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Autore: TheHellion    12/04/2019    0 recensioni
"Mitiya mi piace, mi piace tanto, ma sul serio lo amo?
Ho paura di pensare la risposta che conosco, che ho dentro da giorni ormai, perché, come dice lei, amare una persona spezzata è un rischio gigantesco che non ho mai corso."
Cassie Dawson gestisce un negozio di vestiti di seconda mano assieme a sua madre a Townsend, una piccola cittadina del Tennessee, all’ombra delle Smoky Mountains.
Ha accettato la tranquillità di una vita sempre uguale a sé stessa, anche se spesso si trova a sognare l’ignoto che c’è oltre le montagne. Non può pensare che questo varchi la porta del piccolo esercizio commerciale in un pomeriggio autunnale e si presenti con il nome di Mitiya Kurzinik.
Mitiya è un ex trapezista di origini ucraine con un passato misterioso alle spalle, che non si fa problemi a sfidare l’immobilità e il pregiudizio della cittadina di montagna, conquistando poco a poco il cuore ferito e disilluso di Cassie, senza rendersene conto.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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1

Non so da quanti anni vivo qui a Townsend, ma ho le Smoky Mountains come panorama di tutta la vita. Le guardo tutte le mattine, quando esco di casa, sempre contornate da nubi pallide, come se avessero sciarpe e cappelli. Le pareti rocciose e spoglie contrastano con la folta vegetazione della valle  che circonda le case isolate. Vecchie case coloniali, ville a cui non è più stata fatta manutenzione.  I loro abitanti sono tutti o vecchi o famiglie povere a cui non può fregargliene di meno delle pareti smaltate e degli infissi ben ristrutturati. La crisi ci ha messo in ginocchio qui, nel Tennessee, non che le cose fossero migliori prima, ma adesso è ancora peggio.
Mia madre dice che per noi è meglio. Più straccioni ci sono, più clienti abbiamo, ma io non sono mai stata così materialista. Preferirei che tutti avessero soldi per comprarsi abiti nuovi e vorrei avere solo clienti amanti del vintage tra queste mura.
Invece siamo pieni di persone che vengono a comprare abiti smessi per i figli, per loro stessi. Gente buona, affabile, che ha avuto la sfortuna di nascere in queste splendide valli e non ha mai potuto lasciarle.
Spesso mi raccontano la loro storia, lamentandosi di quanto piaccia alle autorità non fare assolutamente niente per sistemare le cose. La politica è in mano ai ladri, è la frase che sento dire più spesso. Promettono tanto e nessuno mantiene la parola data. Non è una novità. È così da tutte le parti.
D’altronde chi, arrivato a un buon punto della gerarchia, si curerebbe di chi è più sfortunato di lui? La risposta è: nessuno.
Bastano i soldi a cambiare la gente.
Ho visto figli dimenticarsi dei loro genitori e fratelli abbandonare il sangue del loro sangue alla miseria, una volta arricchiti. Ho dei cugini che sono andati a nord, a New York, Boston, Augusta. Hanno studiato, hanno trovato un buon lavoro e si sono riempiti le tasche. Ora che hanno una vita agiata, vengono quaggiù una volta ogni tre o quattro anni, giusto per mostrare a noi poveri sfortunati quanti passi abbiano fatto in avanti. Macchine di lusso, vestiti griffati, sorrisi da star, ma con il marcio dentro, quello delle radici che hanno tagliato, senza ammetterlo.
Il suono della campanella sopra la porta mi fa sollevare il capo di scatto e mi distrae dai pensieri rabbiosi che hanno guidato la mia mano a scarabocchiare linee confuse sul bloc notes davanti a me. Lo nascondo, lanciandolo sullo sgabello di legno che si trova alle mie spalle e sorrido al cliente che è appena entrato dalla porta. È un signore mezzo pelato che viene spesso nel nostro second hand, compra sempre le solite camice a scacchi e mi regala qualche sorriso.
«Ciao, Cassie» mi saluta. «Sei sempre più bella.»
Gli faccio l’occhiolino e mi sporgo sul banco liscio e consunto.  «Sono sempre uguale, Mitch, ma il complimento me lo tengo» sorrido, accennando poi con una mano alle camicie. «Me le hanno portate ieri. Ti faccio metà prezzo se ne prendi due» gli dico.
«Se lo viene a sapere tua madre…» mi dice, avvicinandosi agli appendiabiti da cui pendono le camicie. Una delle sue mani ruvide scorre la manica pesante e lo vedo annuire soddisfatto. «Sono quasi nuove.»
«Come tutto qui. La roba la scelgo io» gli faccio sapere per l’ennesima volta, come se fosse una cosa nuova.
«Non per criticare tua madre, ma è meglio così.»
Rido appena a quello che mi ha appena detto e mi chino a prendere una busta sotto il banco.
«Ti dispiace se ti do una di quelle natalizie?»
Mitch si stringe nelle spalle, dopo essersi avvicinato al banco con gli attaccapanni appesi alle dita di una mano.  «Fa lo stesso, Cassie. Non ti preoccupare.»
Devo proprio smaltire tutto questo rosso.
Anche gli ultimi arrivi sono tutti rossi; sono i regali riciclati a Natale. Noi compriamo tutto, tranne l’intimo, anche se, capitemi, un maglione rosso con le renne non lo vuole nessuno, nonostante il freddo.  Mia madre insiste che va bene così e io non mi oppongo. Con lei non ha molto senso discutere su queste cose.
Mitch mi paga il dovuto; metà prezzo con un paio di dollari in più.
«Sono per te» mi dice con voce sommessa e accennò a me col mento.
Io annuisco e sorrido soddisfatta, prendendomi le monete che mi spettano e infilandole in tasca.
«Alla prossima, Cassie» mi saluta lui, prendendo la busta che contiene le due camicie dalle mie mani. «E salutami quella tirchia di tua madre» aggiunge.
«Non mancherò!» affermo a voce alta, mentre lui si avvicina alla porta del negozio, la apre e ne esce. Piove a dirotto, dannazione, e io non ho nemmeno preso un ombrello.
Imbroncio le labbra e poggio i gomiti sul banco, senza staccare gli occhi dall’esterno. Dovrei pulire la vetrina, ma con le piogge degli ultimi tempi non ha molto senso.
Visto il diluvio universale che Dio ha mandato a punire tutte le attività commerciali del centro, mi ritrovo a passare le successive due ore con me stessa. Non è una grande compagnia. Parlare con sé stessi è noioso perché se fai una domanda, sai già la risposta.
Sobbalzo al rumore della porta che si apre.
«Porca puttana!» esordisce la voce arrabbiata di mia madre, sovrastando il tintinnio della campanella. «Sta venendo giù il cielo.»
«Ma no, è solo pioggia» minimizzo io, sforzandomi di non ridere nel vederla zuppa dalla testa ai piedi. I capelli biondi sono scuriti dall’acqua e appiccicati sul suo viso. L’ombrello che tiene in mano è girato al contrario, con lo scheletro d’alluminio contorto, vittima del vento.
«Dovresti pagare gli ombrelli più di cinque dollari, mamma. Sai che quelli pieghevoli fanno schifo.»
Lei mi scocca un’occhiata tagliente che mi fa sorridere. «Era carino» si giustifica.
«Ma non valeva niente.»
«Trovami un oggetto a poco che vale qualcosa e ti do un premio» dice mentre si sfila il giubbetto fradicio e lo appende all’attaccapanni fissato al muro del retrobottega. I suoi passi sono veloci e pesanti, un po’ come il suo respiro.
«Come è andata?» mi chiede.
«Oggi uno schifo, ma’. C’è stato Mitch, quello delle camicie, un paio di persone stamattina, ma nessun altro. Con questa pioggia non si muoverebbe nessuno.»
Mi siedo sullo sgabello e chino le spalle in avanti. Sono stanca anche se non ho fatto molto. Forse è colpa di tutte le ore passate al pc, la sera. Dovrei regolarmi con quelle serie TV; Netflix sarà la mia rovina.
Mi accarezzo la base del collo e sospiro. «Andiamo a casa prima?»
«Sono arrivata adesso e già torniamo a casa?»
«Perché no?» protesto, imbronciando le labbra.
«Perché no» e con il mento accenna alla porta del negozio. C’è qualcuno oltre essa, un tipo incappucciato con un bambino in braccio. Ha un grosso borsone che pende dalla spalla.
Lascio il retro del bancone per aprire la porta e mi faccio da parte, lasciandoli passare.
«Prego!» lo invito, accogliendolo con un bel sorriso. Niente di personale, è il mio lavoro.
Lui si affretta ad abbassare il cappuccio, scoprendo i capelli castani, corti, disordinati e bagnati. Alcune ciocche scendono sulla fronte. Ora che lo vedo bene, il suo sorriso fa impallidire il mio e rende il suo volto ancora più bello.
Cavolo, è dannatamente bello.
Quel velo di barba, quegli occhi azzurri circondati da delle rughe d’espressione che non invecchiano il suo viso, ma lo valorizzano.
Bene, grazie Dio. Oltre al diluvio universale hai fatto piovere un bell’angelo tutto per Cassie.
Cassie, pensa, mi dico subito dopo all’interno della mia mente. Quest’uomo ha tutta l’aria di avere più di quarant’anni e soprattutto ha un bambino in braccio, non lo conosci e per quello che sai, potrebbe essere più stronzo di Bryan.
Non che già avessi fantasticato su una notte di sesso sfrenato, ma il faccino rotondo e gli occhioni spaventati del piccolo in braccio allo sconosciuto, smorzano ogni strana fantasia sul nascere. Sorrido al bambino e lo saluto con il cenno di una mano.
«Ciao!» gli dico, ma lui nasconde il viso, premendolo sul petto dell’uomo.
«È un po’ timido» dice lo sconosciuto. Ha una bella voce e un accento del nord che mi fa impazzire. È uno yankee? No, sembra più uno di Boston.  Conoscevo un ragazzo di lì e parlava allo stesso modo.
«Poverino, è comprensibile. Mia figlia ha una voce che squilla peggio delle sirene della polizia» si intromette mia madre. La battuta fa ridere lo sconosciuto in un modo così naturale e cristallino, che Dio, lo fisserei fino alla fine dei tempi.
Quanto è bello il mio lavoro quando entra un bel faccino. Bel faccino, insomma, bello tutto.
Cassie non farti beccare con lo sguardo avido su di lui, mi dico più volte, mentre mi preparo a chiedergli sempre la solita cosa.
«Posso esserle utile?»
«Sì, ma non le rubo troppo tempo, signorina. Vorrei solo sapere dove posso trovare dei vestitini per lui. Ha due anni e tre mesi» chiede lui, con un’educazione che me lo fa apprezzare ancora di più. La sua voce scorre sulle parole pacata, anche se il tono è piuttosto acuto. «Pensavo fosse più caldo e non ho portato abiti adatti.»
«Venga con me» gli dico, mentre percorro la breve distanza che mi allontana dall’espositore sgangherato da cui pendono maglioncini, camicie e pantaloni per i bambini dai due ai cinque anni. «Se li vuole far provare a suo figlio, c’è un camerino laggiù.»
Tendo il braccio verso la tenda nera spostata sullo spazio angusto che rappresenta il nostro angolo di prova. Lui annuisce e mi rivolge un sorriso così luminoso che mi sento quasi sciogliere. Oh, ma quanto sei carino, vorrei dirgli, poi mi ricordo che devo mantenere un minimo di professionalità.
«Grazie. Lei è molto gentile» mi dice.
«Si figuri, è un piacere» sorrido in maniera più convinta che professionale, annuisco e mi allontano da lui, compiendo un passo all’indietro, prima di voltarmi. Torno dietro il banco, a fianco di mia madre.
La musica country che esce dallo stereo vecchio come il cucco posato vicino alla cassa, copre il bisbiglio di lei al mio orecchio. «Lo guardavi come se volessi mangiartelo» mi dice.
Aggrotto le sopracciglia e mi volto verso di lei. Il sorriso, il sopracciglio alzato e lo sguardo sottolinea il fatto che mi stia prendendo in giro.
Non credo sia il caso di discutere con lei, perciò sposto la mia attenzione sul nostro cliente che ha preso due maglioncini dall’espositore e un paio di pantaloni di jeans. Li ha avvicinati alle manine del figlio.
«Ti piace questo rosso?» gli ha chiesto e il bambino ha annuito.
Lo guardo baciargli la fronte e mi viene spontaneo sorridere addolcita.
Non usufruiscono del camerino e lo sconosciuto appoggia i tre pezzi sul banco. Mamma fa il conto e io mi prendo la libertà di fare l’occhiolino al bambino che mi fissa. Ah, ma allora sa sorridere anche lui, ed è carino quando lo fa, prima di tornare a nascondere il faccino contro il petto del padre. Sì, è il padre, visto che prima non ha obiettato quando gli ho detto che il piccolo era suo figlio.
L’uomo infila una mano all’interno della tasca dei jeans, mentre mia madre fa il conto.  «Sono diciassette dollari, ma facciamo quindici.»
Mia madre che arrotonda in difetto è un evento, visto quanto è tirchia. Probabilmente lo sconosciuto ha fatto colpo anche con lei.
«Sicura, signora?» domanda  lui. «Non…»
«Ho avuto una figlia prima di lei e so quanto questi cosini adorabili costino. Cagano di continuo, crescono e sempre di continuo cambiano gli abiti.»
Lo sento ridere e rido con lui, anche se mia madre mi ha appena detto che all’inizio della mia vita sono stata un distributore automatico di cacca in crescita.
«Se è lei sua figlia, ne è valsa la pena.»
Che stronzo che sei. Non puoi tirarmi questi colpi bassi e pretendere che io rimanga tutta intera.
«Perché lei non la sopporta con lo stereo tutto alto, mentre canta più stonata di una campana rotta» racconta mia madre, mentre piega il maglioncino rosso.
«Io non sono stonata» protesto. «Sono diversamente intonata.»
E lo faccio ridere di nuovo.  Ah, che bello che è.  Peccato che torna subito serio.
«Posso chiedervi una cosa?» domanda.
«Certo» rispondo io. Qualsiasi, aggiungerei, ma mi pare troppo.
«Ho bisogno di trovare una sistemazione a poco per una decina di giorni. Sapete indicarmi qualche posto?»
Assottiglio lo sguardo e lo sposto verso un punto indefinito passando in rassegna mentale tutti gli hotel, i bed & breakfast e i motel della zona col pensiero.
«Sì, ce n’è uno a trecento metri da qui. Si chiama Lily Stand.  Non è di tante pretese ma almeno è pulito» gli dico, anticipando mia madre. So che anche lei stava per proporre il Lily, visto che appartiene a una nostra grande amica e sta letteralmente a due passi da casa nostra.
«Grazie. Lei è molto gentile, signorina.»
«Lei lo è più di me, signor…?»
«Oh, Mitiya, mi chiamo Mitiya Kurznik» si presenta, tendendomi la mano che stringo immediatamente. Le dita sono rese ruvide dai calli, sono lunghe e stringono le mie saldamente.
«È un piacere, signor Kurzink. Io sono Cassie Dawson e lei è mia madre, Barbara.» Dio, spero di aver pronunciato bene quel cognome così difficile. Non sono abituata agli stranieri, specialmente agli europei.
«Mi chiami Mitiya.»
Annuisco sorridendo, tutta contenta, mentre mia madre tende una mano verso di lui. «Anche se sono più vecchia di entrambi, non voglio farmi rubare la scena» dice, facendolo sorridere.
È bello, gentile e ha uno splendido nome. Mi sono sempre piaciuti i nomi russi, anche se, forse, dal cognome potrebbe essere ucraino. Lo ammetto, ho la fissa per le origini dei nomi, non posso fare a meno di analizzarli.
Mitiya stringe la mano di mamma  e lei gli pone un’altra domanda. «E suo figlio? Come si chiama?»
«Dorian» risponde lui.
«Da dove venite?»
«Mamma, non fargli il terzo grado, su.»
Lui accenna un sorriso e si rivolge a me. «Non si preoccupi, signorina Dawson. Mi fa piacere che qualcuno me lo chieda. Amo parlare e ho tempo, visto quanto sta piovendo là fuori. Qui è riscaldato, almeno.»
Sistema meglio il bambino nella stretta del braccio e si schiarisce la voce. «Sono nato a Boston, ma i miei genitori sono originari di Odessa.»
«In Ucraina, vero?» domando io.
«Sì. In Ucraina, ma quando loro se ne sono andati, era ancora parte dell’URSS» spiega Mitiya.
«Dal Massachusetts al Tennessee? Come le è venuto in mente?» chiede, quasi sconvolta, mia madre. «Quaggiù si muore di fame.»
«Sono di passaggio. »
«Dove è diretto?»
«Cristo, mamma, vuoi allentare il tiro? Stai dando i nervi a me, figuriamoci a lui» sbotto. Non l’ho mai sopportata quando si impiccia così tanto della vita delle persone.
«Non lo so ancora, a dire il vero. Sono appena uscito da una situazione spiacevole e ogni luogo va bene.»
A questo punto scocco un’occhiataccia a mia madre, perché la conosco e so che cosa vorrebbe tanto fare. Vorrebbe chiedergli altre cose.
«Potrebbe sistemarsi qui. È un posto tranquillo, piccolo, sotto le Smoky Mountains. Abbiamo una bella cornice» gli propone, mamma. Non può proprio stare senza parlare, dargli tregua. Questo suo interrogatorio è una sorta di rodaggio per tutti i nuovi clienti. Chi resiste e non la manda al diavolo, di solito si lega a noi per tutto il tempo che passa in zona.
«Mai dire mai. Sono arrivato oggi, devo ancora rendermi conto di com’è Townsend.  Ma dalle prime persone con cui ho parlato, mi sono costruito delle aspettative.»
Lo sguardo dei suoi grandi occhi azzurri si ferma prima su di me, poi sulla mamma.
«Non vada dal bar di Buddy, quello qui vicino, altrimenti cambierà subito idea su Townsend» lo mette in guardia lei.
«Perché?»
«È un bastardo che ha votato Trump nel 2016» dice lei, abbassando il tono di voce. «Ma è anche un grandissimo stronzo. Stia alla larga.»
Mamma ha ragione. Buddy è un vecchio rompipalle che detesta tutti quelli che non sono di qui. Quando c’era papà, lo tormentava perché era di Baltimora e aveva l’accento del Maryland.  E non erano scherzi, giochi di parole innocenti i suoi. Erano cattiverie belle e buone da sudista stronzo.  La guerra di secessione non è mai finita da queste parti piene zeppe di ignoranti che reputano ancora la gente del nord un gruppo di checche ipersensibili.
«Peccato. L’avevo adocchiato poco fa, ma se mi dite così, evito. Dove posso andare a mettere qualcosa sotto i denti? È quasi ora di cena.»
«Qui, proprio a fianco a noi. Robert Chimney ha un localetto di cibo sano, non il solito fast food spappola – fegato» gli dice mia madre.
«Il cibo sano costa e io sono a corto di soldi, signora» replica lui, dipingendo il viso di un’espressione costernata, mentre raccoglie la busta con i vestitini dentro.
«Cassie, accompagnalo tu da Robby e digli che se lo spenna, io spenno lui.»
Mamma mi spaventa da morire quando non è sé stessa fino a questo punto. Di solito c’è sempre un motivo sotto e stavolta non riesco proprio a rintracciarlo. Mitiya è sicuramente più giovane di lei, quindi non lei interessa. Forse è il bambino? Sì, sicuro, perché lei ama i bambini. È un po’ taccagna, leggermente impicciona, ma quando si parla di bambini si scioglie come neve al sole.
«Agli ordini, capo» le dico, prima di entrare nel retrobottega e prendere il giaccone e un ombrello, il mio, quello che custodisco gelosamente, visto che mamma rompe tutti quelli che tocca.
Prendo la borsetta e, sicura di me, come solo una negoziante dalla nascita sa fare, aggiro il banco e affianco il mio cliente in difficoltà.
Do un rapido sguardo all’esterno, oltre la vetrina. Non sembra che piova più tanto. Anzi, pare abbia smesso.
«Approfittiamo?» dico a Mitiya che non mi risponde a voce, ma annuisce.
«Grazie, signora Dawson.»
«Barbara» lo corregge mamma.
«Barbara» ripete lui, accennando con il gesto del capo.
Sono la prima a uscire dal nostro second hand, facendo suonare la campanellina al mio passaggio. Vedo, con la coda dell’occhio, che il piccolo Dorian ha alzato il capo verso l’alto. Il padre gli dice qualcosa in russo che io ovviamente non comprendo. Guardo alle pozzanghere sul marciapiedi dissestato e crepato. Non c’è nessuna goccia a incresparle. Ha ufficialmente smesso di piovere e io posso evitare di aprire l’ombrello. C’è un vento freddo, però, che mi fa rabbrividire. Una ciocca di capelli biondo scuro sfugge dalla coda di cavallo che porto sempre, mentre attraverso la stradina che ci separa dal locale di Robert. La Chimney Rodhouse offre maggiormente piatti a base di carne fresca, proveniente dalle fattorie del circondario. Non è un luogo esattamente economico, per la spazzatura c’è Buddy o il Burger King a un paio di isolati da qui.
Ci sono un paio di persone in giro, gente che conosco di vista e che mi saluta.  Il bello di essere una negoziante è che non c’è bisogno di conoscere bene una persona per meritarsi un sorriso o un saluto. Io sono quella del second hand, quella dei vestiti. Sono una sorta di autorità.
«Lei è famosa» me lo fa notare anche Mitiya.
«Io? Ho un negozio.»
«E avere un negozio porta a così tanto rispetto?»
Scuoto il capo e alzo le spalle.
«No, non è rispetto. È solo... abitudine. Siamo quelle dei vestiti. La maggior parte di loro non sa nemmeno come mi chiamo.»
Lui rimane in silenzio anche quando entriamo all'interno del locale di Robert.
L’odore di cibo mi riempie le narici e scatena un po’ di quella fame che ignoro ormai da un po’. Mi sa che si è fatto tardi.
Mi fermo davanti al banco e suono la campanellina poggiata lì sopra, in modo da richiamare Rob che sicuramente sta lavorando in cucina. Non ha aiutanti e a quest’ora ha sempre un sacco da fare.
Sento protestare il piccolo Dorian, molto probabilmente perché qui dentro fa un caldo insopportabile e c'è un sacco di gente che parlotta, creando un brusio fastidioso.
«Si è spazientito» spiega Mitiya, mentre cerca di calmare il bambino, dandogli un bacio sulla fronte.
Invece di premere il tasto della campanella, ci do un pugno che ne fa uscire un rumore sordo.
«Arrivo!» grida la voce di Robert, prima che i suoi passi trascinati diventino percettibili.
L'uomo raggiunge con calma il retro del banco. È un bell'uomo, peccato che la barba brizzolata si sia conquistata troppo spazio sulla sua faccia. Ha gli occhi azzurri, i capelli folti, ricci e lunghi fino al mento.
Dice di no, ma mia madre ha un debole per lui da non so quanto tempo. Da ragazzina non me ne accorgevo, ma adesso che sono grande so riconoscere uno sguardo complice.
«Cassie!» mi saluta, tutto contento. I baffi folti cercano di coprire il suo sorriso ma non ci riescono. «Vieni per la cena? Ho appena arrostito un'ottima lombata.»
«Più tardi, Rob. Sono sicura che mia madre gradirebbe, ma ancora è presto.»
Mamma preferisce prendere la roba appena tolta dal fuoco, così è calda e non dobbiamo rovinarci ad accendere la cucina o il forno. Né io né lei siamo grandi cuoche, in effetti.
«Ho accompagnato qui un signore che mi ha chiesto dove si mangiava bene. E io ho pensato subito a te» dico, sorridente, ma mi accorgo che Robert sta squadrando Mitiya dall’alto al basso, mentre le sue labbra perdono il sorriso.
«Certo. Che cosa le servo?» chiede, sforzando di essere cordiale.
«Potrei vedere il menù?» domanda educato Mitiya.
Robert appoggia il palmo della mano sulla fronte. «Mi scusi, ha ragione. Si accomodi pure a uno dei tavoli.»
Dall’espressione di Mitiya capisco che c’è qualcosa che non va. Sono sicura che si sia accorto del modo in cui lo guarda Robert e il novanta percento della gente del locale. Sono tutte persone di qui, made in Tennessee, e quando sentono qualcuno con un altro accento, drizzano subito l’orecchio. In questa città dimenticata da Dio passano pochi turisti e di solito non si fermano a mangiare in un locale come quello di Rob, perché preferiscono i fast food.
Seguo Mitiya con lo sguardo mentre si siede al tavolo più vicino al banco e sistema il piccolo Dorian sulle gambe. Il suo sorriso cerca di essere splendente come sempre, ma è adombrato da un po’ di amarezza.
«Sicura che ha i soldi per pagarmi?» chiede Rob sottovoce.
«Pago io se non bastano i suoi. Fagli un prezzo di favore, poi al resto ci pensiamo noi.»
Lui mi guarda perplesso. «Da quando Barbara spende i suoi soldi per uno sconosciuto?»
«Da quando c’è un bambino piccolo che sicuramente ha fame. Sai com’è fatta, no?»
Robert annuisce e sospira sconfitto. «Va bene. Sistemiamo quando passate per cena.»
Non sia mai che tu fallisca per qualche dollaro, vorrei dirgli, ma lascio perdere e raggiungo il tavolo dove si è sistemato Mitiya.
«Grazie» mi dice, mentre slaccia l’impermeabile che copre il bambino.
«Si figuri. Se posso dare una mano, mi fa piacere.»
Do un rapido sguardo al menù che conosco a memoria. «Le costine. Non se le perda, perché sono la cosa più grassa e condita del menù.»
Lui mi guarda perplesso, anzi, mi squadra proprio. «Una ragazza che mi consiglia le costine?»
Rido al suo tono interrogativo. «Oh, e questo è la cosa più magra che ingurgito.»
Ridiamo insieme prima che io annuisca e mi dia un’occhiata attorno.
«È meglio che vada adesso. Non posso lasciare mia madre da sola, perché rischia di fare troppi danni.»
Lui accenna un sorriso, anche se debole. Sembra che i suoi occhi vogliano rifuggire dai miei. Forse devo smetterla di stargli col fiato sul collo e lasciarlo in pace.
«Ci vediamo in giro» lo saluto, facendo un passo indietro, prima di voltarmi e prendere la direzione che mi porta all’uscita.
«A presto, Cassie» mi risponde lui, quando sono quasi arrivata all’ingresso. Mi volto a rivolgergli un cenno con la mano e mi accorgo che è tornato a sorridere come prima. Mi dispiace lasciarmelo alle spalle, quando la porta si chiude dietro di me. L’ombrello che ho agganciato al polso dondola a ogni passo, mentre percorro la strada che separa il locale di Rob dal nostro second hand con le mani infilate nelle tasche.
Una volta rientrata trovo mia madre che chiacchiera con un paio di signore del posto; amiche sue. Le saluto cordialmente e torno dietro il banco.  Ascolto i discorsi sulle tragedie amorose di questo e di quello, dopodiché mi distraggo, prendendo in mano il cellulare. Cedo alla tentazione di aprire l’applicazione di Facebook e scorrere la home, così, tanto per noia. Quello che vedo non mi piace per niente; ho ancora l’amicizia del mio ex che spamma foto di lui e la sua nuova fiamma a profusione. Loro due insieme in un locale, loro sul letto, mezzi nudi, con una frase filosofica come didascalia del tipo : “se è vero che un uomo vive due volte, la seconda è migliore al tuo fianco”. Loro due in macchina, loro due con il cane – povero animale, capisco perché ha quel musetto intristito. Insomma, loro due, sempre e comunque.
Non sono gelosa, sinceramente. Bryan era un coglione di prima categoria, uno di quelli che ti promette il mondo e quando le cose si fanno serie taglia la corda più velocemente di Flash.
Però vederlo mi dà fastidio, anche perché ho sprecato anni a stargli dietro. Era il mio fidanzatino alle superiori e me lo sono portato dietro per tredici anni. Tredici anni su trentuno, sono quasi mezza vita sprecata a fianco di un essere del genere.
Anche se ho mille e novecento amici, non c’è nessuno con cui mi va di chattare al momento, così mi occupo un po’ di tempo a guardare cagnolini e gattini ripresi in atteggiamenti buffi o  dolci. Sono quelli il bello di Facebook, anche più degli uomini con gli addominali di fuori. Ho la nausea ogni volta che li vedo, non perché non siano belli o che non li gradirei dal vivo, ma perché me li propinano in tutte le salse. C’è una mia ex compagna di scuola che ne mette uno al minuto.
Dopo aver scorso la home distrattamente per qualche minuto accantono il telefono e punto lo sguardo annoiato fuori.  Cavolo è tardi e ancora queste due non se ne vanno. Mi volto a guardare mia madre, chiedendole pietà con lo sguardo.
Lei annuisce, anche se non si volta verso di me, fingendo di ascoltare il discorso di una delle due.
«Va bene, ragazze. Sono le otto passate, devo chiudere tutto a cena» cerca di liquidarle.
«Che cosa cucini?» le chiede una, quella più in su con gli anni. Le vedo tutti i giorni e le ignoro talmente tanto da non ricordarmi nemmeno il loro nome. Kelly e Rory? Mh, forse no. Cip e Ciop, come le chiamo di solito, va più che bene.
«Ci fermiamo da Rob prima di tornare a casa.»
Cip e Ciop si scambiano un’occhiata che non mi piace per niente. Scommetterei un rene che una volta uscite di qui, inizieranno a sparlare di mamma e Robert, raccontando una versione fantasiosa di quella semplice frase.
Alzo lo sguardo verso il soffitto e schiudo le labbra quando sento la campanella della porta, seguita dal rumore della chiusura dell’infisso. «Grazie a Dio» esclamo. È finita un’altra giornata.
   
 
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