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Autore: Nereisi    17/04/2019    1 recensioni
A Punk Hazard gli Strawhats si scontrano con le abominevoli realtà del Nuovo Mondo: innocenti vittime della crudeltà di persone potenti, traffici di Frutti del Diavolo, esperimenti umani. Nonostante la loro vittoria, vengono a conoscenza di una terribile verità: non sono riusciti a salvare tutti i bambini. Decisi a porre fine ai rapimenti, gli Strawhats si imbarcano in un viaggio che li porterà alla ricerca di un nemico nascosto in piena vista.
La chiave per la soluzione di questo mistero sembra essere una ragazza che avrebbe preferito di gran lunga rimanere nell'ombra, capitata nel posto giusto al momento sbagliato.
Tra nuove isole, combattimenti contro il più insospettabile degli avversari, aiuti inaspettati e fin troppi Coup De Burst la ciurma di Cappello di Paglia verrà coinvolta in un viaggio che potrebbe scuotere - e forse distruggere - le fondamenta del mondo e dell'ordine che lo governa.
Genere: Avventura, Azione, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Monkey D. Rufy, Mugiwara, Nami, Nuovo personaggio, Sorpresa | Coppie: Franky/Nico Robin, Sanji/Zoro
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Footprints'
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Note autrice: capitolo di passaggio, ma che mette le basi per uno sviluppo futuro parecchio importante. Alcuni indizi su Mana sono già stati lasciati qui e lì in questo capitolo e in quelli passati… Chi riesce a indovinare i dettagli succosi vince un biscottino!
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Barefoot
- Sauntering -
 


Chopper saltò giù dalla sedia, portando con sé le bende usate. Mana si tirò a sedere, portandosi una mano allo stomaco. Il piccolo dottore le aveva applicato un unguento sopra al livido che le stava già fiorendo sulla pelle, coprendolo con una garza per non sporcare la maglietta.

C’era silenzio nell’infermeria, interrotto solo dai fruscii dei batuffoli di cotone imbevuti di disinfettante nel cestino. La ferita sulla coscia stava guarendo bene e quasi tutti i punti si erano staccati naturalmente. Ne erano rimasti solo due, al punto che Chopper aveva scartato la medicazione con le garze, optando per un più comodo cerotto, anche se la pelle a contatto con la colla si seccava ogni volta. Quando le cambiava medicazione, la piccola renna applicava una crema per idratarla, lasciandola respirare il più possibile prima di coprire il taglio con un altro cerotto. La lotta con Zoro aveva fatto sì che la ferita, in fase di rimarginazione, si riaprisse un pochino. Chopper era sembrato estremamente contrariato, scurendosi in viso mentre le puliva il taglio dal sangue e dal siero.

“Ci vorrà più tempo del previsto per la completa rimarginazione.” Disse, rimettendo in ordine la sua valigetta del pronto soccorso. “E la cicatrice non sarà più sottile come ti avevo garantito, purtroppo.”

Mana occhieggiò la medicazione. Il cerotto le sovrastava la ferita, ma non si avvicinava troppo ai bordi del suo tatuaggio. Scrollò le spalle. “Non è un problema. Non mi fa male, non la sento neppure.”

Chopper si voltò, avvicinandosi con una pillola e un bicchiere d’acqua in mano. “Tieni, è un antibiotico. Non ho visto segni di infezione, ma prevenire è meglio che curare.”

Dopo aver inghiottito il tutto un po’ controvoglia, Mana si appoggiò nuovamente sullo schienale rialzato del lettino, coprendosi con il lenzuolo. Chopper le lanciò un’occhiata mogia, prima di tornare alla sua scrivania.

“Il nostro spadaccino è brusco e ha il tatto di un elefante.” Disse una voce alla sua sinistra. “Però molte volte quello che dice è vero.”

Mana girò la testa. Nico Robin le sorrise dal lettino di fianco al suo, lo schienale rialzato al massimo ma comunque distante dal suo corpo, tanto stava seduta composta; il torso dritto, le mani elegantemente posate sopra il libro che stava leggendo fino a qualche istante prima, le gambe piegate e tenute vicine al suo corpo. Voleva immensamente marciare fino al suo lettino e farla stendere a forza. Non capiva a cosa fosse dovuta quella rigida e imposta grazia, sembrava che anche in un contesto di pesante convalescenza dovesse mostrarsi per forza padrona di sé. “Non l’ha fatto con cattiveria. Non avercela con lui.”

“Non ce l’ho con lui.” Bugia. “E, alla fine, hai ragione: quello che ha detto è vero. Immagino di essermi abituata troppo a dover contare solo su me stessa e ad avere il mondo contro. Credo di dover ancora metabolizzare tutto… questo.” Disse, gesticolando vagamente con la mano per indicare l’interezza della Sunny. “Piuttosto, non eri sotto ordine di riposo assoluto? Chopper lo sa che hai usato i tuoi poteri quando eri sul filo del rasoio?”

Robin sembrò improvvisamente interessata alla lettura che aveva precedentemente interrotto. Evitò sfacciatamente il suo sguardo, riprendendo il libro tra le mani. Mana strabuzzò gli occhi davanti al comportamento infantile della donna ma, prima che potesse dire altro, la porta si aprì, rivelando Nami.

Il suo lettino era precisamente di fronte alla porta e la navigatrice incontrò il suo sguardo, bloccandosi all’entrata. Dopo essersi schiarita la gola entrò, tentando di mascherare il nervosismo e l’imbarazzo. Mana sentì il cuore accelerare i battiti, ma cercò di apparire calma. Era arrivato il momento del terzo grado.

Nami si fece strada nell’infermeria, esitando per un secondo prima di sedersi ai piedi del letto di Robin. L’altra donna le sorrise, prima di riprendere la lettura del suo libro. Alla porta, Usopp stava cercando – con poco successo – di sbirciare nella stanza senza farsi vedere, ma il suo lunghissimo naso rovinava i suoi sforzi.

“Come ti senti?” Chiese educatamente Nami.

“Bene. Cioè, non bene bene. Sto relativamente bene rispetto alle mazzate che ho preso.”

Nami fece una smorfia. “Sanji lo starà tartassando in questo momento.”

Mana rise leggermente, a disagio.

Nami prese a fissarsi le punte dei piedi, strofinando fra di loro le ginocchia. Robin continuava a fissare insistentemente il suo libro, anche se non stava più girando le pagine. Mana sentì la navigatrice inspirare profondamente e si preparò per l’incombente discussione.

“Senti…” Nami esitò. Prese fiato, poi richiuse la bocca. Rimase in silenzio un po’ di tempo, cercando il modo migliore per iniziare. “Odio dover dare ragione a quello scimmione.” Disse infine. “Specialmente quando si comporta in quel modo per farsi capire. Non mi è piaciuto come ti ha parlato. Se è per quello non mi è piaciuto nemmeno quello che ha detto di noi… Però.” Incrociò le caviglie, alzando la testa ma senza guardarla in viso. “Quello che ha detto è vero.” Strinse le labbra in una linea sottile. Una pesante cappa di silenzio calò sulla stanza. Mana non disse nulla, limitandosi a mantenere un’espressione calma, aspettando.

“Finora avevo cercato di farmi andare bene le informazioni che ci avevi dato. Avevo capito che parlare di quelle cose ti avrebbe riportato alla mente solo brutti ricordi e volevo… Non lo so, immagino che volessi lasciarti più tempo per fidarti di noi e aprirti di tua spontanea iniziativa.” Deglutì. “Però in un angolo della mia testa la consapevolezza del bisogno che abbiamo delle informazioni in tuo possesso non è mai andata via davvero. Stavo solo cercando di metterla da parte. Volevo costruire un rapporto di fiducia con te. Però… Zoro ha ragione. Non possiamo permetterci di perdere tempo su una questione delicata come questa.” Finalmente, alzò del tutto la testa e incrociò il suo sguardo. “Non mi permetto di immischiarmi sulla faccenda “debolezza”. Sarebbe ipocrita da parte mia farlo, visto che sono una delle persone più deboli su questa nave e pagherei per avere la forza che hai dimostrato. Ma…” La sua espressione si fece determinata. “Non posso più temporeggiare. Per favore. Dicci quello che sai.”

Mana non interruppe il contatto visivo. L’agitazione le stava facendo battere il cuore a mille, ma si costrinse a respirare normalmente e non arrossire. Era solo una questione di tempo. “Capisco. Chiedi pure.”

Nami sembrò presa in contropiede dalla sua risposta. Probabilmente si aspettava della ritrosia; non una secca accettazione. Gli occhi di Robin saettarono verso di lei, indecifrabili come al solito. La sua interlocutrice si riprese velocemente, piegandosi verso di lei e districandosi le caviglie. “Dimmi di più sui rapimenti. Scelgono le loro vittime o le prendono a caso? Hanno delle preferenze? Come riescono ad adescarle?”

“Oh, hanno delle preferenze. Eccome se le hanno.” Disse Mana, a denti stretti. Si prese un momento per metabolizzare l’improvvisa scintilla di rabbia che le aveva rimestato lo stomaco, cercando di non agitarsi più del dovuto.

“… Tutto bene?” chiese Usopp, che era entrato furtivamente nell’infermeria durante il discorso di Nami.

Gli fece un sorriso tirato. “Sì. Sì, scusate. È solo che… sto ricordando quello che dicevano e… non è piacevole.”

Nami sembrò costernata per la sua reazione, abbassando gli occhi colpevolmente. Mana si pentì di aver esternato le sue emozioni senza pensare, sentendo un sapore amaro in bocca alla vista del senso di colpa della ragazza.

“Se vi ricordate vi avevo già accennato qualcosa, tempo fa.” Si affrettò a dire, cacciando giù emozioni inutili da considerare in quel momento. Gli altri la fissarono, attenti. “Il ceto sociale.” Spiegò. “Devono appartenere a un ceto sociale basso; in questo modo se dovessero sparire non allerterebbero un gran numero di persone e dopo poco verrebbero dimenticati.” L’espressione di tutti si scurì. Se lo ricordavano.

Robin aveva chiuso il suo libro, mettendolo da parte e dandole tutta la sua attenzione. Persino Usopp sembrava ergersi un po’ più dritto da serio.

“Quando ero in quel posto... Ero prigioniera. Quindi non credo di aver visto tutti i bambini che erano tenuti lì. Però, da quello che ho visto, erano tutti in età adolescenziale. La più piccola aveva undici anni.” Fece un respiro profondo. “Io ero una dei più grandi, ho visto pochissimi ragazzi della mia età.” L’espressione piena di dolore di Nami alla menzione di quelle giovani vittime le strinse il cuore. La vide torcersi le mani, cercando di contenere la sua furia e non interromperla.

“Ho parlato con i miei compagni, quando potevo. Molti di loro, me compresa, provenivano da isole con ambienti selvaggi. Non so con sicurezza se si trattasse di una coincidenza o di un tratto che ricercavano. Probabilmente lo era. Forse pensavano che se fossimo cresciuti in luoghi inospitali avremmo avuto un corpo più resistente. Che avremmo sopportato meglio il loro allenamento.” Disse, sputando l’ultima parola con astio.

Le due donne strinsero gli occhi.

“Che intendi per allenamento? Perché l’hai detto in quel modo?” Balbettò Usopp.

Mana fissò il vuoto. Per un po’ l’unico rumore nella stanza fu il tintinnio del vetro delle fialette mentre Chopper riordinava la sua scrivania. Probabilmente era una scusa per continuare a rimanere in infermeria e ascoltarla. Arricciò i piedi.

“Era… inumano.” Disse, infine. “Voglio dire, non che il fatto che ci rapissero non lo fosse già abbastanza.” Tentò una risata, ma tutto quello che riuscì a produrre fu un gorgoglio amaro. Si schiarì la gola. “Il loro intento non è quello di addestrare un semplice plotone, più forte e disciplinato… No. Volevano creare dei super soldati, pensati esclusivamente per contrastare i pirati. E nemmeno semplici pirati: Imperatori, Supernove… Il nostro obiettivo sarebbe dovuto essere qualsiasi uomo, donna o bambino superasse la taglia del cento milioni di berry. Progenie di Roger, li chiamavano. Chiunque solcasse i mari senza sottomettersi al vessillo del Governo Mondiale, ispirato dal fu Re dei Pirati o suo pari.” Spiegò.

Nami annuì lentamente, concentrata. Usopp strabuzzò gli occhi. “Ma questo significherebbe che-“

“Che avremmo dovuto possedere un potere enorme, sì. Per tenere testa a mostri di quel calibro, era il minimo.” Il ragazzo abbassò lo sguardo, grattandosi la testa con fare insicuro.

“Perdona la mia sfacciataggine,” esclamò Robin, “Ma per quanto rimanga notevole come tu abbia tenuto testa a Zoro, rimane comunque il fatto che non sei riuscita a contrastarlo per molto. Senza contare che non stava combattendo al pieno del suo potenziale.” Usopp sembrò incredibilmente grato e a mortificato nello stesso momento. “Quindi, trovo un po’ un azzardo affermare che potresti sopraffare pirati del calibro di Luffy.”

“Non ho detto di esserne in grado.” Rispose un po’ troppo piccata. “Questo era quello che continuavano a ripeterci. Mi fa male la testa solo a pensarci, sembrava che ci stessero facendo il lavaggio del cervello. Era quello che, teoricamente, sarebbe dovuto essere il risultato dell’addestramento, se l’avessimo completato.” Si sfiorò i bracciali, pensierosa. “Ma io non l’ho portato a termine. Sono riuscita a scappare prima.”

Nami accavallò le gambe, carica di un’energia nervosa. “Ci stiamo girando in torno da prima. In cosa consisteva questo allenamento?” Chiese, arricciando le dita a mezzaria come a simulare delle virgolette.

E andiamo. “Tortura, principalmente.” Rispose, impassibile. Dietro di lei si udì un sussulto, prima che una fialetta si frantumasse sul pavimento. Mana realizzò improvvisamente che Chopper non aveva lasciato la stanza. La consapevolezza di dover parlare di quel genere di cose davanti a lui le fece attorcigliare lo stomaco. Decise di concentrarsi su altro, osservando le facce dei pirati davanti a lei sgretolarsi per mostrare varie tonalità emotive. Spiccavano soprattutto l’orrore e l’incredulità, quest’ultima specialmente sul viso della navigatrice.

“Cosa… cosa facevano?”

“Beh, la fantasia non gli mancava.” Disse, amaramente. Dalle facce dei presenti, la sua battuta tetra non era stata accolta molto bene. Distolse lo sguardo, vergognandosi. Strinse le labbra, combattuta. Non c’era un modo carino per spiegare loro la questione.

Nami sembrò avere un’epifania. “…È così che ti sei procurata quelle cicatrici?”

Mana annuì. “Le chiamerei punizioni corporali, ma non erano punizioni. Non avevamo fatto niente di male, dopotutto.” Strinse il lenzuolo fra le dita. “Ci picchiavano, per renderci più resistenti. Abbastanza forti da poter affrontare gente del calibro delle Supernove. Era un continuo ciclo di guarigione e convalescenza. Ci facevano anche… combattere… tra di noi...”

Fece una pausa, sentendo un improvviso vuoto all’altezza dello stomaco. La nausea che le aveva ronzato intorno come una fastidiosa zanzara fino a quel punto la assalì di colpo, minacciando di farla vomitare. Si strinse il torso, respirando affannosamente. Chopper si affrettò a raggiungerla, rialzando lo schienale del lettino e facendola stendere. Sotto gli occhi preoccupati dei presenti, la piccola renna le tamponò il collo e il viso con un panno bagnato. Si sentiva bollire, ma sudava freddo.

“Respira.” Le mormorò fermamente il dottore.

Nami corrucciò la fronte, preoccupata. “Non devi dirci tutto adesso, se ti fa stare così male. Possiamo andare a piccoli passi.” Disse, alzandosi quasi come per andarsene.

Mana fece scattare ciecamente un braccio nella sua direzione, scuotendo la testa. Non si fidava ad aprire la bocca, ma fortunatamente la navigatrice colse comunque il messaggio e si sedette di nuovo. Robin le poggiò una mano sulla spalla. Usopp sembrava avesse visto uno spettro, la faccia pallidissima e contorta in una smorfia. Mana cercò di stamparsi in testa la sua espressione ridicola, tentando di distrarsi.
Le ci volle comunque una decina di minuti buona per tornare alla normalità, e non prima di aver perso del tutto le forze, come una marionetta a cui avevano tagliato i fili. Se non fosse stata stesa si sarebbe sicuramente fatta male.

Chopper mutò nella sua forma più grande per aiutarla a sedersi, mantenendola dritta con una mano dietro la schiena e offrendole un bicchiere d’acqua con l’altra.

Mana sorrise mestamente. “Scusate.” Gracchiò.

Nami scosse veemente la testa. “Non ti devi scusare.”

Arricciò le punte dei piedi sotto il lenzuolo. “Voglio togliermi questo peso, in modo da non doverci più tornare. Per favore.” I presenti annuirono. Usopp sembrava essersi dimenticato del suo iniziale nervosismo, sedendosi di fianco al suo letto.

“C’è un’altra cosa.” Disse, dopo un po’. Gli occhi di tutti erano puntati su di lei, ma non riusciva a trovare le parole giuste per rivelare loro quella terribile verità. Aprì e chiuse la bocca un numero indefinito di volte, sudando freddo di nuovo in tutto il corpo.

Nami non riuscì più a rimanere seduta, scattando verso di lei e prendendole una mano. “Respira. Tranquilla.”

Mana la fissò di rimando, la tristezza che le pesava sul petto come un masso. Le strinse la mano, quasi a scusarsi di quello che stava per dirle. “Molti, durante questi esperimenti… Muoiono.” Il viso di Nami crollò, due occhi colmi di disperazione che fissavano i suoi, già velati di lacrime. “E intendo… Tanti. Troppi.”

Sentì la mano di Chopper diventare di pietra sulla sua schiena, mentre il resto dei pirati, Robin inclusa, la guardava con l’orrore visibile sui loro volti.

“Mi dispiace.” Soffiò, abbassando la testa. “Mi dispiace.”

Il silenzio dopo le sue parole fu assordante.
 
-
 

Appena mise un piede fuori dall’infermeria, il mondo sfumò improvvisamente in un vuoto grigiore. Assente com’era, non seppe come, ma riuscì ad agguantare Usopp e istruirlo sul mantenere la rotta. Non era abbastanza presente con la mente per guidare la Sunny. L’amico rimase palesemente sorpreso dalla sua richiesta, ma si riprese in fretta e annuì senza fare domande. Nami sorrise debolmente. Nonostante la sua indole, Usopp era un amico prezioso sul quale si poteva sempre contare nel momento del bisogno. Lo salutò con un cenno del capo, incamminandosi.

Una delle cose più scomode del vivere su una nave era l’impossibilità di fare lunghe passeggiate – che, manco a farlo apposta, erano il suo modo preferito per pensare e riflettere. Dopo aver vissuto per anni in mare aperto, Nami si era rassegnata ad arrangiarsi con quello che aveva. Era così che, spesso e volentieri, si trovava a girare ossessivamente per la nave, senza una meta o un percorso preciso, con il solo intento di sfogare quel bisogno viscerale di macinare chilometri mentre la sua mente faceva lo stesso con i suoi pensieri.

Ormai i suoi compagni conoscevano questa sua peculiarità. Si erano fatti il callo: sapevano di non doverla importunare in quei momenti, a meno che non ci fosse qualcosa di importante, ovviamente. Persino Zoro, nel caso in cui Nami inciampasse su di lui mentre dormiva, aveva imparato a tenere la bocca chiusa e non sfidarla. E Nami era consapevole – e grata – per quella considerazione.

Per questo motivo, quando Brook quasi si scontrò con lei durante la sua marcia e non si spostò, Nami alzò lo sguardo, confusa. Lo scheletro rimase a fissarla in silenzio per qualche secondo. Nami sbatté le palpebre, smarrita.

Infine, il suo compagno si chinò, prendendola di peso e caricandosela addosso, le ossa aguzze che le pungevano fastidiosamente la carne. Si fece sfuggire un verso sorpreso, scalciando d’istinto, l’irritazione che montava velocemente. Non era proprio il momento per i suoi stupidi giochini e battute sporche. Non che avesse mai tempo per quelle cazzate. Alzò la testa, pronta a scaricargli addosso la sua rabbia; ma la sua fiamma si spense velocemente com’era arrivata.

Brook non aveva pelle o muscoli. Non aveva occhi, o labbra, o qualsiasi altra cosa servisse per decifrare l’espressione di una persona; ma non aveva problemi a esprimere le proprie emozioni, complice anche il suo carattere scherzoso e vivace. Eppure, in quel momento il suo viso sembrava nulla di più che un teschio; le orbite buie e vuote. Nami lo aveva visto pochissime volte così serio. Era in frangenti come quello che dimostrava la sua vera età.

Senza nessun commento salace, nel più completo silenzio, il musicista la portò sul ponte della Sunny. Nami tentò di scendere, ma lo scheletro se la strinse nuovamente addosso ed esaurì in poche falcate la distanza che li separava dalla prua – spesso ci si dimenticava di quanto fossero lunghe le sue gambe. La depositò esattamente di fronte alla polena, tenendola per le spalle per permetterle di raddrizzarsi. Nami alzò la testa, confusa, sforzando il collo per poter guardare negli occhi il suo altissimo compagno. Brook le diede un buffetto sul capo, carezzandola come se fosse una bambina prima di girare i tacchi e allontanarsi. La navigatrice si tastò il punto dove il musicista l’aveva toccata, sconcertata per il suo comportamento e senza capirne il motivo.

“Nami?” Chiamò una voce da sopra la sua testa. Si girò, assottigliando gli occhi a causa del sole. Luffy, steso prono sulla polena, si era tirato su per vedere cosa stesse succedendo. Non appena la mise a fuoco, aggrottò la fronte. “Che brutta faccia!”

Prima che potesse reagire in qualsiasi modo, Luffy l’aveva già acchiappata e issata sulla polena. In men che non si dica si ritrovò avviluppata da vari strati di arti gommosi, in un abbraccio che sembrava più l’imitazione di un bozzolo. Il ragazzo ondeggiò sul sedere fino a girare entrambi verso il mare. La brezza le scarmigliò i capelli in ogni direzione, mandandoglieli anche in bocca. Nami sputacchiò, presa in contropiede. Aveva le gambe piegate contro il petto e le braccia intrappolate lungo i fianchi, impossibilitata a muoversi. Infine, il ragazzo le appoggiò il mento sulla testa facendo le fusa, compiaciuto del suo operato.

Nami si aspettò di sentire la rabbia montare come lava in un vulcano. Si aspettò un bisogno istintivo di scalciare e liberarsi, di urlare improperi fino a perdere la voce. Invece si afflosciò, arrendevole, abbandonandosi alla sensazione di essere circondata e stretta gentilmente da ogni lato. Fu come se ogni suo muscolo avesse rilasciato di colpo tutta la tensione che non sapeva di star covando. Abbassò le palpebre, il calore del suo capitano che agiva da barriera contro il vento dell’oceano, avvolgendola come un mantello.

“Meglio?”

Annuì. Il vento continuava a scompigliarle i capelli, ma non se ne curò. Si sentiva ancorata. Inamovibile.

“Shishishi.” I tremori della risata di Luffy le ronzarono sulla pelle. “Ci ho visto giusto allora. Avevi bisogno di un abbraccio!” Nami non rispose, fissando l’immenso blu che si distendeva davanti ai suoi occhi.

Rimasero così per un po’, in piacevole silenzio. Per quanto fosse dannatamente molesto di natura, alle volte persino Luffy sapeva quando lasciare alle persone il loro spazio. Anche se, fisicamente parlando, in quel momento di spazio gliene aveva lasciato a malapena per respirare.

“Luffy.”

“Mh?”

Nami abbassò lo sguardo, riuscendo a fatica a fissarsi le punte dei piedi. “Mi sono illusa troppo.” Si leccò le labbra seccate dal vento. “Uno penserebbe che dopo tutte le cose che abbiamo visto sarei diventata più cinica. Invece continuo ad essere ingenua.”

Il suo capitano fece un verso contrariato. “Ugh. C’è già Zoro di cinico. Non è divertente.”

Un breve sorriso privo di gioia fece capolino, per poi lasciare il posto a un’espressione seria e cupa. “In realtà avevo già valutato la possibilità, ma ho voluto…” Sospirò pesantemente. “Non lo so. Immagino di non averci voluto pensare.”

“A cosa non volevi pensare? A una cosa brutta?”

Nami annuì. “A una cosa molto brutta.”

“Non mi piace pensare a cose brutte. A nessuno piace farlo. Ti fa diventare scontroso e triste. Sei già scontrosa di tuo, se lo diventi ancora di più e ti intristisci pure sarà come avere sempre un nuvolone sulla Sunny. Lascia stare che è meglio.”

Nami si fece scappare una risata. “Imprudente come sei, so bene che non ci pensi mai a queste cose. Ma a volte bisogna farlo, per prepararsi al futuro.” Luffy emise un suono gutturale e interrogativo. “Se tu sapessi che nella prossima isola ci sono un sacco di pericoli-“

“Ti direi di far andare la Sunny più veloce.”

Una smorfia seccata le stirò le labbra. “Ok, ma se su quell’isola sapessi che fanno male alle persone-“

“Male in che senso?”

“Ma che ne so, Luffy! Santo cielo, è un esempio! Male nel senso di dolore fisico! Come quello che ti farò io se non la smetti di interrompermi!”

“Mmm.” Luffy si mise a dondolare di nuovo sul sedere, senza spostarli stavolta. Dondolò semplicemente sul posto, incapace di restare fermo a lungo. “Beh, in quel caso andrei a menargli.”

“Eh?”

“Al farabutto che fa male alle persone.” Disse il suo capitano, facendo gravare tutto il suo peso addosso a lei e lasciando cadere la testa sulla sua spalla. “Dai Nami, non sarebbe la prima volta che lo facciamo. Ormai dovresti sapere i protocolli della nostra ciurma.”

Quali dannatissimi protocolli? Girò il collo per guardare il giovane con aria interrogativa.

“Se c’è un farabutto, gli molliamo un cazzotto sul muso.” Rispose lui con tutta la convinzione e l’innocenza del mondo.

Nami premette la fronte sulle ginocchia, espirando rumorosamente dalla bocca. “Ho capito, era un esempio sbagliato.” Disse, esasperata. “Quello che voglio dire è… Se sapessi che questo… farabutto fa del male alle persone, e che continuerà a farlo finché non arriverai a fermarlo… Se sapessi che per ogni ora che navighiamo qualcuno sta soffrendo… Cosa faresti?” Chiese, ruotando la testa per poterlo di nuovo guardare negli occhi, il naso che faceva a malapena capolino dal groviglio di braccia.

Luffy sbatté più volte le palpebre, genuinamente confuso. “Cosa dovrei fare? Quando arrivo gli faccio il culo così non potrà fare più male a nessuno. Magari lo insalamiamo e lo leghiamo ad un albero, così quando Smokey ci insegue e sbarca anche lui lo trova e lo arresta e lo porta a Impel Down.” Aggrottò la fronte, distogliendo lo sguardo. “Forse faremmo meglio a scrivergli un bigliettino, così siamo sicuri.” Tornò a guardarla. “Però, sì, ecco. Non posso fare niente di tutto questo se prima non ci arrivo. All’isola dove sta, dico.”

Nami lo fissò in silenzio per un po’. Parlare con Luffy poteva risultare incredibilmente terapeutico o stressante, a seconda dei casi. Molte volte, aiutava a ridimensionare i problemi; oppure a cambiare la prospettiva con la quale li si approcciava.

Luffy, nella sua visione semplicistica del mondo, spesso aveva ragione. Non le avrebbe fatto bene continuare a torturarsi per chi non riusciva a salvare. L’avrebbe tenuta bloccata nel passato. Sorrise, ricordandosi di aver fatto un discorso del genere poco prima a Brook e Franky.

Brook. Che faccia terribile dovevo avere, per farlo comportare in quel modo.

In ogni caso, doveva darsi una regolata e smettere di pensare a ogni opportunità mancata. Non poteva permetterselo. Aveva un obiettivo e doveva concentrarsi su come raggiungerlo.

Un improvviso senso di déjà-vu la assalì. Zoro le aveva fatto più o meno lo stesso discorso, quando erano riusciti a svignarsela da Namea e lei si stava tormentando per non essere riuscita a fare di più. Sorrise. I suoi nakama erano i migliori che avrebbe mai potuto desiderare.

A tal proposito, sfilò una mano dal groviglio di arti gommosi, rifilando un pizzicotto alla cieca al suo capitano.

“Ahia! E questo per cos’era?” Si lamentò Luffy, imbronciandosi.

“Non sono scontrosa.” Rispose lei, piccata, riportando lo sguardo sull’oceano e facendo vagare la mente.

Ora che ci pensava, quando erano a Punk Hazard Caesar Clown aveva accennato a qualcosa che allora non aveva capito. Ma con il senno di poi… le circostanze erano troppo simili. Che si stesse riferendo proprio ai rapimenti della Marina? Questo significa che a Punk Hazard erano a conoscenza di quello che stavano facendo, di questi fantomatici super soldati? E se fossero correlate, le due cose? Dopotutto entrambi rapiscono bambini e li trattano come cavie da laboratorio…

Nami si mordicchiò il labbro inferiore. “Dannazione. Avremmo dovuto tenerci in contatto con Law. Non ci siamo nemmeno scambiati il numero di lumacofono.” Sospirò. “Chissà cosa sta facendo ora.”

“Oh! Manca anche a te?” Esclamò pimpante Luffy.

“Chi, quel chirurgo macabro? Figurati. È solo che, magari, avremmo molte più risposte se potessimo parlare con lui.” E con il suo ostaggio.
“Shishishi. È vero che è macabro, ma a me sta simpatico. Spero di rivederlo presto.”

“Più sono strani e più ti stanno simpatici. Questa ciurma assomiglia sempre di più a un circo. E- No, non fare quella faccia. Non era il mio benestare per farlo entrare in ciurma.”

L’espressione entusiasta di Luffy si sgonfiò come un palloncino. Nami lasciò il suo capitano a mugugnarle proteste direttamente nell’orecchio, lasciandosi distrarre dall’abbacinante riflesso del tramonto sulle acque della Rotta Maggiore.
 

 
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Le persone non cambiano mai. Il vecchio delle conchiglie lo diceva sempre.

Secondo la sua religione, l’anima era unica e indivisa; ma aveva più strati. Lo strato più interno, locato vicino al cuore, era immutabile. Costituiva il nucleo di una persona, la sua personalità di base, la sua indole. Quello non cambiava mai.

Lo strato più lontano dal cuore e più vicino alla testa, invece… Quello cambiava. Veniva influenzato da ogni tipo di esperienza. Quello era lo strato che influiva sulle abitudini, i gesti inconsci e i riflessi.

Se, qualche anno prima, avessero provato a svegliarla facendo caciara nella stessa stanza dove stava dormendo, Mana non si sarebbe mai svegliata. Nemmeno il ruggito di un re del mare troppo vicino alla costa di Zaratan riusciva a strapparla dal suo riposo. Il sonno del guerriero, lo chiamavano. Lei, però, non era un guerriero. Non aveva chissà quale ruolo importante nella gerarchia di Zaratan, anzi. Nonostante quello, ogni volta che la sua testa toccava una superfice morbida, non importava che avesse lavorato o meno durante la giornata: se non veniva scossa con vigore, dormiva beatamente anche per dieci ore filate.

Ma, quando Black Leg appoggiò il vassoio con la cena sul comodino di fianco al suo letto, il leggero tintinnio della ceramica bastò a svegliarla.

Le persone cambiano. Il vecchio delle conchiglie lo diceva sempre.

Si contraddiceva in continuazione ma, per qualche strano motivo, ciò che diceva aveva senso.

Mana aprì gli occhi di scatto, immobile nella sua posizione ma con ogni nervo pronto a scattare. Sanji sbatté le palpebre alla sua reazione, aprendosi poi in un largo sorriso. Finì di appoggiare il suo pasto, tirandosi velocemente su.

“Oh, bocciolo di neve! Ti senti meglio?” Cinguettò pimpante. “Ti ho portato la cena. Preparata da me medesimo con grande dedizione! Ti aiuterà a rimetterti in sesto e a restituire al tuo corpo le meravigliose forme che merita!”

Mana riuscì a malapena a celare il fastidio dato da quelle parole melense e si tirò a sedere. Fece il movimento senza troppa cura, dimenticandosi per un momento della sua condizione. Una fitta di dolore allo stomaco lampeggiò fulminea, facendole portare una mano allo stomaco con una smorfia.

A quella vista, il cuoco andò su tutte le furie. “Quel dannato gorilla senza cervello! Cosa gli è saltato in mente, colpendoti in quel modo?”  Ringhiò, digrignando i denti. “Dopo gli vado a dare il resto. Seriamente, malmenare un fiore delicato come te come se fossi uno dei suoi sacchi da allenamento… Inaccettabile!”

Aggrottò la fronte senza rispondere. Non riusciva a capirlo. Cosa pensava di ottenere da lei, comportandosi in quel modo? Lo faceva anche con le altre due donne della ciurma, nonostante il loro disinteresse nei suoi confronti. Che fosse solo stupido come un sasso e non lo capisse? D’altronde, certe attenzioni e accorgimenti erano graditi, specialmente dalla navigatrice. Aveva visto spesso la Gatta Ladra fare leva sul suo palese punto debole per ottenere ciò che voleva. Era stata messa in guardia su di lui ma, fino a quel momento, oltre a un generale fastidio per le sue avances-barra-adulazioni, non riusciva a capire quale fosse la pericolosità di quell’uomo.

“-esto posto, è come se una nuova, terza luce si fosse imbarcata su questa nave! Un altro angelo venuto a dare sollievo ai miei occhi in questa valle di buzzurri sudati-“

Mana cercò di lasciar vagare la mente, bloccando i rumori molesti e andando col pensiero nel suo posto felice. Forse, se lo avesse ignorato abbastanza a lungo, avrebbe capito di darle fastidio e avrebbe chiuso quella boccaccia.

“Non temere, d’ora in poi non dovrai più preoccuparti di nulla!” Insistette invece lui, imperterrito. “Ci penseremo io e gli altri ad affrontare quei marine corrotti! Ne hai passate di tutti i colori, ora puoi metterti comoda e limitarti a irradiare tutti noi con il tuo etereo splendore!”

Mana strinse la mascella. “Potresti smetterla?” Scattò. “Non mi fa particolarmente piacere essere paragonata a un bel soprammobile.” Aggiunse.

Sanji chiuse la bocca di scatto, preso in contropiede. “Non… non intendevo sminuirti, anzi.”

Mana lo guardò. “Perché mi tratti in questo modo? Vuoi qualcosa?”

“Che tu sorrida!” Rispose senza esitazioni il cuoco. “Quel marimo non aveva il diritto di dirti quelle cose o fare quello che ha fatto! Non ha un briciolo di buone maniere.”

 “Non c’entrano le buone maniere.” Disse, piccata. “Penso che abbia avuto ragione a proporre quel duello. Mi ha dato una svegliata, mi ha ridimensionata e mi ha fatto riflettere sul mio comportamento. E sul vostro. Non era questo quello a cui puntava?”

L’altro esitò. “… Sì, ma non avrebbe dovuto combattere-“

“Perché non avrebbe dovuto?” Lo rimbeccò. Oh mio dio, sto difendendo quel demonio. Che il cielo mi aiuti, forse la botta alla testa era più forte di quello che pensavo.

“Perché un vero uomo non dovrebbe mai alzare le mani su una donna.” Disse, convintissimo.

Serio? Mana tirò su col naso.

“Ti sembra che me ne fotta qualcosa di cos’abbia nei pantaloni chi mi mette le mani addosso?” Disse, glaciale. “Credi che quand’ero prigioniera mi riservassero un trattamento di favore perché ero una donna?”

“Io-“

“Certo che no.” Lo interruppe, toccandosi i bracciali. “Al contrario del tuo compare che, non so se l’hai notato, non mi ha preso sul serio nemmeno per un secondo durante il nostro combattimento.”

Sanji rimase in silenzio, combattuto. Lo sapeva benissimo.

Mana non disprezzava assolutamente la gentilezza. Ma la condiscendenza, quella sì che la odiava. E sotto quell’aspetto, Sanji e Zoro erano uguali, anche se in modi diversi. E Mana detestava essere trattata con i guanti di velluto.

“Anche se non ha fatto sul serio non avrebbe dovuto ugualmente farti del male.” Insistette debolmente lui.

Mana sospirò. Non ne poteva più. “Perché sei qui?”

“Volevo tirarti su di morale.”

“Pensavi che fossi depressa per la mia figura barbina?” Sanji sussultò, gesticolando per correre ai ripari. “Beh, hai ragione.” Continuò. “Non è piacevole vedere cosa sono diventata… Se fosse stato un nemico non avrei avuto nemmeno una possibilità di vittoria.”

Sanji abbassò gli occhi. “… C’è qualcosa che posso fare per te?”

Mana si strinse nelle spalle. “Immagino che ti sarei molto grata se avessi un modo per farmi diventare più forte. Disse, sarcastica. “Sarebbe un beneficio per tutti. Nemmeno Zoro avrebbe più nulla da ridire se potessi tenere testa a nemici di un certo calibro.”

In tutta sincerità, non si aspettava una risposta. Rimase in silenzio, aspettando che l’altro se ne andasse per poter mangiare. Non le piaceva particolarmente mangiare con qualcuno che scrutava ogni sua mossa.

Con sua sorpresa, invece, Sanji alzò la testa. “Un modo c’è.”

Mana sbatté le palpebre. “Huh?”

Black Leg esitò. “Potrei… potrei insegnarti l’haki dell’armatura.” Disse. “Ti sarebbe molto utile per difenderti. In questo modo anche se noi non ci fosse nessuno per proteggerti riusciresti comunque a cavartela, o almeno a resistere fino all’arrivo dei rinforzi.”

Lo guardò con occhi nuovi, scegliendo di glissare sui suoi velati tentativi di fare comunque il cavaliere. “È… è una buona idea.” Ammise, sorpresa. “E te ne sarei davvero grata.”

Sanji alzò la testa, un sorriso a trentadue denti stampato sul viso. “Allora permettimi di farlo!” Esclamò, come se la precedente discussione non fosse mai avvenuta. Mana si tirò indietro, presa in contropiede dal suo improvviso cambio d’umore. “Ovviamente prima di questo è imperativo riportare il tuo corpo alla sua condizione migliore!” Continuò, precipitandosi a scoperchiare i manicaretti che le aveva portato.

Mana aprì e chiuse la bocca, insicura su cosa dire mentre il ragazzo gli piazzava entusiasticamente un piatto fumante tra le mani.

“Su, su, mangia! Ora, con permesso, corro a studiare una dieta specifica per i tuoi bisogni. Devi tornare a splendere il prima possibile!” Disse, andandosene frettolosamente. “Buon appetito!” Esclamò, prima di uscire dall’infermeria.

Mana rimase con un piatto di risotto in mano, a fissare la porta chiusa.

Non aveva avuto nemmeno il tempo di rispondergli.
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
Tre colpi secchi risuonarono sulla porta.

Delle mani guantate ripiegarono con cura un giornale prima di rispondere: “Avanti.”

Un soldato entrò nella stanza, scattando nel saluto militare. “Viceammiraglio, è appena arrivata una busta dal plotone stanziato a Edgewater Island. Dicono che ha la massima priorità.”

“Oh? Immagino di dover vedere di cosa si tratta, allora.” Rispose la donna, sorridendo.

Il soldato annuì, consegnando la busta.

Non appena aperta, ne uscì una foto. Era leggermente mossa, ma il suo soggetto era chiaro: una ragazza dai capelli bianchi abbracciata a un ragazzo con un viso e un cappello inconfondibili. C’erano anche altre persone nell’inquadratura, ma un ingombrante dettaglio saltò subito alla sua attenzione.

La giovane aveva due ali che le spuntavano dalla schiena.

Il viso del viceammiraglio Flekwolle si aprì in un sorriso sinistro. “174. Finalmente.” Mormorò. “Ti sei trovata dei compagni di viaggio famosi.”

Girò la foto. Sul retro erano riportate la data e l’ora dello scatto.

“Soldato!” Chiamò. “Vai a notificare il navigatore.” Si alzò dalla sedia. “È ora di impostare una nuova rotta.”
  
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