2.
Open Book
Bussai
un paio di volte prima di
entrare su ordine del professore; aprii la porta «buongiorno,
mi scusi per il ritardo»
mugugnai, imbarazzata.
Tutti
mi stavano guardando.
Soprattutto
un paio di ragazzi in
prima fila, che parevano già scommettere su chi avesse avuto
per primo il mio
numero di cellulare.
Il
professore scosse la testa e
mi indicò l’unico banco vuoto «non
si
preoccupi, si sieda e tiri fuori il libro. Ragazzi questa è
Sarah, si è appena
trasferita qui dal Texas, fate in modo di essere gentili con lei»
parlò il professore a tutta la
classe.
Ecco
tutti i miei buoni propositi
che venivano sotterrati venti metri sotto i miei piedi.
E
io speravo di finire con loro.
Rossa
come un peperone salutai
tutti con la mano, senza fiatare minimamente, e andai a sedermi; quando
presi
il libro il mio sguardo cadde sull’intera classe e in meno di
un secondo vidi
il ragazzo dalla faccia in agonia che avevo visto in macchina il giorno
prima,
quello con i capelli biondo miele.
Era
seduto due banchi lontano da
me e dietro di lui era seduta la ragazza con i lunghi capelli neri.
Lei
sghignazzava silenziosa e nel
momento esatto in cui allontanai lo sguardo sentii che
sussurrò qualcosa al
ragazzo.
La
mattinata mi passò abbastanza
in fretta, nonostante ogni mia cellula fosse protesa verso destra, per
curiosare con il mio sesto senso femminile cosa stesse facendo il
ragazzo
biondo.
Per
la seconda volta in due
giorni lo aveva visto solo di sfuggita, ma sapevo con tutta me stessa
che se l’avessi
guardato, sapevo che lo avrei trovato simile a una
statua greca per
bellezza e candore della pelle.
Finalmente,
dopo due ore di
intensa tortura, la campanella si decise a trillare e io mi fiondai
letteralmente fuori dalla porta.
Avevo
bisogno di riprendere
fiato, dopo tutto il tempo che mi ero dimenticata di respirare.
Un
po’ per la vergogna e un po’
–molto– per la strana presenza del ragazzo biondo,
non avevo sentito quasi
nulla riguardo alla lezione di quel giorno.
Fui
la prima ad arrivare in mensa
e fui la prima a sedermi, a un tavolo accanto a una delle lunghe
finestre.
Aveva
smesso di piovere, per mia
fortuna, e il cielo coperto donava un po’ di calore alla
terra infreddolita
dopo la doccia ghiacciata «ohhhh!
Terra
chiama Sarah, nanetta sei connessa? »
disse Jake sventolandomi la mano davanti alla faccia.
Non
mi ero nemmeno accorta che si
era seduto vicino a me e si era bellamente servito di una delle mie
fettine di
pollo impanato «è
da almeno
dieci minuti che ti sto chiamando! Brutta giornata? »
chiese ancora, inclinando la
testa da un lato e azzannando la fettina che teneva tra le mani.
Io
scossi la testa poi lo guardai
«ma
fai schifo! Non si mangia con
le mani! »
dissi, ma
lui alzò un sopracciglio saputello «tutto
quello che inizia con la P si può mangiare con
le mani! Il pane, la pizza, le patatine, il pollo…»
ma avevo smesso di nuovo di
ascoltarlo.
La
porta della mensa si era
aperta mentre Jacob stava elencando una serie infinita di cibi ed
entrarono i
cinque ragazzi che avevo visto su quella jeep.
Jacob,
vedendo il mio sguardo
piantato su di loro, storse un po’ il naso –come se
avesse annusato qualcosa di
orribile– e poi sbuffò, ritornando al suo pollo e
alla lista di cose con la P «le
pesche, le prugne, la pasta se
è scondita…Sarah, tanto non ci farai mai
amicizia, fidati»
mi disse scrollandomi per una
spalla.
Il
mio sguardo aveva finalmente
passato ai raggi X il ragazzo biondo e mi diedi ragione, era proprio la
raffigurazione di un dio greco.
Io
guardai Jake con faccia
confusa, o almeno mi sembrava di averla: in quel momento non mi
riusciva
proprio di intendere e di volere. Era come se mi avessero legato a dei
palloncini pieni di elio e stessi fluttuando nell’aria.
La
voce mi uscì da sola, a un
certo punto «ma
chi sono
quelli? »
domandai a
Jacob.
Il
ragazzo esitò un attimo, prima
di girarsi a guardare i ragazzi un’altra volta «i
Cullen. Si sono trasferiti qui all’inizio dell’anno
e sono riservati al massimo. Il loro padre lavora in ospedale e credo
che
guadagni un sacco di soldi. Quello grosso che sembra un armadio
è Emmett»
iniziò a dire Jake, indicandomi
il ragazzone con la faccia da orsacchiotto «quella
vicino è Rosalie, la classica barbie senza
cervello dallo sguardo glaciale. Ti consiglio di non rivolgerle nemmeno
la
parola»
e indicò
l’alta bionda che addentava una mela con scarso interesse «quello
con i capelli ramati poi
invece è Edward, una vera spina nel fianco se vuoi vivere
tranquillo»«perché?
»
lo interruppi «no,
niente».
Jacob
continuò, indicando la
corvina «quella
è Raven,
una vera bellezza ultraterrena. Ma non credere che sia più
simpatica della
bionda»
e gli occhi
del ragazzo si posarono un attimo sul corpo perfetto della ragazza
corvina.
Io
lo osservai indispettita:
prima mi infastidiva perché ero un po’ fuori dal
mondo poi lui si metteva a
fantasticare su quella ragazza?
«e
quello con i capelli biondi?
Quella povera anima in pena chi è? »
scherzai per farlo andare avanti.
Jake
ridacchiò «quello
si chiama Jasper ed è il
classico emo. Non parla con nessuno e se lo fa è per dire
due parole insensate.
Lascialo perdere»
la
rassicurò.
Io
li guardai ancora un pochino,
passando da un viso all’altro, poi ritornai a guardare il mio
amico.
Sembrava
sempre infastidito da
qualcosa «ma
si può
sapere che ti prende? Dici tanto a me di lasciar perdere Jasper, ma poi
tu sei
il primo a farti fantasie strane su quella Raven»
lo ammonii bonaria, piantando la forchetta in quello
che rimaneva del mio piatto di broccoli bolliti e carote.
Lui
mi sbuffò addosso «anche
se le facessi, di più non
potrei fare, sta insieme a quello scorbutico di Edward».
Lo
guardai prima con un sorriso,
credendo che fosse uno scherzo, poi vidi la sua faccia seria e capii
che non
stava affatto scherzando «in
che senso
stanno insieme? »
chiesi «insieme
come fidanzati? »
e lui mi fece cenno con una
faccia arresa «ma
sono
fratello e sorella! »
esclamai un
po’ scandalizzata.
Jacob
allora mi spiegò che non
erano veramente fratelli consanguinei, ma che la madre Esme
–non potendo avere
figli propri– li aveva adottati tutti, uno dopo
l’altro «così
Raven sta con Edward e
Rosalie con Emmett»
riassunse
Jake «e
io posso
fare tutte le fantasie che voglio! Gneee»
concluse inoltre con una linguaccia.
Io
risposi con una pernacchia e
ridemmo di cuore.
Però
nella mia mente si era
indissolubilmente e fermamente fissata l’immagine di Jasper,
il biondo Cullen
rimasto solo tra tutti i componenti della sua famiglia.
Quando
finalmente finirono le
lezioni tirai un sospiro di sollievo.
Parecchi
miei compagni di classe
mi seguirono, facendomi domande assurde sul mio luogo d'origine e
chiedendomi
se volevo andare con ognuno di loro al ballo di fine anno della scuola.
Ad
ogni ragazzo che me lo chiese,
in forma diretta o indiretta, risposi con un "vedremo" e mi barricai
nel mio Toyota per avere un po' di pace.
Non
mi ero mai accorta che in
quella scuola ci fosse carenza di ragazze –o che qualcuno mi
reputasse carina
abbastanza per un invito simile– ma a quanto pareva essere la
nuova arrivata era
non proprio orribile.
Jacob
parecchie volte aveva
scherzato sulla mia "poca femminilità" riguardo al mio modo
di
vestire e di comportarmi.
Non
avevo mai messo una gonna
dall'età di cinque anni e mai lo avrei fatto: fedele per
sempre ai miei cari e
pratici jeans.
Le
maglie o le felpe che
indossavo non osavano nemmeno sfiorare i colori pastello, guai al mondo
poi
vestirsi di rosa!
Vietati
i tacchi, le ballerine e
scarpe complicate; il mio amore sarebbe sempre stato per le scarpe da
maltrattare e per gli stivali lunghi fino al ginocchio.
Gli
accessori forse erano l'unica
nota femminile del mio corpo non proprio da modella con i miei capelli
corti e
sempre ribelli: collane e braccialetti erano
il mio punto debole.
Avevo
sempre qualcosa al collo o
legato ai polsi, certe volte persino una o più cavigliere.
Misi
in moto la macchina, stando
attenta a non mettere sotto nessuno o a scontrare altri veicoli, e mi
diressi
verso l'uscita del parcheggio della scuola.
Mi
misi sulla strada per tornare
a casa e pensai ancora a quello che mi aveva detto Jacob.
Non
doveva esserci molta privacy
di coppia, quando la tua ragazza è sorella di tuo fratello o
viceversa.
Erano
tutti così dannatamente
belli, troppo belli che non potevo nemmeno compararli a degli attori
famosi.
Erano
freddi e distaccati, ma tra
di loro si poteva notare un legame profondissimo, come se si
conoscessero da
molto tempo.
Era
qualcosa che andava oltre il
semplice rapporto familiare.
Sapevano
di antico, di qualcosa
che si era fermato nel tempo.
Mi
venne in mente uno scoglio in
mezzo a un fiume che non si muoveva come le piccole e fragili foglie
secche che
galleggiavano sull'acqua.
Tante
piccole pietre radunate
assieme.
Sbuffai
a quella mia ridicola
scenetta e mi preparai a svoltare a destra, per dirigermi verso casa.
Improvvisamente
dalla statale
alla mia sinistra sentii un clacson che mi rimbombò persino
nella cassa
toracica.
Era
un camion che, lanciato a
tutta velocità, stava superando un furgoncino scuro.
E
in quel sorpasso azzardato,
vidi il muso del tir venire direttamente addosso al mio improvvisamente
piccolo
pick–up.
Avvertii
lo stridore delle grosse
ruote del camion e il rumore del carico di tubolari che iniziava a
disperdersi
sull'asfalto.
Aveva
tranciato il guardreil come
se fosse fatto di carta e avrebbe fatto lo stesso con me, me lo sentivo.
Improvvisamente
il mio pick–up
inchiodò, nonostante non avessi toccato minimamente il
pedale del freno, e vidi
il muso piatto e gigantesco del tir colpire solo l'angolo del mio
povero
Toyota.
Il
mondo iniziò a girare e la
forza centrifuga che il camion aveva dato al mio veicolo scontrandolo
fu tale
da farmi appiattire contro la portiera.
Colpii
il vetro con la testa e il
dolore sordo ma pulsante della botta si diramò dalla tempia
come una ragnatela
rossa.
Il
pick–up fece un giro su se
stesso e si fermò dondolando.
Ebbi
appena il tempo di
accorgermi che mi ero tagliata alla testa con il vetro del finestrino
–ora
andato in frantumi–, che qualcosa o meglio qualcuno aveva
aperto la portiera di
scatto e mi aveva letteralmente strappata via dal sedile del guidatore.
Mi
sembrava che il mio cervello
si stesse ribellando: non capii più nulla a causa del forte
dolore alla tempia
e del sangue che mi stava colando sulla faccia, ma vidi chiaramente
alcuni
tubolari in alluminio scivolare dal retro del tir e infilzare il
tettuccio del
mio pick–up come se fosse burro.
Uno
cadde esattamente dove ero
seduta pochi secondi prima; sentivo qualcuno che mi trasportava, con un
braccio
dietro la schiena e uno sotto le ginocchia “cos'è
successo??” “Oh mio Dio sta
bene?” “chiamate un'ambulanza!”.
Le
voci si sovrapposero nelle mie
orecchie e il respiro rotto di chi mi trasportava faceva da sottofondo.
Che
anche il mio
salvatore fosse rimasto ferito?
Aprii
l'occhio destro –il sinistro
proprio non voleva saperne di aprirsi– e vidi lo stesso volto
contratto che
avevo visto nella macchina dei Cullen il giorno prima.
Mi
aveva salvato la vita, a
quanto pareva “Sarah! Sarah!” sentii la voce di
Jake chiamarmi dall'altra parte
della strada.
Il
mio pick–up era ormai ridotto
a una groviera e stavo iniziando a sentire sonno.
Jacob
si avvicinò a me, guardando
Jasper con un velo di disgusto, poi si concentrò sul mio
stato.
Dalla
presa ferrea e salda di
Jasper passai a quella un po' traballante di Jacob.
Con
l'unico occhio che mi
rimaneva guardai il biondo ragazzo allontanarsi, senza staccare gli
occhi dal
mio viso.
Prima
di venir circondata da un
capannello di gente, vidi il retro del mio Toyota completamente
deformato, come
se qualcosa o qualcuno lo avesse afferrato e trattenuto.
Finii
all'ospedale, dove vidi –con
un occhio bendato e dolorante– la zia Lind e nonno Arthur.
Entrarono
nella stanza come se
fossi sul letto di morte, in silenzio “la mia
piccola!” esclamò mia zia quando
mi vide sveglia e seduta nel letto bianco.
Mio
nonno non disse nulla, solo
uno sguardo rassicurante “eravamo così
preoccupati! Jacob è venuto fino a casa
per dirci che avevi avuto un incidente e che eri finita qui!”.
Già,
Jake mi aveva portata con la
macchina di suo padre fino all'ospedale e poi doveva esser corso per
forza a
casa mia per avvisare “e noi siamo subito corsi
qui!”.
Sorrisi,
nonostante la faccia mi
facesse abbastanza male per il colpo alla tempia, ma pensai che forse
era
meglio sentire dolore che essere morta impalata da un tubo in alluminio.
Entrò
dopo qualche minuto un
dottore alto, sulla trentina, biondo e divinamente bellissimo.
Sulla
targhetta appuntata al
petto c'era scritto Carlisle Cullen; così era lui il padre
del mio salvatore
eh?
Mentre
si avvicinò al mio lettino
le due infermiere che stavano passando si erano fermate per guardarlo
meglio
mentre camminava “allora, come sta la nostra
paziente?” mi chiese, con voce
soave.
Io
rimasi un po' imbambolata, poi
riuscii a dire che potevo stare meglio ma che ero ok “se non
ci fosse stato suo
figlio sarei finita giù all'obitorio” gli dissi.
Lui
mi guardò un po' confuso, o
forse preoccupato “mio figlio?” “si, suo
figlio Jasper...Era lì e mi ha tirato
fuori dalla macchina prima che potessi...ehm” guardai i miei
tutori, pensando
che era meglio evitare particolari troppo violenti.
Non
erano mai stati troppo
avventurosi ed era meglio così; il dottor Carlisle, dopo un
attimo di rapida
riflessione mi sorrise “direi che sei stata una ragazza
fortunata allora. Non
hai subito gravi danni, a parte un occhio nero e un taglietto. Non ne
morirai”
scherzò per tirarmi su il morale.
Mi
disse che mi avrebbe dimesso e
che mi avrebbe fatto prendere solo una pomata per l'occhio e alleviare
il
dolore; poi sorrise a mio nonno e uscì dalla stanza a grandi
falcate, cavando
dalla tasca del camice bianco un cellulare “appena torniamo a
casa ti preparo
una bella crostata!” disse la zia Lind, sorridendo.
Sorrisi
anche io di rimando,
anche se non avevo poi molta fame.
Stavo
pensando ancora al volto
disgustato di Jacob e a quella in agonia di Jasper.
Perchè
sentivo di sapere che tra
il mio amico e i Cullen non scorresse buon sangue?
Mi
alzai dal letto, arrossendo
quando la zia Lind tentò di mettermi le scarpe
“zia sto bene, non sono così
malridotta...” dissi ridacchiando.
In
effetti, anche se il mio mondo
stava iniziando a diventare in due dimensioni a causa dell'occhio un
po'
coperto dalle bende, non ero totalmente moribonda.
Indossai
le scarpe e stirai le
spalle, sentendole un pochino redene: dovevo essermi irrigidita quando
la
macchina aveva girato su se stessa.
Sorrisi
ai miei tutori, poi
aspettai che uscissero per primi dalla camera per poterli seguire e in
quell'esatto momento sentii la voce del dottor Carlisle parlare un po'
preoccupato al telefono “sei sicuro di stare bene? Non
hai...? C'era molto
sangue anche se era una ferita superficiale...Ah no? Bene, sono molto
orgoglioso di te. Dì a tua madre che tra poco finisco il
turno”.
Fissai
per un attimo lo sguardo sulla
schiena del dottor Cullen mentre parlava, cercando di ascoltare la
conversazione.
Non
che mi interessasse, ma la
curiosità era l'unico grande difetto che mi riconoscevo.
Registrai
tutto quello che potei
nel mio cervello ancora un po' assonnato e giunsi fino a casa sana e
salva,
anche se un po' sbattuta.
Quella
notte non riuscii a
dormire quasi per niente.
Stavo
stesa nel mio letto con le
coperte fino al petto a guardare il soffitto e a sbuffare ogni tanto.
La
parte sinistra della faccia mi
faceva un male dell'accidenti e quando mi ero vista allo specchio avevo
storto
il naso –anche se con un po' di fatica–.
Intorno
all'occhio sinistro e
dalla tempia era nata una nuvola violastra con delle sfumature verdi
che non mi
piacevano per niente.
Avevo
maledetto quel camionista
sia davanti allo specchio sia durante quella notte insonne.
La
zia Lind aveva mantenuto la
sua promessa e mi aveva preparato una crostata appena eravamo arrivati
a casa,
ma non ero riuscita a mangiarne nemmeno una briciola.
Mi
sentivo come se uno
schiacciasassi mi fosse passato addosso.
Durante
quella tempesta neuronale
che stavo avendo –stavo pensando per la terza volta a Bella
sconvolta che era
corsa a precipizio a casa mia– mi grattai inconsciamente il
braccio destro e
sentii un dolore sordo.
Alzai
la manica della maglia che
indossavo come pigiama e guardai il secondo livido che aveva osato
macchiare la
mia pelle.
E
quello da dove spuntava fuori?
I
segni erano meno evidenti della
grande chiazza che avevo attorno all'occhio sinistro e avevano una
forma meno
definita.
Venni
catapultata nella mia
Toyota da un eccesso di fantasia e vidi il volante scivolarmi via da
davanti.
Il
tempo rallentò in
quell'istante, quando una mano pallida e maschile strappò
via dalla sede la
cintura di sicurezza e la stessa mano mi afferrava dove avevo il livido
sul
braccio.
Scossi
la testa, cercando di
eliminare quella specie di visione: spesso mi accadeva di perdermi nei
meandri
della mia testa, in quelle specie di film alla moviola di fatti
già successi o
che poi sarebbero successi.
Non
lo avevo mai detto a nessuno
credendo che fosse solo suggestione, così nessuno aveva
chiesto il perchè ogni
tanto mi fissavo con gli occhi vuoti.
Sbuffai
ancora, girando la testa
per posare la parte destra del mio viso sul cuscino e chiusi gli occhi.
Per
qualcuno fuori della finestra
in quel momento fui un libro aperto, molto più di quando lo
fossi per me stessa
in quel momento.