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Autore: TheHellion    12/04/2019    0 recensioni
"Mitiya mi piace, mi piace tanto, ma sul serio lo amo?
Ho paura di pensare la risposta che conosco, che ho dentro da giorni ormai, perché, come dice lei, amare una persona spezzata è un rischio gigantesco che non ho mai corso."
Cassie Dawson gestisce un negozio di vestiti di seconda mano assieme a sua madre a Townsend, una piccola cittadina del Tennessee, all’ombra delle Smoky Mountains.
Ha accettato la tranquillità di una vita sempre uguale a sé stessa, anche se spesso si trova a sognare l’ignoto che c’è oltre le montagne. Non può pensare che questo varchi la porta del piccolo esercizio commerciale in un pomeriggio autunnale e si presenti con il nome di Mitiya Kurzinik.
Mitiya è un ex trapezista di origini ucraine con un passato misterioso alle spalle, che non si fa problemi a sfidare l’immobilità e il pregiudizio della cittadina di montagna, conquistando poco a poco il cuore ferito e disilluso di Cassie, senza rendersene conto.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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3

 
Sono le sette e mezza quando metto il piede destro a terra. Lo faccio sempre quando c’è qualcosa che deve assolutamente andare bene durante la mattinata che mi aspetta. È un gesto scaramantico, un gesto sciocco, che non ho mai abbandonato.
Disattivo la sveglia del telefono che in caso contrario l’avrebbe fatto squillare dopo una mezzora. Apro i cassetti per tirare fuori i vestiti più carini che ho. Ok, la camicetta nera è un po’ troppo leggera per la temperatura di oggi, ma non mi importa. È carina.
I pantaloni di jeans neri mi stanno ancora per miracolo ma fanno la loro figura, come gli stivaletti di cuoio a punta.
«Hai ufficialmente riaperto le selezioni?» mi chiede mamma che è già in cucina e io rido, invece di incazzarmi.
«No, oggi mi sono svegliata presto e ho avuto tempo di trovarmi un vestito diverso. Niente di così eclatante.»
Nemmeno io ci credo alle sciocchezze che dico, infatti sposto subito lo sguardo da quello di mamma e mi concentro sulla tazza di latte con i corn flakes dentro. Di solito consumo tutto nel giro di due secondi, ma adesso me la prendo con calma. Immergo il cucchiaio che giro e rigiro nella tazza mentre penso.
«Ho fatto la finta tonta, ma ti ho sentita ieri» mi fa notare di punto in bianco. Quasi mi strozzo con i corn flakes.
«Che hai sentito?»
«Stavi parlando con qualcuno che si trovava dalla finestra. Le finestre davanti a quella di camera tua sono quelle del Lily Stand e nel Lily Stand alloggia un solo ospite in questo periodo.»
Mordo il labbro inferiore perché sto per dire una bugia. «Mitiya non c’entra niente. Ho preso questi vestiti perché mi è venuto in mente stanotte, visto che ho sognato la nipote di Betty.»
E quei vestiti li ho comprati proprio per il primo compleanno di quella bambina.
«Ah, un sogno rivelatore.»
Mi sta prendendo in giro, ma io non ho voglia di darle corda. Niente deve rovinarmi la giornata; oggi sono di buonumore. Per questo mi concentro su i corn flakes che sono raddoppiati di dimensione all’interno della tazza, perché hanno assorbito tutto il latte.
***
Ogni tanto guardo l’ora, spostando gli occhi sull’orologio appeso al muro alla mia destra. Sono quasi le undici e Mitiya non si è ancora fatto vedere.
A pensarci bene, ieri non mi ha detto quando sarebbe venuto di preciso in negozio. Forse potrebbe andare a finire a oggi pomeriggio.
Dovrei pensare a qualcosa di diverso, visto che quest’attesa mi sta mettendo ansia e fa scorrere il tempo più lentamente del solito. I minuti sembrano ore.
Ovviamente la clientela non contribuisce a rendere il tempo più apprezzabile. Da un paio d’ore – non sto scherzando né esagerando – la signora Shirley delle mercerie sta facendo la telecronaca a mia madre di come una loro amica comune si sia innamorata di un giovane infermiere e sia scappata abbandonando i figli.
È una cosa ridicola.
Anche se Carl è Missy Dreven sono due bambocci, sono più grandi di me e possono benissimo cavarsela da soli. Quella donna aveva diritto di farsi una vita dopo che il marito l’ha fatta soffrire per trent’anni ed è morto di cirrosi lasciandola sola con una marea di debiti da pagare.
Sembra che la libertà qui sia un crimine, un abominio.
Shirley parla di quella che era una sua amica come se fosse il demonio sulla terra, solo perché ha voluto essere felice con un uomo più giovane. Mia madre le dà ragione anche se non sembra molto convinta, ma io mi incazzo dentro, in silenzio.
Sospiro di sollievo quando vedo Mitiya oltre la porta da poco pulita del negozio. Indossa una maglia leggera che aderisce al suo corpo mettendo in evidenza un fisico piuttosto atletico. È fatto dannatamente bene. Le braccia, i pettorali, anche le mani sono stupende.
I pantaloni di denim chiaro, scolorito, sono stretti sulle gambe in un modo che…
Basta, Cassie, smettila. Sembri una ragazzina arrapata che non ha padronanza dei suoi stessi ormoni. Ormai hai superato l’età in cui potevi sbavare sugli sconosciuti.
Ritorna in te.
Sei la seria commessa di un second hand.
Che qualifica!
Ha portato suo figlio con sé e lo ha da poco fatto scendere dal suo abbraccio. Le piccole manine si sono premute sul vetro, mentre gli occhi azzurri e curiosi sbirciano all’interno.
Sento attutita dal vetro la voce di Mitiya che lo rimprovera e lo vedo chinarsi in avanti e poggiare una mano sulla piccola spalla di Dorian.
Il piccolo strilla, infastidito. Chissà che ha trovato di così bello all’interno del nostro negozio.
«Lo vedo da un paio di giorni da Lily. Chi è?» chiede la signora Shirley sottovoce, mentre Mitiya apre la porta, facendo suonare il campanellino.
«Vieni qui!» alza la voce dietro suo figlio che corre all’interno e si ferma davanti allo scaffale basso delle sciarpe colorate.
«Ciao» li saluto entrambi, lasciando il banco per raggiungere il piccolo. Mi accovaccio accanto a lui e cerco il suo sguardo col mio. «Ti piace?» gli chiedo, tirando fuori una sciarpa arancione.
«Gli piace il colore» mi fa notare, Mitiya. «Non sopporta le sciarpe. Ogni volta che gliele metto, se le toglie e le lascia in giro.»
Rido e gli accarezzo una guancina rotonda, prima di poggiare le mani sulle cosce e tornare in piedi.
«Mi hai salvato» dico sottovoce, spostando lo sguardo su quello di Mitiya. Lui sorride e si dà un rapido sguardo in giro.
«Perché?» mi chiede, anche se dall’espressione è chiaro che abbia già la sua risposta.
Con un cenno del capo appena percettibile indico la signora Shirley che sta parlando a voce bassa con mia madre. Sicuramente sta cercando di informarsi sul nuovo arrivato.
«Ah, ho capito» mi dice. «Mentre lavoravo all’insegna di Lily, ieri, non ha fatto altro che guardarmi da dietro la tenda» continua a voce alta. «Sono quasi certo di piacerle.»
Il borbottio di Shirley si spegne di colpo, costringendomi a lottare con una risata che vuole a tutti i costi uscire dalle labbra.
«Le serve una mano in casa, signora? Faccio riparazioni di ogni tipo, ma quello sicuro lo sa già» le dice, con naturalezza e la faccia da schiaffi di chi ti ha appena colto in fallo.
Lei lo guarda indignata e non risponde, prendendo a tormentarsi il labbro inferiore con i denti.
Mitiya la lascia in pace e, dopo essersi chinato, prende in braccio Dorian che non vuole saperne di stare fermo.
«Ieri mi hai detto che volevi chiedermi un favore» inizio io e lui annuisce.
«Sì. Sono a corto di tutto e ho bisogno di fare un po’ di rifornimento anche per lui» e accenna al bambino col mento. «Spero tu non ti offenda, perché so che siete tutti amici, ma il minimarket ha dei prezzi assurdi e vorrei andare al centro commerciale. L’ho visto quando venivamo qui con l’autobus.»
Annuisco.
«Ho chiesto a Lily se poteva darmi uno strappo» continua. «Ma lei mi ha detto che non ha la macchina.»
«Vuoi un passaggio?» gli chiedo, sorridendo. Mi mordo subito il labbro inferiore, perché non so se mamma è d’accordo a darmi la macchina, visto quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho guidato io.
«Sì. Mi salveresti la vita.»
Aggrottò le sopracciglia, prima di ridacchiare. «Per così poco?»
«Sono le piccole cose a salvare la vita di una persona.»
Quella frase mi colpisce davvero e mi toglie la parola per qualche istante. Mi limito a sorridere e alzare un palmo verso di lui, chiedendogli così di aspettarmi. Faccio un passo indietro e mi volto per raggiungere mamma fino al banco.
«Mitiya dovrebbe andare al centro commerciale e mi ha chiesto se posso dargli un passaggio. Mi dai le chiavi della Jeep?»
Cerco di apparire la più disinvolta possibile, come se quella richiesta fosse una cosa abituale, come se guidassi e mi spostassi tutti i giorni, ma sono tesa.
Mia madre mi guarda come se fossi un alieno disceso da chissà quale pianeta, dopodiché sposta gli occhi su quelli di lui.
«Ok» mi dice. «Va bene» e apre il cassetto dove infiliamo i soldi. La cassa è rotta e abbiamo adibito il cassetto con tanto di scompartimenti per monete e banconote, fatti rigorosamente di cartone dalla sottoscritta.
A fianco dei precari divisori c’è la chiave di plastica e acciaio della Jeep. La tira fuori e me la porge. Le mie dita si chiudono sull’oggetto lentamente, stringendolo nel palmo sudato della mano. Ho una fifa blu di mettermi al volante, ma farò di tutto per dissimularla.
«Stai attenta, Cassie» mi dice, sottovoce, mamma. Io non posso fare che annuire spavalda e tornare da Mitiya e Dorian.
«Andiamo?» gli dico.
Lui si è accorto che c’è qualcosa che non va, perché mi guarda un po’ perplesso. «Tutto ok?»
«Alla grande» esclamo, distendendo un braccio verso l’uscita del negozio. «Prego, signori.»
Il suo sorriso luminoso riesce ad allentare la morsa dell’ansia sulle mie membra e sul mio respiro. Esco dal negozio per prima, facendo pendere dal medio della mano destra le chiavi della macchina. Appena prese sembravano una patata bollente ma adesso sono un dettaglio utile.
Lui non mi raggiunge finché non ha salutato a dovere mia madre e la signora Shirley.
«Come ti trovi da Lily?» chiedo a Mitiya quando mi ha affiancato.
«Quella donna è diversa dalle altre persone di qui. È molto simile a te e tua madre» ammette, chinando appena il capo da un lato. «Mi piace.»
«Grazie del complimento indiretto» gli dico, sollevando un sopracciglio.
«Prego» risponde lui, distratto da un paio di signore in piedi dall’altra parte della strada che lo fissano come se fosse un omino verde. Non sono tanto vecchie, ma l’aspetto poco curato le fa sembrare megere.
«Siamo una cittadina di contadinotti che campano grazie al whiskey. Quando gli uomini sono al lavoro o ubriachi nei bar, loro non hanno niente da fare e perdono tempo a fissarti» gli spiego, calcando la mano libera nella tasca dei jeans neri che indosso.
«Ovunque è così. Ci sono abituato» mi dice lui, ridacchiando appena, mentre stringe più forte il figlio al petto.
«Davvero? Pensavo che al nord la gente si facesse gli affari suoi.»
«No, credimi. Non è tanto diverso, non per una persona come me.»
Dopo quelle parole lo vedo inspirare e spostare lo sguardo dal mio, come se si fosse accorto di aver commesso un errore. Decido così di non esternare la domanda che trattengo a fatica; non voglio farlo parlare di qualcosa che non vuole.
Arrivata a pochi metri dalla Jeep accelero il passo per raggiungere lo sportello del guidatore e sbloccare le chiusure che scattano con un rumore secco.
Dio mio, c’è il caos primordiale dentro questa macchina. I volantini che ci infilano sempre sotto i tergicristalli sono sparsi sul sedile del passeggero. Di solito sono io a prenderli, leggerli e lasciarli lì quando scendo. Anche la cartaccia delle patatine infilata nel vano vicino al freno a mano è opera mia. Dopo essere seduta la prendo e la appallottolo con un gesto il più veloce e discreto possibile, infilandola in tasca.
«Scusa il casino» dico mentre le guance diventano rosse come pomodori. Schiarisco la gola un paio di volte e tiro su col naso, mentre aspetto che lui si accomodi con il piccolo Dorian in braccio. Fatica parecchio ad allacciarsi la cintura, ma non mi chiede aiuto. Rimango qualche istante a fissare le sue mani ampie ma delicate. Non so perché mi piacciano così tanto.
Il rumore della portiera che si chiude mi risveglia dall’ipnosi e mi sprona a infilare la chiave nel quadrante della Cherokee.
Il motore ruggisce dopo qualche secondo; l’avviamento è un po’ faticoso perché la utilizziamo davvero molto poco. Imposto la D e mi scosto dal marciapiedi, imboccando così la strada che taglia a metà il nostro quartiere.
«È una splendida auto» osserva lui, accarezzando il cruscotto impolverato con la mano sinistra. «Spaziosa, comoda e indistruttibile. Ho imparato a guidare su una Cherokee.»
«Anche io» sorrido, cercando, con tutte le mie forze, di tenere l’attenzione fissa sulla strada. «Mi ha insegnato mia madre. L’istruttore di scuola guida aveva troppa paura.»
Lo sento ridere, sommessamente. Forse, guardandomi guidare per le poche centinaia di metri che abbiamo percorso si è accorto delle motivazioni di quell’istruttore malcapitato.
«Forse era un superstizioso. Molti hanno problemi con le donne al volante» dice, alla fine.
Mi è andata bene, perché non ha notato quanto sono rigida alla guida. La poca esperienza si vede tutta quando mi trovo dietro un vecchio trattore sulla strada che porta fino alla zona industriale/commerciale di Townsend. Un autista capace lo supererebbe, invece io gli sto dietro a costo di andare a venti miglia orarie.
Mitiya non mi dice niente. Continua a chiacchierare tranquillo, raccontandomi qualche aneddoto di quando ha imparato a guidare. Questo pazzo ha imboccato un’autostrada in senso contrario e ha percorso tre chilometri prima di accorgersene.
Si definisce un distratto di natura e quando lo dice, fa calare il silenzio tra noi, intervallato solo dal rumore dell’auto e quello roco del motore del trattore davanti a noi.
«Anche io sono un casino. Mi dimentico le cose con una facilità estrema» replico annuendo.
«Un conto è dimenticarsi, un conto è non notare.»
Mi stringo nelle spalle e sospiro sollevata quando finalmente il mezzo agricolo devia verso una strada più piccola che porta ai campi coltivati.
«Noti solo quello che vogliono farti notare» replico io, rispolverando un mio vecchio pensiero. «Il mio ex me lo diceva sempre: Tu non ti accorgi mai di ciò che desidero davvero. E io rispondevo: se tu non mi dici le cose, io non ho la palla di cristallo.»
Che intelligenza enorme, Cassie. Tirare fuori il tuo ex con un uomo che ti conosce a stento; come fare una pessima impressione parte uno.
Almeno sono riuscita a farlo ridere, anche se sommessamente. Tenetelo a mente, io sono un giullare prima di tutto.
«Era davvero così difficile notarli?»
Sollevo un sopracciglio alla sua domanda. «Non proprio. Il suo vero desiderio era fare sesso con una ragazza molto più carina di me. Quindi anche se l’avessi saputo, non mi sarebbe cambiato granché.»
«Quando è successo?» mi domanda.
Non mi va moltissimo di parlare di Bryan, ma ho tirato fuori l’argomento.
«Quasi un anno fa, ma sembra passata una vita. È incredibile quanto una persona possa cambiare in pochi mesi» dico, prima di voltarmi verso di lui, quando sono costretta a fermarmi al semaforo.
«Sì, dannazione» mi dà ragione, mentre sposta qualche ciocca di capelli biondi dalla fronte di Dorian. I suoi occhi blu si spostano poi verso il parabrezza, facendo perdere la mente in chissà quale pensiero.
Guido la vecchia Cherokee per i pochi chilometri che restano in assoluto silenzio e la parcheggio nel piazzale di cemento mezzo vuoto che si trova davanti al centro commerciale.
Ho sempre detestato questa struttura squadrata, grigia, appesantita da insegne luminose e non, ma oggi mi appare quasi carina.
Chiudo la Jeep a chiave e accompagno Mitiya all’entrata. Non voglio stargli col fiato sul collo mentre fa la spesa, non penso sia giusto, visto che ci conosciamo da così poco.
«Quando hai fatto mi trovi in macchina» gli dico, ma lui mi guarda perplesso, chinando appena il capo da un lato.
«Tu non vieni?»
«Io?» chiedo, spiazzata.
«Sì. Se mi dici dove trovare la roba facciamo prima.»
Il suo sorriso diventa un ghigno e il suo sguardo si assottiglia. «Dimmi la verità; odi i centri commerciali.»
«Li detesto» ammetto cristallina, «ma sono utili, necessari. L’unica opzione per non sfruttarli sarebbe ipotecare la casa per fare spesa da Betty e non è il massimo.»
Lo faccio ridere ancora, scoprendomi molto soddisfatta del mio operato.
«Ok, verrò, ma solo perché oggi mi sono ripromessa di salvarti la vita.»
Sospiro, e mi voltò verso la porta scorrevole che si apre automaticamente, lasciando uscire una sbuffata d’aria cocente.
Mi basta un passo all’interno per sentirmi in pieno clima equatoriale. La canzone di Ava Max cerca di coprire il brusio delle tante persone che popolano la galleria commerciale. Sia a destra che a sinistra ho vetrine di negozi di vestiti griffati, roba costosa, davanti alla quale io passo indifferente. Non è per le mie tasche.
Dorian inizia a chiacchierare per i fatti suoi, agitandosi tra le braccia del padre; se lo facesse scendere, correrebbe dappertutto.
Faccio strada fino all’entrata del vero e proprio ipermercato. Non è grandissimo; dicono che nelle gradi città come Nashville o Memphis ci siano palazzi interi dedicati ai centri commerciali. Dio, hanno già costruito la mia idea di inferno.
Sono io a sganciare un vecchio carrello di plastica dal deposito su cui troneggia una scritta di benvenuto. Sollevo un sopracciglio mentre scorro gli occhi sulle lettere. Avrebbero dovuto scriverci… com’era? Lasciate ogni speranza voi che entrate, una cosa così.
La musica che esce dagli altoparlanti dell’ipermercato è intervallata con la sfilza di offerte che la compagnia propone. La voce elettronica cerca di imporsi sul brusio che si trova all’interno del luogo affollato.
«È pieno» mormora Mitiya. Gli occhi azzurri sono spalancati sulla folla di gente che riempie le corsie che vediamo dall’entrata. Si volta poi verso le casse, alla nostra sinistra e alle code interminabili di gente col carrello pieno. «Non penso ne usciremo per cena.»
Io non trattengo una risata, perché è lo stesso pensiero che ho sempre io quando vengo qui con mamma.
«Dai, è solo la prima impressione. Ce la faremo» lo rassicuro. «È tutta questione di prospettiva. Una volta entrati sembra tutto più normale.»
Lui ride con me, perché se qualcuno prestasse attenzione a quello che ho detto, penserebbe che stiamo per andare in guerra.


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