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Autore: Spoocky    18/04/2019    2 recensioni
Missing moment dal secondo libro della saga "Costa Sottovento".
Dopo che la Lord Nelson è stata catturata dai Francesi, Stephen si prende cura di Jack e di Pullings, rimasti feriti nello scontro.
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Genere: Guerra, Hurt/Comfort, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing moments in Patrick O'Brian'
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Disclaimer: Sempre quello del capitolo I ^^

Siamo giunti alla fine anche di questa storiella di sofferenze marinaresche. 
Vorrei ringraziare quanto più cordialmente possibile tutti coloro che si sono prestati a leggere ma soprattutto a lasciare commenti tanto partecipati e sentiti a questo racconto. Siete stati gentilissimi, grazie, non riesco nemmeno a trovare le parole giuste. 



“Ho freddo.”
La voce del ragazzo era ridotta a poco più di un sussurro mentre Stephen lo accoglieva di nuovo tra le proprie braccia, a fine giornata. I marinai avevano trascorso il giorno a bisticciare tra loro su chi avesse il diritto di sorreggerlo per primo ma, al calar della notte, non vi fu dubbio alcuno sul fatto che l’onore di fargli compagnia spettasse al chirurgo. 

Maturin se lo sistemò in modo tale che poggiasse la fronte nell’incavo del suo collo e gli strinse addosso la giacca che Stevenson gli aveva offerto per scaldarsi, strofinandogli braccia e schiena per dargli un po’ di calore.  Non era da lui lamentarsi: lo aveva visto sopportare egregiamente situazioni ben peggiori e trascinare i suoi uomini in battaglia, con i nervi saldissimi nonostante fosse poco più di un ragazzino. Ma ora era stremato, distrutto dal dolore e dalla perdita di sangue.
Pullings si rannicchiò quanto più possibile senza sforzare la gamba ferita, stringendosi a lui per cercare riparo e conforto come qualunque ragazzo spaventato e sofferente avrebbe fatto al suo posto. Non lo giudicò per questo, ma cercò di consolarlo come riusciva, traendo egli stesso consolazione dalla propria angoscia grazie alla sua presenza.

“Come sta il capitano?” chiese debolmente il giovane.
Maturin non ebbe il cuore di dirgli la verità: “Ha preso un brutto colpo alla testa, ma si riprenderà presto. E anche voi, Tom: state tranquillo.”
Il ferito annuì e si abbandonò contro di lui, fidandosi della sua comprovata autorità.
Non sarebbe servito a nulla dirgli che, ormai, era probabile fosse sopraggiunto il coma e che Aubrey versava in condizioni tanto precarie che avrebbe anche potuto smettere di respirare in quel momento. Pullings era già sufficientemente angustiato dal proprio calvario, sapere di poter perdere il suo mentore avrebbe rischiato di essere il colpo di grazia.
Era una croce che Stephen avrebbe dovuto portare da solo.

I Francesi portarono coperte per i feriti e dei sacchi, che gli uomini riconobbero come le confezioni di stoppa facenti parte del carico, per adagiarveli sopra al posto dei cuscini. Stephen ebbe quindi il suo bel daffare per sistemarli, operazione che lo occupò quasi tutta la mattina: provvide prima ai malati d’influenza, poi agli altri pazienti.
Ne mise due, anche tre per sacco, per ottimizzare gli spazi.  Decise che la scelta più sensata sarebbe stata mettere Jack accanto a Pullings, nella speranza che la vicinanza e la voce del ragazzo fungessero da stimolo per la coscienza sopita dell’amico e il contatto con il venerato superiore fosse di conforto al ragazzo.

Spostare le duecentoquaranta libbre[1] di Aubrey a peso morto fu un’operazione difficile, che richiese ben cinque uomini. Tom, che ne pesava centocinquantaquattro[2] scarse, era più maneggevole ma richiese molta più attenzione per lo stato precario delle sue ferite. Maturin gli resse la nuca, posandola dolcemente sul tessuto ruvido del sacco prima di stendergli addosso una coperta, avvolgendolo fino alle spalle.
L’allievo socchiuse gli occhi e gemette piano, abbandonandosi al calore della coltre che mitigava finalmente il gelo provocato dall’emorragia, alleviando i dolori intercostali provocati dall’umidità e gli spasmi muscolari.    

Stephen vide il suo volto pallido distendersi per la prima volta dopo due giorni di sofferenza. Era ancora molto grave: l’epidermide era fredda e sudata, diuresi ed enuresi densissime e pressoché inconsistenti, e l’unica traccia di colore sul suo viso erano due occhiaie profonde e scure come lividi. Respirava ancora però, e il polso iniziava a rallentare. Si poteva ancora sperare.  
Gli accarezzò una guancia, sentendo i peli ispidi di una barba ancora acerba sotto il palmo. Se il ragazzo se ne accorse, non ne diede cenno.

Azemà si materializzò alle sue spalle, allungandogli una tazza in peltro con un’espressione indecifrabile. Maturin l’accettò senza una parola e vide che si trattava di latte.
Non riuscì a credere ai suoi occhi e alzò lo sguardo verso il capitano francese, che annuì incoraggiante.
Chinatosi, raccolse il capo di Tom da dove poggiava e gli accostò la tazza alle labbra. Gliele bagnò appena e lui le aprì istintivamente: pelle e mucose erano aride, nonostante la nausea doveva essere arso dalla sete perché vuotò il recipiente, anche se impiegò molto tempo e diversi, piccoli, sorsi.
Stephen lo riadagiò dolcemente, restandogli accanto finché non fu sicuro che avrebbe tenuto giù il latte: era la cosa più simile ad un pasto che avesse avuto negli ultimi tre giorni e ne aveva un bisogno disperato per recuperare le forze.
Sedette al suo fianco e gli accarezzò i capelli, aiutandolo a respirare a fondo e lentamente per sopportare il dolore, fino a quando si addormentò.

Allora si alzò per ringraziare il capitano, ma lo trovò che lo fissava cupo: “Tutto questo non è a fondo perduto, docteur. Ho bisogno del vostro aiuto.”
Stephen gli appoggiò una mano su un gomito e lo condusse in disparte, per parlargli a quattr’occhi: “Ditemi pure, capitano: farò quello che posso.”
 

Impiegò tutto il pomeriggio ad estrarre il proiettile dalla spalla di Dumanoir: la ferita era profonda e si era infettata. La pelle ed i tessuti circostanti, infiammati, si erano gonfiati tanto da complicare l’intervento, e il pus prodotto nella lacerazione gli limitò la visuale.
Il paziente sopportò bene l’intervento, nonostante tutto. Alla fine, per quanto stordito e febbricitante, era ancora sufficientemente in forze da ringraziarlo e concedergli il permesso di far passeggiare i suoi compagni sul ponte, affinché potessero prendere un po’ d’aria.
 

Quando tornò sulla Lord Nelson era ormai sera inoltrata.
Avevano aperto gli osteriggi e non appena mise piede a bordo sentì i lamenti dei suoi feriti. Tra i tanti, riconobbe i gemiti arrochiti di Tom Pullings: doveva essere di nuovo in preda agli spasmi.
Aveva avuto un giornata difficile e tutto il peso dell’operazione appena terminata gli gravava addosso, tanto che camminava curvo, trascinando i piedi. Giurò a se stesso, tuttavia, che non si sarebbe concesso riposo finché non avesse alleviato le sofferenze di quei poveretti.

Fece un giro di visite approfondito, prestando tutto il conforto possibile con gli scarsi mezzi a sua disposizione. Fu per lui un enorme sollievo constatare un arresto nel numero dei casi d’influenza e la loro stabilizzazione.
Si arrestò improvvisamente, tuttavia, prima di arrivare da Jack e Pullings.

Patrick Shaw, un anziano e riverito aiuto carpentiere, cieco da un occhio e con solo tre dita nella mano destra, si era accovacciato vicino al ragazzo, che era sopraffatto dal dolore . Gli parlava piano, raccontandogli storie di quando aveva servito sotto l’ammiraglio Howe.
Stephen si trattenne discretamente in un angolo, sfruttando il  lato cieco del marinaio, e ascoltò rapito il suo splendido resoconto del Glorioso Primo Giugno, intervallato da frasi come: “Tranquillo, piccolo, non ti agitare.” O “So che fa un male del diavolo, ma non preoccuparti: passa presto. Stringi forte i denti e respira.”
Non passò molto tempo, tuttavia, prima che Shaw si accorgesse di essere osservato. Emise un brontolio confuso, mugugnò una bestemmia e qualcosa del calibro di: “Certi leccapalle ficcanaso devono imparare a farsi i fattacci loro.” E sgusciò via, rapido e silenzioso come un topo verso la sua tana.

Ma quando Maturin s’inginocchiò accanto all’allievo, lo trovò serenamente addormentato, con il volto disteso ed un’ombra di sorriso sulle labbra. Aveva i capelli raccolti e ordinati, la coperta rimboccata sulle spalle come un bimbo nel lettino. Il polso carotideo era stabile e regolare, la pelle quasi tiepida.
Gli sarebbe piaciuto ringraziare il marinaio per il suo gesto ma, quando lo cercò con lo sguardo, vide il suo occhio superstite fissarlo in cagnesco e capì che, per salvaguardare la propria integrità fisica, gli sarebbe convenuto tacere e fingere che non fosse successo nulla.
Non proferì parola, dunque, e si raggomitolò accanto a Jack per dormire, profondamente toccato e commosso dalla scena a cui aveva involontariamente assistito.

Trascorsero altri due giorni prima che Jack, finalmente, riaprisse gli occhi.

Nel ragguagliarlo sugli eventi, Stephen si compiacque di trovarlo lucido e coerente, per quanto indebolito dal prolungato stato d’incoscienza e dalle ferite. Gli somministrò la sua razione d’acqua, quella di cibo, ed un poco della scarsissima pozione che gli era rimasta.
Provò un enorme sollievo nel constatare che la costituzione dell’amico avesse retto bene il trauma: mentre lo accudiva parlava e faceva domande, lucido nonostante tutto. La tensione che lo aveva tormentato dal giorno della battaglia finalmente lo abbandonò.

Quasi si accasciò, quando realizzò definitivamente che Aubrey sarebbe sopravvissuto, ma non ebbe tempo di gustare a fondo quella liberazione perché gli venne posta una domanda penosa: “Non ho più visto Tom Pullings, come sta?”
Dalla posizione in cui era non poteva vederlo in volto, sebbene gli fosse sdraiato accanto.
Maturin sospirò a fondo: “Riesci a metterti seduto, fratello? Aspetta: lascia che ti dia una mano.”  
Jack aveva ancora le vertigini ma, aiutato dal chirurgo riuscì a tirarsi su, con tutte le precauzioni del caso.
Una volta seduto, riconobbe finalmente la sagoma distesa accanto a lui.

Se non lo avesse conosciuto avrebbe stentato a credere che fosse lo stesso giovanotto al quale aveva stretto la mano sul ponte, solo pochi giorni prima: sotto le occhiaie livide, sotto gli zigomi arrossati per la febbriciattola conseguente le ferite, Pullings era esangue. Sulla fronte, intorno agli occhi e alle labbra screpolate si erano formate delle piccole rughe per il dolore, che continuava a provare anche nel sonno. Indossava una camicia di lino, macchiata di sudore e tanto aperta sul petto da permettergli di vedere la fasciatura che gli avvolgeva una spalla. Ogni centimetro di pelle esposta era altrettanto pallido e anche al suo sguardo inesperto il respiro appariva superficiale ed affaticato.
Gli fece male vederlo così, quasi più delle sue stesse ferite.

Realizzò di aver chiesto cosa fosse successo quando sentì la risposta affranta di Stephen: “Un proiettile di mitraglia gli ha devastato una coscia, gli ho salvato la gamba per miracolo, un colpo di spada nella spalla e due costole rotte. Non credo sia più in pericolo di vita, ma sta soffrendo molto ed è meglio lasciarlo riposare quando riesce a farlo. Almeno, avete entrambi scampato l’influenza.”
Un rumore di passi e Stephen scattò in piedi: “Rimettiti sdraiato e resta fermo, per l’amor di Dio non rivolgere la parola a nessuno.”
Il tono non ammetteva repliche e Jack si riadagiò obbediente sul suo sacco, nel farlo si mise su un fianco e appoggiò una mano sul braccio dell’allievo, un gesto istintivo di sostegno e conforto.

Lo aveva già visto ferito, le lesioni da schegge erano all’ordine del giorno sul ponte di batteria e una in particolare aveva lacerato la schiena del ragazzo ad Abukir, ma questo era molto peggio.
Il suo fu anche un segno di affetto: Pullings gli piaceva molto, sia come marinaio che come uomo. Era coraggioso, deciso, ottimo nocchiero, e precisissimo ai canoni. Nonostante la timidezza, aveva un bel carattere ed era capace di imporre a se stesso e agli uomini la disciplina senza rendersi odioso. Sarebbe stato uno splendido ufficiale, ne era certo, ed era orgoglioso di aver contribuito alla sua formazione.
Per questo ebbe l’istinto di stringerlo a sé, per proteggerlo, quando sentì il misterioso interlocutore di Stephen parlare in Francese.

Monsieur, le docteur?”
“Oui, qui est là?”


Capì subito, però, di non aver nulla da temere.

« C’est Jaques, docteur. J’ai portait du lait, pour le garçon. »
« Merci, monsieur, merci beaucoup. »
« Je vous en prie, docteur. Comment il va? »
« Il est blessé sérieusement, comment vous savez, et il a du fièvre mais il n’est pas malade. Je pense il se remettra bientôt. »
« Ah, très bien ! Bonne fortune avec lui et les outres patients, docteur. »

« Merci, Jacques, et bonne journée. [3]»

Jack sentì una mano sulla spalla e riconobbe il tocco di Stephen. Allentò la presa sul corpo dell’allievo, pur continuando a circondarlo con il braccio, e gli rivolse uno sguardo interrogativo; ma il chirurgo fu rapido a spiegare:  “Ho preso accordi con Azemà perché mi facesse avere ogni giorno un bicchiere di latte per il nostro Tom: tra il dolore e le ferite, è tanto debole da non riuscire a prendere cibo. Questo dovrebbe aiutarlo a recuperare le forze… Gesù, Giuseppe e Maria! Che c’è adesso, si può sapere?”

Voltandosi, Maturin riconobbe le facce ormai note di Wilkies e Stevenson che, con tutto l’affetto possibile, aveva soprannominato mentalmente “l’Asino e il Bue”, e gli venne male al pensiero di cosa potessero aver combinato mentre non guardava.
I marinai confabularono un po’ tra loro,  passandosi la proverbiale patata bollente, finché Wilkies non si decise a prendere la parola: “Signore, dottore cioè, abbiamo del rum, signore.”
“Sarebbe che lo abbiamo procurato scambiandolo con i mangiarane, dottore.”
“Ah sì? Buon per voi, ma non vedo come mi possa essere utile.”
“Lo abbiamo preso per il signor Pullings, voleva dire lui.”
“Sta ancora molto male e abbiamo pensato che gli faceva[4] bene averne un po’. Per alleviare il dolore, capite?”

Stephen storse il naso davanti alla bottiglia che gli veniva offerta ma Jack, che capiva di cosa si stessero privando quei due uomini e i sacrifici che dovevano aver fatto per recuperarla, fu commosso dal loro gesto. Intercettando lo sguardo dell’amico, gli fece capire a gesti di essere gentile con quei due buzzurri, perché stavano facendo del loro meglio per aiutare.
Allora Stephen si ammansì un poco e, quando rivolse loro la parola, lo fece con un tono fermo ma rispettoso: “Vi sono grato per la gentile offerta, signori, anche a nome del mio paziente. Purtroppo, il signor Pullings ha perso molto sangue e l’alcool lo farebbe solo stare peggio. Quindi, mi dispiace ma devo rifiutare. Grazie comunque, gli farà piacere sentire del vostro gesto, quando si sveglierà.”
Sentendo quelle ultime parole i due uomini sorrisero e si toccarono la fronte con le nocche: “Dovere, signore.”
“Dovere, signore.”
E si congedarono.

Anelando un sollievo momentaneo dalle interferenze, Stephen si chinò di nuovo su Aubrey e cominciò a trafficare con le sue fasciature: “Quasi una settimana di immobilità completa e ora non riesci a star fermo un minuto, accidenti a te. Fammi controllare se ti sei disfatto i punti.  No, per ora no. E le ferite sono quasi rimarginate …  non posso che complimentarmi per la tua prossima guarigione, fratello.”
“Ti ringrazio, anima mia, hai bisogno di aiuto per qualcosa?”
“Veramente non dovresti sforzarti ma, dato che comunque sei qui e tanto in vena di dare una mano, potresti aiutarmi con Tom. Te la senti?”
“Dimmi solo che devo fare.”
“Mettiti seduto, allora. No, non così. Piano, Jack, devi fare piano. Piano. Adesso appoggiati con la schiena. Ci credo che hai le vertigini! Non devi esagerare: è ancora presto. Bene così, adesso sta fermo.”

Stephen fece scivolare le braccia sotto le ascelle di Pullings e se lo tirò al petto, sollevandolo a sedere e appoggiandolo contro il torace di Jack perché lo sostenesse.
Ancora una volta, Jack si meravigliò per la resistenza fisica dell’amico che, sebbene tanto esile, riusciva a compiere sforzi assurdi con imperturbabile tenacia. Non disse una parola, tuttavia, e si limitò a sorreggere l’allievo ferito, obbedendo attentamente alle indicazioni di Stephen per non aggravare le lesioni di entrambi.
Tom gemette diverse volte, nel corso delle loro manovre, ma non aprì gli occhi e non diede cenno di aver capito cosa stesse succedendo. Sentendolo a contatto con il proprio corpo, Jack percepì solo vagamente il calore della febbre, e dovette accomodarsi la testa del giovane sul petto perché questi era troppo debole per tenerla su da solo e sarebbe ricaduta all’indietro, restando penzoloni dal suo braccio.

Recuperata la tazza, Stephen si inginocchiò di fronte a loro e accarezzò la testa dell’allievo, chiamandolo finché non riprese i sensi: “Caro ragazzo mio, ve la sentite di bere qualcosa?”
Il corpo del giovane venne scosso da un fremito, se per il dolore o la fatica impossibile stabilirlo, ma annuì comunque e lasciò che gli venisse accostato il bicchiere alle labbra.
Stephen rimase stupito quando Pullings riuscì a tenerlo in mano da solo e vuotarlo, anche se gli ci vollero diversi minuti.
“E’ la prima volta. “sottolineò, a bassa voce e con un sorriso. “Cominciate a stare meglio, Tom, tra qualche giorno dovreste riuscire ad alzarvi.”
Pullings ricambiò il sorriso come poteva e alzò lo sguardo per vedere chi lo stesse sorreggendo, allora gli si illuminarono gli occhi e, per un momento, tutti i segni della sofferenza parvero abbandonare il suo volto.

 Aveva la voce rauca e sottilissima, ma sia Jack che Stephen furono comunque felicissimi di sentirla: “Capitano! Signore, state bene?”
“Non vi mentirò, Tom: sono stato meglio. Ma il dottore mi dice che fino a questa mattina sembravo stecchito come uno dei suoi reperti anatomici, quindi direi che c’è stato un netto miglioramento.”
“Beh, non è peggio di quella volta che avete quasi perso l’orecchio.”
“Né delle schegge ad Abukir, se per questo.”
“E nemmeno di quando è caduto l’alberetto di mezzana sulla Victory.
“E quella tempesta al largo di Gibilterra, quando siamo rimasti inzuppati per giorni?”
“Basta così, signori. Tom, sono felice che iniziate a stare meglio ma siete ancora troppo debole per tenere un comizio. E anche tu, Jack, devi riposare. Rimettetevi giù, tutti e due.”
“Sentito, Tom? Parleremo più tardi.”
“Volentieri, signore. “ Rispose l’allievo, le cui palpebre già iniziavano a calare.

Si addormentò in poco tempo, con la testa ancora appoggiata al petto di Jack, che si alzava ed abbassava ad ogni suo respiro mentre il suo battito lento e regolare lo cullava.
“Che stai facendo, fratello?”
“Lo rimetto sdraiato.”
“Per lui è un problema restare così?”
“No, non dovrebbe. “
“Allora lascialo stare: non mi dà fastidio e credo ne abbia bisogno. Guarda.” Gli indicò il punto in cui la mano di Pullings si era stretta sulla sua camicia, mentre nel sonno si era aggrappato a lui, e Stephen desistette.

Malgrado tutto quello che aveva vissuto, nel profondo Tom era comunque ancora un ragazzo, e Aubrey era felice di potergli offrire la sua protezione ed il suo sostegno, soprattutto perché ormai aveva passato l’età dei piagnistei.
Ridacchiò tra sé ricordando quella sera in cui se l’era ritrovato davanti in lacrime: era al suo primo imbarco, si era perso e per poco non era caduto nel pozzo di sentina, ma soprattutto non era mai stato tanto lontano dai suoi genitori. Jack non aveva saputo fare altro che offrirgli un fazzoletto e dargli una pacca sulla schiena tanto forte da ribaltarlo.

Erano passati diversi anni e quel bambino era cresciuto. Aveva ancora molta strada davanti ma si stava già dimostrando un ottimo elemento.  
Alcune di queste riflessioni le espresse a mezza voce, mentre scivolava anch’egli nel sonno.
Se ne accorse solo quando sentì Stephen mormorare: “D’accordo, mio caro, adesso però cerca di riposare: ne hai bisogno.”
Credette di avergli risposto, poi si addormentò come un sasso.
 

Stephen avvolse i due ufficiali nelle loro coperte e si sedette accanto al loro giaciglio, guardandoli dormire.

Avevano di fronte un futuro nebuloso ed incerto: se fossero arrivati a La Coruna, per quanto tempo sarebbero rimasti prigionieri? Se i Francesi avessero scoperto che Jack e Tom erano ufficiali della Royal Navy, che sarebbe stato di loro? Non avrebbe avuto pace se li avessero torturati per ottenere informazioni che non avrebbero potuto dare, entrambi mancando dalla madrepatria da mesi.
Non aveva paura per se stesso, dato che aveva messo in conto quel rischio nel momento in cui aveva deciso di collaborare con il Servizio Informazioni e si era preparato mentalmente, ma per loro che non avevano nulla a che vedere con la sua attività e che avrebbero rischiato di subire sofferenze indicibili anche a causa sua.

Tutto questo era ancora lontano, e per il momento decise di restare a vegliare su di loro, assistendoli al meglio delle sue possibilità.
Sfilò il rosario da una tasca del panciotto e si segnò: era giovedì e iniziò a recitare i misteri gaudiosi nella speranza che potesse essere un buon auspicio per i giorni a venire.
Tra una decina e l’altra si fermò a contemplare i volti dei suoi amici.

Per quanto consumati fossero, era certo che nessuno di loro stesse provando dolore.
 
- The End -
 
Note:
[1] Circa 109 Kg
[2] 70 Kg
[3] “Signor dottore?”
 “Sì, chi c’è?”
“Sono Jaques, dottore, vi ho portato del latte per il ragazzo.”
“Grazie, signore, grazie mille.”
“Prego, dottore. Come sta?”
“E’ ferito gravemente, come sapete, e ha un po’ di febbre ma non è malato. Penso che guarirà presto.”
“Ah, molto bene. Buona fortuna con lui e gli altri vostri pazienti, dottore.”
“Grazie, Jacques, e buona giornata.”
[4] ARGH.
  
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