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Autore: MistaKen2214    09/04/2019    0 recensioni
" Queste preoccupazioni lo tenevano allerta tutto il giorno, sempre teso, ma mai come la sera, nel suo letto; queste turbe si rincorrevano nella sua testa fino a tardi, finchè non era talmente stanco da non riuscire nemmeno più a preoccuparsi. Il sonno lo traghettava verso le sponde del giorno dopo, come Caronte con Dante, attraverso le acque profonde e turbolente della notte. "
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Rientrando da lavoro, sul solito treno delle 18.36, Marco si trovò di nuovo ad osservare i passeggeri che aveva di fronte. Un signore piuttosto anziano davanti a lui stava sfogliando il giornale, era tutto spiegazzato e malconcio; il cappello in feltro che indossava non ringiovaniva di certo il suo aspetto, i baffi, ingialliti per il fumo, crescevano incolti lungo i bordi delle sottili labbra screpolate. Anche le dita, l'indice e il medio, ben serrati per reggere le pagine del quotidiano, portavano i segni di una vita passata a fumare. «Cazzo ma come si fa a fumare?!» si chiedeva ogni volta Marco. Non riusciva a capacitarsi di come le persone, nonostante siano a conoscenza dei rischi e dei danni che una sigaretta può provocare, potessero fumare di gusto. Il solo pensiero di poter morire per un vizio del genere gli faceva rabbia.
Accanto al vecchio fumatore sedeva una donna di mezza età. Indossava un banale vestito in tinta unita, che la copriva fin sotto il ginocchio, per poi lasciar spazio ad una spessa collant color carne e ad un paio di scarpette con accenno di tacco. La capigliatura era curata, non troppo elaborata. Al collo portava una collana, che completava la parure assieme ad una coppia di orecchini di perle; era intenta a leggere dei fogli che, al finire di uno, sostituiva un altro preso da una piccola borsetta in stoffa poggiata sulle ginocchia. Era certamente un'insegnante di chissà quale grado. Le smorfie che le si creavano in volto leggendo quanto le passava sotto gli occhi erano buffe. «Se ciò che correggesse lei fosse sbagliato e ciò che ha scritto l'alunno invece giusto? Magari quello che sta correggendo è un tema, cosa c'è da correggere in un tema?». Sin da piccolo Marco amava leggere, e più cresceva più si rendeva conto di stili e di impronte differenti dei vari autori. Nel periodo del liceo dunque si chiedeva perchè mai un professore decidesse che una parola scritta in un tema fosse sbagliata, mentre quella che proponeva in rosso, in stampatello bello grosso, fosse quella giusta. In fondo ogni creazione non è perfetta, ha le sue irrazionalità, stravaganze, ed è giusto prenderla così com'è, proprio come per le persone.
Arrivato alla sua fermata, scese dal treno e si diresse verso la fermata di capolinea del bus, che distava qualche passo dalla stazione. Nella mano destra reggeva una ventiquattrore in pelle marrone, un po' sgualcita, era di suo nonno, e pensava a quanto avrebbe voluto tenerla in tasca, come l'altra. Proseguiva a passo sostenuto, come ogni volta che si dirigeva da qualche parte d'altronde, finchè non raggiunse la fermata e si posizionò al solito posto per aspettare l'autobus, in modo tale da potersi sedere ed evitare l'irritante calca di persone che si urta per sedersi. Il posto era sempre lo stesso, salvo inconvenienti, accanto al finestrino. Per tutto l'arco di tempo che intercorreva tra l'uscita dall'ufficio e il rientro a casa, lo accompagnavano le cuffiette. Una delle poche cose che cambiavano la monotonia di quella routine stralunante era proprio la musica, ogni due giorni, infatti, cambiava album. Non lo cambiava ogni volta perchè voleva dare più di un ascolto ad ogni singolo LP, per non perdersi nulla e valutarlo al meglio. Il genere non era importante, certo l'Hip-Hop era da sempre il suo preferito, ma con il passare degli anni, maturando, andò contro a quanti più generi possibili, apprezzandoli in egual modo. In quel periodo fece una piacevolissima scoperta: un disco di Classical Ambient di un artista Giapponese, Akira Kosemura. Il titolo era 'In the Dark Woods' e gli piacque talmente tanto da acquistarne il vinile su internet e aggiungerlo alla sua collezione. 
Quella sera stava ascoltando 'Funeral' degli Arcade Fire, un gruppo Indie-Rock inglese. Gli piaceva molto; si stupì di non trovare il solito traffico per strada, e arrivò leggermente prima del solito a casa. Quindi, visto l'anticipo sulla 'tabella di marcia', decise di concedersi un bagno caldo, prima di farsi da mangiare, accompagnato da un classico Jazz: 'A Love Supreme'. Ad ogni singola nota prodotta dal sassofono in sottofondo, Marco gioiva e godeva dell'ebrezza dello spezzare la monotonia della sua vita; il bagno caldo, Coltrane, il profumo di cannella del sapone, la luce spenta creavano un'atmosfera tanto semplice agli occhi di altri, quanto magica per lui, che lo portò a piangere, come un bambino, provando quella sensazione che si avverte da piccoli, stringendosi tra le braccia calde della madre, quando si ha paura di qualcosa. 
Proprio lui, che di qualcosa aveva paura per davvero: la vita.
La sveglia del cellulare fece vibrare il comodino accanto al letto. Curiosamente, rispetto a qualche tempo prima, Marco, aveva sostituito la suoneria con la vibrazione, dato che ogni volta finiva per odiare la melodia che associava al risveglio. Che poi di risveglio nemmeno poteva parlarsi in quanto si svegliava sempre cinque minuti prima dell'orario prestabilito; nell'arco di tempo che passava dal suo risveglio al vibrare dello smartphone, annoiato, ripercorreva con la mente la giornata precedente, chiedendosi cosa sarebbe cambiato o se qualcosa sarebbe effettivamente cambiata.
Dopo essersi tirato di peso fuori dalle lenzuola si diresse verso la piccola cucina proprio di fronte alla porta della camera da letto: prese la solita cialda di caffè dal solito cassetto e aspetto i soliti due minuti che quest'ultima si trasferisse nella tazzina. Il caffè era una delle poche cose che la mattina lo mettevano a suo agio. Provava un vero e proprio amore per quella miscela, lo beveva davvero di gusto, tanto che, tempo addietro, scrisse alcune righe in merito alle sensazioni che gli suscitava l'odore, l'aroma e il gusto di questa bevanda. 
Dopo essersi lavato e aver accuratamente scelto l'abbigliamento, con la solita attenzione dedicata ai calzini che dovevano sempre essere coordinati con il resto degli indumenti, Marco uscì di casa dirigendosi verso la fermata del bus con le cuffiette sempre alle orecchie. Il sole si attardava a salire, creando una sorta di patina di luce rossastra, tanto accesa e intensa che se fossero state le cinque o lei sei di sera si sarebbe potuta associare ai colori di un tramonto. Il cielo era limpido, ma di un azzuro sciupato, quasi fosse stanco, anche lui, di dover mostrarsi sempre nelle stesse vesti sgargianti e serene.
L'autobus tardò di qualche minuto, si fermò al segnale col braccio e ripartì. Dopo aver preso posto Marco scrutò al di fuori del finestrino in cerca di qualcosa di singolare, ma dovette accontentarsi di una signora minuta che rincorreva il suo piccolo barboncino intento a seguire chissà quale meta.
Tempo di arrivare in stazione, al termine della corsa del 72, il sole si era deciso a salire e illuminava la vetrata dell'entrata della stazione creando fasci di arcobaleno qua e là, dando vita ad un'atmosfera quasi fiabesca. Guardando quanto aveva di fronte, Marco, rimase quasi a bocca aperta, stupito. Dopo essersi risvegliato dal torpore di quella piacevole vista però si guardò attorno: gente che a testa bassa entrava e usciva dalla stazione senza minimamente essersi accorta di quanto, in quel piccolo istante, fosse bello il mondo; subito dentro di lui montò un fastido, un leggero nervoso «Cazzo, come si può non notare certe cose? Come si fa a rimanere indifferenti davanti scenari del genere?». Alla fine si convinse che non valesse la pena perdere troppo tempo a pensarci. In fondo cosa poteva aspettarsi da una razza che vive la propria esistenza ignornando un'umono che dorme per strada, coperto da dei cartoni?
Attendendo il treno, Marco riconobbe la signora 'insegnante' della sera prima, e non rimase sorpreso nel notare che rispetto al giorno precedebte avesse semplicemente cambiato colore dell'abbigliamento, indossando nuovamente lo stesso vestito con le stesse calze; alle orecchie le stesse perle abbinate alla collana. L'improvvisa interruzione della musica lo destò dai suoi pensieri. Prese il cellulare, al quale erano collegate le cuffiette, e capì che la musicà si era stoppata a causa di un messaggio seguito da un tentativo di chiamata da parte di un numero sconosciuto. «Appena puoi richiamami» recitava il messaggio. «Deve aver sbagliato numero» pensò Marco. 
Dopo essere sceso dal treno, si diresse nell'alto palazzo che ospitava gli uffici dell'azienda per la quale lavorava: 'SB Graphic'. Entrando in ascensore venne spaventato da un collega, Stefano, che fermò con un balzo il chiudersi delle porte. «Per un pelo, che culo!» esclamò il giovane ragazzo stempiato. «Come va?» chiese. «Bene grazie, tu?» rispose Marco senza nemmeno togliersi le cuffie o abbassare il volume. «Anche oggi di poche parole eh?! Va beh, ci si vede in ufficio, buon lavoro» rispose Stefano uscendo dall'ascensore. 
Marco si sedette alla scrivania della sua postazione di lavoro, diede una rapida controllata che tutto fosse come l'aveva lasciato il giorno prima, non per diffidenza nei confronti dei colleghi, ma per rito, per suo piacere personale. Notò che il blocchetto di Post-it multi colore non era ben in asse rispetto al bordo del tappetino del mouse, allora lo spostò con minuzia chirurgica finchè non fù soddisfatto del posizionamento. Da sempre sosteneva l'ordine e la cura dei particolari, asserendo che quanto più una cosa, un luogo, è ordinato tanto più si riesce a vivere più serenamente. Tale principio emergeva involontariamente anche nei lavori che consegnava al capo: ogni cartellone pubblicitario, ogni spot televisivo, ogni annuncio denotava una chiarezza e una pulizia di esecuzione degna di nota, senza fronzoli nè elementi superflui. Nonostante queste caratteristiche le sue produzioni non stufavano, non erano mai banali, qualsiasi fosse il soggetto del prodotto. 
Marco godeva infatti di un'ottima reputazione sul lavoro, per quanto riguardava appunto l'aspetto strettamente lavorativo. Per quanto riguarda il suo rapporto con i colleghi non risultava tra i più simpatici, tutt'altro. In molti si domandavano se non sopportasse nessuno e perchè fosse così schivo con tutti. Alla fine comunque quello che importava era la qualità dei suoi lavori, per questo il capo se lo teneva ben stretto.
Quella settimana stava lavorando alla progettazione di un cartellone pubblicitario di un giocattolo di una famosa casa produttrice, che aveva richiesto qualcosa di accattivante e diretto. 
Da piccolo giocava spesso con i pupazzetti dei supereroi, in particolare quelli che gli avevano regalato i nonni. Creava veri e propri 'teatrini', con un'apparente accenno di storia e una sorta di filo logico, tanto curiosi che anche i più grandi si divertivano nel guardarlo giocare. Ricordava con piacere quei momenti di spensieratezza infantile, pensando talvolta che un pò di ingenuità fanciullina sarebbe stata solo positiva, anche solo per allentare di poco la morsa fredda dell'ansia che lo accompagnava giorno per giorno, in quel vorticoso riptersi di eventi che chiamiamo vita. 
La settimana era trascorsa come quelle precedenti, senza particolari avvenimenti. Il tragitto casa-lavoro era sempre lo stesso, i passeggeri dei mezzi pubblici, all'incirca, erano gli stessi, i colleghi erano gli stessi. La solita 'vita'. Il fine settimana Marco lo trascorreva in casa, a meno che non decidesse di andare a comprarsi un nuovo libro o un nuovo blu-ray. In quei rari casi si dirigeva al centro commerciale, armato delle sue più fidate cuffiette e di una lista di dvd che desiderava, con cancellati quelli che già aveva acquistato. La sua era una collezione piuttosto modesta, circa una ventina di film erano appoggiati su una mensola appositamente posizionata accanto alla scrivania di casa, ma ne andava piuttosto fiero. Erano distribuiti in ordine alfabetico, come d'altronde i libri nella libreria e i vinili. Come a lavoro ogni cosa in camera sua, come in casa e a lavoro, era in ordine, efficacemente sistemata; questo gli permetteva di avere in mente una mappa di tutte le cose. Una morbosa ricerca dell'ordine, per compensare le paure e il disordine che portava dentro.
Come usuale, quel week-end, lo trascorse a casa. Il venerdì sera, prima di rincasare, aveva deciso di portarsi dietro il progetto del cartellone pubblicitario, per continuarlo per conto suo, nella sua stanza. Quando faceva così generalmente si dilazionava il lavoro, distibuendolo nel corso della giornata. Si svegliava sempre presto, non amava svegliarsi tardi, lo considerava una perdita di tempo; lavorava un'oretta e si dedicava alla musica, o talvolta alla scrittura, mangiava qualcosa e riprendeva a lavorare per altre due ore, per poi concedersi un film o una partita a qualche videogame. 
Anche i fine settimana, benchè meno pesanti, scorrevano a rilento. Marco spesso si trovava a riflettere sugli aspetti più contradditori dell'uomo. Stava male per quella sua situazione di staticità, di forzatura in un sistema che lo ha assorbito senza il suo volere, però non faceva nulla per cambiare le cose. «Cosa potrò mai fare nella vita?» pensava tra sè ridendo amareggiato. «Mi illudo di poter diventare uno scrittore, un critico di musica, un grafico di successo, ma perchè mai dovrebbe essere così? Non ho nulla più degli altri, scrivo in modo banale, non ho nessuna base canora o musicale per valutare la musica a livello professionale, sono scontroso e taciturno. Le persone come me, poco apparenti, non piacciono». Queste preoccupazioni lo tenevano allerta tutto il giorno, sempre teso, ma mai come la sera, nel suo letto; queste turbe si rincorrevano nella sua testa fino a tardi, finchè non era talmente stanco da non riuscire nemmeno più a preoccuparsi. Il sonno lo traghettava verso le sponde del giorno dopo, come Caronte con Dante, attraverso le acque profonde e turbolente della notte. 
Il lunedì mattina, come di consueto, si svegliò pochi minuti prima del suono della sveglia. Si preparò il caffè: l'ultima volta che fece la spesa prese delle cialde diverse per la macchinetta, e ne rimase felicemente soddisfatto. Si preparò per andare a lavoro ed uscì. 
Quella mattina il cielo era nuvoloso, quindi la luce, solitamente già fioca vista la stagione, era molto flebile, tanto da sembrare sera. Poco prima di salire sul bus ebbe un lampo: «Cazzo ho scordato il progetto!» pensò allarmato. Tornò indietro correndo, fino al portone. Dopo aver preso il lavoro pensò che sarebbe stato inutile precipitarsi alla fermata, tanto l'autobus successivo sarebbe passato dopo una ventina di minuti. Tra se e se pensò «Fortuna che mi muovo con largo anticipo» infatti non sopportava essere in ritardo e farsi aspettare. Letto il giornale lasciato davanti al portone, come tutte le mattine, scese ad aspettare alla fermata. Facendo mente locale gli venne in mente che, se non andava errato, il bus a quell'ora non lo aveva mai preso. Questo la dice lunga sui ritardi, che appunto non ha mai fatto. 
Una volta salito, incuriosito, si guardò intorno. Esaminò uno ad uno i volti delle persone che erano sul bus, con discrezione. L'attenzione si posò su una ragazza. Quanto fosse alta non riusciva bene ad intuirlo, era seduta, ma notando che le ginocchia non distavano molto dal sedile antistante, capì che all'incirca era alta come lui; indossava un paio di jeans, delle scarpe nere, molto eleganti nonostante l'assenza di tacco, un cappotto nero e una sciarpa blu tenue. La cosa però che più saltava agli occhi erano i capelli: una moltitudine di fili di rame aggrovigliati le scendeva lungo le spalle, di un rosso così intenso da sembrare colorati con i pennarelli. Questa matassa così fluente di capelli le incorniciava un viso delicato, intelligente. Sotto le sopracciglia due occhi malinconici guardavano fuori dal finestrino, in cerca chissà di quale risposta. Tra la folta coltre rossastra attorno al viso, Marco intravide le cuffiette. Sorrise. Era molto che non gli capitava. Era molto che non vedeva facce nuove, come era molto che non se ne preoccupava. Come non si preoccupava di sè. Viveva come se dei fili lo muovessero dall'alto, come una marionetta, che fà ma non pensa, che sente ma non dice.
Si alzò per dirigersi davanti all'uscita del bus, la sua fermata era la prossima. Il suono dei bassi nelle orecchie lo avvolse, estraniandolo quasi del tutto dal mondo. Scese dal bus e si diresse verso l'ufficio, guardando con la coda dell'occhio verso il finestrino vicino al quale era seduta la ragazza, la quale gli rivolse uno sguardo. 
La giornata lavorativa passò tranquilla: qualche parola forzata con i colleghi, qualche scambio di opinioni su un progetto in sviluppo, i complimenti del capo. Tutto il giorno però, la sua mente cercò di decifrare quegli occhi, che da dietro il finestrino, gli avevano comunicato qualcosa. Quei pochi secondi nei quali i loro sguardi erano entrati in contatto Marco aveva avvertito una strana sensazione, un torcersi interno di organi, una sensazione che a descriverla forse poteva sembrare negativa, angosciante, ma che in realtà lui visse con uno spirito completamente diverso, quasi euforico. Era molto che le emozioni che provava non avevano così tante sfumature, non erano così profonde. Dentro percepiva un qualcosa di nuovo: come un pittore, che dopo aver steso la base della sua opera, con un colore scuro, finalmente inizia a dare pennellate di colori accesi, intensi. «Potevo parlarle, dirle qualcosa, che stupido sono stato?!» pensò. 
Per tutto il viaggio di ritorno stette con lo sguardo attento, sperando chissà per quale motivo, che all'improvviso quegli splendidi capelli rossi spuntassero dalla porta d'entrata dell'autobus.
Non salì. Arrivato a casa, Marco si preparò qulcosa di veloce, non aveva molta fame. Da quando era uscito dall'ufficio aveva dentro quella voglia, che da più giovane era quotidiana, di scrivere. Mettersi davanti il computer e vedere la pagina bianca riempirsi di parole che, quasi sempre poi, finiva per cancellare.
Era molto tempo che non scriveva e altrettanto che non aveva voglia di scrivere, ma quella sera rimase sveglio a lungo, con la sola luce bluastra del suo computer ad illuminargli il naso. Non scrisse nulla in particolare, qualche riga cancellata e corretta numerose volte, ma si sentiva appagato, spensierato, vivo. 
Da tanto non si addormentava così velocemente, senza soffocare tra i pensieri. Quella sera, dopo aver salvato il file pdf, spento il pc ed essersi infilato sotto le coperte, prese sonno inaspetattamente, quasi non se ne rese conto. Dormì un sonno netto e pulito, come non accadeva da mesi.
Il mattino seguente il suo risvegliò fu meno traumatico del solito e più a ridosso dell'orario impostato per la sveglia. La routine era la solita, ma i movimenti di Marco erano più lenti. 
Da quando si era svegliato infatti non aveva fatto altro che pensare alla giornata precedente, al bus perso e tutte le conseguenze derivanti. Si era ricordato della ragazza. «In fondo potrei riprendere quel bus, non dovrei arrivare in ritardo». 
Indossato il miglior abito che aveva nell'armadio, si guardò allo specchio: come di consueto non si piaque granchè, ma si mise il profumo e uscì.
L'autobus non tardò stranamente. Lei era seduta davanti al posto dove sedeva sempre lui. «Che l'abbia fatto apposta?» passò per la mente del giovane ragazzo. «Che cazzate, sarà il solo posto che ha trovato quando è salita!» si convinse sedendosi al solito posto. 
L'abbigliamento della ragazza era piuttosto elegante anche quel giorno, i capelli le scendevano sempre lungo il collo. 
Marco la stava studiando nel minimo particolare, senza dare nell'occhio o sembrare un pervertito quando improvvisamente, di scatto il suo soggetto si girò verso di lui. A guardarla da vicino riconobbe diversi dettagli che dall'altro lato dell'abitacolo non aveva colto: due piccoli nei paralleli molto particolari facevano capolino sul lato della sua fronte, quasi all'altezza della tempia. Aveva un anellino al naso, che dopo uno sguardo rapido poteva sembrare fuoriluogo, ma incorniciandolo nel contesto generale del suo viso delicato, le donava. Le guance erano leggermente più rosee del resto della carnagione, che era piuttosto chiara, probabilmente per l'imbarazzo che, senza dubbio aveva preso Marco. Le sue labbra erano piccole, ma carnose. Gli occhi color legno scuro, come già aveva potuto notare, avevano una luce malinconica, profonda, lontana. 
Marco si tolse in maniera goffa le cuffie dalle orecchie, lei stava già parlando ma lui non aveva colto la parte iniziale della frase. «...rbo, ti ho visto salire anche ieri sull'autobus e non ho potuto fare a meno di notare le tue calze, sono proprio buffe» disse la ragazza ridendo, un po' imbarazzata. In quel momento, Marco, non seppe cosa dire. Gli sembrò fosse passato un eternità quando riuscì a rispondere «e non immagini i pigiami che ho a casa!»; la ragazza sorrise, sporgendosi oltre il seggiolino per controllare come fossero le calze che indossava quel giorno. «Beh anche oggi non scherzano eh !?» disse. «Sono un ragazzo testardo, cosa credi?» rispose di getto, scherzosamente, Marco. Poi si maledisse. Dentro se rifletteva su quale fosse il miglior approccio, non voleva di certo sembrare uno stupido, ne comunque troppo serioso. Stava ancora ragionando su cosa sarebbe stato più opportuno dire quando la sua compagnia di viaggio gli disse «non ti avevo mai visto prima di ieri sull'autobus». «Beh si perchè in effetti non l'avevo mai preso a quell'ora; solitamente prendo quello prima» rispose; subito dopo, incuriosita, gli chiese come mai fosse salito di nuovo sullo stesso del giorno prima e vedendo come tentennava, senza saper cosa dire, capì che l'aveva fatto con la speranza di rivederla. Lo capì, la cosa la fece sorridere, ma lo tenne per sè. 
Tra qualche momento di imbarazzo e qualche domanda banale arrivò il momento di scendere per entrambi, alla stessa fermata. Marco la fece scendere per prima, lei lo ringraziò dicendogli «grazie! beh allora a domani, immagino ci rivedremo, no!?» conoscendo già la risposta; «beh si, direi di sì. Penso di si» rispose imbarazzato Marco. Sperava non sarebbe stata così chiara la sua intenzione. 
Mentre si stavano voltando uno in una direzione e l'altra in un'altra, gli venne in mente che non sapeva ancora il suo nome. Si affretto a chiederle «non so il tuo nome, come ti chiami?». Lei si voltò, sorridendo, e disse «te lo dirò domani. Buona giornata Marco». E proseguì, svanendo pian piano tra la calca di persone che attraversava l'incrocio. 
«Come diavolo conosce il mio nome!? sono più che sicuro di non averglielo detto!» si domandò. 
Non riuscendo a darsi una risposta riflesse su altro, su qualcosa che gli venne in mente sul bus. Rifletteva su come fosse strana la vita. La sua ordinarietà, la sua rigorosità e il suo ordine mentale gli avevano impedito, fino al giorno prima, di conoscere quella ragazza. Non gli era mai successo di perdere l'autobus, e l'unica volta che gli era capitato l'aveva incontrata. Si chiedeva se mai l'avrebbe incontrata se si fosse ricordato il progetto. Lui aveva convissuto per anni con l'odio per la monotonia della sua vita, ma mai aveva provato a cambiarla; si compiaque nell'aver l'ennesima conferma che l'uomo appartiene ad una razza estremamente imperfetta. Si lamentava, ma si lasciava trascinare dagli eventi, sempre più a fondo e con sempre meno forze per nuotare. 
Ma adesso aveva incontrato lei, una fascio di luce, una boccata d'ossigeno puro, una speranza. 


Il vento, imbizzarrito, si divertiva a scuotere il tappeto di foglie che colorava i marciapiedi delle strade. Come improvvisamente animate da un flusso di umanità, le foglie, danzavano. Si rincorrevano e si allontanavano al ritmo delle folate, si spostavano un pò qua e un pò là. 
Un piccolo foglietto bianco si fece strada in pista, voglioso di sfoggiare le sue doti, non inferiori a quelle delle foglie. Dolcemente si dimenava, richiamava l'attenzione delle sue concorrenti, quasi a sfidarle. Il piccolo pezzo di carta, determinato in ogni suo singolo movimento, ora era in alto, sopra gli alberi. La città sotto di lui era indifferente. Lo spettacolo che stava mettendo in mostra non destò particolare attenzione, ma lui, come ogni artista che si rispetti, non avrebbe tolto un briciolo di attenzione fintanto che, in seguito, terminò la sua prestazione. Nessun applauso, nessun riscontro positivo, nessun apprezzamento, nessuna dimostrazione di attaccamento. Ma d'altronde era un foglio come gli altri, e come tale, decise di lasciarsi portare dal vento, ovunque il piacere di Eolo avrebbe deciso. 
Assecondando il movimento delle correnti d'aria, la scritta sul foglio pareva ondeggiare, cambiando la sua stessa essenza a seconda della forma che il pezzo di carta assumeva, ma alla fine era sempre quella, una parola, un nome: Sara.
 
   
 
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