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Autore: Saelde_und_Ehre    14/04/2019    7 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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VII.
Mit unserer Fahne ist der Sieg
(parte prima)

Potsdam, Settembre 1936 – tre anni prima.

Una mattina come tante altre, pensava il sottotenente Friedrich von Kleist, percorrendo con passo celere i diversi chilometri che collegavano il suo appartamento alla caserma. I suoi stivali militari percuotevano il marciapiede bagnato producendo uno sciacquettio continuo, cadenzato, mentre le raffiche di pioggia scrosciavano infrangendosi sugli ombrelli dei passanti e ruscellavano al suolo in gorghi e mulinelli che trasportavano foglie ingiallite. Dietro il velo d’acqua, facciate barocche dai colori pastello ed edifici di mattoni rossi assumevano una tonalità cupa. Ogni tanto le ruote di qualche autovettura sollevavano schizzi d’acqua che lo inducevano a farsi indietro; un tram passò e spalancò le sue porte, per poi richiuderle dinanzi al suo sguardo indifferente. Riparato sotto la pensilina della fermata, Friedrich aspettò che il convoglio si allontanasse, poi alzò lo sguardo sul quadrante del grande orologio che la sovrastava: aveva ancora il tempo per fermarsi nella solita caffetteria, decidendo sul momento se aspettare la corsa successiva o procedere a piedi com’era abituato a fare da ormai un anno. Gli piaceva fare le cose con calma, per questo partiva sempre molto presto la mattina: prendeva un caffè, leggeva il giornale e poi si fermava sul ponte che attraversava il fiume Havel, i gomiti appoggiati alla balaustra, e contemplava assorto la città che si svegliava. Visto il maltempo, l’intervallo che di solito avrebbe impiegato attardandosi in giro lo avrebbe trascorso a consumare una lauta colazione a base di pane, formaggio e salumi.
L’uomo distinto che serviva al bancone aveva ormai imparato a conoscerlo ma, anche se per abitudine consolidata gli faceva sempre trovare la colazione pronta, non aveva mai avuto modo di scoprire come si chiamasse: quasi nessuno, lì a Potsdam, sapeva chi fosse quel sottotenente biondo che portava con orgoglio la divisa della Wehrmacht. Tutti si limitavano a trattarlo con deferenza e rispetto, considerandolo un simbolo della rinascita della loro Nazione, ma nessuno si arrischiava a ricercare in lui una confidenza che non sembrava disposto a concedere.
Friedrich si sedette in un angolo appartato e, prima di dedicarsi al suo piatto, si diede una rapida occhiata intorno: al tavolo accanto al suo c’era un gruppo di SA che discutevano animatamente di politica, la fascia con la svastica ben in vista intorno al braccio. Erano chiacchiere cariche di ottimismo quelle che udiva ai tavoli, una speranza che veniva di continuo rinfocolata dalla propaganda: in molti, soprattutto i lavoratori, consideravano il Führer colui che avrebbe riportato la Germania agli antichi fasti. Ogni tanto si udiva anche qualche voce dissonante, ma non erano che sussurri che il vento si portava via in un soffio. Friedrich condivideva molto tiepidamente l’ardore dei suoi compatrioti, da una parte perché, forse, il suo inconscio risentiva della mentalità aristocratica e conservatrice con cui era cresciuto; dall’altra, perché la politica non era mai stata la sua sfera d’interesse: aveva rinunciato di buon grado ai privilegi nobiliari per condurre una vita spartana, ma se si era legato alla causa era per puro e semplice amor di Patria.
Stava sfogliando con aria svagata una copia della rivista Jugend che aveva trovato sul tavolo, quando una potente folata di vento ne fece svolazzare le pagine e la porta sbatté alle spalle di un uomo che era appena entrato. Lo identificò all’istante come un soldato: indossava un lungo impermeabile di pelle nera che lo fasciava completamente, gli stivali alti dei militari e il berretto calato sulla testa. Era bagnato da capo a piedi, e per un po’ rimase fermo sulla soglia ad asciugarsi i piedi inzaccherati. Nessun altro, a parte Friedrich, fece caso a lui.
Qualche istante dopo, con la coda dell’occhio, notò che l’uomo si era tolto l’impermeabile e si stava dirigendo con passo marziale verso l’angolo opposto del caffè. Non poteva vederlo in viso, ma non riusciva a ricondurre il suo aspetto a nessuno di già visto in precedenza: di solito i clienti di quella caffetteria erano sempre gli stessi; solo quando pioveva, la sua atmosfera raccolta, i legni invecchiati e le volte in mattoni si rivelavano un’attrattiva per i visitatori occasionali.
Cercando di non farsi vedere, lo scrutò da sopra l’orlo della rivista: era un capitano di fanteria; intorno al polsino della manica intravide la banda nera della Ostpreußen. Aveva i capelli di un castano nocciola, leggermente scompigliati dal berretto, più corti sulla nuca come imponeva il regolamento, la corporatura asciutta e segaligna. Prese posto a un tavolino vicino alla vetrata, dandogli le spalle, e attese l’ordinazione – un caffè e due fette di pane con burro e marmellata – poi raccattò un quotidiano da un cestino poco distante e si mise a leggere, senza curarsi di ciò che accadeva intorno a lui.
C’era qualcosa, in quell’atteggiamento distaccato e imperturbabile, che lo incuriosiva, anche se non avrebbe saputo spiegarsi cosa fosse.
Friedrich rimase ancora un po’ a scavare nei meandri della memoria cercando d’immaginare di chi potesse trattarsi; poi, come se quelle speculazioni avessero improvvisamente perso ogni rilevanza, bevve il suo caffè e sfruttò la momentanea quiete dell’acquazzone per incamminarsi verso la vecchia caserma.

Nel vassoio non restavano che briciole e il caffè era ormai finito, ma il capitano rimase seduto al tavolino, pervaso da una strana sensazione. Si specchiò nella vetrata e gli parve di vedersi particolarmente smunto e scarmigliato, dopo l’insonne notte trascorsa.
Prestava servizio in quella caserma da oltre due anni, si trovava bene nella sua vecchia compagnia – c’erano affiatamento, legami saldi e cameratismo, anche se lui li aveva sempre vissuti con tiepido distacco – e la decisione del colonnello Wolff di trasferirlo gli era suonata inaspettata, quasi priva di senso. Non aveva mai visto di buon occhio i cambiamenti improvvisi, e immaginava che gli ci sarebbe voluto del tempo per ambientarsi in una sezione nuova.
Controllò l’orologio da polso – era quasi l’ora – poi guardò fuori: il grigiore che pervadeva ogni cosa rendeva i colori più cupi, ma sembrava che le gocce scendessero più rade, quindi raccolse le sue cose, si avvolse nel suo impermeabile e diresse i propri passi verso la meta.

La mole familiare della caserma, per lui come una sorta di seconda casa, lo accolse da lontano: era una costruzione dall’aspetto severo, con candide file di lesene a separare le finestre, il tetto rosso e il frontone ornato da sculture classiche. Il complesso, risalente ai tempi dei fasti imperiali, era adagiato su un ampio prato verde, tratteggiato da sentieri lastricati e punteggiato d’alberi.
L’alba tingeva il cielo d’arancio e pervinca: sarebbe giunto a rapporto dal colonnello giusto in tempo per l’orario prefissato.
Oltrepassò il cancello dell’edificio con un misto di irrequietudine e trepidazione.

Quando il colonnello Wolff aveva annunciato che quel giorno sarebbe entrato in servizio il nuovo comandante della loro compagnia, il sottotenente von Kleist si era immaginato che il capitano Bühler fosse un uomo sulla trentina, dai lineamenti ordinari e il puntiglio del protocollo, con un pronunciato accento del Baden. Uno di quelli che ti perforano la schiena con lo sguardo mentre tiri al poligono o mentre ti alleni, schioccando rampogne con voce chioccia.
Un’intuizione, forse tardiva, gli aveva suggerito che potesse essere quel giovane ufficiale che aveva visto nel caffè, che durante l’adunata passava in rassegna i volti dei soldati schierati sul piazzale con espressione attenta.
Ne aveva ricevuto conferma quando il maggiore von Eltz, un uomo sulla quarantina col petto costellato di medaglie al valore, si era fatto avanti seguito proprio da lui. “Signori,” aveva esordito, rivolgendosi ai quattro comandanti di plotone schierati sull’attenti, “questo è il capitano Bühler. Da oggi prenderà il comando della vostra compagnia.”
Il nuovo arrivato si limitò ad annuire, poi si avvicinò per presentarsi a ciascuno di loro.
“Sottotenente Friedrich Hartwig von Kleist”, disse il ragazzo quando fu giunto il suo turno, stringendogli con risolutezza la mano.
Nella Ostpreußen gli ufficiali tendevano ad essere molto più giovani rispetto alla media, ma le fattezze di quel capitano accentuavano quell’impressione: dimostrava a malapena venticinque anni, e neanche il naso leggermente pronunciato, l’espressione seria e le labbra sottili riuscivano a mitigarla. Non rispecchiava i classici canoni di bellezza nordica, ma Friedrich riconobbe che il suo aspetto irradiava una serena autorevolezza: i capelli erano di nuovo ordinati, con la scriminatura da un lato, e nel suo volto pallido ardevano un paio di caldi occhi nocciola – uno sguardo che ispirava fiducia e suggeriva molto più di quanto riuscisse a leggervi in superficie.
“Molto bene,” concluse il capitano, dopo essersi presentato a sua volta, “possiamo cominciare.”

Il capitano Bühler approfittò della pausa dopo il pranzo per uscire a fare un giro del piazzale, nella speranza di rintracciare qualcuno dei suoi vecchi camerati. Si trovava in quella nuova compagnia da circa due settimane, ma gli pareva di aver perso la cognizione del tempo: il cambiamento non era stato così radicale come si sarebbe aspettato e, nonostante tutto, sentiva di potersi ritenere soddisfatto.
Si fermò a pochi passi dall’entrata, la schiena appoggiata a una colonna della loggia, e si tolse il berretto. Una folata di vento, che faceva volteggiare le foglie secche ammucchiate ai lati dei sentieri, gli scompigliò i capelli mentre osservava i gruppetti di soldati intenti a spazzarle via. Frugò distrattamente nella tasca dell’uniforme alla ricerca di una sigaretta, quando una voce alle sue spalle lo fece trasalire. “Signor capitano.”
Hans si voltò di scatto, trovandosi di fronte uno dei suoi subalterni. “Sottotenente von Kleist.”
Il giovane ufficiale non rispose subito; in piedi con le mani dietro la schiena, teneva lo sguardo fisso sulla bandiera che sventolava al centro del piazzale. Aveva la sua tipica espressione pensierosa e concentrata, come quella di un’aquila intenta a scrutare la sommità di una vetta. Per la prima volta da quando si erano presentati, il capitano indugiò più a lungo del solito su di lui: i capelli d’oro pallido, leggermente ondulati, gli incorniciavano il viso dai lineamenti fieri e armonici; non era molto alto, ma la sua figura era snella ed elegante come quella di un atleta, e gli occhi riflettevano il colore del cielo.
“Con tutto il rispetto, capitano”, sbottò il sottotenente a bruciapelo, in tono tagliente, “da quando in qua gli ufficiali di fanteria vengono relegati in magazzino?”
Di fronte a quell’evidente violazione del regolamento, Bühler sobbalzò e lo fissò accigliato. Comprese che alludeva al fatto che lui, per ordine del colonnello, lo avesse mandato a ricontrollare la lista delle munizioni ancora disponibili. “Sottotenente von Kleist, lei non è tenuto a mettere in discussione gli ordini, né tantomeno le decisioni dei suoi superiori. Qui, nella Wehrmacht, lei è un soldato come tutti gli altri, e come tale deve comportarsi. Nessuno terrà conto del suo blasone o del suo rango.”
“Non c’entra niente la mia ascendenza, signore”, ribatté piccato il sottotenente, “un ufficiale di fanteria non è un furiere. Sono ben altre le mansioni che sono tenuto a svolgere.”
“Nessuno è esente da obblighi”, lo rimbeccò il capitano, “lei non ha idea di quante volte io abbia dovuto fare da galoppino per i miei superiori, senza batter ciglio. È così che funziona un esercito: lei non è più soltanto un individuo a sé stante, ma l’anello di una catena che, se spezzato, rischia di compromettere l’intero equilibrio.”
Von Kleist sostenne il suo sguardo senza vacillare; i suoi occhi chiari ebbero un fremito di fierezza, che si scontrò con la sua impassibilità. Serrò le labbra contrariato, tuttavia si costrinse a rispondere, a denti stretti: “Signorsì, signor capitano.”
“Ora, se mi vuole scusare, sottotenente, devo andare”, disse Bühler, con una sarcastica nota di sussiego nella voce. Si rimise il berretto e gli voltò le spalle. “Veda di non tardare, domattina: la partenza è fissata per le sei in punto.”
“Sì, signore.”
Mentre se ne andava a controllare gli ultimi preparativi per la partenza, l’eco delle parole del sottotenente von Kleist continuava a rimbombargli nella volta cranica. La presenza di quel giovane gli causava sensazioni contrastanti, uno strano disagio allo stomaco. Non era tanto la sua lingua insolente o la durezza con cui lui lo aveva redarguito a turbarlo: in quelle due settimane si era reso conto che il ragazzo possedeva quell’indomita scintilla che mancava agli uomini troppo inquadrati nei ranghi, e non dubitava che, una volta fattosi strada nell’esercito, avrebbe saputo rendersi artefice di imprese in grado di rendere lustro alla Patria. Tuttavia, trovandosi ancora all’ultimo gradino della gerarchia degli ufficiali, von Kleist doveva imparare a portare rispetto ai suoi superiori, anteponendo il dovere a ogni altro afflato personale.
Non aveva davvero idea di cosa aspettarsi da lui, durante l’esercitazione sul campo dell’indomani. Non poté negare di esserne incuriosito, forse addirittura più del dovuto.

Quando il capitano se ne fu andato, il sottotenente von Kleist si avviò verso la sala di scherma a testa bassa, il berretto ben calcato sulla testa. Il passo marziale dei suoi stivali riecheggiava sulla pietra bagnata dal sole, calpestando di tanto in tanto qualche foglia secca che si era posata sul selciato.
Forse, impiegare il tempo libero che gli rimaneva tirando di spada col tenente Bentheim – l’unico, in quella caserma, che potesse meritare l’appellativo di amico – lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee e a svagarsi un po’: Konrad, che lo conosceva meglio di chiunque altro, sarebbe riuscito a indovinare la natura del suo turbamento anche senza che lui lo menzionasse apertamente, ma si sarebbe astenuto dal fargli domande imbarazzanti.
Le parole del capitano bruciavano come un’umiliazione sul suo orgoglio, soprattutto quelle sprezzanti allusioni al rango nobiliare: in quelle due settimane di conoscenza, Friedrich aveva racimolato soltanto impressioni positive sul suo conto, ma l’altro continuava a trattarlo come una specie di mulo recalcitrante e refrattario alle regole. Lui aveva intuito fin da subito che Bühler, al di là della facciata irreprensibile, era molto più simile a lui di quanto non volesse dare a vedere. Avrebbe tanto voluto fargli capire che non era per superbia che aveva contraddetto il colonnello: aveva sempre creduto che ogni soldato meritasse di essere trattato allo stesso modo, che l’etica militare fosse soggetta a leggi che andavano al di là di un asettico e rigido regolamento. La dimensione soggettiva, i trascorsi personali, il tempo e lo spazio non avevano alcun ruolo all’interno di quella visione.
Strinse i denti: era diventata una sfida dimostrargli che si era fatto un’idea sbagliata sul suo conto, far sì che pensasse a lui come a un ufficiale che certi valori li onorava e non come a uno spocchioso figlio di papà. Una sfida che non poteva permettersi di perdere, costasse quel che costasse.

Bühler esaminò gli automezzi schierati in cortile, già pronti per la partenza: qualche auto militare, rimorchi carichi di armi e munizioni, salmerie e camionette per il trasporto dei soldati, tutti contrassegnati con la croce di ferro simbolo della Divisione. Parlò brevemente con gli addetti, annotò sul taccuino le cose che mancavano e, ancora una volta, si trovò a chiedersi cosa sarebbe successo l’indomani. Non era certo la prima spedizione a cui prendeva parte, dopo quattro anni di servizio, ma era la sua prima volta al comando di quella compagnia, e prima di allora non si era mai trovato a dover discutere con un ufficiale che trovasse degradante un compito affidatogli da un superiore. Non aveva mentito a von Kleist: una volta finito di controllare lì, anche lui sarebbe dovuto andare a sbrigare delle commissioni per conto del tenente colonnello von Rauheneck, che come sempre preferiva fare affidamento su di lui piuttosto che sui suoi attendenti personali.
“Capitano Bühler.”
Il colonnello Wolff lo fermò prima che potesse mettersi sull’attenti. Era un uomo corpulento, che aveva ampiamente sorpassato la cinquantina; capelli grigi ben ordinati e un accenno di baffi sul volto pieno, accentuato da una leggera pappagorgia.
“Signor colonnello,” rispose il giovane.
“L’esercitazione di domani sarà particolarmente difficile, capitano”, esordì senza preamboli l’ufficiale più anziano. “Ci serviremo di un supporto di carri armati e artiglieria campale, in una vera e propria simulazione di battaglia. Lei sa bene che questo nostro reggimento fa parte di un’unità d’élite, e io mi aspetto da tutti i miei ufficiali che gli ordini vengano recepiti e che le mie direttive siano applicate in maniera corretta.” Fece una pausa, si aggiustò la giubba che gli aderiva al corpo e soggiunse, guardandolo negli occhi: “Dico bene, capitano?”
“Naturalmente, signore.”
“Un esercito, per concorrere alla vittoria finale, ha bisogno di coordinazione e coesione tra i reparti: ogni soldato è utile, ma nessuno è indispensabile. Durante le precedenti esercitazioni, il sottotenente von Kleist ha dato mostra di essere uno dei più capaci, ma è fin troppo individualista. Finora sono stato molto indulgente nei suoi confronti, tuttavia riconosco che il ragazzo ha bisogno di qualcuno che sappia indirizzarlo nella maniera giusta.” Hans deglutì, sentendosi la bocca improvvisamente riarsa; comprese dove Wolff voleva andare a parare prima ancora che lo dicesse, e il suo cuore prese a battere più forte. Infatti, il colonnello gli posò una mano sulla spalla e gli rivolse uno sguardo penetrante. “D’ora in poi questo compito spetterà a lei, capitano.”

Nonostante fosse già settembre inoltrato, il sole irradiava un piacevole tepore, stemperato appena da qualche refolo di vento fresco. Al di sopra delle loro teste, di tanto in tanto, potevano udire le strida degli uccelli migratori che sorvolavano il cielo a squadriglie compatte.
Gli ufficiali della compagnia erano riuniti all’ombra di un albero secolare, dove il capitano Bühler, che deteneva il comando del reparto, esponeva la strategia da seguire. Teneva la mappa dispiegata sul cofano di una Kübelwagen e, mentre parlava, vi tracciava segni che indicavano il percorso e le varie prove di carattere misto che avrebbero dovuto sostenere prima di giungere in vista dell’obiettivo finale. Il tenente Wessel – capelli neri impomatati con la riga all’indietro, uniforme stirata al millimetro; tra tutti il più attento al protocollo – lo ascoltava come uno scolaro diligente, le mani dietro la schiena e gli occhi intenti a studiare la cartina. Il sottotenente Körner si passava nervosamente le dita tra i corti riccioli e il tenente Klaus Fromm, braccia incrociate sul petto ed espressione improntata a una serena imperturbabilità, annuiva silenziosamente a ogni parola. Friedrich von Kleist invece, appoggiato alla fiancata del veicolo e leggermente in disparte, lo guardava di sottecchi e prendeva i suoi appunti con svolazzi resi imprecisi dalla rapidità del polso.
“Prima di partire, controllate per l’ultima volta che tutte le munizioni in dotazione siano inerti. Non credo che sia il caso di ripetere l’incidente dell’anno scorso,” disse alla fine il capitano, alludendo a un episodio che tutti conoscevano fin troppo bene. Guardò i suoi subalterni a uno a uno, poi si soffermò per qualche istante su Friedrich, che lo fronteggiò con aria di velata sfida. Un brivido corse lungo la spina dorsale del sottotenente quando Bühler ricambiò il suo sguardo con la stessa intensità, inchiodando i propri occhi ai suoi.
“Sissignore,” risposero Körner, Fromm e Wessel quasi all’unisono, ignari di quello scambio.
Friedrich strinse con decisione la cinghia dello Schmeisser che gli pendeva dalla spalla. “Sì, signor capitano.”

Acquattato tra le frasche, con alcuni ciuffi di foglie a incorniciargli l’elmo per meglio camuffarsi tra la vegetazione, il sottotenente von Kleist attendeva che la compagnia avversaria comparisse nel campo visivo del suo binocolo. La terra si scioglieva a contatto coi suoi palmi sudati, rendendo scivolosa la presa sullo strumento. Quasi distrattamente, il giovane se li asciugò strofinandoli contro i pantaloni della divisa e tornò a scrutare la buia e silenziosa selva.
Sentiva alle sue spalle la presenza del capitano, anch’egli rintanato dietro un cespuglio col piglio attento di un predatore, e la sola idea gli provocò un leggero formicolio alle mani.
Qualche minuto dopo avvistarono la compagnia comandata dal capitano Schwieger, che si distingueva dalla loro solo per una fascia di colore diverso al braccio. Friedrich rimase a guardarli mentre posizionavano l’artiglieria sulla sommità di un declivio, coperta da una muraglia d’alberi frondosi e da barriere di sacchi imbottiti impilati gli uni sugli altri. Alla vista delle lucide canne che si volgevano minacciose verso il loro schieramento, un mormorio sbigottito serpeggiò tra le ultime file.
“Sono caricati a salve, gente”, borbottò il caporale Schneider, forse nel tentativo di rassicurare i più giovani serventi dell’obice da 105. Aspirò una boccata dalla sigaretta, poi soggiunse: “Tanto fumo e niente arrosto.”
“Schneider, invece di bighellonare, si sbrighi a sistemare i pezzi come da ordini”, lo rimbrottò prontamente il capitano, producendo un lieve fruscio di rami. “E, a proposito di fumo – preferirei vederlo uscire dalle bocche dei cannoni piuttosto che dalla sua.”
A quelle parole, qualcuno ridacchiò, ma a Bühler bastò un gesto per zittirli. Con sommo stupore di Friedrich, l’indolente caporale ridusse le sue lamentele a un fioco mormorio, spense la cicca ed eseguì con inusuale prontezza.
Rimasero in attesa, immobili nelle loro posizioni fin quando non udirono i primi boati, che presto irruppero in una cacofonia assordante e riempirono l’aria di un fumo candido e denso come zucchero filato. Dopo un tempo che parve interminabile, videro le prime file di fanteria che risalivano strisciando il pendio, sagome scure e brulicanti che riaffioravano da un oceano di fumo.
“Adesso!” ordinò il capitano.
Von Kleist ripeté l’ordine e il suo plotone fu il primo ad aprire il fuoco. Le esplosioni simulate rendevano l’aria caliginosa, i bossoli vuoti schizzavano qua e là: benché la loro carica offensiva fosse minima, la vera sfida stava nello schivarli.
Prima ancora che il capitano potesse esprimere ad alta voce le sue perplessità, Friedrich cercò di valutare la situazione di persona: la compagnia di Günther Schwieger simulava un fuoco di sbarramento per coprire l’avanzata della fanteria e impedire al contempo la loro; non potevano arrischiarsi a tentare un assalto in campo aperto. Si voltò verso il suo comandante e si accorse che a separarli non erano che pochi passi: Bühler era strisciato dietro un albero, il calcio di un Mauser poggiato sulla spalla. “Sottotenente von Kleist a rapporto, prego,” lo chiamò in tono asciutto, senza abbandonare il fucile.
Friedrich ordinò al suo plotone di mantenere la posizione, si avvicinò e si mise sull’attenti. “Signor capitano.”
“Dobbiamo creare un diversivo”, disse l’altro, senza preamboli. “Farò avanzare gli obici da campo per costringere la fanteria a ripiegare, mentre noi sfrutteremo la copertura per spostarci in una posizione più vantaggiosa. Mi assista durante la manovra, sottotenente: dovrebbe sapere come fare, ne abbiamo parlato tante volte.”
“Signorsì.”
Von Kleist strisciò di nuovo dietro la sua postazione, raccolse da terra una granata da esercitazione e la scagliò nello spazio che divideva i due schieramenti: la piccola fiamma che scaturì dall’impatto bruciacchiò qualche ciuffo d’erba e si estinse automaticamente, lasciando dietro di sé una scia di fumo. Quando la cortina fumogena creata dai cannoni fu abbastanza densa da celare i loro movimenti, il capitano guidò la compagnia lontano da lì.

Con gli stivali ancora sporchi di mota dopo l’attraversamento del guado, Hans Bühler emerse dal pantano e si guardò intorno, schermandosi gli occhi con una mano per proteggersi dal riflesso del sole che riverberava sull’erba ingiallita. Intorno a loro, l’aperta campagna si estendeva a perdita d’occhio per diversi chilometri; solo qua e là, un alberello sparuto spuntava dal nulla come un’anima derelitta, le membra scheletriche protese verso il cielo. Una poiana passò a volo radente, ghermì una preda e riprese quota a gran velocità, riempiendo il cielo coi suoi schiamazzi. “Nessuno in vista”, disse.
“Nemmeno i Panzer che abbiamo individuato prima delle paludi, signore?” gli chiese il tenente Wessel.
L’ufficiale sentiva sulla schiena gli occhi di centinaia di soldati che lo fissavano con aspettativa. “Nessuno in vista,” ripeté, per poi rivolgersi agli altri comandanti di plotone che gli si erano avvicinati in silenzio. “Naturalmente, signori, gli ordini restano invariati: la prima cosa che dovrete fare nel caso notaste qualcosa di sospetto, sarà avvertirmi.”
“Signorsì, signor capitano.”
“Molto bene. Possiamo procedere dritti verso la meta.”
La meta. Neanche lui sapeva esattamente dove fosse: sapeva soltanto che a un certo punto le indicazioni sul percorso s’interrompevano, e la prova finale stava nell’individuare la bandiera da prendere a testimonianza della vittoria. Si erano lasciati alle spalle i combattimenti e avevano percorso diversi chilometri a piedi, tra boschi e paludi, bagnandosi fino alla cintola per attraversare il fiume e arrampicandosi sui sassi scivolosi per risalirne il corso man mano che s’inoltravano nella foresta.
La presenza del sottotenente von Kleist, quel giorno, lo turbava più che mai: faticava a conciliare il comportamento altero che ostentava in caserma con ciò che lo aveva visto fare sul campo. Combatteva in prima linea mordendo il fango, avanzava coi gomiti a terra incurante della fatica e si muoveva nei luoghi più impervi con la disinvoltura di un avventuriero. Fu proprio lui, dopo una decina di minuti di silenziosa marcia, ad accostarlo indicandogli una palpitazione d’aria che velava appena l’orizzonte. “Panzer in vista, signor capitano.”
Bühler ordinò alla colonna di fermarsi, poi inforcò il binocolo. La formazione di carri si stava aprendo a ventaglio, erano almeno dieci. “Affermativo. Scavate una buca, non c’è tempo da perdere. Continueranno a girarci intorno finché non ci passeranno addosso.”
Subito i soldati, armati di vanghe da trincea, presero a scavare di gran lena una fossa abbastanza grande e profonda da ospitare tutta la compagnia e sufficientemente stretta da impedire ai cingoli di incagliarvisi. Ancora una volta, stipati com’erano in attesa che i Panzer passassero, Hans si accorse di essere così vicino a von Kleist che le loro spalle si sfioravano. Gli parve quasi di sentire il calore del suo corpo, che gli causò un involontario quanto inevitabile brivido e, quando il ragazzo si sporse oltre il bordo della buca, fu solo con molta fatica che riuscì a trattenere il folle istinto di afferrarlo per una manica e trascinarlo nuovamente giù. Tuttavia, non fu che un brevissimo istante prima che entrambi si rannicchiassero l’uno accanto all’altro, trattenendo il fiato: i Panzer caracollarono attraverso la piana e passarono oltre, portando i cingoli sporchi d’olio e fango a una spanna dai loro visi.

Il Sole era già alto quando la colonna di soldati in marcia s’imbatté nella compagnia di Sturm, che sbarrò loro la strada e li impegnò in uno scontro senza esclusione di colpi. Von Kleist conosceva bene quel capitano: la sua compagnia era una di quelle da prima linea, una di quelle che nelle esercitazioni campali era disposta a tutto pur di ottenere la vittoria. Quella del tenente Bentheim, che sostituiva il suo comandante, non era da meno, anche se solitamente Konrad era un tipo più pacato e metodico, di quelli che pianificavano con attenzione ogni aspetto della strategia e andavano dritti verso l’obiettivo, a colpo sicuro, sapendo che non avrebbero fallito. Era proprio lui l’avversario che lo preoccupava maggiormente: in quelle esercitazioni, il fattore determinante non era la forza o l’ardimento, bensì la capacità di eseguire manovre efficaci nel minor tempo possibile. Tutto ciò, il più delle volte, assumeva i connotati di una sfida cavalleresca, di un cortese duello ad armi pari, come nei tornei di cui era abituato a leggere nei romanzi di Wolfram von Eschenbach.
Sapeva, tuttavia, che non si sarebbero mai impadroniti della bandiera rimanendo semplicemente a scaricare proiettili finti addosso ai fantocci che stavano dall’altra parte della barricata, nella speranza di rompere il loro schieramento prima di venire a loro volta sopraffatti.
Bühler gli aveva assegnato una posizione in prima linea, e i propositi del giorno precedente traevano da essa linfa vitale: il capitano aveva dato prova di possedere ottime capacità di comando e di elaborazioni strategiche, accrescendo le speranze di vittoria di tutta la compagnia. Voleva dimostrargli che si sbagliava, guadagnarsi la sua fiducia e la sua stima, ma forse c’era anche qualcos’altro… qualcos’altro su cui lui non ebbe il coraggio di soffermarsi.
Ordinò ai soldati del suo plotone di aumentare la potenza del fuoco e si godette lo spettacolo: investiti dalla loro carica, gli avversari abbandonarono le postazioni più avanzate, permettendo a loro di guadagnare terreno.
Era così concentrato che si accorse a malapena della presenza amica che era strisciata furtivamente al suo fianco: vide solo una figura in grigioverde che avanzava carponi e un elmetto d’acciaio che si sollevava, fino a sporgersi al di là della barriera di sacchi di sabbia.
“Come sta andando, sottotenente?”
Nell’udire la voce del capitano, Friedrich quasi trasalì. “Si procede, signore”, rispose di riflesso, impedendo per un soffio che il suo mitra andasse a sferzare i cespugli. Nonostante il tono impersonale, si rese conto che nella sua voce c’era una strana vibrazione.
Aveva visto più volte Bühler andare avanti e indietro da un capo e l’altro dello schieramento, dettando gli ordini di persona e scambiando brevi battute con ufficiali, sottufficiali e talvolta anche coi più umili fantaccini, ma quella volta, anziché continuare l’ispezione, il capitano rimase lì, armato della sola pistola caricata a salve.
Fu questione di pochi attimi: una granata lanciata dal fronte opposto simulò una spessa cortina fumogena, e le raffiche ripresero con rinnovata energia.
“Attenzione, signore!” urlò von Kleist tirando il capitano per una manica, poco prima che un tintinnio metallico gli sfiorasse l’elmo. Fulmineo, Bühler lo afferrò per le spalle e lo spinse in copertura. Alcuni bossoli rimbalzarono sui sacchi di sabbia e finirono nell’erba, rotolando come gusci vuoti.
Ansante e ancora frastornato, sdraiato supino per terra, Friedrich tossì rumorosamente.
“Tutto bene, sottotenente?” soffiò il capitano, fissandolo col bronzo fuso dei suoi occhi dilatati. Lo sovrastava come un’eclissi, un contatto così serrato che lo portò istintivamente a rabbrividire, il corpo ridotto a un fascio di nervi tesi.
Non osò indugiare sulle vaghe sensazioni che si agitavano dentro di lui e, come sospeso in uno strano deliquio, si limitò ad annuire. “E lei, signore?”
Senza degnarlo di una risposta, Bühler si tirò su bruscamente: sul suo volto era calata un’ombra, le labbra stirate in un’espressione contrariata. Con la mano libera si stava massaggiando una spalla indolenzita.
“Signor capitano?”
“Ottimi riflessi, von Kleist”, disse l’altro, accennando un sorriso sghembo.
Il sottotenente aggrottò le sopracciglia, ma non osò fargli ulteriori domande e riprese il proprio posto.

L’avanzata proseguì a sorti alterne, fino al momento in cui Walther Eichmann raggiunse il comandante di compagnia, si mise sull’attenti e proclamò: “Signor capitano, abbiamo individuato l’obiettivo finale!” La sua voce si levò dallo schieramento come lo stridio di un corvo.
Hans si volse verso la prima linea e si avvide che von Kleist lo stava fissando: un luccichio di trionfo rendeva le sue iridi simili a due splendide acquemarine, come se fosse stato proprio lui il primo ad accorgersi dell’ubicazione della bandiera. Con sgomento si costrinse a distogliere lo sguardo e chiamò a sé i comandanti di plotone, che poco dopo giunsero ad attorniarlo.
Ascoltarono tutti quanti il rapporto del sottotenente, poi Wessel si grattò una guancia con aria pensosa e disse: “Se non ricordo male, c’è un bel tratto di foresta, nonché un percorso molto impervio, prima di giungere a quell’altura. Ma se abbandoniamo lo scontro adesso, gli altri ci seguiranno.”
“È esatto,” intervenne il tenente Fromm, “inoltre, non sappiamo dove si trovi la compagnia del capitano Bentheim, visto che non l’abbiamo ancora intercettata…”
“Conoscendolo, potrebbe essere quasi arrivato a destinazione,” disse von Kleist. “Non abbiamo tempo da perdere. Signor capitano, potremmo…”
“Ci divideremo in due gruppi”, lo precedette Hans, che aveva immaginato subito dove volesse andare a parare, calcando le parole con insolita durezza. “Immaginate di essere in una vera battaglia: abbiamo un avamposto da conquistare, ma i nemici ci tallonano per rallentare la nostra avanzata. Se volgessimo loro la schiena, per troppa avventatezza, sarebbe una carneficina; dunque resteremo qui. Tuttavia…” Li squadrò tutti a uno a uno, soffermandosi sui loro visi attenti. “In vista della vittoria finale, invierò un piccolo distaccamento – un paio di squadre al massimo – affinché proceda dritto verso la meta.”
Spalle dritte e testa alta, il sottotenente fece un passo avanti, le dita strette intorno alla cinghia del suo MP38. “Mi offro volontario, signor capitano.” Poi, senza attendere replica, con risolutezza aggiunse: “Se me ne dà licenza, prenderò le squadre di Böhmer e Hoffmann con me.”
Bühler assottigliò gli occhi, come per osservarlo meglio mentre cercava di ponderare la situazione: comprese di essere combattuto tra i suoi legittimi dubbi di comandante e la sensazione di trovarsi in bilico sull’orlo di un baratro scuro e senza fondo, con solo un’esile corda sotto i piedi. Affidare a von Kleist un incarico simile, senza le giuste basi per instaurare con lui un rapporto di fiducia, poteva rivelarsi un azzardo che, in caso di fallimento, avrebbe minato la credibilità di entrambi. Rammentò le parole del colonnello e, per l’ennesima volta in presenza del giovane, una strana sensazione di disagio s’impadronì di lui.
Congedò gli altri ufficiali, in modo da rimanere da solo con lui, e lo fissò dritto in faccia. “Ha già avuto esperienze di comando, sottotenente?”
“Per periodi di tempo relativamente brevi e alla guida di piccoli distaccamenti sì, signor capitano.”
Bühler rifletté: il fatto che quella fosse una semplice esercitazione e non una vera battaglia campale, oltre a mettere alla prova le sue abilità di comando, gli offriva l’occasione per analizzare il comportamento dei suoi subalterni. “Ritiene di essere l’ufficiale più adatto a ricoprire questo incarico?”
Con voce incolore, il giovane rispose: “Cercherò di fare del mio meglio, signore.”
“Sia chiaro, von Kleist”, lo ammonì Hans con durezza, enfatizzando il von, “la vittoria dell’intero reparto viene prima di ogni velleità di lustro personale.”
Il cipiglio del sottotenente fu alterato da una smorfia di fastidio, che fece tendere appena i muscoli della sua mascella. “Naturalmente.”
“Conto su di lei, sottotenente.”

Ormai un tutt’uno con le piante che lo circondavano, il sottotenente von Kleist diede un’ultima scorsa ai segni che aveva tracciato sulla mappa, poi sollevò il binocolo e individuò lo stendardo bianco coi simboli della Divisione: una croce di ferro con fregi dorati a decorarne i bracci, al cui centro spiccava l’aquila del Reich incorniciata da un’argentea corona di foglie di quercia. Sventolava fiero sulla sommità di una torre di guardia all’apparenza incustodita, che sembrava letteralmente fluttuare in un mare di fitta vegetazione.
“Signor sottotenente?”
Friedrich si volse indietro, notando che il sergente Hoffmann gli si era avvicinato e stava scrutando la boscaglia frusciante con un vago senso d’inquietudine. Gli altri soldati ciondolavano irrequieti, in attesa di conoscere il responso del loro comandante.
“Dobbiamo stare in guardia, signori”, disse infine, lasciandosi ricadere lo strumento sul petto. “Il percorso è lungo e sicuramente impervio. Inoltre, non sappiamo se qualcuno si trova già nel bosco: non escluderei la possibilità di trovare un plotone in agguato per sbarrarci la strada.” E io non ho alcuna intenzione di lasciarmi sottrarre la bandiera da sotto il naso… “Andiamo.”
Come si era aspettato, il percorso era irregolare, costellato di tronchi caduti che sbarravano la strada, sassi sporgenti da scavalcare e buche insidiose che risucchiavano i piedi a tradimento. Il sottotenente camminava in testa alla colonna tastando il terreno con un lungo bastone, gli stivali che affondavano fino al polpaccio in un tappeto di foglie secche e crepitanti: qualcuno dei suoi commilitoni era già caduto facendo scricchiolare i rametti che invadevano il sottobosco, qualcun altro si era slogato una caviglia e procedeva zoppicando. Tronchi soffocati dal muschio si ergevano come antichi pilastri a sostegno di una volta alberata, così fitta da impedire l’accesso ai raggi solari, e in quell’atmosfera irreale regnava un silenzio altrettanto sospetto: sembrava che non ci fosse nessun altro oltre a loro, nessun altro rumore oltre ai sussurri dei soldati e a quello dei loro passi.
Camminarono per un lasso di tempo inquantificabile, fin quando non trovarono la strada sbarrata da un improvviso dislivello del terreno, un pendio irregolare da cui spuntavano rocce e radici robuste.
“L’ultima prova è… arrampicata?” borbottò Löffler.
“Ci hanno forse preso per truppe da montagna?” fece eco Bauer.
“Un soldato della Ostpreußen deve essere pronto a tutto,” li rimbrottò il sottotenente, iniziando per primo la scalata. “Ricordate? Am Ende steht der Sieg.

Quando finalmente von Kleist mise la testa fuori dalla boscaglia, fu come emergere dalla superficie di un lago dopo una lunga immersione. La luce del sole perforò i suoi occhi, ormai assuefatti alle tenebre silvestri, ma non gli impedì d’intravedere, al di là della grande quercia che vigilava sull’altura, la bandiera che garriva nel vento autunnale.
Si tirò su, salutando quella visione come un presagio dell’imminente vittoria. Involontariamente, le sue labbra si piegarono in un accenno di sorriso, sebbene – ne era sicuro – la sua causa non fosse da ricercarsi nell’ebbrezza marziale, bensì in qualcosa di ineffabile, che ormai da giorni si agitava nel profondo del suo animo.
Al suo comando, i due capisquadra – i sergenti Böhmer e Hoffmann – fecero un passo avanti e si misero sull’attenti: il primo era un uomo alto, dall’aspetto ordinario; l’altro, un giovane sui venticinque anni coi capelli rossi e il viso lentigginoso.
“Suppongo che, una volta usciti allo scoperto, da qualche parte troveremo dei tiratori nascosti e delle mitragliatrici pesanti sistemate a intervalli regolari lungo il percorso”, esordì, “e a quel punto la prova di destrezza sarà individuare lo schema e recuperare la bandiera senza finire crivellati. Sebbene quei proiettili non abbiano mai ucciso nessuno, è pur sempre consigliabile evitarli.” Friedrich ricordava ancora la prima volta in cui era stato investito in pieno da una raffica, che per giorni gli aveva lasciato lividi violacei e dolenti su tutto il corpo. “Prenderò con me il sergente Hoffmann, Bauer e Hansen. Noi procederemo dritti verso l’obiettivo, mentre gli altri, sotto la guida di Böhmer, dovranno coprirci le spalle. Lindemann si tenga dietro per le comunicazioni.”
“Sì, signor sottotenente.”
“Molto bene”, disse il giovane. Si fece scivolare il mitra a tracolla e tirò fuori dalla fondina la pistola caricata a salve: per ciò che doveva fare, sarebbe bastata quella.

Mancavano pochi metri alla torretta, ma sembrava che il percorso non finisse più. Friedrich avanzava mezzo carponi, ferendosi i palmi coi sassi, le ginocchia scorticate che spuntavano dai buchi nei pantaloni. La sua squadra gli teneva dietro, conquistando una dopo l’altra le postazioni avversarie: non li vedeva, ma poteva sentire le loro voci e le detonazioni dei loro fucili che cercavano di proteggerlo dal tiro dei cecchini. Strinse i denti, cercando di mettere a tacere il bruciore delle escoriazioni, si puntellò con le mani e si risollevò, mentre i bossoli delle mitragliatrici continuavano a tintinnare intorno a lui. Si buttò di nuovo in copertura per evitare una raffica e si appiattì per schivarne un’altra, che gli sfiorò di striscio la schiena. Con un ringhio si abbassò, sbatté il viso contro il terreno duro e il sapore metallico del sangue misto a terra gli invase la bocca. Alzò appena la testa: l’aquila nera sventolava in cielo gagliarda, incurante di tanta fatica. Un ultimo sforzo…
Si spinse in avanti senza nemmeno più sentire la terra sotto i piedi, quasi incespicando, si aggrappò alla scaletta e vi si issò, con l’agilità di un marinaio che si arrampica sul sartiame per raggiungere l’albero maestro. Scandito dalla salita, il tempo parve dilatarsi a dismisura, per poi cristallizzarsi all’improvviso, nell’esatto istante in cui la sua mano afferrò l’asta lignea dello stendardo e la sfilò dal supporto.
Era finita: avevano vinto.
Tenendo il trofeo ben saldo in pugno, discese con un balzo e imboccò il percorso a ritroso, col cuore che gli galoppava nel petto.
“Lindemann!” urlò, con quanto fiato aveva in gola. “Si metta in contatto col capitano Bühler e gli dica che ce l’abbiamo fatta!”
Si lasciò ricadere sull’erba e appoggiò la schiena contro la quercia, esalando un sospiro soddisfatto. Con la manica dell’uniforme si ripulì il labbro sanguinante, poi gettò l’elmetto per terra e si attaccò alla borraccia per dissetarsi in attesa di ripartire. L’ultima cosa che gli restava da fare era ritrovare il suo comandante di compagnia e consegnargli personalmente la bandiera.
Sorrise tra sé e sé: quell’ultimo pensiero gli fu perfino più gradito della vittoria stessa.

“È fatta, signor capitano, abbiamo vinto!”
Hans fissava la boscaglia pervaso da una strana aspettativa, fonte di sollievo e al tempo stesso di trepidazione. Era stato il sottotenente von Kleist in persona a comunicargli quella notizia, come se fosse una cosa che riguardava principalmente loro due.
Invano tentò di scacciare quel pensiero, che continuava a ripetersi amplificato nella sua testa insieme alle ultime parole del giovane.
Quando avvistò il plotone che riemergeva dalla foresta, Bühler gli andò incontro e, nonostante l’impassibile distacco che si era imposto in sua presenza, con lo sguardo cercò subito il sottotenente.
Per tutta risposta, von Kleist fece sventolare leggermente lo stendardo in segno di saluto e affrettò l’andatura, distanziando di qualche passo gli altri soldati. Camminava con l’incedere solenne che avrebbe potuto tenere durante una parata militare, ma la sua uniforme era sporca e strappata e l’elmetto gli pendeva dalla cintura, facendo risplendere al sole i suoi capelli biondi. Non c’era alterigia nel suo contegno, bensì una serenità che accentuava il suo sorriso, per quanto tenue. In quella visione, il capitano credette di scorgere l’incarnazione di un qualche eroe classico: nobile, indomito e selvaggio.
“Herr Hauptmann”, ripeté il sottotenente, porgendogli la bandiera con un gesto cavalleresco, “am Ende steht der Sieg.”
Hans ricevette il trofeo come in un’investitura, mentre von Kleist, con una spavalderia che lo lasciò interdetto e affascinato, alzava appena il mento per incontrare il suo sguardo: non era quel desiderio di approvazione che aveva imparato a riconoscere nei subalterni, né un tentativo di compiacerlo, bensì un inequivocabile segnale che solo lui avrebbe potuto cogliere.
E in quell’attimo incastrato tra le pieghe del tempo, tutto il resto del mondo intorno a loro scomparve.

  
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