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Autore: Adeia Di Elferas    13/04/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ranuccio da Marciano smise di contare le palle di cannone che aveva sotto al naso e guardò in direzione di Paolo Vitelli.

Il comandante generale delle truppe fiorentine, però, non se ne avvide. Stava guardando l'orizzonte, immerso in chissà quali pensieri.

Da quando, da Firenze, erano arrivate le prime voci che lo volevano un mezzo traditore per aver lasciato scappare Rinieri della Sassetta e Cristoforo Albanese, si era fatto molto più distaccato e imperscrutabile del solito.

Anche se lui stesso, a chiunque gli facesse menzione di quel caso, ricordava come quei due prigionieri fossero stati liberati per la sua ferma decisione di non trasformarsi in boia, e non per favoreggiare in qualche modo Venezia, di fatto, dalle truppe agli altri comandanti, a imperare era il sospetto che Paolo stesse giocando contemporaneamente per due squadre.

“Arriverà altro da Firenze?” chiese Ranuccio, schiarendosi la voce, per attirare l'attenzione dell'altro.

Solo a quella domanda diretta Vitelli parve accorgersi della sua presenza. Fece un respiro profondo, come se si fosse risvegliato da un profondo torpore e poi, facendo schioccare le labbra, scosse la testa.

“Confidavo in un aiuto da parte della Sforza di Forlì, ma dubito che la Signoria sia stata abbastanza furba da mandarle un ambasciatore degno di eguagliare Giovanni Medici...” soppesò con gravità l'uomo.

L'altro dovette dargli tacitamente ragione. Tutti sapeva quale fosse il maggior punto debole di quella donna e se Firenze davvero voleva arrivare alle sue armi e ai suoi soldati, avrebbe dovuto farlo passando dal suo letto. Eppure, soprattutto, pareva, su pressioni di Lorenzo Medici, si era scelto come ambasciatore Machiavelli, uomo di rango, parlando di diplomazia, ma che difficilmente avrebbe incontrato i gusti di una donna che era riuscita a tener per sé qualcuno come Giovanni da Casale, noto a Milano e nel resto d'Italia tanto per la sua abilità con le armi quanto, e forse ancor di più, per il suo innato fascino.

“Hanno mandato tutta l'artiglieria che avevano, tutta la loro polvere da sparo...” cominciò a dire Vitelli, tornando serio.

“Diecimila libbre.” precisò Ranuccio, che aveva trovato quella quantità notevole, ma non esaltante, vista l'impresa a cui si accingevano.

“E ci hanno lasciato seimila fanti.” soggiunse Paolo, alzando appena la voce, molto infastidito dall'interruzione dell'altro comandante: “Anzi, seimila mal contati, se proprio dobbiamo dirla tutta.”

“Insomma, in confronto Venezia offre migliori possibilità a un condottiero come voi di far carriera, giusto?” insinuò Ranuccio, più per smuovere un po' il commilitone che altro.

Non ebbe l'effetto sperato, però. Vitelli lo guardò con i suoi occhi tondi a mezz'asta, inespressivi, e, facendo vibrare il lungo naso, sospirò.

“Ci sono solo due modi, per uomini come noi, di fare carriera, come dite voi – fece, con un filo di voce arrochita – o comandare il più grande degli eserciti, o vincere stando alla testa del più piccolo esercito mai schierato in campo.”

“Ammetterete, però, che la prima è una situazione molto più agevole...” sorrise Ranuccio, cercando, a quel punto, di buttarla sul ridere.

“Continuate a contare le palle di cannone...” ribatté Vitelli, le iridi che parevano accendersi, per un istante appena, di ilarità: “Così quando arriveremo a Pisa saprete dire a quelli che ci caricheranno quanto siamo stati bravi, a trovare così tante munizioni nella nostra bella Firenze...”

 

“Sicura che devo dire così?” aveva chiesto un'ultima volta Giovanni da Casale, prima di lasciare Caterina davanti alla porta della stanza di Giovannino.

La Sforza ci aveva ragionato buona parte della notte. Dopo l'arrivo del suo amante, si era riaddormentata, ma per poco tempo. L'orribile visione della morte di Giacomo, seguita subito da quella che la sua immaginazione voleva come ricostruzione fedele della caduta di Manfredi, l'avevano strappata al suo riposo e così, non volendo alzarsi subito, si era messa a pensare.

Quando poi anche Pirovano si era svegliato, gli aveva spiegato nel dettaglio cosa dovesse andare a dire a Machiavelli quella mattina.

La malattia del suo ultimogenito la stava mettendo davanti a una verità molto scomoda: era sola.

Le serviva l'appoggio di Firenze, anche a costo di piegare la testa. Milano non avrebbe retto ai colpi delle spade francesi e Roma le era ostile, tanto da arrivare già a toglierle sulla carta il suo Stato.

“Sì, devi ripetere esattamente quello che ti ho detto stanotte.” aveva annuito la Contessa e poi, come colta da un ripensamento improvviso, accarezzando la guancia del milanese, aveva aggiunto, a voce più bassa: “Quando torni, vieni subito a dirmi come ha reagito, così sarò pronta per quando dovrò incontrarlo io.”

E così Giovanni da Casale aveva lasciato di buon'ora la rocca ed era andato a cercare Niccolò Machiavelli direttamente alla locanda in cui alloggiava.

“Non mi aspettavo voi.” disse il fiorentino, quando Pirovano varcò la soglia della saletta in cui aveva deciso di incontrarlo.

L'ambasciatore stava cercando di dissimulare l'irritazione, ma era chiaro quanto le sue doti attoriali fossero carenti. Se c'era qualcuno che aveva imparato a disprezzare e odiare più della Tigre, quello era proprio Giovanni da Casale.

Se con la Sforza, almeno, c'era qualcosa di bello da vedere, con quell'uomo bastava uno sguardo per farsi ritorcere il fegato in pancia. Era tutto quello che Niccolò non era mai stato: aitante, alto, dalle spalle larghe e dall'innegabile fascino.

Anche se pure Machiavelli poteva vantare un lungo elenco di donne che erano state sue, era certo che Pirovano non solo avrebbe potuto esibirne una più lunga, ma di certo con nomi più eleganti. Il fiorentino, salvo rare eccezioni, come la sua adorata vicina di casa, doveva sempre pagare, se voleva la compagnia di qualcuno.

“Sono qui per conto della mia signora.” disse il milanese, restandosene rigido vicino all'ingresso, una mano sull'elsa della spada che portava al fianco.

All'ambasciatore non sfuggì come dalle labbra di un uomo che teoricamente era fedele solo al Moro fossero uscite le parole 'mia signora' nel parlare della Sforza. Cercò di non darlo a vedere e fece un cenno accomodante con il capo, per invogliarlo a proseguire. Aveva già l'impressione di perdere tempo, quindi non c'era bisogno di tanti giri di parole e tante reticenze.

“Sono qui per dire in vece sua che non è necessario che voi scriviate a Firenze le richieste da lei avanzate ieri per tramite del Segretario Baldraccani.” cominciò Giovanni, mordendosi un istante le labbra, nella speranza di ricordarsi tutto quello che Caterina gli aveva chiesto di riferire: “La mia signora, dopo averci pensato a lungo, si dice contenta di non richiedere altro obbligo alla Signoria, essendo certissima che Firenze si comporterà con lei con la stessa lealtà con cui lei si è comportata con Firenze.”

Niccolò deglutì e, passandosi distrattamente una mano tra i folti capelli scuri che gli ricadevano ribelli sulla fronte, chiese: “Quindi la vostra signora intenderebbe finalmente firmare l'accordo per il Beneplacito?”

Pirovano fece un respiro un po' più fondo e poi, chinando appena il capo, confermò: “Sì, vuole che passiate da lei questa mattina stessa, sul tardi. Vi farà sapere lei quando, di preciso.”

Machiavelli rimase con le labbra schiuse. Anche se ci aveva sperato tanto, gli sembrava impossibile che si fosse giunti a quella conclusione. Si era sentito sconfitto, poi ottimista, poi disperato e in tutto questo continuo altalenare di sentimenti non aveva mai seriamente preso in considerazione l'ipotesi che alla fine la Tigre cedesse da un momento all'altro, quasi senza darne un preavviso.

“Bene...” soffiò il fiorentino, ancora incredulo: “Bene, allora... Allora aspetterò qui la convocazione e, quando mi manderà a chiamare, sarò da lei in un istante.”

Giovanni annuì in silenzio, puntando gli occhi scuri sull'ambasciatore che, di rimando, ricambiò lo sguardo con le sue iridi liquide e difficili da interpretare.

Per quanto il milanese gli avesse appena portato un'ottima notizia, per Machiavelli restava una tortura rimanere in sua presenza e così, anche a costo di suonare sgradevole, gli indicò la porta e tentò di congedarlo: “Se non avete altro da riferire, ho della corrispondenza da sbrigare, prima di recarmi dalla vostra signora.”

L'altro colse l'antifona e si avviò verso l'uscita, tuttavia, prima di andarsene, ci tenne a mettere in chiaro: “La mia signora tiene molto alla lealtà di Firenze. Fate sapere alla Signoria che si aspetta davvero di essere trattata come un'alleata e non più come un mulo da soma.”

Niccolò si produsse in un profondo inchino, non smettendo di accompagnare metaforicamente alla porta il suo ospite, avvicinandosi egli stesso all'uscio. Nel trovarsi così vicino Pirovano, però, non fece che peggiorare la situazione.

Essere a così breve distanza da lui rendeva il confronto tra loro schiacciante. In più Machiavelli cominciò a figurarselo tra le braccia della Leonessa, una donna che, per quanto gli risultasse ostica e fondamentalmente antipatica, avrebbe tanto voluto poter avere anche solo per una notte.

Con la mente che ancora gli riproponeva – maligna e beffarda – un'immagine di quel milanese che si adoperava per saziare le tanto chiacchierate voglie della Sforza, l'ambasciatore concluse quell'incontro con un rigido: “Andate con Dio, messer Pirovano...” e non appena riuscì a chiudere fuori dalla saletta l'odioso Giovanni da Casale, soggiunse, con tono molto più rabbioso e acido: “E che la vostra testa finisca su una picca..!”

 

Giovanni da Casale tornò alla rocca molto in fretta. Senza pensarci due volte, salì al primo piano e andò a cercare Caterina, così come lei stessa gli aveva chiesto di fare.

Arrivato alla stanza di Giovannino, rallentò il passo ed entrò con discrezione. L'aria era chiusa e il silenzio era rotto solo dal respiro del bambino, udibile, ma abbastanza regolare, per quanto molto rapido.

A parte la Tigre, in quel momento, non c'era nessun altro a vegliare il piccolo Medici, e così Pirovano si arrischiò ad avvicinarsi a lei per parlarle.

Con gli occhi scuri che correvano di quando in quando verso il malato, finendo, però, poi a cercare sempre e solo il viso della Sforza, l'uomo le raccontò in breve il suo incontro con Machiavelli.

“Va bene...” soffiò lei, passando una mano sulla fronte del figlio, trovandola solo leggermente più fresca di un paio d'ore prima: “Fargli sapere che lo incontrerò poco prima di mezzogiorno.”

Giovanni annuì e stava già per andarsene, senonché la sua amante lo fermò, prendendolo per una manica.

“Che c'è?” chiese lui, con un filo di voce, per non disturbare Giovannino.

La donna sospirò e poi disse: “Voglio che ci sia anche tu, quando incontrerò Machiavelli. Non voglio essere lì da sola. Non devo combinare disastri. Tu devi starmi accanto e farmi capire in qualche modo se sto esagerando.”

Il milanese annuì. Era evidente che quella richiesta stesse costando molto alla Leonessa, che aveva fatto della propria indipendenza e del proprio sprezzo delle convenzioni una bandiera. Chiedergli, in pratica, di farle da cuscino per impedirle di far saltare l'alleanza a causa di uno scoppio d'ira o di un moto di orgoglio, per lei doveva avere il sapore di una sconfitta a tutti gli effetti.

“Va bene, ci sarò anche io.” fece lui, quasi con leggerezza, come a volerla risollevare.

“Adesso vai...” lo congedò Caterina, rendendosi conto una volta di più di come Pirovano non avesse la prontezza di mostrarsi preoccupato per la sorte del piccolo Medici: “Prima di dedicarti alle tue occupazioni, per favore, passa dal castellano e digli che abbiamo quasi finito la menta Romana per la pozione per la febbre... Digli di ordinarne una buona quantità, non importa il prezzo che ci faranno.”

Il giovane annuì e poi, chinandosi un istante sulla Contessa e dandole un rapido bacio, sottolineo, tanto per non essere frainteso: “Anche io sono preoccupato.”

La Tigre gli credeva fino a un certo punto, ma non volle smontare la sua buona volontà e così, cercando di sorridere, ribatté: “Lo so.”

 

“Basta, non piangere più...” sussurrò Maria Giovanna Della Rovere, cercando di prendere in braccio Battista, la sua primogenita.

Non riusciva, però, a chinarsi abbastanza per rispondere alla richiesta della piccola che, rossa in viso e piangente, teneva le piccole mani verso di lei. La diciassettenne, infatti, aveva il ventre troppo grosso, il suo secondo parto era troppo vicino per permetterle di tra le braccia una bambina di un anno abbondante.

Non c'erano balie, con loro, e Battista era in quello stato proprio perché era rimasta sola senza che nessuno se ne accorgesse. Soffriva tremendamente la solitudine e, per lei, restare chiusa nella cameretta senza compagnia per più di dieci minuti era una tortura.

Maria l'aveva sentita piangere e, anche se il suo desiderio principale sarebbe stato quello di andare a origliare ciò che il suocero e il marito si stavano dicendo, aveva dovuto fare quella deviazione e soccorrere la sua primogenita.

“Avanti, basta...” le ripeté, non potendo evitare di vedere nel suo viso contratto dal pianto lo stesso profilo del marito.

Finalmente, nel sentire dei passi arrivare rapidi e quasi minacciosi, la bambina tacque, ma per paura e non per sollievo.

“Allora?!” sbottò Venenzio da Varano, irrompendo nella stanza: “Si può sapere perché sta facendo tutto questo chiasso?!” chiese, rivolgendosi alla moglie Maria, e indicando la figlia con una mano.

“La balia...” cominciò a dire la giovane, ma la voce le morì in gola, quando l'uomo, imponendosi su di lei, le diede uno schiaffo tanto forte da costringerla ad aggrapparsi al bordo del lettuccio di Battista per non cadere.

“Sempre a cercare scuse, tu!” inveì il ventisettenne, incrinando le labbra verso il basso e tornando verso la porta: “Sei una donna inutile! Nemmeno capace di badare ai tuoi figli! E vedi di far nascere un maschio, questa volta!”

Mentre Venanzio chiudeva l'uscio con un colpo secco, la Della Rovere si lasciò scivolare fino in terra. Con una mano sul ventre, dentro cui si agitava un altro figlio – 'un altro mostro, come suo padre' come pensava lei – cominciò a piangere in silenzio.

Battista, terrorizzata per quello che aveva visto, non capendo cosa fosse successo, non versò più nemmeno una lacrima, troppo impaurita anche solo per emettere un gorgolio.

Dopo qualche minuto, Maria si asciugò le guance e tirò su col naso. Sapeva che non poteva averla vinta con Venenzio, tanto meno coi fratelli di lui o con il di lui padre, Giulio Cesare, un uomo che fin dal suo arrivo a Camerino le aveva messo in chiaro due cose: la prima, che era stata solo una merce di scambio, scelta per potersi imparentare coi Della Rovere, la seconda, che avrebbe fatto meglio a generare un erede maschio il prima possibile o sarebbe stato peggio per lei.

Prendendosi la testa tra le mani, la donna si disse che se la punizione per un'altra figlia femmina fosse stata il ripudio da parte del marito e il convento, allora avrebbe volentieri pregato notte e giorno per dare una sorella a Battista. Ma ormai conosceva troppo bene i da Varano per sapere che non si sarebbero liberati di lei in modo così pacifico. Se voleva continuare a vivere, l'unica cosa che poteva fare era partorire un maschio in salute.

Suo padre Giovanni non ci aveva pensato un solo istante a venderla, ancora ragazzina, a Venenzio.

Quello che gli importava era farsi alleati, nell'attesa che il fratello Giuliano riuscisse a lastricare d'oro la strada che l'avrebbe portato al soglio pontificio.

Anche se era la sua primogenita, per lui non aveva mai avuto alcun valore. Lasciata la Liguria per arrivare a Camerino, Maria si era illusa di poter cominciare un'altra vita, ma fin dal primo incontro con la sua nuova famiglia, si era resa conto di essere passata dal limbo all'inferno, senza avere nessuna possibilità di fuga.

Suo zio Giuliano, il promettente Cardinale Della Rovere, era ancora in Francia e lei, proprio quel giorno, aveva sentito il marito e il suocero parlare di un suo spostamento da Avignone a Parigi, probabilmente per discutere la sua posizione con il re. Però poi Battista era scoppiata in lacrime e così Maria aveva dovuto correre da lei.

Era ancora immobile, attonita, china su se stessa in terra quando sentì la manina della figlia cercare la sua spalla, oltre il bordo di legno del suo lettino.

La Della Rovere le dedicò una sguardo veloce. I suoi occhi erano grandi e la fissavano preoccupati.

In quel momento le pareva molto più vecchia della sua tenerissima età. Era quasi come se la potesse capire. Anche lei, che di anni ne aveva diciassette, si sentiva una donna molto più vecchia.

Non aveva avuto una giovinezza. Era passata da un'infanzia scialba ad Albisola a un'età adulta crudele e umiliante nelle Marche.

“Perdonatemi, sono dovuta andare un momento...” la balia, appena rientrata, nel trovare la sua signora in quello stato, si chinò subito su di lei e, solerte, tentò di rinfrancarla, passandole un panno sul viso e aiutandola a rimettersi in piedi.

Non le era sfuggito il segno rosso come il fuoco che le copriva mezza faccia. Riconosceva la mano del suo signore. L'aveva vista in quello stato decine e decine di volte.

Tuttavia finse di non capire, come sempre, e chiese: “Non state bene? Il bambino vi...”

“Sto benissimo.” ribatté aspra Maria, restando, come sempre, scottata dall'atteggiamento ipocrita della serva: “Non dovete mai lasciare Battista da sola. Piangeva. Non deve capitare più.” ordinò e, senza più guardare la bambina, lasciò la camera.

Camminò rapida fino a raggiungere i propri appartamenti e lì, finalmente, chiusa la porta con cura, assicuratasi di essere del tutto sola, tornò a piangere a dirotto, troppo ferita per potersi trattenere. Si trattava di lacrime di dolore, di rabbia e di rancore. Sentiva il suo cuore farsi ogni giorno più duro, quasi che la carne stesse pian piano lasciando il posto alla pietra e si chiese se potesse esistere un modo per essere finalmente libera.

“Solo se morisse...” sussurrò tra sé, scossa dai tremiti del pianto: “Solo se morisse, sarei libera...”

Si gettò di schiena sul letto, le dita aperte sul pancione e pregò con tutta se stessa che il figlio che aspettava fosse un maschio. Si mise a fantasticare su quel bambino, lo immaginò del tutto diverso da suo marito, se lo figurò già grande, forte, pronto a proteggerla e a portarla lontano, via da tutto lo schifo e lo squallore della sua vita.

Poi, però, ritornò alla realtà e, sentendo le campane suonare le undici di mattina, si alzò dal letto e, dopo essersi data una sistemata, mandò a chiamare la sua dama di compagnia affinché iniziasse a vestirla per il pranzo.

 

Caterina aveva da poco lasciato la stanza di Giovannino, lasciando a Bianca un paio di consegne in merito alla terapia e chiedendole di ricordarle di preparare della nuova pozione per la febbre, quella sera.

Aveva attraversato in fretta il corridoio e sceso le scale molto rapidamente, ed era proprio in fondo a queste che aveva trovato Galeazzo.

Il quo quintogenito sembrava lì apposta per aspettare lei. Era seduto sull'ultimo gradino e, quando si accorse del suo arrivo, scattò in piedi come una molla.

“Madre...” la salutò, abbassando lo sguardo.

“Devi dirmi qualcosa?” chiese la donna, occhieggiando verso il colonnato, da lì ben visibile, del cortile d'addestramento.

Era sicura che Giovanni da Casale fosse nella sala della armi, in quel momento, e siccome lo doveva aspettare, per andare assieme a lui da Machiavelli, al palazzo, si aspettava di vederlo spuntare proprio lì.

Il Riario colse la distrazione della Tigre, ma non volle dimostrarle quanto gli pesasse, così chiese, restando serio, ma senza suonare scontroso: “Come sta mio fratello Giovanni?”

La Sforza si morse il labbro e, tornando a guardare Galeazzo, si ricordò di come lui fosse rimasto nella stessa camera di Livio quasi fino alla morte del fratello minore. Nei suoi occhi verdi e nel suo viso allungato si poteva leggere tutta la tensione derivante da quel parallelismo che, esattamente come era successo a Bianca, non era riuscito a scansare.

“Ha ancora la febbre alta.” gli disse la madre, ben decisa a non nascondere a nessuno la gravità della situazione, men che meno ai suoi figli: “Stiamo cercando di fargliela passare con una mia pozioni e con panni imbevuti di aceto e acqua, ma...”

“Morirà?” chiese il Riario, deglutendo, lo spettro del passato che riemergeva netto nella sua voce.

Era affezionato a Giovannino. Anche se era ancora molto piccolo, lo sentiva come parte integrante della sua famiglia. Era figlio del Medici, un uomo che aveva apprezzato e stimato, e sentire di avere metà del sangue in comune con lui glielo rendeva vicino, facendogli provare per lui lo stesso affetto che provava per tutti gli altri, Bernardino compreso.

Pensare di poter perdere, quindi, un altro fratello, era per lui un motivo di tormento difficile da mettere a tacere.

“Mi auguro di no...” rispose, cauta, Caterina: “Però non possiamo considerarlo ancora fuori pericolo.”

“Che cos'ha di preciso?” si informò Galeazzo come se, quella precisazione, potesse cambiare qualcosa.

“Non lo capiamo.” ammise la Leonessa, con un filo di voce.

“Perdonami, stavo facendo tardi...” li interruppe Pirovano, arrivando quasi di corsa proprio dal cortile d'addestramento: “Andiamo?”

Siccome il Riario aveva assunto un'espressione interrogativa, mostrando di nutrire un vivo interesse negli affari della madre, malgrado l'opprimente preoccupazione per il fratello, la Sforza gli spiegò, anticipando la sua richiesta: “Stiamo andando a incontrare l'ambasciatore di Firenze.”

Il ragazzino, che con i suoi tredici anni e mezzo passati si sentiva un turbine di entusiasmo e voglia di fare, provò a proporsi: “Posso accompagnarvi anche io?”

La Contessa ci pensò un istante. Se si fosse trattato di qualcosa di meno importante e delicato, gli avrebbe detto subito di sì. Temeva, però, che la presenza del figlio avrebbe in qualche modo influenzato il suo comportamento e le sue decisioni, magari arrivando anche a farle commettere qualche grave errore in nome dell'amor proprio.

Così, seppur con dispiacere, scosse il capo e gli disse solo: “Questa volta no.”

Il Riario non insistette, conoscendo troppo bene la madre, sapendo che la sua parola era sempre quella definitiva, soprattutto con i figli. Così, trattenendo con maggior difficoltà del solito un moto di delusione, fece un mezzo inchinò sia alla Tigre, sia a Pirovano e chiese licenza di andare.

“Galeazzo...” lo richiamò la donna, appena prima di lasciarlo andare.

Il ragazzino, sperando in un suo inatteso ripensamento, tornò immediatamente sui suoi passi, ma solo per spegnersi di nuovo quando la donna proseguì il suo discorso.

“Per favore, riferisci al Governatore Ridolfi quello che ti ho detto su Giovannino. Credo che interessi anche a lui, sapere cosa sta succedendo.” disse la Contessa, con un tono un po' freddo, che denunciava in parte il suo disappunto per la mancata richiesta di notizie da parte di Simone.

Il Riario si inchinò di nuovo e, non trovando la voce per dire altro, se ne andò, abbandonando un istante i suoi modi rigidi e concedendosi una corsa liberatoria, lasciandosi vincere, una volta tanto, dalla sua giovane età.

“Tuo figlio Galeazzo è un bravo ragazzo.” commentò Giovanni da Casale, mentre lui e la Tigre si avviavano all'uscita di Ravaldino.

“Sì. Ha ancora molto da imparare, però.” ribatté la donna.

“Avresti potuto farlo venire con noi, allora...” soppesò l'uomo, quando, ormai, erano già all'altezza della Cittadella.

“No, questa volta no.” rimarcò Caterina: “E comunque avrà modo di imparare quello che deve ancora imparare. Non ha nemmeno quattordici anni. Per molte cose è ancora un bambino.”

“Alla sua età, io avevo già ammazzato, ero già stato con una donna e avevo già provato la paura di trovarmi in mezzo a una battaglia senza sapere se ne sarei uscito vivo.” notò Pirovano, con una durezza che sorprese molto la sua amante.

Dedicandogli un'occhiata di traverso e accigliandosi, girando con decisione verso la strada che portava al palazzo, la Contessa borbottò: “Galeazzo non è come te, non avete né lo stesso carattere, né la stessa situazione. Per mio figlio voglio qualcosa di meglio, del destino riservato a un figlio di nessuno come te.”

Giovanni da Casale smise di camminare, ricambiando lo sguardo della Leonessa, stranito e, rimasto basito dall'aggressività delle sue parole, ebbe appena la forza di dire: “Sua madre sei tu.”

“Appunto.” fece eco lei e da lì non si parlarono più, arrivando al palazzo nel più totale silenzio.

   
 
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