma in realtà mi sembra una cosa carina. È stata un'idea di Lucy» dissi.

«Lucy? Lucinda Bailey? Come mai le importa così tanto di Emily?» chiese e io scrollai le spalle: «Lei dice di essere davvero dispiaciuta per questa storia, e di volerle dire addio a modo suo. Ah, e poi mi ha anche detto di credere in me, nella mia innocenza. Mi sembra surreale, se ci penso, eppure è così: non tutti a scuola mi reputano un'assassina».

«Meno male» disse solamente, e dall'aria che aveva sembrava molto nervoso.

«Mi ha anche detto una cosa che potrà essermi utile all'udienza, ossia che non sono stata io l'ultima persona che ha visto Emily prima che scomparisse... sei stato tu a parlarci dopo di me.»

Mi parve quasi di vedere una goccia di sudore formarsi sulla sua fronte, da quanto era agitato.

Perché?

«Perché non me l'hai detto?» chiesi, cercando di mantenere un tono affabile, in modo da non farlo preoccupare. O meglio, in modo da riuscire a farlo parlare.

«Non pensavo fosse importante...».

«Lo è per me! Che cosa vi siete detti?» domandai, non riuscendo più a mantenere la calma.

«Ci ho parlato perché mi dispiaceva che aveste discusso a causa mia, e quindi volevo farle capire che era stato tutto merito mio e che tu mi avevi ripetuto milioni di volte che la vostra amicizia era più importante ma che io non avevo voluto ascoltarti. L'ho fatto per te, mi ero sentito una merda dopo che ci aveva beccati... tu piangevi, lei pure... perciò volevo cercare di rimediare.»

«E... e lei che cosa ti ha detto?»

«Be', era ancora troppo arrabbiata e ferita per poter vedere le cose in modo lucido, perciò mi ha urlato contro e si è allontanata» rispose, eppure avevo la sensazione che non fosse tutto. Oppure era soltanto ciò che desideravo: volevo che ci fosse dell'altro, qualcosa che mi avrebbe permesso di ottenere delle risposte, qualcosa che forse non avrei mai scoperto. Il timore più grande che avevo era che la morte di Emily Walsh sarebbe rimasta sempre un mistero, e che io non avrei mai avuto pace.

Abbassai lo sguardo, sconsolata e delusa. «Non c'è nient'altro?».

«No, Meg, ti ho detto tutto.»

Quindi era così. Emily era morta, odiandomi. Io non avevo saputo fare niente per sistemare le cose e la mia migliore amica era morta, detestandomi. Lei non mi aveva mai perdonato, non ne aveva neanche avuto il tempo, perciò come avrei potuto, io, perdonare me stessa?

•••

«Com'è andata a scuola?» chiese l'avvocato Finnston tre giorni dopo, dopo avermi fatta accomodare nel suo studio. Così come il resto della casa, era anch'esso raffinato, elegante e ordinato, tranne per la scrivania, anch'essa di vetro come il tavolino nel salotto, ma che invece era piena di scartoffie. Uno dei tanti fascicoli sembrava essere dedicato proprio a Emily, e recava il timbro del dipartimento di polizia di Morgan City. Dovevano essere le prove e gli indizi che avevano raccolto fino a quel momento.

«Bene» risposi semplicemente e lui parve sorpreso: «Davvero?».

«Meglio del solito: i miei compagni non mi prendono più di mira, e inoltre...»

Fui interrotta dalla porta del suo studio che venne aperta, e dalla quale entrò David. Non appena incrociai il suo sguardo, lo distolsi e lo puntai sui lacci delle mie scarpe, che improvvisamente si erano trasformati nell'elemento più interessante all'interno di quella stanza.

«David, non si bussa?» domandò il padre con un cipiglio in fronte. Il figlio, in risposta, scomparve dietro la porta, solo per bussare e poi rientrare. Sebbene non lo stessi guardando in volto, ero sicura al cento per cento che aveva esibito quel suo solito ghigno strafottente. Poi avanzò di qualche passo e appoggiò sulla scrivania del padre, in modo non propriamente delicato, una cartelletta contenente numerosi fogli. «Quello che mi avevi chiesto» disse. Fece per allontanarsi, ma il padre lo richiamò: «Non sei andato all'università oggi, o sbaglio?».

La situazione si stava presentando alquanto comica. Quando era con me, David si comportava come se fosse un adulto indipendente, responsabile e sicuro di sé, ma davanti al padre pareva come un quindicenne ribelle che ne combinava una ogni giorno e che temeva le conseguenze che ci sarebbero state nel caso in cui i genitori lo avessero scoperto.
Tornai a guardarlo e notai che si sentiva a disagio per via della domanda posta dal padre. Si morse il labbro inferiore e poi finalmente rispose: «La professoressa di diritto costituzionale è una vecchia sessantacinquenne che ha già perso metà dei denti e puzza di lettiera di gatto, nessuno segue mai le sue lezioni: sono una perdita di tempo».

Mi rigirai verso l'avvocato, che si limitò a rimanere in silenzio e a guardare il figlio con disapprovazione. A quel punto spostai nuovamente l'attenzione su David, che si passò una mano fra i capelli: «Come credi che avrei potuto prepararti quei documenti se fossi andato a lezione? Quindi, visto che te li ho portati e praticamente costituiscono ciò che ti farà vincere il processo... domani posso essere il secondo difensore?».

Come se fossi una pallina da ping-pong che si muove da un campo all'altro in continuazione, mi voltai un'altra volta verso l'avvocato, che roteò gli occhi: «Dave, sei al primo anno, non puoi ancora prendere parte a un processo. A maggior ragione perché salti metà delle lezioni.»

«Le leggi posso studiarmele da solo, non ho bisogno di qualcuno che me le spieghi, ho bisogno di qualcuno che mi insegni a metterle in pratica, e dovrò aspettare fino all'anno prossimo per poter fare il tirocinio» ribatté il figlio, lasciando intravedere un velo di impazienza e frenesia.

L'avvocato Finnston sospirò, annoiato, cosa che mi fece pensare che conversazioni di quel genere avvenivano con una frequenza più alta del normale.

«D'accordo. Sai che ti dico? Fammi vedere come te la cavi con un processo simulato: ti do un'ora di tempo per preparare Megan all'udienza che avrà luogo il 19 ottobre. Io sarò il giudice, mentre tu farai la parte dell'accusa.»

Mentre David esibì uno dei suoi soliti ghigni di compiacimento per via dell'incarico che gli era stato assegnato, io assunsi un'espressione più affranta, dal momento che mi sentivo ancora in colpa per via di quello che gli avevo detto il sabato prima e avrei preferito avere a che fare con lui il meno possibile.

«Forza, vai» ordinò al figlio.

Così, ritrovandomi senza molta scelta, dovetti alzarmi e uscire dall'ufficio dell'avvocato Finnston insieme a David, il quale mi ricondusse in salotto. Mi sedetti nella medesima posizione di tutte le altre volte, mentre lui rimase in piedi, oltre il tavolino. Persi qualche secondo a osservarlo: indossava una camicia blu scuro, le maniche arrotolate fino al gomito, dei pantaloni eleganti neri sorretti da una cintura e, immancabilmente, le scarpe.

Mi chiesi ancora una volta come potessero, sia lui sia il padre, sentirsi comodi indossando le scarpe in casa. Mi sembravano due persone fin troppo impostate, poco spontanee.
Come potevano apparire così impeccabili in ogni situazione? Qualcosa mi suggeriva che persino dietro ai capelli spettinati e sbarazzini di David, in apparenza naturali, ci fosse in realtà un lungo processo di lavorazione dietro e che quindi fosse un effetto appositamente voluto.

«Perché mi fissi?» disse quest'ultimo incrociando le spalle al petto, distogliendomi dai miei pensieri.

Non mi era mancato per niente quel suo modo di farmi sentire a disagio in ogni situazione.

Mi portai una ciocca di capelli dietro l'orecchio e puntai lo sguardo sul pavimento. «Volevo scusarmi» risposi.

«Non farlo» disse secco.

Alzai gli occhi al soffitto. Era davvero irritante. «Be', voglio farlo, invece, io...»

«Smettila» mi interruppe. «Non devi scusarti per qualcosa che pensi, a maggior ragione perché non me ne frega niente dell'opinione che hai su di me. Ora possiamo iniziare?».

Capii dal suo tono che non avrebbe ricevuto un no come risposta, perciò decisi di rinunciare alla mia impresa. Eppure mi diede fastidio il fatto che non mi aveva dato la possibilità di scusarmi. Non l'avrei fatto solamente per lui, l'avrei fatto soprattutto per me: lui aveva detto di non reputarmi una brava persona, e le brave persone erano in grado di ammettere i propri errori e di rimediare.

«Sì, iniziamo.»

Notai che non aveva dato ascolto alle mie parole, poiché troppo impegnato a osservare il display del mio cellulare, che avevo appoggiato sul tavolino e che si era appena illuminato in seguito all'arrivo di un messaggio. Sollevò le sopracciglia in senso di stupore e poi mi rivolse un sorriso soddisfatto: «Quindi alla fine l'hai fatto».

Afferrai il cellulare in mano e vidi che il messaggio era da parte di Dylan. Tornai a guardare David e riappoggiai il cellulare sul tavolino, con lo schermo rivolto verso il basso stavolta. «Guarda che non l'ho fatto perché me l'hai detto tu. L'ho deciso io.»

«Certo, come vuoi» disse con tono colmo di superbia.

Sebbene mi fossi imposta di mantenere la calma e di comportarmi da persona matura, non riuscii a trattenermi. Mi alzai in piedi e mi posizioni davanti a lui, puntandogli il dito contro: «Vuoi spiegarmi chi ti credi di essere?».

«Uno che è laureato in scienze sociali» rispose pacatamente. Sembrava quasi divertito dalla mia reazione.

«Sei soltanto un presuntuoso» incrociai anch'io le braccia al petto.

«Lo so» rispose, come se ne andasse realmente fiero. «Però sono anche bravo, no?» aggiunse.

«Perché sei sempre in cerca di complimenti?» domandai, e l'espressione che assunse mi suggerì che avevo appena toccato uno di quegli argomenti di cui non gli andava di parlare. Il suo silenzio mi permise di giungere da sola alla risposta, che non era poi così scontata come speravo. Il suo non era solo puro egocentrismo. «È per tuo padre. Lavori sodo per aiutarlo ma lui non ti riconosce mai niente, non ti fa sentire apprezzato e questo in realtà ti fa sentire insicuro, perciò ti comporti così.»

La sicurezza svanì dai suoi occhi e lo vidi serrare le labbra, segno che non si aspettava che riuscissi a cogliere quel particolare della sua vita.

Da una parte lo capivo, anch'io provavo lo stesso con mia madre: qualsiasi cosa facessi, non andava mai bene. Era come se non dessi mai il massimo, il mio meglio non era mai il meglio assoluto, si aspettava sempre che facessi di più.
Io però avevo imparato a passarci sopra e a sopportare, il più delle volte, quel suo modo di fare; lui, al contrario, sembrava esserne ossessionato e, i complimenti che non riceveva dal padre, andava a cercarli sempre altrove.

«Ti ricordi che cosa ti ho detto sabato scorso? Io non parlo di me.»

«Ricordo anche che la prima volta che ci siamo visti, una delle prime cose che hai fatto è stato raccontarmi delle tue avventure con il professor Kravitz. Parli di te solo quando ti conviene?» domandai indispettita.

Allo stesso tempo pensai che il suo fare ribelle che aveva da adolescente fosse un altro modo per farsi notare dal padre e ricevere le attenzioni che non gli dava.

«Sì: dico solo quello che voglio che la gente sappia.»

•••

Dopo quell'ultima affermazione, dichiarò ufficialmente chiuso il discorso e iniziò a prepararmi per quel cosiddetto processo simulato. Inizialmente non ne capii subito il senso né tantomeno l'utilità, ma una volta rientrata nello studio dell'avvocato Finnston potei rendermi conto della rilevanza che invece aveva. Infatti, sebbene mi trovassi in compagnia soltanto del mio avvocato e del figlio e, sebbene David mi avesse dato delle dritte su come rispondere, una volta che cominciarono le domande da parte di quest'ultimo, iniziai subito a sentirmi in soggezione, quasi come se fossi sottoposta a un vero processo.

«Quindi lei conferma di aver lasciato la festa intorno alle 23:10 e le 23:30?»

«Sì. Me ne sono andata intorno a quell'ora, dopo aver chiamato Emily e non aver ricevuto risposta.»

«Ha quindi ritenuto opportuno andarsene dalla festa, sebbene non fosse stata in grado di trovare la sua amica?»

Il signor Finnston si schiarì la gola, segnale che stava per rimproverare il figlio. «Avvocato, sta chiedendo all'imputato un'opinione.»

David sembrò perdere la sicurezza che aveva mantenuto fino a quel momento, ma dopo aver fatto un lungo respiro, riuscì a riprendersi. «Riformulo, Vostro Onore» disse al padre, prima di tornare a rivolgersi a me: «Perché se n'è andata dalla festa, signorina Sinclair? Non ha pensato che il fatto che Emily Walsh non rispondesse alle sue chiamate, potesse essere legata al fatto che la suddetta si trovasse in una situazione di pericolo?».

L'avvocato Finnston intervenne ancora: «Avvocato, si fermi: sta suggerendo all'imputato la risposta».

David roteò gli occhi e mostrò segni di frustrazione. Era partito bene, ma aveva ancora molto da imparare ed era del tutto normale che commettesse certi errori, spesso commessi anche dagli avvocati più bravi, eppure sembrava non accettare di non risultare perfetto e impeccabile agli occhi del padre.

Si passò una mano fra i capelli e, mantenendo la calma, riprese: «Signorina Sinclair, sapeva che Emily Walsh era in pericolo nel momento in cui ha deciso di andarsene dalla festa?».

Sentii la gola farsi secca. La domanda era precisa, mirata: certamente sapevo che si trovasse in pericolo, avevo visto il suo cadavere. «Non è che fossi...» Fui interrotta dall'avvocato Finnston. «Risponda alla domanda con un semplice sì o un no, signorina Sinclair.»

Rimasi in silenzio. Se mi fossero state realmente poste quelle domande al processo, che cosa avrei potuto fare per uscirne? Non avrei potuto mentire, ma neanche dire la verità.

Cominciai a sudare freddo. Poi ripensai ai suggerimenti che mi aveva dato David poco prima: «Se sai che stai per auto incriminarti rispondendo a una domanda, allora mostrati confusa, scossa, di' che non ricordi bene, che non eri lucida poiché turbata dalla discussione appena avuta».

Così tentati la mia unica via d'uscita: «Non mi ricordo» risposi.

«Cosa non ricorda?»

Aggrottai la fronte. «Io non... non mi ricordo. Ero turbata perché avevamo discusso e... ricordo solo di averla chiamata e poi di essermene andata.»

«Lei afferma di non ricordare, eppure durante la sua deposizione fatta lunedì 1 ottobre presso il dipartimento di polizia, non ha mostrato alcun segno di amnesia. È esatto?» domandò e io annuii, mordendomi il labbro inferiore.

«Eviti i cenni con la testa e risponda alla domanda con le parole» mi ricordò l'avvocato Finnston.

«Sì» dissi a quel punto. Se stava andando così male un processo simulato, cosa sarebbe mai potuto succedere all'udienza preliminare?

«La sua deposizione è perciò da considerarsi totalmente inattendibile. Ma forse questa versione dei fatti riuscirà a trovare la giusta combinazione con la sua: lei ha trovato Emily Walsh inerme, in una pozza di sangue e un coltello conficcato in gola, ha evitato di prestarle soccorso chiamando chi di dovere, ha estratto il coltello dalla ferita e se n'è andata. Ha poi ripulito l'arma del delitto e l'ha nascosta. È corretto, signorina Sinclair?»

   
 
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