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Autore: Gulash    12/04/2019    2 recensioni
Storia partecipante al contest “Lavoratori allo Sbaraglio” indetto da Laodamia94 sul forum di Efp.
Dal testo:
"... Dove sono i tuoi genitori?”
“Morti, qualche anno fa. Non so quanti, non li conto gli anni. E comunque io sto qua, ho deciso che è dove devo stare. Muoio di fame come loro”
Lo scricciolo di bimba non avrà più di sette anni ed ha già deciso di morire. Se Scar fosse un uomo normale proverebbe un moto di compassione, e troverebbe un modo per aiutarla, per toglierla dal terreno fetido della baraccopoli. Intorno a loro, giovani e vecchi ishvaeliani si agitano a recuperare i pochi beni che posseggono, colmi di speranza per quell’inaspettato ritorno alla loro terra natia.
“Non la vuoi vedere Ishval?”
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Scar
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angolo Gulash:
senza stare ad ammorbare troppo su questa fict, una veloce spiegazione. FMA Brotherhood è la perfezione fatta e finita (sfido chiunque a nominarmi una qualsiasi opera fantasy così priva di vuoti di trama e così brava a costruire personaggi, anche quelli secondari). Quindi, ecco, questo è il mio grossolano tentativo di fare una fict su Scar, perchè mi odio e devo per forza rendermi la vita difficile. La maggior parte della fict prende piede dopo gli eventi del manga, una parte appena dopo, quando gli ishvaeliani tornano a casa, ed un' altra anni ed anni dopo (oddio, spero non sia confusionario). 
La fict è stata scritta per un contest. Spero che Scar non risulti particolarmente OOC, nella mia testa aveva più o meno senso farlo muovere e parlare in questo modo, ma se così non fosse posso benissimo introdurre l'avvertimento. 
Di Ishval mi sono inventata un booootto di roba: per lo più cose riprese da paesi come Marocco (bussola berbera) o Iran. 
Va beh, ho ammorbato, mo lascio alla lettura.
Grazie!



 



Succede due vite prima.

Siedono sulla terra polverosa, contemplando il passare dei concittadini per le vie del suk, in una città che è ancora vergine della guerra. Il più piccolo agita per aria le mani, esclamando con foga: “Da grande farò lo studioso! Diventerò il più saggio di tutti, e scoprirò tutto quello che c’è da scoprire su questo mondo” quando l’altro bambino non risponde, si affretta ad incitarlo: “e tu fratellone? Tu cosa vuoi fare da grande?”

Ma suo fratello non ha una risposta.

 

 


 

 “Che fai?”

“Sto qui”

“Stanno partendo tutti”

“Io no”

“Perché no? Dove sono i tuoi genitori?”

“Morti, qualche anno fa. Non so quanti, non li conto gli anni. E comunque io sto qua, ho deciso che è dove devo stare. Muoio di fame come loro”

Lo scricciolo di bimba non avrà più di sette anni ed ha già deciso di morire. Se Scar fosse un uomo normale proverebbe un moto di compassione, e troverebbe un modo per aiutarla, per toglierla dal terreno fetido della baraccopoli. Intorno a loro, giovani e vecchi ishvaeliani si agitano a recuperare i pochi beni che posseggono, colmi di speranza per quell’inaspettato ritorno alla loro terra natia.

“Non la vuoi vedere Ishval?” chiede allo scricciolo. Le sue ossa sono troppo fini ed il suo viso è segnato dalla fame. I suoi occhi sono spalancati sul mondo, eppure non sembrano vederlo: due pozze rosse, vuote di qualsiasi emozione. È un’espressione che ha visto troppe volte, durante e dopo la guerra civile.

“Io non so neanche dove sia Ishval” gli risponde la bambina “E comunque lì non c’è niente per me. Io non ho niente e nessuno qui, figuriamoci in mezzo al deserto”

Scar, questo, lo capisce. Sa cosa vuol dire non possedere nulla, e soprattutto sa cosa la perdita dei propri cari può comportare. Lui, un tempo, in un’altra vita, l’attimo dopo aver perso tutto, si era munito dell’unica cosa che poteva reclamare come propria: la vendetta. Questa bimba per sé, oggi, reclama la morte.

“Come ti chiami?” le domanda allora “Io non ce l’ho un nome” la sua risposta suona definitiva “Forse l’avevo, ma non mi ricordo”

“Vieni a vederla”insiste allora “Se devi morire tanto vale farlo lontano dal fango”

Forse non è così che si parla ai bambini, pensa, ma capisce di aver centrato il colpo quando lo scricciolo sposta i suoi occhi rossi dal terreno polveroso al suo volto. Si preparano per la partenza insieme.

 

 

Una lampada ad olio, dalla luce fioca e traballante, era l’unica fonte di illuminazione all’interno della stanza. L’odore di polvere e sabbia le invadeva le narici, ma non era sgradevole: era il profumo di casa.

Ad Amestris, dove si era trasferita negli ultimi mesi per studiare medicina, la terra profumava della rugiada mattutina e del carbone che muoveva i treni. Uno strano contrasto, che in qualche modo esponeva la dicotomia in cui si trovava quella nazione.

Ishval aveva un unico, perenne, odore: la polvere. Certo, alla sera nei centri abitati si potevano odorare le fragranze delle spezie per la cucina, e nei giorni di festa per le stradine della città veniva cosparso l’incenso. Ma la polvere era l’unica costante, o almeno quella che Adhara riconosceva con più facilità.

Ishval le era mancata. L’aveva lasciata piena di eccitazione per il futuro, curiosa di tornare ad Amestris in veste di studentessa, piuttosto che di orfana. All’inizio la vita all’università le era piaciuta: si era allontanata dalla sua casa polverosa, persa in mezzo ad una piana desertica, per approdare in una terra verde e rigogliosa, ricolma di scienza e novità. Vivere ad Amestris era stato come partecipare ad una sfida continua: divertente e piena di emozioni, ma anche stancante ed alla lunga demotivante.

Aspettava da mesi l’occasione per tornare ad Ishval, la sua nazione, ed a Mashad, la sua città. Solo, avrebbe preferito non tornare in queste circostanze.

 

 

In due settimane gli ishvaeliani raggiungono la piana desertica che un tempo era la loro casa. Scar, insieme allo scricchiolo e ad un gruppo di almeno cento persone, si dirige a sud est, dove sorge Mashad, la sua vecchia città.

“è solo un deserto” commenta un giorno lo scricciolo, uscendo dal mutismo in cui si era rinchiusa.

“Un hamada” la corregge Scar, camminando al suo fianco nella fila disordinata di persone. La bambina gli rivolge uno sguardo perplesso, e lui spiega “è il tipo di deserto. Brullo e roccioso.”

“Comunque resta un deserto. Non capisco perché lo guardi così”

Scar volge lo sguardo alla natura che li circonda. Ad un occhio estraneo, quell’enorme distesa di terra inospitale e priva di vita è esattamente quello che è: una piana desertica. Per lui, invece, ogni singolo sasso è un ricordo delle giornate passate a giocare con suo fratello, ogni ciuffo di vegetazione assetata un rammento al suo credo.

“Profuma di casa” dice allora.

“Puzza di polvere”

“Preferivo quando non parlavi”

“Sì, anche io” e la bimba torna nel conforto del suo mutismo. Scar inspira profondamente, rassegnandosi a parlare nuovamente “Li vedi quegli altopiani rocciosi in fondo?” domanda indicandoli. Non riceve risposta, ma continua “Li chiamavamo i Monti della Nascita. Uno dei più antichi poemi di Ishval narra che il creatore abbia creato lì i primi uomini. Era tradizione andarci una volta ogni quattro anni in pellegrinaggio”

“Oh” dice allora la bambina “A me sembra stupido”

Scar comincia a rimpiangere di non averla lasciata indietro.

 

 

L’uomo steso nel letto aveva il respiro pensante. Era sveglio, i suoi occhi rossi la stavano scrutando, ma il suo corpo poggiava sopra al materasso con la stanchezza tipica della vecchiaia. Erano arrivati da tutta Ishval per salutarlo, e per le strade giravano voci di drappelli di uomini in arrivo da Amestris. Qualcuno affermava che sarebbero giunti addirittura da Xing.

Quando Adhara era entrata nella loro casa, due ore prima, tra le pareti strette di argilla aveva trovato una ventina di persone. Stavano sedute sui tappeti a sorseggiare il the alla menta, mentre Nisha, una vicina di casa che nelle ultime settimane si era presa cura dell’uomo, si arrangiava con il resto del quartiere per trovar loro dei posti letto.

Ovviamente a lui non interessavano questi omaggi. Non era il tipo di uomo che ottiene piacere dal rispetto altrui. Così, aveva lasciato i suoi ospiti nel salotto e non li aveva fatti entrare nella sua stanza, restando fedele alla sua natura rude e burbera.

“Non c’era bisogno che tornassi per salutare il tuo vecchio”

“Non dire sciocchezze papà. Guarda, la signora Elric mi ha detto di portarti questa” estrasse dalla sacca da viaggio una lettera bianca, con la busta ancora chiusa. “Quando le ho detto che eri stato male lei e suo marito volevano venire, ma poi si sono ricordati del tuo caratteraccio ed hanno deciso di non disturbarti”

“Ah, hai visto Acciaio?” sul volto di suo padre si disegnò un piccolo sorriso. Era una strana vista, perché l’uomo raramente sorrideva: fin da quando era una bimba, Adhara aveva capito che le sue espressioni gentili esistevano più che altro per essere indirizzate a lei. Raramente suo padre era felice di vedere altri o, quantomeno, evitava di dimostrarlo.

“Hanno fatte bene a non venire, non voglio essere disturbato anche nel letto di morte.” Adhara ebbe una stretta al cuore, e dovette ingoiare con forza il nodo che le si era formato alla base della gola. Intanto, suo padre prese la lettera dalle sue mani, aprendo la busta con cautela ed estraendo un foglio bianco, pieno di una scrittura fitta. Passarono una manciata di minuti in silenzio, mentre lui leggeva le parole sul foglio. Un altro sorriso gli graziò il volto. “Winry è davvero una donna eccezionale” sentenziò quando ebbe finito “Lei ed acciaio non mi hanno mai perdonato, ma quando hanno saputo di te… Beh, erano contenti. E quando hai deciso di diventare un medico si sono subito offerti di aiutarti ad Amestris. La puoi mettere insieme alle altre?” le domandò poi, risistemando la lettera dentro alla busta e porgendogliela.

La prima lettera della signora Elric, all’epoca ancora una Rockbell, era arrivata qualche settimana dopo il ritorno ad Ishval. A quei tempi le reti telefoniche non erano state sistemate: non c’era altro modo per comunicare. Adhara ricordò di aver chiesto all’uomo, all’epoca la montagna e non papà, chi fosse questa Winry che gli scriveva. Doveva aver detto qualche battuta su un’amante o qualcosa del genere, perché la risposta dell’uomo era stata seria e perentoria “Winry Rockbell ha risparmiato la mia vita quando nessun altro lo avrebbe fatto. Le devo molto”

Sulla parete sinistra della stanza erano stati sistemati degli scaffali di legno. Quello più in alto traboccava di libri, tomi vecchi recuperati dalle macerie di Mashad, quello più in basso era occupato da qualche foto e da una pila di lettere. Lettere che suo padre aveva scambiato con la signora Elric in tutti quegli anni, anche quando a Mashad era arrivato il servizio telefonico, perché oramai era diventato un rituale per loro.

Adhara poggiò con cura la nuova lettera sopra alle altre. Una foto, accanto alla pila, catturò il suo sguardo. La prese dallo scaffale, manovrandola con la dovuta attenzione: suo padre teneva un numero preciso di ricordi per la casa, e dovevano essere trattati tutti con la dovuta cura.

 

 

Quando viene la sera il gruppo prepara le tende, accende qualche focolare e dispone i tappeti all’aperto. È una strana vista: nella vastità della piana, dove per anni ha regnato un silenzio schiacciante, i suoi abitanti tornano, con le loro canzoni popolari cantate che riecheggiano nel deserto e le storie dei loro vecchi che permeano l’aria.

È la sera del decimo giorno di cammino, lui e lo scricciolo siedono in disparte. Il sole tramonta all’orizzonte: i suoi raggi cremisi si aggrappano alla terra per una manciata di minuti, prima di venire inghiottiti dal deserto. Il cielo si colora di tonalità violacee, in netto contrasto con l’ocra della terra. Sembra una tavola di disegno, e Scar rimane imbambolato a contemplare quella vista: non ricordava colori tanto vivi.

“Quanto dobbiamo camminare ancora?” chiede la bimba. Negli ultimi giorni è uscita sempre più spesso dalla sua bolla di mutismo. Scar finge di esserne infastidito, ma la verità è che pian piano il suo cuore si affeziona sempre di più a quel piccolo mucchietto di ossa che è lo scricciolo.

 “Una settimana, poi saremo a Mashad.”

“Non ho idea di dove siamo, sono completamente persa. Ho paura di svegliarmi e trovarmi sola, che ve ne siete andati e mi avete lasciata qui”

Scar la guarda sorpreso. Lei non si è accorta di quello che ha rivelato, ma lui ne è piacevolmente stupito. Fino a qualche giorno fa lo scricchiolo accettava a malapena il cibo, si muoveva con noia e talvolta pareva considerare di fermarsi e non camminare più. Solo due settimane prima, quando si sono incontrati, aveva ammesso di voler morire.

Ma ora ha paura di restare da sola. Uh. Scar non sa cosa si dica in queste situazioni, come si rassicuri o si consoli qualcuno. Ripensa alla sua infanzia, alle futili paure che correvano nella sua mente e che suo fratello metteva a tacere ogni singola volta. Colto da un’illuminazione improvvisa, allunga le mani dentro alla sua sacca da viaggio. Quando trova l’oggetto delle sue ricerche, lo lancia allo scricciolo

 “Che è ‘sta roba?”

“Non chiamarla roba” la ammonisce “è una bussola del cielo”

“A me sembra un gioiello”

Tra le piccole mani della bambina sta un piccolo amuleto di un metallo leggero. È un vecchio cimelio, che per qualche strano motivo Scar ha tenuto con sé in tutti quegli anni. Ha una forma di rombo, ma la punta più in alto si apre in un piccolo braccio con un buco ad o in mezzo.

“Ecco, devi mettere il pollice nel buco lì. Poi devi trovare la croce del sud”

“Che è?”

“Una costellazione” gliela indica: nel cielo del deserto è una delle più visibili e facili da trovare “Ecco, adesso ogni punta della bussola indica un punto cardinale. Se resti da sola devi andare a sud, cioè la punta in basso. Così trovi Mashad.”

La bambina guarda stupita la costellazione in cielo, poi la bussola.

“Non mi avevano mai fatto un regalo” ammette a bassa voce, improvvisamente vuota della solita ferocia che la caratterizza.

Scar non le risponde, spostando nuovamente lo sguardo verso il cielo. L’amarezza gli risale lungo la gola.

Quella bussola gli era stata regalata da suo fratello.

 

 

“Dicono che arriverà una spedizione da Xing”

Si era seduta nuovamente, sulla sedia accanto al letto di suo padre. Gli mostrò la fotografia che teneva tra le mani “forse si tratta di lei?”

“Quella ragazzina non verrà ad infastidirmi anche qui, a costo di sbarrare ogni singola porta.”

Adhara rise. Nella foto, inviata col servizio postale qualche anno prima, una coppia di novelli sposi sorrideva tenendosi per mano. La giovane non aveva conosciuto di persona nessuno dei due, a differenza di Edward e Winry Elric, ma sapeva chi fossero: Alphonse Elric e May Chang.

“Non parli quasi mai di lei” disse.

“Non parlo quasi mai di nessuno, il letto di morte non fa nessuna…”

“Il signor Elric ha detto che devi molto a May Chang”

Adhara non sapeva cosa la stesse spingendo a fare domande, ma sentiva che era la cosa giusta. Sapeva chi fosse l’uomo che chiamava padre, sapeva cosa avesse fatto in passato. Non era mai stato un segreto e, se da bambina non ne aveva capito la storia, ora le appariva chiara. C’erano volte in cui ripensava alla sua infanzia tra le mura di quella casa, a Mashad, ed alla cura che l’uomo aveva riposto nel crescerla. Una cura che, almeno in parte, doveva arrivare dal forte rimorso che lo accompagnava tutt’ora.

“Certo che le devo molto” la voce brusca di suo padre interruppe il filo dei suoi pensieri “è stata la prima persona a non vedermi come un assassino.”

“Per quello che hai fatto agli alchimisti di stato” annuì. Suo padre non reagì a quelle parole e lei non se ne sorprese; non c’era stato giorno, negli ultimi undici anni, in cui lui non avesse pensato alle sue azioni. Lo avrebbero perseguitato fino al suo ultimo respiro, e forse parte del motivo per cui era tornata era anche questo: ricordargli che non era stato solo quell’uomo, l’assassino guidato dalla sete di vendetta. Era stato anche un padre, dal momento stesso in cui si erano conosciuti. Adhara dovette respingere l’onda di ricordi fuori dalla propria mente.

“May Chang era un po’ come me” le parole del vecchio interruppero il silenzio “Pronta a fare qualsiasi cosa per la sua famiglia ed il suo paese. Ho saputo che ha vissuto bene negli ultimi anni, e che ora ha un figlio in arrivo” il volto dell’uomo si aprì in un sorriso “Dopo la guerra contro il Padre ci siamo dovuti ricostruire tutto, noi. Il tempo è stato dalla nostra parte” emise un sospiro, e poi aggiunse “Non ricordavo cosa volesse dire tenere a qualcuno, fino a che lei non è comparsa nel mio cammino. Gli sono grato.”

Non avrebbe aggiunto altro su di lei, e questa volta Adhara non insistette. Un improvviso scoppio di tosse fece tremare il petto dell’uomo, il suo torace si contrasse in preda allo sforzo ed il volto si piegò in una smorfia di dolore. Adhara era già in piedi, pronta a dirigersi verso la porta ed a chiamare Nisha per un po’ d’acqua, ma lui le afferrò il braccio, fermandola.

La sua presa era salda, ma era quella di un vecchio: la forza che un tempo aveva vitalizzato quel corpo svaniva secondo dopo secondo. Adhara fissò la sua grande mano stretta intorno al suo braccio sottile. “Hai bisogno di…”

“Sto morendo, scricciolo”

 
 

Arrivano a Mashad in una mattina assolata. L’hamada attorno a loro pare vibrare, consapevole della loro presenza. La città, distrutta dalle esplosioni della guerra e rovinata dalle insidie del tempo, pare accoglierli come una madre morente accoglierebbe i propri figli.

Prima della partenza, Scar si era accordato con il generale Miles: il suo compito nel futuro prossimo è assicurarsi che la città ritorni alla vita, che gli ishvaeliani trovino un equilibrio con il quale vivere. Non sa cosa ne sarà di lui, dopo. Ancora non ha capito che tipo di uomo diventerà: non più il bravo ragazzo di un tempo, non più l’assassino assetato di sangue. Cosa, non lo sa. Mille dubbi gli circolano per la testa, ma almeno nessuno di questi riguarda Ishval. Mai su Ishval.

“Dicono che stanno allestendo un orfanatrofio” dice la bimba, mentre attraversano assieme i vicoli polverosi. Un tempo, quei labirinti di stradine erano teatro dei suk, i mercati. Scar può sentirne il lontano baccano, come un rumore di sottofondo che improvvisamente si fa più forte. I colori dei tappeti, il profumo del cuoio e della menta … è tutto troppo forte e debole insieme.

“è una buona idea” dice allora “Andiamoci insieme”

Se lo scricciolo gli rivolge uno sguardo deluso, lui fa finta di non vederlo.

 

Dopo, raggiunge l’antico tempio. Prega.

 

 

La stanza era sprofondata nuovamente nel silenzio. Suo padre aveva chiuso gli occhi, gesto universale che chiedeva pace e tranquillità, e lei, di nuovo, osservò l’ambiente. La sua casa, la loro casa, era stata costruita con il pensiero che un giorno sarebbe diventata spoglia e metodica. Suo padre aveva organizzato l’ambiente per renderlo il più funzionale possibile, ma era ovvio che con lo scorrere del tempo un sottile velo di ricordi fosse permeato.

Accanto al letto, sul comodino, poggiavano un antico libro ed una fotografia. Adhara per prima cosa prelevò il tomo. Lo manovrò tra le sue mani con la giusta attenzione – l’attenzione di chi è consapevole del valore di un oggetto. Era una vecchia raccolta di poesie. Un singhiozzo strozzato le uscì dalle labbra.

“Non avremo case grandi come quelle di Amestris, o cibo sofisticato come a Xing” soleva sempre dire suo padre “Ma nessuno batte la poesia di Ishval”

Sfogliò le pagine giallognole, riconoscendo solo alcune tra le tante poesie contenute nel libro. Suo padre era un uomo dalle poche parole, generalmente rude e difficile, eppure aveva un debole per i poemi. Diceva che gli ricordavano le preghiere, e che andavano sempre tenuti con sé, perché raccontavano la tradizione della propria terra. Suo padre non era un uomo come il signor Elric, non era colmo di curiosità verso il resto del mondo o assetato di conoscenza. Ma non era nemmeno vuoto: era pieno, traboccante, di amore verso la propria patria, e se negli ultimi dieci anni aveva viaggiato fino ad Amestris era solo per assicurarsi che Ishval potesse prosperare in pace.

Osservò il suo viso anziano sprofondare in un leggero sonno. La vecchiaia l’aveva colto, ed ora la morte lo reclamava.

“Se io dovessi cercare al di là delle stelle” recitò allora, con voce tremante “tu saresti qui a guidare la mia mano?”

 

 

“Eh? Signor Montagna, è diventato matto senza di me?”

“Ti ho detto che non mi chiamo …”

“Secondo me sei diventato matto”

Una settimana dal ritorno a Mashad. Una settimana di preghiera, ed organizzazione della città. Una settimana passata a dare direttive, aiutare a ricostruire vecchie case. Oggi è il primo giorno che è andato a trovare lo scricciolo all’orfanatrofio.

Adesso siedono insieme in una vecchia locanda, la prima ad avere riaperto in tutta la città.

“Non sono diventato matto”

“Sì invece. Che hai appena detto sulle stelle?”

“è una poesia. Se io dovessi cercare al di là delle stelle, tu saresti qui a guidare la mia mano?”

“La poesia fa schifo”

“Dillo un’altra volta e non ti offro il the. ”

Lo scricciolo gli lancia un’occhiataccia, ma si azzittisce. Scar non sa perché quelle specifiche parole gli siano tornate alla mente: non ricorda di chi era la poesia, o come continuava. Ricorda solo suo fratello, che in un pomeriggio assolato di due vite prima gli ripeteva le stesse parole: era il giorno in cui gli comunicava che sarebbe diventato uno studioso.

Siedono sui tappeti tradizionali a gambe incrociate, versando dalle teiere l’acqua bollente del the: un rimedio contro il caldo.

“Ecco, adesso vai a pagare” le ordina, lanciandole un paio di monete. La bambina borbotta qualcosa, ma s’affretta ad eseguire. Scar osserva la sua piccola figura approcciarsi al bancone della proprietaria.

“Un’orfana?”

Un uomo, con la divisa da operaio, si è sporto dalla sua postazione su un altro tappeto ed ora si rivolge a lui. Scar annuisce, per nulla voglioso di chiacchierare. L’altro non sembra recepire.

“è una bella cosa che ti occupi di lei” comunica, come se la opinione contasse qualcosa. Scar è indispettito “A noi vecchi non restano che la memoria e le buone intenzioni” continua “Non possiamo fare altro che passarle alle nuove generazioni, e sperare che ne facciano buon uso”

“Non mi sto occupando di lei” ci tiene a specificare Scar a quel punto. L’operaio scoppia in una risata “Ah no? Beh, poco male. Qui siamo una comunità, ci preoccupiamo l’uno dell’altro. Io lavoro alla ricostruzione di una scuola. Così insegneremo ai nostri figli le poesie, come  fai tu con quella bambina”



 

Depositato il libro di poesie sul comodino, la ragazza prese la fotografia. Dentro alla cornice, una bambina dal viso smunto ed il viso inferocito guardava l’obiettivo. Teneva la sua manina avvinghiata a quella di suo padre, un uomo più giovane, dal viso estremamente serio e gli occhi che brillavano. Adhara non seppe dire di cosa.

Ed eccoli lì, lei e suo padre. Non Scar, l’assassino. Suo padre, un uomo alla sua terza vita. Lei, orfana, senza un obiettivo o un sogno davanti, che un mese prima dello scatto della foto era pronta a morire. Lui, che l’aveva salvata dalla baraccopoli, e dal fango, e l’aveva portata nella sua terra sacra. Il respiro le si bloccò in gola, e dalle labbra le uscì un singhiozzo.

“Avrai una bella vita”

La voce di suo padre la colse di sorpresa. I suoi occhi rossi, ora aperti, esprimevano stanchezza, ma il suo viso era piegato in una smorfia che lei non seppe decifrare. Felicità, forse.

“Avrai una bella vita. Non conoscerai la guerra, dimenticherai la fame e sarai qualcuno che salva vite,  invece che prenderle.”

“Smettila di parlare come se …”

“Sto tornando alla terra, Adhara. Dal dio Ishvalan. Non avrei mai pensato che sarei morto così, con una figlia a piangermi”

La ragazza non seppe più cosa dire, e gli occhi le si riempirono di lacrime. Adhara si piegò su se stessa, poggiando la nuca contro al petto di suo padre e lasciando che il pianto le squassasse lo stomaco. Lui le accarezzò la testa.

“Grazie”

In seguito, Adhara non avrebbe saputo dire chi dei due avesse pronunciato quella parola.

 

 

“Ma sei sicuro che mi vuoi?”

Scar osserva la bambina, seduta sopra al tetto di terra battuta della loro nuova casa. L’ha prelevata oggi dall’orfanatrofio, arrendendosi finalmente all’ovvia verità: non l’avrebbe mai lasciata sola. “Sì, ed ora smetti di chiedermelo”

Le parole dell’operaio incontrato due giorni prima l’hanno fatto riflettere. Il generale Miles aveva detto qualcosa di simile, quando si erano accordati per lavorare insieme: un popolo non è nulla senza la propria cultura e tradizione. Scar pensa che, dopotutto, la memoria è l’unica cosa che gli resta. Non i suoi poteri, donategli dal fratello. Gli resta solo Ishval, e quella bambina dagli occhi rossi che non l’ha mai conosciuta, questa sacra terra, ma che può ancora farlo.

Insieme osservano le stelle in cielo “La vedi Sirio?” le chiede ad un certo punto. La bimba annuisce. Le indica il percorso da seguire con gli occhi, fino ad una stella un poco più piccola, a sud-est, dove Ishval risiede sulle mappe “Quella è Adhara. Indica il cammino da Amestris, fino ad Ishval. Ho pensato fosse un bel nome per uno scricciolo”

La bimba allunga una manina verso una delle sue, alla ricerca di affetto. Qualcosa che Scar non sapeva di poter ancora dare al mondo. “Adhara” ripete con la sua voce, e lui annuisce, stringendo la sua piccola mano. “Senti” continua la piccola, recuperando quel suo tono pieno di sfida e forte del suo nuovo nome “Non mi hai ancora parlato del tuo Dio”

“Fammi indovinare” le dice “Gli Dei sono stupidi?”

“Non lo so, devo ancora decidere”

L’uomo con un nome falso, allora, comincia a raccontare.




 

Succede due vite prima.

Il fratello maggiore contempla con rabbia il terreno polveroso. Attorno a lui la città si agita nel suo solito, assordante, brusio. Lui pare non sentire nulla di tutto questo. Boccheggia un paio di volte, agita i piedi, e poi si decide ad affermare:

“Non lo so. Voglio essere un ishvaeliano”

E mentre il fratellino si lancia in un lungo discorso sul perché quella non sia una carriera, il bimbo volge lo sguardo al resto della via. Non ha importanza cosa farò da grande, pensa, basta che sarò a casa.

 

 

   
 
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