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Autore: kuutamo    14/04/2019    0 recensioni
Se dieci anni prima le avessero detto che a trent’anni si sarebbe ritrovata sola, infelice e al buio nel suo appartamento di venerdì sera, Elizabeth non ci avrebbe mai creduto. Già, perché prima non aveva nessun dubbio riguardo a chi le avrebbe tenuto compagnia per tutte quelle notti.
Ricordava la sua adolescenza come il periodo più bello ed emozionante di tutta la sua vita, e sapeva di non esagerare. La sua adolescenza era stata Adam.
E anche adesso, a distanza di anni, Elizabeth seduta al buio sul suo letto rimaneva sempre della stessa idea. Certo, era dura ammetterlo a se stessa, ma era esattamente così che stavano le cose. La cruda realtà era quella, anche se continuava a ricacciarla via, quasi fosse stata una mosca fastidiosa. Chissà dove si trovava Adam in quel momento, in quale città si era stabilito, se era felice, e soprattutto con chi lo era. Adam era come un fantasma che si ostinava ad infestare la sua testa, e questo succedeva perché Adam era parte di lei e lo sarebbe sempre stato.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Nel medesimo istante in cui Elizabeth mise piede in casa venne prontamente investita dalle lamentele di Grace che le aprì la porta:

"Dico, sei impazzita? Hai mandato qui tutta quella robaccia senza neanche avvertirmi?"

"Buongiorno anche a te, mamma. Sì, ho una terribile emicrania da stamattina, ma sto bene e tu?" Rispose ignorando totalmente la domanda che le era stata posta e il fastidio provocatole dall'epiteto non troppo carino rivolto ai suoi libri.

"Buongiorno, buongiorno, ma ora vuoi rispondermi?"

"Mamma, sono abbastanza sicura di averti informata del trasloco imminente, e tu eri d'accordo"

"Sì, solo che non mi aspettavo di dover tenere in cantina un'intera biblioteca!" Si lamentò la donna.

"Cos.. hai portato giù in cantina i miei libri?!" s'indignò con preoccupazione Elizabeth.

"A dirla tutta sono stati quelli del trasloco, e in ogni caso in garage non c'era abbastanza spazio"

"Non se ne parla, la cantina è troppo umida, porterò gli scatoloni in camera mia" s'impunto la donna.

Grace borbottò qualcosa tra i denti tornando ad occuparsi delle faccende di casa.

"Christopher, è arrivata nostra figlia" urlò a suo marito passando per il salone.

Elizabeth varcò finalmente la soglia chiudendosi la porta alle spalle e percorse il corridoio. Le sembrava tutto uguale, ma in realtà una volta visto il salone si accorse del cambio di arredo che aveva apportato sua madre dall'ultima volta che era stata lì. Le tende erano state totalmente stravolte, ora somigliavano più a quelle della signora Meyer, della casa accanto; pensò che questa probabilmente l'aveva vista parcheggiare nel vialetto e ora stava già telefonando a tutti per informali che la figlia di Grace e Christopher era tornata. La posizione dei divani era stata leggermente cambiata, per adattarsi al nuovo televisore enorme che avevano comprato da poco, televisore che sarebbe stato vilmente impiegato per guardare le partite di football, cosa che suo padre, sdraiato sulla sua storica poltrona, era intento a fare proprio in quel momento.

"Elizabeth! - Esclamò quando la vide entrare in salotto. Si slanciò in un abbraccio paterno per poi tornare con l'orecchio teso verso la partita - Mi sei mancata bambina mia. Hai fatto buon viaggio?"

"Ciao papà, sì, ho trovato solo un pò di traffico appena prima di uscire da Atlanta, ma per il resto tutto liscio come l'olio"

"Beh, certo. Non sarai neanche troppo stanca, solo solo tre ore"

"Sì, ma ho un gran mal di testa lo stesso" si lamentò lei.

"Sono contento di averti finalmente qui" disse Christopher sorridendo. Era genuinamente felice che sua figlia fosse tornata.

"Già, anche la mamma, sprizza felicità da tutti i pori" disse riferendosi a qualche minuto prima.

"Sai com'è fatta tua madre Elizabeth, ma non sai che ultimamente la sua mania per il pulito è sensibilmente peggiorata... - disse sghignazzando - quell'arsenale che è stato recapitato l'altro giorno l'ha mandata fuori di testa. Sono stato io a trattenerla dal chiamarti, lei aveva già alzato il telefono per dirtene quattro"

"Ah, quindi ora ha sbollito la rabbia? Non immagino com'era l'altro giorno"

"Cerca di non farla impazzire troppo, ok?" Disse in tono scherzoso.

"Non è mia intenzione, te lo giuro - 'più o meno' - e poi domani mi metto subito alla ricerca di un appartamento"

"Tesoro, puoi fermarti quanto vuoi. Per me è già bellissimo averti di nuovo qui" disse e l'abbracciò di nuovo.

"Anche per me" disse con poca convinzione Elizabeth ricambiando l'abbraccio, guardando le fotografie della sua infanzia appese al muro.

 

Una volta pranzato, Elizabeth iniziò a darsi da fare per sistemare almeno qualcosa prima di sera. Non voleva svuotare tutta l'auto, perché sapeva che si sarebbe trattenuta lì davvero per poco, il minimo indispensabile insomma. Tirò fuori giusto qualche valigia con i suoi vestiti e iniziò a portare tutto di sopra, in camera sua.

Quella stanza era sempre rimasta uguale a come l'aveva lasciata prima di partire per l'università: da allora aveva fatto visita ai suoi pochissime volte, rimanendo giusto il tempo necessario di qualche litigio per poi ripartire a gambe levate da Twins. Stavolta però, mentre varcava la soglia del suo vecchio rifugio, sapeva che era diverso: anche se per poco, sarebbero passati mesi prima di poter di nuovo fare le valige, quindi doveva affrontare la cosa di petto e non perdersi d'animo al primo ostacolo.

Si guardò intorno e notò che tutto era meticolosamente in ordine e ogni cosa, perfino il paralume della lampada profumava di pulito, come sempre. Aprì l'armadio e anche lì era tutto stato lavato: pensò che probabilmente sua madre ogni tanto lavava tutti i suoi vecchi vestiti, così da non far sviluppare cattivi odori. Si sedette sul pavimento continuando a guardarsi intorno: sembrava che in quella stanza tutto fosse rimasto identico, perfino la luce che entrava dalle imposte rifletteva nello stesso identico modo sulla superficie dello specchio del mobile del belletto. Poteva essere paragonata ad una capsula del tempo in cui, odori, oggetti ed impressioni erano rimaste le stesse in un tempo. Ad essere cambiata era solo lei. Perfino i suoi, seppur con più anni, erano gli stessi di sempre e battibeccavano riguardo agli stessi argomenti.

Sospirò. Poi si sedette sul pavimento incrociando le gambe e spostò il comodino al lato del letto: si sfilò uno dei suoi anelli e con l'estremità più appuntita liberò un'asse del parquet sollevandola. Sospirò ancora: Elizabeth era sempre stata una di quelle persone inconsapevolmente ed irrimediabilmente masochiste. Non lo faceva apposta, non era un'attitudine, né un atteggiamento da vittima: semplicemente il dolore, acceso o fioco che fosse, le ricordava che un tempo si era sentita viva, così viva da morirne.

Posò l'asse di fianco a sé ed infilando la mano in quel suo nascondiglio adolescenziale, le sue dita si mossero sicure tra le ragnatele finché non tastarono i bordi di una latta di metallo. Dopo averla tirata fuori, la donna la pulì per eliminare il grosso della polvere che si era accumulata sul coperchio. Era una vecchia latta che originariamente conteneva un bundle di una t-shirt e un cd dei Ramones, e che poi fu riutilizzata come una sorta di cassaforte. Prima di aprirla Elizabeth si guardò circospetta intorno, proprio come da ragazza: assicuratasi che non ci fosse nessuno nei paraggi si decise ad aprire la latta; era riuscita a tenerla nascosta a sua madre per tutto quel tempo e non voleva certo farsi scoprire ora. Al pari del vaso di Pandora, appena aprì la latta Elizabeth venne investita da una miriade di sensazioni, alcune piacevoli, altre invece decisamente più pesanti nel suo petto. Ma nonostante ciò voleva continuare ad osservare gli oggetti lì dentro racchiusi perché, come d'altro canto era sempre stato, quel male alla fine le faceva bene. È un ragionamento contorto quello del cuore di Elizabeth, se ragionamento lo si può chiamare, ma ai suoi occhi il suo animo si ravvivava, si riscuoteva dal torpore e provava finalmente qualcosa. Le dita affusolate della donna esaminavano ogni oggetto con minuzia, quasi fosse la prima volta che Elizabeth vedeva il contenuto della scatola. I biglietti di un concerto, delle foto, alcune foglie secche di magnolia, la scatolina di un anello. Quella di scatola era rimasta sempre vuota dal momento che l'anello che una volta era al suo interno Elizabeth non se l'era mai tolto: si trattava di un anello in argento con il motivo di una foglia, che le avvolgeva il pollice da parte a parte, terminando con un incisione sul gambo che recitava una minuscola, quasi invisibile "A". Quasi del tutto invisibile, ma lì.

Adam le aveva regalato quell'anello un anno dopo il loro incontro, proprio nello stesso luogo in cui l'aveva incontrata per la prima volta. Aveva forgiato quell'anello da solo, nell'officina di Todd, l'uomo che gestiva l'unico banco dei pegni della città e che possedeva l'attrezzatura necessaria per fondere l'argento e lavorarlo; era stato lui ad insegnargli a scolpire la forma della foglia e a spingerlo verso la perfezione. Dopo alcuni tentativi, entrambi erano stati soddisfatti del risultato finale e Adam aveva finalmente potuto donare l'anello alla ragazza che amava. Le aveva spiegato che la foglia rappresentava il far parte di qualcosa di più grande, in quel caso di un albero, e sebbene le foglie in autunno cadessero dai rami, i quali fino a quel momento erano stati la loro casa, queste un giorno sarebbero state di nuovo parte dell'albero, solo in un'altra forma. Adam si sentiva proprio come una foglia d'albero: abbandonato, gettato nel caos del mondo, fino a che aveva di nuovo ritrovato l'amore incontrando Elizabeth. Era lei il suo albero, il suo posto nel mondo.

A quei pensieri, di riflesso Elizabeth sfiorò con le dita la superficie d'argento sul pollice destro, come faceva spesso quando veniva rapita da quel genere di ricordi o semplicemente quando era nervosa. Poi si toccò il braccio da sopra la felpa, all'altezza del polso, e pensò a qualche anno prima, quando in preda ad una crisi era entrata nello studio di un tatuatore e si era tatuata una foglia proprio in quel punto. Marchiata a vita. Non era ciò che era, dopotutto?

Il sapore dolce amaro era ormai una costante nella sua vita, in un certo qual modo la faceva sentire ancora parte di qualcosa.

Era così arrabbiata con Adam, lo era da sempre, a discapito del tempo che passava. Era stupido provare ancora rancore, in una situazione normale non avrebbe mai sprecato tutte quelle energie nel maledire qualcuno. Tuttavia, se era vero che Adam era stato la cosa migliore che le potesse capitare, era altrettanto vero che era stato anche quella peggiore: lui era il suo peggior incubo e al contempo il suo sogno più recondito. Elizabeth alternava periodi in cui non avrebbe mai voluto conoscerlo ad altri in cui si convinceva che qualora loro due non si fossero incontrati lei non avrebbe forse mai saputo il significato della parola 'amare'. Di Elizabeth si poteva senz'altro dire che portare ancora questa croce e delizia era ciò che paradossalmente l'aveva fatta andare avanti. Amore e odio sono quasi lo stesso sentimento.

La donna ripose la scatolina dell'anello e sfogliò le foto e le polaroid, ormai un pò ingiallite. Non aveva voluto portare con sé foto di Adam e di questa scelta se ne era pentita la maggior parte del tempo, ma orgogliosa com'era non l'avrebbe mai ammesso se qualcuno glie lo avesse chiesto. Quella era la prima volta da tanto tempo che posava di nuovo gli occhi sul viso di Adam: appena ne vide i lineamenti sussultò e il suo cuore scalpitò sotto le costole. Com'era possibile che una semplice foto le facesse ancora quell'effetto? Teneva in mano una polaroid che lei stessa aveva scattato di nascosto mentre il ragazzo dormiva, uno dei pomeriggi passati insieme a casa di Adam, al sicuro e lontano da sua madre Grace. La foto lo ritraeva con un'espressione profondamente tranquilla mentre con il viso poggiato al cuscino dormiva beatamente. I capelli lunghi e ribelli gli nascondevano parte del viso, lasciando scoperta solo la porzione di un occhio, ornato da tre piccoli nei. Il viso di Adam era talmente pieno di particolari e segni distintivi che lei lo avrebbe riconosciuto tra mille, anche se fosse stata bendata: conosceva a memoria il suo viso, gli occhi incavati incorniciati da folte sopracciglia incurvate, gli zigomi alti e il mento pronunciato.

Elizabeth si ridestò come da una trance, dandosi della stupida. Non avrebbe dovuto ritirar fuori quella dannata scatoletta, né tantomeno fantasticare sul passato. Quindi raccolse di nuovo tutti gli oggetti e con rabbia gettò la latta al suo posto risistemando l'asse del pavimento. Una lacrima sfuggì al suo controllo.

'Ce la farai' si disse, e non si riferiva tanto al fatto d'essere tornata, quanto più alla consapevolezza che quella presenza ingombrante non l'avrebbe mai completamente lasciata. Si maledì per aver pianto di nuovo. Impiegò qualche minuto a ricomporsi, ma alla fine balzò in piedi e respirò a pieni polmoni correggendo con l'indice un pò di matita colata via.

Amore e odio sono quasi lo stesso sentimento.

  
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