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Autore: Nadine_Rose    18/04/2019    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 8

 

Di mute parole d’amore

 

“La memoria è uno strumento molto strano, uno strumento che può restituire, come il mare, dei brandelli, dei rottami, magari a distanza di anni.”

Primo Levi

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Matteo correva verso la banchina, chiedendosi perché mai fosse fuggito in quel modo lasciando Sarah con chissà quale idea sbagliata sul suo conto. La rivelazione della ragazza aveva aperto un varco nella sua memoria, facendo riemergere dei ricordi dolorosi, caduti in quello stato di oblio per mezzo del quale lui, come tante altre persone, aveva fronteggiato i traumi dell’immediato dopoguerra. Correndo, mentre il vento schiaffeggiava in viso, poteva avvertire di nuovo dentro di sé e sulla propria pelle il dispiacere provato, quando ancora frequentava la scuola di avviamento al lavoro, per l’inspiegabile allontanamento di un suo compagno di classe, all’indomani delle vergognose leggi razziali, compagno che non rivide mai più. Davanti agli occhi della mente gli passavano le immagini di quegli ignobili cartelli esposti nelle vetrine dei negozi e sulle porte dei locali con la scritta “vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei” e nella sua testa riecheggiavano gli orribili e, a quei tempi, inverosimili racconti di ciò che accadeva agli ebrei in Germania. Sarah era ebrea. Correva Matteo, forse per scappare da quel senso di inadeguatezza, immaginando le sofferenze che la ragazza di cui si era innamorato aveva patito, anche a causa dell’indifferenza di tanti italiani, e della sua; o forse fuggiva per la paura di una nuova ondata di odio razziale che avrebbe potuto coinvolgere anche lui, intraprendendo una relazione amorosa con Sarah; correva Matteo, mentre la testa gli si riempiva di domande, a cui il suo cuore aveva già dato una risposta.

 

Berlino

 

Sua madre spalancò le finestre per lasciar entrare l’aria buona e leggera d’inizio estate ed Hermann socchiuse gli occhi alla luce di un raggio di sole, mentre suo padre si apprestava ad aiutarlo a sollevarsi. Sedutosi sulla poltrona accanto al letto, seguì con lo sguardo sua madre che apriva l’armadio, alla ricerca della biancheria pulita, rovistando tra le sue uniformi e i cimeli di una vita che ormai non gli apparteneva più, il cui ricordo poteva soltanto suscitargli paura e tristezza.

“Perché avete ancora quella roba?” domandò Hermann, rivolgendo lo sguardo a suo padre e fu lui a rispondergli.

“Sono i ricordi di un passato glorioso e la speranza di un ritorno al potere”, disse con tono di sufficienza, come se quella fosse la cosa più scontata al mondo.

I suoi genitori erano ancora nazisti.

“Un passato vergognoso che non sarebbe mai dovuto esistere e che non potrà mai più ritornare”, ribatté Hermann, stringendo di rabbia i denti.

“Figliolo, quale lavaggio del cervello ti hanno fatto i russi?” fece suo padre, con un’espressione di meraviglia mista a compassione e la sua memoria andò alle notti di Fossoli, a quando, tra le braccia di Sarah, ogni ideologia nazista e ogni suo progetto non avevano più alcuna importanza e lui smetteva di essere l’acerrimo comandante del campo.

“L’ho capito ancor prima dell’arresto che tutto ciò fosse una pazzia, ma non riuscivo ad ammetterlo a me stesso”, confessò Hermann, mentre gli occhi pian piano gli diventavano lucidi. “Non sono state le botte dei russi a farmelo capire, ma l’amore. Io mi sono innamorato di una ragazza ebrea.”

Questa volta, fu sua madre a rispondergli, con un tonfo sul pavimento.

“Birgit!” urlò suo padre, correndole in aiuto.

Sua madre era svenuta ed Hermann ne rimase impassibile, mentre, con gli occhi della mente, rivedeva il viso di Sarah incorniciato tra le sue mani, illuminato di bellezza e passione e in procinto di stendersi in un dolce e ampio sorriso, prima di rotolarsi assieme ridenti tra le lenzuola.

 

Napoli, luglio 1946

 

Era ormai da una settimana che Matteo non si faceva più vivo e Sarah aveva smesso di sorridere, intrappolata in un vortice di interrogativi, che ruotavano attorno a un’unica domanda, al “perché” il giovane fosse fuggito in quel modo. Era bastato soltanto dirgli di essere ebrea per farlo allontanare per sempre da lei, forse impaurito, e non riusciva neanche a immaginare una possibile reazione, di Matteo o di qualsiasi altro uomo, se avesse confessato della sua storia con Hermann. Nessuno mai l’avrebbe compresa nel suo incoerente groviglio di sentimenti, o più voluta a causa della sua disonorabilità ed era destinata a una vita di solitudine; nessuno l’avrebbe sposata e mai avrebbe realizzato il suo sogno di famiglia, al quale ambiva sin da bambina, ed era condannata a un futuro di tristezza. Era il giorno del suo compleanno e Sarah lo aveva proprio dimenticato, così persa nei suoi malinconici pensieri. A ricordarglielo fu la sua amica, che la svegliò con un caffè e un fazzoletto[1] e, con un’allegra canzoncina di buon compleanno, riuscì a strapparle un lieve sorriso. Non era poi così sola.

Poi, con espressione vispa, Hannah le sventolò davanti agli occhi, spalancati di perplesso stupore, una busta da lettera, dicendole: “Sei stata molto fortunata, Sarah. Il signor Gennaro ti ha concesso l’intera giornata di riposo e, in più, ti manda questa.”

Le porse la busta e, quando l’aprì, Sarah quasi si commosse nel vedere all’interno due giorni di paga.

“Fossi in te stamattina andrei al mare”, proseguì Hannah, sorridente.

“E poi andrei a comprarmi un bel vestito per questa sera”, concluse, alludendo a una possibile sorpresa.

Con gli occhi lucidi, stordita dall’emozione, Sarah aveva dei buoni motivi per non essere triste in quel giorno. E iniziò con l’ascoltare il primo consiglio della sua amica, indossò il costume da bagno e un vestito, entrambi color turchese, prese la sua vestaglietta a stampa floreale e corse in spiaggia. La folta presenza e l’euforica allegria dei bagnanti facevano sembrare la guerra, con tutte le sue drammatiche conseguenze, soltanto un ricordo lontano e poco importava se, alle loro spalle, ci fossero ancora cumuli di macerie e case diroccate. Con un sorriso a fior di labbra d’inguaribile malinconica, Sarah guardava la vita continuare, nei bambini che giocavano nella sabbia e negli adulti che prendevano il sole, nei ragazzi che facevano caciara[2] e nelle ragazze che ridevano al loro corteggiamento, nelle forze dell’ordine che di tanto in tanto sorprendevano qualche donna con indosso quel tanto chiacchierato costume da bagno chiamato bikini, nei pescatori che accostavano le loro barche alla riva per vendere il pesce appena pescato. E, mentre la folla di bimbi curiosi e di persone interessate ad acquistare si avvicinava spedita all’imbarcazione, i suoi pensieri non potevano che andare a Matteo, ai loro giri in barca e alle loro passeggiate al tramonto, al suo timido bacio e alla sua inspiegabile fuga. Socchiuse gli occhi, che bruciavano per la luce del sole e il calore di lacrime trattenute e poi, aggrappandosi al suono rilassante delle onde e al brusio felice della gente, decise di lasciarsi scivolare quel dolore e tenersi del giovane pescatore un bel ricordo. Pian piano, rasserenò il viso e, aprendo lo sguardo al golfo di Napoli, alle sue isole e al suo Vesuvio, indirizzò i pensieri alla festa che l’attendeva di lì a poche ore, stringendosi forte a quella sensazione di entusiasmo. Fantasticando sulla sorpresa che il signor Gennaro e i suoi colleghi avevano in serbo per lei, tra un tuffo in acqua e una chiacchierata con qualche cordiale signora, il suo umore si risollevò e anche Sarah sembrò contagiarsi di quella strana e collettiva spensieratezza della prima estate dopo la fine della guerra. Verso mezzogiorno il sole iniziò a scottare e la sete a farsi sentire. Sorridente, mise la sua vestaglietta a stampa floreale e si avviò in fretta verso il chioschetto per comprare una limonata. Prese la bibita, ringraziò l’allegro e anziano acquafrescaio e, sorseggiando lentamente, si volse verso gli incalcolabili chilometri di spiaggia e la movimentata vita dei suoi bagnanti. Ma la visuale di Sarah fu subito ostacolata dall’improvvisa comparsa di due ragazzi che le piombarono davanti con un’aria ridicola di spavaldi conquistatori.

“Ciao, lo sapete che siete bellissima? Vi possiamo conoscere?” proruppe uno dei due, quello un po’ più alto.

Alla loro espressione sottilmente maliziosa, Sarah, dapprima, s’infastidì, poi rimase impietrita mentre la sua testa e i suoi sensi associavano quella scena a una situazione già vissuta, a Fossoli, qualche giorno prima dell’eccidio degli internati politici. Anche allora era luglio, anche allora l’aria era tremendamente calda.

 

Sarah uscì di corsa dalla baracca. Dentro, il caldo era opprimente, per l’eccessivo affollamento e per il sole che, inesorabile, batteva sul tetto e penetrava dalle finestre e da ogni possibile fessura. Ma a spingerla fuori era stato anche, e forse soprattutto, un senso di oppressione che le aveva reso difficile respirare e scalpitante la voglia di fuggire. Di notte, Hermann sembrava amarla per davvero ma, di giorno, era come se lei non esistesse. Ferma sull’uscio, Sarah tentava di farsi vento soffiandosi in viso con un fazzoletto, fino a quando non le si fermarono davanti due soldati delle SS. Frenò il più minimo movimento e ogni suo malinconico pensiero, a quelle risatine e a quegli sguardi maliziosi verso di lei che traducevano perfettamente il loro dialogo in tedesco. Il cuore le batteva forte, mentre il timbro di voce e gli occhi dei due soldati si avvampavano sempre di più nel fermento della malizia, e avrebbe voluto indietreggiare, nascondersi nella baracca, ma temeva una loro violenta reazione. I tedeschi, infatti, negli ultimi tempi, erano diventati più cattivi. Poi quello più alto fra i due, continuando a parlare e sghignazzare con il suo commilitone, le mise una mano fra i capelli, arricciandole una ciocca attorno al dito, e Sarah, sempre più ansimante di vergogna e paura, sperava che Hermann apparisse da un momento all’altro per salvarla da quella situazione, per difenderla, proteggerla. E, anche se i minuti, i secondi che scorrevano sembravano per lei infiniti, quel momento non tardò ad arrivare. I due soldati scattarono sull’attenti. Sui loro volti c’era adesso un’espressione di sorpreso imbarazzo e legittimo timore, davanti alla figura austera di Hermann e al suo sguardo severo, lo stesso che per un attimo rivolse anche a lei. Poi iniziò a parlare in tedesco ai suoi subalterni, in un crescendo di voce sempre più incalzante e autorevole e, alle ultime parole, pronunciate quasi urlando, i due soldati batterono di nuovo i tacchi e andarono via. Rimasti da soli, Hermann la fissò per alcuni istanti ma, davanti ai suoi occhi lucidi di sgomento per ciò che le era appena accaduto e quasi imploranti di una qualsiasi parola gentile, non rabbonì lo sguardo e, afferrandola per il braccio, la indirizzò verso l’ingresso della baracca.

“Devi uscire da qui solo per venire da me, hai capito?” la rimproverò, con voce bassa e dura, stringendole forte il braccio fino a farle male.

Sarah annuì con un cenno della testa, contorcendo il viso in una smorfia di dolore, mentre Hermann la spinse nella baracca. Si accarezzò dolorante il braccio e, pian piano, quella smorfia di dolore si trasformò in un mezzo sorriso, nel ripensare agli occhi adirati di Hermann come a occhi infuocati di gelosia e nel cogliere, dal suono della sua voce incollerita, le vibrazioni di mute parole d’amore, fantasie con le quali nutrì il suo cuore affinché sopravvivesse fino a sera. E fece della sua immaginazione una certezza quando seppe che Hermann aveva punito quei due soldati facendoli marciare per quattordici chilometri, scortati in macchina da un sottoufficiale.

 

Con l’espressione di chi sembrava aver visto un fantasma, Sarah scappò via, lasciando quei due ragazzi in uno scambio di sguardi attoniti. Correva per sfuggire e, allo stesso tempo, andare incontro al suo bisogno del verde profondo di quegli occhi glaciali e dell’accento tedesco di quella voce imponente, di sentirsi protetta da quelle mani forti. Sarah aveva ancora bisogno di Hermann e, fra i suoi ricordi, il giovane pescatore era diventato quello più lontano.

 

“E io non le credevo ma

nella mente avevo solo lei.

Dopo un po’ rimase chiusa in me

e qualcosa ora ho ancora dentro.

È amore! Io non so se la risveglierò.

È tutto ciò che io di vero ho.”

 

Alunni del sole, E mi manchi tanto



[1]Dolce di pasta sfoglia.

[2]Trambusto, in dialetto romano.

   
 
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