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Autore: Flaminia_Kennedy    22/07/2009    1 recensioni
Per la sesta volta in un giorno mi chiesi perché mi ero voluta trasferire a Forks, la zona più piovosa di tutto il continente americano.
Certo, non adoravo il sole di casa mia in Texas, ma nemmeno il perenne strato di nubi che nascondeva il cielo.
[...]
Ridacchiai, perché il volto di quel ragazzo dai capelli bruni e corti mi ispirava simpatia, un po’ come gli orsacchiotti che avevo nella mia vecchia camera a Dallas.
Quando l’auto, guidata da un ragazzo dai capelli ramati e sparati in aria, arrivò a pochi metri da me il ragazzone si infilò dentro la vettura, parlando concitatamente con il ragazzo vicino a lui.
Era un tipo dai capelli color miele e in quel momento il volto meraviglioso e pallido era contratto da una smorfia addolorata.
Genere: Azione, Avventura, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jasper Hale, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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2.

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Bussai un paio di volte prima di entrare su ordine del professore; aprii la porta «buongiorno, mi scusi per il ritardo» mugugnai, imbarazzata.

Tutti mi stavano guardando.

Soprattutto un paio di ragazzi in prima fila, che parevano già scommettere su chi avesse avuto per primo il mio numero di cellulare.

Il professore scosse la testa e mi indicò l’unico banco vuoto «non si preoccupi, si sieda e tiri fuori il libro. Ragazzi questa è Sarah, si è appena trasferita qui dal Texas, fate in modo di essere gentili con lei» parlò il professore a tutta la classe.

Ecco tutti i miei buoni propositi che venivano sotterrati venti metri sotto i miei piedi.

E io speravo di finire con loro.

Rossa come un peperone salutai tutti con la mano, senza fiatare minimamente, e andai a sedermi; quando presi il libro il mio sguardo cadde sull’intera classe e in meno di un secondo vidi il ragazzo dalla faccia in agonia che avevo visto in macchina il giorno prima, quello con i capelli biondo miele.

Era seduto due banchi lontano da me e dietro di lui era seduta la ragazza con i lunghi capelli neri.

Lei sghignazzava silenziosa e nel momento esatto in cui allontanai lo sguardo sentii che sussurrò qualcosa al ragazzo.

La mattinata mi passò abbastanza in fretta, nonostante ogni mia cellula fosse protesa verso destra, per curiosare con il mio sesto senso femminile cosa stesse facendo il ragazzo biondo.

Per la seconda volta in due giorni lo aveva visto solo di sfuggita, ma sapevo con tutta me stessa che se l’avessi guardato, sapevo che lo avrei trovato simile a una statua greca per bellezza e candore della pelle.

Finalmente, dopo due ore di intensa tortura, la campanella si decise a trillare e io mi fiondai letteralmente fuori dalla porta.

Avevo bisogno di riprendere fiato, dopo tutto il tempo che mi ero dimenticata di respirare.

Un po’ per la vergogna e un po’ –molto– per la strana presenza del ragazzo biondo, non avevo sentito quasi nulla riguardo alla lezione di quel giorno.

Fui la prima ad arrivare in mensa e fui la prima a sedermi, a un tavolo accanto a una delle lunghe finestre.

Aveva smesso di piovere, per mia fortuna, e il cielo coperto donava un po’ di calore alla terra infreddolita dopo la doccia ghiacciata «ohhhh! Terra chiama Sarah, nanetta sei connessa? » disse Jake sventolandomi la mano davanti alla faccia.

Non mi ero nemmeno accorta che si era seduto vicino a me e si era bellamente servito di una delle mie fettine di pollo impanato «è da almeno dieci minuti che ti sto chiamando! Brutta giornata? » chiese ancora, inclinando la testa da un lato e azzannando la fettina che teneva tra le mani.

Io scossi la testa poi lo guardai «ma fai schifo! Non si mangia con le mani! » dissi, ma lui alzò un sopracciglio saputello «tutto quello che inizia con la P si può mangiare con le mani! Il pane, la pizza, le patatine, il pollo…» ma avevo smesso di nuovo di ascoltarlo.

La porta della mensa si era aperta mentre Jacob stava elencando una serie infinita di cibi ed entrarono i cinque ragazzi che avevo visto su quella jeep.

Jacob, vedendo il mio sguardo piantato su di loro, storse un po’ il naso –come se avesse annusato qualcosa di orribile– e poi sbuffò, ritornando al suo pollo e alla lista di cose con la P «le pesche, le prugne, la pasta se è scondita…Sarah, tanto non ci farai mai amicizia, fidati» mi disse scrollandomi per una spalla.

Il mio sguardo aveva finalmente passato ai raggi X il ragazzo biondo e mi diedi ragione, era proprio la raffigurazione di un dio greco.

Io guardai Jake con faccia confusa, o almeno mi sembrava di averla: in quel momento non mi riusciva proprio di intendere e di volere. Era come se mi avessero legato a dei palloncini pieni di elio e stessi fluttuando nell’aria.

La voce mi uscì da sola, a un certo punto «ma chi sono quelli? » domandai a Jacob.

Il ragazzo esitò un attimo, prima di girarsi a guardare i ragazzi un’altra volta «i Cullen. Si sono trasferiti qui all’inizio dell’anno e sono riservati al massimo. Il loro padre lavora in ospedale e credo che guadagni un sacco di soldi. Quello grosso che sembra un armadio è Emmett» iniziò a dire Jake, indicandomi il ragazzone con la faccia da orsacchiotto «quella vicino è Rosalie, la classica barbie senza cervello dallo sguardo glaciale. Ti consiglio di non rivolgerle nemmeno la parola» e indicò l’alta bionda che addentava una mela con scarso interesse «quello con i capelli ramati poi invece è Edward, una vera spina nel fianco se vuoi vivere tranquillo»«perché? » lo interruppi «no, niente».

Jacob continuò, indicando la corvina «quella è Raven, una vera bellezza ultraterrena. Ma non credere che sia più simpatica della bionda» e gli occhi del ragazzo si posarono un attimo sul corpo perfetto della ragazza corvina.

Io lo osservai indispettita: prima mi infastidiva perché ero un po’ fuori dal mondo poi lui si metteva a fantasticare su quella ragazza?

«e quello con i capelli biondi? Quella povera anima in pena chi è? » scherzai per farlo andare avanti.

Jake ridacchiò «quello si chiama Jasper ed è il classico emo. Non parla con nessuno e se lo fa è per dire due parole insensate. Lascialo perdere» la rassicurò.

Io li guardai ancora un pochino, passando da un viso all’altro, poi ritornai a guardare il mio amico.

Sembrava sempre infastidito da qualcosa «ma si può sapere che ti prende? Dici tanto a me di lasciar perdere Jasper, ma poi tu sei il primo a farti fantasie strane su quella Raven» lo ammonii bonaria, piantando la forchetta in quello che rimaneva del mio piatto di broccoli bolliti e carote.

Lui mi sbuffò addosso «anche se le facessi, di più non potrei fare, sta insieme a quello scorbutico di Edward».

Lo guardai prima con un sorriso, credendo che fosse uno scherzo, poi vidi la sua faccia seria e capii che non stava affatto scherzando «in che senso stanno insieme? » chiesi «insieme come fidanzati? » e lui mi fece cenno con una faccia arresa «ma sono fratello e sorella! » esclamai un po’ scandalizzata.

Jacob allora mi spiegò che non erano veramente fratelli consanguinei, ma che la madre Esme –non potendo avere figli propri– li aveva adottati tutti, uno dopo l’altro «così Raven sta con Edward e Rosalie con Emmett» riassunse Jake «e io posso fare tutte le fantasie che voglio! Gneee» concluse inoltre con una linguaccia.

Io risposi con una pernacchia e ridemmo di cuore.

Però nella mia mente si era indissolubilmente e fermamente fissata l’immagine di Jasper, il biondo Cullen rimasto solo tra tutti i componenti della sua famiglia.

 

Quando finalmente finirono le lezioni tirai un sospiro di sollievo.

Parecchi miei compagni di classe mi seguirono, facendomi domande assurde sul mio luogo d'origine e chiedendomi se volevo andare con ognuno di loro al ballo di fine anno della scuola.

Ad ogni ragazzo che me lo chiese, in forma diretta o indiretta, risposi con un "vedremo" e mi barricai nel mio Toyota per avere un po' di pace.

Non mi ero mai accorta che in quella scuola ci fosse carenza di ragazze –o che qualcuno mi reputasse carina abbastanza per un invito simile– ma a quanto pareva essere la nuova arrivata era non proprio orribile.

Jacob parecchie volte aveva scherzato sulla mia "poca femminilità" riguardo al mio modo di vestire e di comportarmi.

Non avevo mai messo una gonna dall'età di cinque anni e mai lo avrei fatto: fedele per sempre ai miei cari e pratici jeans.

Le maglie o le felpe che indossavo non osavano nemmeno sfiorare i colori pastello, guai al mondo poi vestirsi di rosa!

Vietati i tacchi, le ballerine e scarpe complicate; il mio amore sarebbe sempre stato per le scarpe da maltrattare e per gli stivali lunghi fino al ginocchio.

Gli accessori forse erano l'unica nota femminile del mio corpo non proprio da modella con i miei capelli corti e sempre ribelli: collane e braccialetti erano  il mio punto debole.

Avevo sempre qualcosa al collo o legato ai polsi, certe volte persino una o più cavigliere.

Misi in moto la macchina, stando attenta a non mettere sotto nessuno o a scontrare altri veicoli, e mi diressi verso l'uscita del parcheggio della scuola.

Mi misi sulla strada per tornare a casa e pensai ancora a quello che mi aveva detto Jacob.

Non doveva esserci molta privacy di coppia, quando la tua ragazza è sorella di tuo fratello o viceversa.

Erano tutti così dannatamente belli, troppo belli che non potevo nemmeno compararli a degli attori famosi.

Erano freddi e distaccati, ma tra di loro si poteva notare un legame profondissimo, come se si conoscessero da molto tempo.

Era qualcosa che andava oltre il semplice rapporto familiare.

Sapevano di antico, di qualcosa che si era fermato nel tempo.

Mi venne in mente uno scoglio in mezzo a un fiume che non si muoveva come le piccole e fragili foglie secche che galleggiavano sull'acqua.

Tante piccole pietre radunate assieme.

Sbuffai a quella mia ridicola scenetta e mi preparai a svoltare a destra, per dirigermi verso casa.

Improvvisamente dalla statale alla mia sinistra sentii un clacson che mi rimbombò persino nella cassa toracica.

Era un camion che, lanciato a tutta velocità, stava superando un furgoncino scuro.

E in quel sorpasso azzardato, vidi il muso del tir venire direttamente addosso al mio improvvisamente piccolo pick–up.

Avvertii lo stridore delle grosse ruote del camion e il rumore del carico di tubolari che iniziava a disperdersi sull'asfalto.

Aveva tranciato il guardreil come se fosse fatto di carta e avrebbe fatto lo stesso con me, me lo sentivo.

Improvvisamente il mio pick–up inchiodò, nonostante non avessi toccato minimamente il pedale del freno, e vidi il muso piatto e gigantesco del tir colpire solo l'angolo del mio povero Toyota.

Il mondo iniziò a girare e la forza centrifuga che il camion aveva dato al mio veicolo scontrandolo fu tale da farmi appiattire contro la portiera.

Colpii il vetro con la testa e il dolore sordo ma pulsante della botta si diramò dalla tempia come una ragnatela rossa.

Il pick–up fece un giro su se stesso e si fermò dondolando.

Ebbi appena il tempo di accorgermi che mi ero tagliata alla testa con il vetro del finestrino –ora andato in frantumi–, che qualcosa o meglio qualcuno aveva aperto la portiera di scatto e mi aveva letteralmente strappata via dal sedile del guidatore.

Mi sembrava che il mio cervello si stesse ribellando: non capii più nulla a causa del forte dolore alla tempia e del sangue che mi stava colando sulla faccia, ma vidi chiaramente alcuni tubolari in alluminio scivolare dal retro del tir e infilzare il tettuccio del mio pick–up come se fosse burro.

Uno cadde esattamente dove ero seduta pochi secondi prima; sentivo qualcuno che mi trasportava, con un braccio dietro la schiena e uno sotto le ginocchia “cos'è successo??” “Oh mio Dio sta bene?” “chiamate un'ambulanza!”.

Le voci si sovrapposero nelle mie orecchie e il respiro rotto di chi mi trasportava faceva da sottofondo.

Che anche il  mio salvatore fosse rimasto ferito?

Aprii l'occhio destro –il sinistro proprio non voleva saperne di aprirsi– e vidi lo stesso volto contratto che avevo visto nella macchina dei Cullen il giorno prima.

Mi aveva salvato la vita, a quanto pareva “Sarah! Sarah!” sentii la voce di Jake chiamarmi dall'altra parte della strada.

Il mio pick–up era ormai ridotto a una groviera e stavo iniziando a sentire sonno.

Jacob si avvicinò a me, guardando Jasper con un velo di disgusto, poi si concentrò sul mio stato.

Dalla presa ferrea e salda di Jasper passai a quella un po' traballante di Jacob.

Con l'unico occhio che mi rimaneva guardai il biondo ragazzo allontanarsi, senza staccare gli occhi dal mio viso.

Prima di venir circondata da un capannello di gente, vidi il retro del mio Toyota completamente deformato, come se qualcosa o qualcuno lo avesse afferrato e trattenuto.

 

Finii all'ospedale, dove vidi –con un occhio bendato e dolorante– la zia Lind e nonno Arthur.

Entrarono nella stanza come se fossi sul letto di morte, in silenzio “la mia piccola!” esclamò mia zia quando mi vide sveglia e seduta nel letto bianco.

Mio nonno non disse nulla, solo uno sguardo rassicurante “eravamo così preoccupati! Jacob è venuto fino a casa per dirci che avevi avuto un incidente e che eri finita qui!”.

Già, Jake mi aveva portata con la macchina di suo padre fino all'ospedale e poi doveva esser corso per forza a casa mia per avvisare “e noi siamo subito corsi qui!”.

Sorrisi, nonostante la faccia mi facesse abbastanza male per il colpo alla tempia, ma pensai che forse era meglio sentire dolore che essere morta impalata da un tubo in alluminio.

Entrò dopo qualche minuto un dottore alto, sulla trentina, biondo e divinamente bellissimo.

Sulla targhetta appuntata al petto c'era scritto Carlisle Cullen; così era lui il padre del mio salvatore eh?

Mentre si avvicinò al mio lettino le due infermiere che stavano passando si erano fermate per guardarlo meglio mentre camminava “allora, come sta la nostra paziente?” mi chiese, con voce soave.

Io rimasi un po' imbambolata, poi riuscii a dire che potevo stare meglio ma che ero ok “se non ci fosse stato suo figlio sarei finita giù all'obitorio” gli dissi.

Lui mi guardò un po' confuso, o forse preoccupato “mio figlio?” “si, suo figlio Jasper...Era lì e mi ha tirato fuori dalla macchina prima che potessi...ehm” guardai i miei tutori, pensando che era meglio evitare particolari troppo violenti.

Non erano mai stati troppo avventurosi ed era meglio così; il dottor Carlisle, dopo un attimo di rapida riflessione mi sorrise “direi che sei stata una ragazza fortunata allora. Non hai subito gravi danni, a parte un occhio nero e un taglietto. Non ne morirai” scherzò per tirarmi su il morale.

Mi disse che mi avrebbe dimesso e che mi avrebbe fatto prendere solo una pomata per l'occhio e alleviare il dolore; poi sorrise a mio nonno e uscì dalla stanza a grandi falcate, cavando dalla tasca del camice bianco un cellulare “appena torniamo a casa ti preparo una bella crostata!” disse la zia Lind, sorridendo.

Sorrisi anche io di rimando, anche se non avevo poi molta fame.

Stavo pensando ancora al volto disgustato di Jacob e a quella in agonia di Jasper.

Perchè sentivo di sapere che tra il mio amico e i Cullen non scorresse buon sangue?

Mi alzai dal letto, arrossendo quando la zia Lind tentò di mettermi le scarpe “zia sto bene, non sono così malridotta...” dissi ridacchiando.

In effetti, anche se il mio mondo stava iniziando a diventare in due dimensioni a causa dell'occhio un po' coperto dalle bende, non ero totalmente moribonda.

Indossai le scarpe e stirai le spalle, sentendole un pochino redene: dovevo essermi irrigidita quando la macchina aveva girato su se stessa.

Sorrisi ai miei tutori, poi aspettai che uscissero per primi dalla camera per poterli seguire e in quell'esatto momento sentii la voce del dottor Carlisle parlare un po' preoccupato al telefono “sei sicuro di stare bene? Non hai...? C'era molto sangue anche se era una ferita superficiale...Ah no? Bene, sono molto orgoglioso di te. Dì a tua madre che tra poco finisco il turno”.

Fissai per un attimo lo sguardo sulla schiena del dottor Cullen mentre parlava, cercando di ascoltare la conversazione.

Non che mi interessasse, ma la curiosità era l'unico grande difetto che mi riconoscevo.

Registrai tutto quello che potei nel mio cervello ancora un po' assonnato e giunsi fino a casa sana e salva, anche se un po' sbattuta.

 

Quella notte non riuscii a dormire quasi per niente.

Stavo stesa nel mio letto con le coperte fino al petto a guardare il soffitto e a sbuffare ogni tanto.

La parte sinistra della faccia mi faceva un male dell'accidenti e quando mi ero vista allo specchio avevo storto il naso –anche se con un po' di fatica–.

Intorno all'occhio sinistro e dalla tempia era nata una nuvola violastra con delle sfumature verdi che non mi piacevano per niente.

Avevo maledetto quel camionista sia davanti allo specchio sia durante quella notte insonne.

La zia Lind aveva mantenuto la sua promessa e mi aveva preparato una crostata appena eravamo arrivati a casa, ma non ero riuscita a mangiarne nemmeno una briciola.

Mi sentivo come se uno schiacciasassi mi fosse passato addosso.

Durante quella tempesta neuronale che stavo avendo –stavo pensando per la terza volta a Bella sconvolta che era corsa a precipizio a casa mia– mi grattai inconsciamente il braccio destro e sentii un dolore sordo.

Alzai la manica della maglia che indossavo come pigiama e guardai il secondo livido che aveva osato macchiare la mia pelle.

E quello da dove spuntava fuori?

I segni erano meno evidenti della grande chiazza che avevo attorno all'occhio sinistro e avevano una forma meno definita.

Venni catapultata nella mia Toyota da un eccesso di fantasia e vidi il volante scivolarmi via da davanti.

Il tempo rallentò in quell'istante, quando una mano pallida e maschile strappò via dalla sede la cintura di sicurezza e la stessa mano mi afferrava dove avevo il livido sul braccio.

Scossi la testa, cercando di eliminare quella specie di visione: spesso mi accadeva di perdermi nei meandri della mia testa, in quelle specie di film alla moviola di fatti già successi o che poi sarebbero successi.

Non lo avevo mai detto a nessuno credendo che fosse solo suggestione, così nessuno aveva chiesto il perchè ogni tanto mi fissavo con gli occhi vuoti.

Sbuffai ancora, girando la testa per posare la parte destra del mio viso sul cuscino e chiusi gli occhi.

Per qualcuno fuori della finestra in quel momento fui un libro aperto, molto più di quando lo fossi per  me stessa in quel momento.

   
 
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