Capitolo
8
Di
mute parole d’amore
“La memoria è
uno strumento molto strano, uno strumento che può restituire, come il mare, dei
brandelli, dei rottami, magari a distanza di anni.”
Primo Levi
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Matteo
correva verso la banchina, chiedendosi perché mai fosse fuggito in quel modo
lasciando Sarah con chissà quale idea sbagliata sul suo conto. La rivelazione
della ragazza aveva aperto un varco nella sua memoria, facendo riemergere dei
ricordi dolorosi, caduti in quello stato di oblio per mezzo del quale lui, come
tante altre persone, aveva fronteggiato i traumi dell’immediato dopoguerra.
Correndo, mentre il vento schiaffeggiava in viso, poteva avvertire di nuovo
dentro di sé e sulla propria pelle il dispiacere provato, quando ancora
frequentava la scuola di avviamento al lavoro, per l’inspiegabile
allontanamento di un suo compagno di classe, all’indomani delle vergognose
leggi razziali, compagno che non rivide mai più. Davanti agli occhi della mente
gli passavano le immagini di quegli ignobili cartelli esposti nelle vetrine dei
negozi e sulle porte dei locali con la scritta “vietato l’ingresso ai cani e
agli ebrei” e nella sua testa riecheggiavano gli orribili e, a quei tempi,
inverosimili racconti di ciò che accadeva agli ebrei in Germania. Sarah era
ebrea. Correva Matteo, forse per scappare da quel senso di inadeguatezza,
immaginando le sofferenze che la ragazza di cui si era innamorato aveva patito,
anche a causa dell’indifferenza di tanti italiani, e della sua; o forse fuggiva
per la paura di una nuova ondata di odio razziale che avrebbe potuto
coinvolgere anche lui, intraprendendo una relazione amorosa con Sarah; correva
Matteo, mentre la testa gli si riempiva di domande, a cui il suo cuore aveva
già dato una risposta.
Berlino
Sua
madre spalancò le finestre per lasciar entrare l’aria buona e leggera d’inizio
estate ed Hermann socchiuse gli occhi alla luce di un raggio di sole, mentre
suo padre si apprestava ad aiutarlo a sollevarsi. Sedutosi sulla poltrona
accanto al letto, seguì con lo sguardo sua madre che apriva l’armadio, alla
ricerca della biancheria pulita, rovistando tra le sue uniformi e i cimeli di
una vita che ormai non gli apparteneva più, il cui ricordo poteva soltanto
suscitargli paura e tristezza.
“Perché
avete ancora quella roba?” domandò Hermann, rivolgendo lo sguardo a suo padre e
fu lui a rispondergli.
“Sono
i ricordi di un passato glorioso e la speranza di un ritorno al potere”, disse
con tono di sufficienza, come se quella fosse la cosa più scontata al mondo.
I
suoi genitori erano ancora nazisti.
“Un
passato vergognoso che non sarebbe mai dovuto esistere e che non potrà mai più
ritornare”, ribatté Hermann, stringendo di rabbia i denti.
“Figliolo,
quale lavaggio del cervello ti hanno fatto i russi?” fece suo padre, con
un’espressione di meraviglia mista a compassione e la sua memoria andò alle
notti di Fossoli, a quando, tra le braccia di Sarah, ogni ideologia nazista e
ogni suo progetto non avevano più alcuna importanza e lui smetteva di essere
l’acerrimo comandante del campo.
“L’ho
capito ancor prima dell’arresto che tutto ciò fosse una pazzia, ma non riuscivo
ad ammetterlo a me stesso”, confessò Hermann, mentre gli occhi pian piano gli diventavano
lucidi. “Non sono state le botte dei russi a farmelo capire, ma l’amore. Io mi
sono innamorato di una ragazza ebrea.”
Questa
volta, fu sua madre a rispondergli, con un tonfo sul pavimento.
“Birgit!”
urlò suo padre, correndole in aiuto.
Sua
madre era svenuta ed Hermann ne rimase impassibile, mentre, con gli occhi della
mente, rivedeva il viso di Sarah incorniciato tra le sue mani, illuminato di
bellezza e passione e in procinto di stendersi in un dolce e ampio sorriso,
prima di rotolarsi assieme ridenti tra le lenzuola.
Napoli,
luglio 1946
Era
ormai da una settimana che Matteo non si faceva più vivo e Sarah aveva smesso
di sorridere, intrappolata in un vortice di interrogativi, che ruotavano
attorno a un’unica domanda, al “perché” il giovane fosse fuggito in quel modo. Era
bastato soltanto dirgli di essere ebrea per farlo allontanare per sempre da
lei, forse impaurito, e non riusciva neanche a immaginare una possibile
reazione, di Matteo o di qualsiasi altro uomo, se avesse confessato della sua
storia con Hermann. Nessuno mai l’avrebbe compresa nel suo incoerente groviglio
di sentimenti, o più voluta a causa della sua disonorabilità ed era destinata a
una vita di solitudine; nessuno l’avrebbe sposata e mai avrebbe realizzato il
suo sogno di famiglia, al quale ambiva sin da bambina, ed era condannata a un
futuro di tristezza. Era il giorno del suo compleanno e Sarah lo aveva proprio
dimenticato, così persa nei suoi malinconici pensieri. A
ricordarglielo fu la sua amica, che la svegliò con un caffè e un fazzoletto[1]
e, con un’allegra canzoncina di buon compleanno, riuscì a strapparle un lieve
sorriso. Non era poi così sola.
Poi,
con espressione vispa, Hannah le sventolò davanti agli occhi, spalancati di
perplesso stupore, una busta da lettera, dicendole: “Sei stata molto fortunata,
Sarah. Il signor Gennaro ti ha concesso l’intera giornata di riposo e, in più,
ti manda questa.”
Le porse la busta e, quando l’aprì, Sarah quasi si commosse nel vedere all’interno due giorni di paga.
“Fossi
in te stamattina andrei al mare”, proseguì Hannah, sorridente.
“E
poi andrei a comprarmi un bel vestito per questa sera”, concluse, alludendo a
una possibile sorpresa.
Con
gli occhi lucidi, stordita dall’emozione, Sarah aveva dei buoni motivi per non
essere triste in quel giorno. E iniziò con l’ascoltare il primo consiglio della
sua amica, indossò il costume da bagno e un vestito, entrambi color turchese,
prese la sua vestaglietta a stampa floreale e corse in spiaggia. La folta
presenza e l’euforica allegria dei bagnanti facevano sembrare la guerra, con
tutte le sue drammatiche conseguenze, soltanto un ricordo lontano e poco
importava se, alle loro spalle, ci fossero ancora cumuli di macerie e case
diroccate. Con un sorriso a fior di labbra d’inguaribile
malinconica, Sarah guardava la vita continuare, nei bambini che giocavano nella
sabbia e negli adulti che prendevano il sole, nei ragazzi che facevano caciara[2]
e nelle ragazze che ridevano al loro corteggiamento, nelle forze dell’ordine
che di tanto in tanto sorprendevano qualche donna con indosso quel tanto
chiacchierato costume da bagno chiamato bikini, nei pescatori che accostavano
le loro barche alla riva per vendere il pesce appena pescato. E, mentre la
folla di bimbi curiosi e di persone interessate ad acquistare si avvicinava
spedita all’imbarcazione, i suoi pensieri non potevano che andare a Matteo, ai
loro giri in barca e alle loro passeggiate al tramonto, al suo timido bacio e
alla sua inspiegabile fuga. Socchiuse gli occhi, che bruciavano per la luce del
sole e il calore di lacrime trattenute e poi, aggrappandosi al suono rilassante
delle onde e al brusio felice della gente, decise di lasciarsi scivolare quel
dolore e tenersi del giovane pescatore un bel ricordo. Pian piano, rasserenò il
viso e, aprendo lo sguardo al golfo di Napoli, alle sue isole e al suo Vesuvio,
indirizzò i pensieri alla festa che l’attendeva di lì a poche ore, stringendosi
forte a quella sensazione di entusiasmo. Fantasticando sulla sorpresa che il
signor Gennaro e i suoi colleghi avevano in serbo per lei, tra un tuffo in
acqua e una chiacchierata con qualche cordiale signora, il suo umore si
risollevò e anche Sarah sembrò contagiarsi di quella strana e collettiva
spensieratezza della prima estate dopo la fine della guerra. Verso mezzogiorno
il sole iniziò a scottare e la sete a farsi sentire. Sorridente, mise la sua
vestaglietta a stampa floreale e si avviò in fretta verso il chioschetto per
comprare una limonata. Prese la bibita, ringraziò l’allegro e anziano acquafrescaio
e, sorseggiando lentamente, si volse verso gli incalcolabili chilometri di spiaggia
e la movimentata vita dei suoi bagnanti. Ma la visuale di Sarah fu subito
ostacolata dall’improvvisa comparsa di due ragazzi che le piombarono davanti
con un’aria ridicola di spavaldi conquistatori.
“Ciao,
lo sapete che siete bellissima? Vi possiamo conoscere?” proruppe uno dei due,
quello un po’ più alto.
Alla
loro espressione sottilmente maliziosa, Sarah, dapprima, s’infastidì, poi
rimase impietrita mentre la sua testa e i suoi sensi associavano quella scena a
una situazione già vissuta, a Fossoli, qualche giorno prima dell’eccidio degli internati
politici. Anche allora era luglio, anche allora l’aria era tremendamente calda.
Sarah uscì di corsa
dalla baracca. Dentro, il caldo era opprimente, per l’eccessivo affollamento e
per il sole che, inesorabile, batteva sul tetto e penetrava dalle finestre e da
ogni possibile fessura. Ma a spingerla fuori era stato anche, e forse
soprattutto, un senso di oppressione che le aveva reso difficile respirare e
scalpitante la voglia di fuggire. Di notte, Hermann sembrava amarla per davvero
ma, di giorno, era come se lei non esistesse. Ferma sull’uscio, Sarah tentava
di farsi vento soffiandosi in viso con un fazzoletto, fino a quando non le si
fermarono davanti due soldati delle SS. Frenò il più minimo movimento e ogni
suo malinconico pensiero, a quelle risatine e a quegli sguardi maliziosi verso
di lei che traducevano perfettamente il loro dialogo in tedesco. Il cuore le
batteva forte, mentre il timbro di voce e gli occhi dei due soldati si
avvampavano sempre di più nel fermento della malizia, e avrebbe voluto
indietreggiare, nascondersi nella baracca, ma temeva una loro violenta reazione.
I tedeschi, infatti, negli ultimi tempi, erano diventati più cattivi. Poi
quello più alto fra i due, continuando a parlare e sghignazzare con il suo
commilitone, le mise una mano fra i capelli, arricciandole una ciocca attorno
al dito, e Sarah, sempre più ansimante di vergogna e paura, sperava che Hermann
apparisse da un momento all’altro per salvarla da quella situazione, per
difenderla, proteggerla. E, anche se i minuti, i secondi che scorrevano
sembravano per lei infiniti, quel momento non tardò ad arrivare. I due soldati
scattarono sull’attenti. Sui loro volti c’era adesso un’espressione di sorpreso
imbarazzo e legittimo timore, davanti alla figura austera di Hermann e al suo
sguardo severo, lo stesso che per un attimo rivolse anche a lei. Poi iniziò a
parlare in tedesco ai suoi subalterni, in un crescendo di voce sempre più
incalzante e autorevole e, alle ultime parole, pronunciate quasi urlando, i due
soldati batterono di nuovo i tacchi e andarono via. Rimasti da soli, Hermann la fissò
per alcuni istanti ma, davanti ai suoi occhi lucidi di sgomento per ciò che le
era appena accaduto e quasi imploranti di una qualsiasi parola gentile, non
rabbonì lo sguardo e, afferrandola per il braccio, la indirizzò verso
l’ingresso della baracca.
“Devi uscire da qui
solo per venire da me, hai capito?” la rimproverò, con voce bassa e dura,
stringendole forte il braccio fino a farle male.
Sarah annuì con un
cenno della testa, contorcendo il viso in una smorfia di dolore, mentre Hermann
la spinse nella baracca. Si accarezzò dolorante il braccio e, pian piano,
quella smorfia di dolore si trasformò in un mezzo sorriso, nel ripensare agli
occhi adirati di Hermann come a occhi infuocati di gelosia e nel cogliere, dal
suono della sua voce incollerita, le vibrazioni di mute parole d’amore,
fantasie con le quali nutrì il suo cuore affinché sopravvivesse fino a sera. E
fece della sua immaginazione una certezza quando seppe che Hermann aveva punito
quei due soldati facendoli marciare per quattordici chilometri, scortati in
macchina da un sottoufficiale.
Con
l’espressione di chi sembrava aver visto un fantasma, Sarah scappò via,
lasciando quei due ragazzi in uno scambio di sguardi attoniti. Correva per
sfuggire e, allo stesso tempo, andare incontro al suo bisogno del verde
profondo di quegli occhi glaciali e dell’accento tedesco di quella voce
imponente, di sentirsi protetta da quelle mani forti. Sarah aveva ancora
bisogno di Hermann e, fra i suoi ricordi, il giovane pescatore era diventato
quello più lontano.
“E io non le
credevo ma
nella mente
avevo solo lei.
Dopo un po’
rimase chiusa in me
e qualcosa ora
ho ancora dentro.
È amore! Io non
so se la risveglierò.
È tutto ciò che
io di vero ho.”
Alunni del sole, E mi manchi
tanto