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Autore: Spoocky    22/04/2019    4 recensioni
David Brinie è un ufficiale della Compagnia delle Indie Orientali originario dell'Isola di Skye.
L' anniversario della battaglia di Culloden risveglia in lui ricordi traumatici.
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Genere: Hurt/Comfort, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Rieccomi a rompere le scatole con un racconto ambientato in mare ^^
Lo spiegone sul contesto storico e sulla canzone citata, sulla quale non accampo diritti, lo rimando alle note.


Ringrazio fin d'ora chi avrà la pazienza di leggere questo racconto e, nella massima libertà, magari di lasciare un commento.

Buona Lettura ^^

Una meravigliosa mattina di metà aprile la Cormorant, goletta al servizio della Compagnia Britannica delle Indie Orientali, filava veloce sull’Oceano Indiano alla volta dell’Indonesia.
Dalla sua posizione, diverse miglia a Sud del Madagascar, onorava il suo nome quasi volando sull’acqua ad una temeraria andatura di ben sette nodi e mezzo, grazie al vento che la investiva da poppa.
Sul mozzo dodicenne Howard Bryant, intento in quel momento a lavare il ponte con secchio e spazzolone, quella velocità mozzafiato aveva un effetto esilarante.
Con la scusa delle pulizie, si era portato a ridosso della paratia di dritta, e il vento gli scompigliava i capelli mentre gli spruzzi delle onde che s’infrangevano sulla fiancata della Cormorant gli rinfrescavano il viso. Non aveva mai vissuto un’esperienza simile e il suono della sua risata argentina si mescolò allo scroscio dei flutti, strappando un sorriso a qualche marinaio.

Chi non rideva, né tantomeno sorrideva, era il signor Brinie, il ventiseienne primo ufficiale e responsabile della navigazione. Ben piantato sul cassero, dal lato sopravvento come sarebbe spettato ad un ufficiale di guardia nella Royal Navy, stava osservando i pennoni con un’espressione anche più corrucciata del solito.
Raccolti in un codino da un nastro nero irrigidito dalla salsedine, i suoi capelli castani assumevano una sfumatura ramata sotto i colpi del sole. Si era portato una mano alla fronte per schermarsi gli occhi, di un colore indefinito tra il verde e l’azzurro, dalla luce.

Il ruggito del vento e lo scrosciare delle onde non gli impedirono di sentire il frullare inquietante della velatura: “McLoughin! Kershaw! Radunate le vostre squadre per ridurre controvelacci e velaccini!”  Quel giorno doveva essere particolarmente nervoso, perché aggiunse anche un infelice “Sbrigatevi, cazzo, o perderemo la maestra!”
Che suscitò il malcontento degli uomini, tanto che qualcuno ebbe l’ardire di controbattere: “Vattene a fare in culo, sporco giacobita!”

Howie sobbalzò, sentendo quelle parole: persino nei suoi giorni migliori, Brinie parlava pochissimo e sorrideva ancora meno, ma quando apriva bocca l’accento lo tradiva come originario dell’isola di Skye.
Quella parola, “giacobita”,  il ragazzino l’aveva sentita solo poche volte e sempre con intento dispregiativo nei confronti degli scozzesi: non ne conosceva il significato ma immaginava che fosse qualcosa di estremamente offensivo perché suo padre gli aveva proibito categoricamente di ripeterla, in qualsiasi contesto.
Rimase quindi molto colpito nel sentirla rivolgere ad una figura, per quanto solo formalmente, autorevole a bordo. Non riusciva a giustificarla.

A onor del vero, l’ufficiale aveva la pessima abitudine di imprecare ad ogni piè sospinto, mai però nei confronti degli uomini, a meno che lo meritassero.  Se era strano sentirlo mentre li apostrofava così era ancora più insolito che gli venisse risposto in modo tanto diretto, anche se al mozzo erano note le antipatie di alcuni membri dell’equipaggio verso la Scozia ed i suoi abitanti: la ferita di Culloden era ancora fresca.
Infatti Brinie, che aveva sentito bene almeno quanto lui, s’irrigidì di colpo e sbiancò in viso.
Per un attimo il mozzo temette che stesse per avere un mancamento, perché barcollò e dovette aggrapparsi con entrambe le mani alla balaustra e stringerla tanto da farsi scolorire le nocche.

In quel momento apparve sul ponte il capitano Taylor, pronto a spalleggiare il suo secondo: “C’è qualche problema, David?”
Ma l’altro si era già ricomposto e fissava di nuovo di fronte a sé, apparentemente impassibile: “Nessuno, signore. Tutto a posto.”
Il capitano sollevò un sopracciglio: “Se lo dici tu. Hai fatto bene a terzarolare, comunque: un altro po’ ed avremmo perso la maestra.” Aggiunse con un tono più alto, a beneficio dei gabbieri insubordinati.
“Con la velatura ridotta, dovremmo scendere ai nostri soliti sei nodi in poco tempo. Suggerirei anche di correggere la rotta di due quarte a Nord: c’è aria di tempesta e vorrei tentare di aggirarla, signore.”
Taylor annusò il vento e annuì: “Hai ragione, David: c’è proprio aria di tempesta.”

Che la tempesta fosse una burrasca vera e propria o il tumulto nel cuore dell’ufficiale, Howie non seppe deciderlo.
Diverse volte, nel corso della mattinata e del pomeriggio successivo, lo vide incupirsi ed agitarsi insieme al cielo ed ai marosi. Di punto in bianco rabbrividiva e sobbalzava, le mani tremanti e contratte a pugno affondate nelle tasche del cappotto. Ad una certa, avrebbe persino giurato stesse per piangere, ma rimase perfettamente composto e non versò una lacrima. Quando non stringeva gli occhi con una smorfia di dolore o non scuoteva la testa, teneva gli occhi fissi all’orizzonte, ma il ragazzino avrebbe giurato che stesse vedendo ben altre cose, pensò addirittura che avesse ravvisato un fantasma: la sua espressione stranita non si spiegava altrimenti.

Brinie non scese a pranzo, e non disse una parola per il resto della giornata.
Rimase impiantato sul cassero, rigido come una tavola e stazionario, come se ce lo avessero inchiodato, lo sguardo perso nel vuoto.
 

Poco dopo il tramonto, si scatenò la burrasca.
Grazie all’intuizione di Brinie, l’assetto delle vele era stato modificato in tempo utile e la tormenta li prese solo di striscio, gonfiando le vele da poppa.  Nonostante fosse solo uno strascico del fortunale, era comunque un vento di potenza notevole e, tra quello e il mare agitato, la goletta ballava parecchio.
Il giovane nocchiero, esausto per la lunga giornata e disorientato dai suoi tanti pensieri,  si trascinò a fatica fin nel quadrato, compensando per abitudine l’oscillazione della nave mentre camminava, senza prestarvi troppa attenzione.

La lunga tavolata era deserta: trattandosi di una banale spedizione commerciale nelle Indie, su una rotta relativamente sicura e frequentata dalla Royal Navy, e vista la scarsa disponibilità economica dell’armatore, l’equipaggio era ridotto al minimo.
Dato che lo stesso Brinie svolgeva contemporaneamente le mansioni primo ufficiale, nocchiero, e capocannoniere per gli otto pezzi da dodici libbre, mentre il capitano Taylor era anche commissario, cappellano, e segretario di se stesso, gli unici altri occupanti del quadrato erano il medico di bordo Douglas Lyndon,  il timoniere e quartiermastro Keith Branagh, e il mastro carpentiere Ewan Wilson. Il primo al momento era irreperibile, il secondo era sul cassero a manovrare la barchetta, e il terzo probabilmente era già nella propria cabina, essendo l’ora di cena passata da un pezzo.

Pur non avendo nulla in contrario a loro in quanto persone, considerandoli anzi dei cari amici, fu grato della loro assenza: oltre ad essere una giornata molto difficile, per lui era un anniversario particolarmente doloroso e non se la sentiva di vedere gente: temeva di non reggere il confronto e crollare. Non sapeva bene perché ma sentiva come un peso sul petto e respirava a fatica.
Anziché occupare il suo solito posto, a capotavola, si accasciò su una sedia laterale, appoggiando la testa e le spalle alle travi di legno.
Chiuse gli occhi, e all’improvviso non era più lì.

Era una mattina nebbiosa di inizio aprile, trascorsa tanti anni prima.
Stava sulla porta di casa, mamma e papà dietro di lui, davanti una figura nebulosa con una zazzera di capelli rossi sulla testa.
Papà stava urlando: “Fai solo un altro passo e per me sarai morto!”


Il cuore prese a battergli all’impazzata nel torace, pulsando tanto forte da fargli male, s’irrigidì con la schiena contro la parete e cominciò ad ansimare. Non capiva bene cosa stesse succedendo ma era terrorizzato.
“Non andare!” gridò, adesso come allora.

“Non andare Mac!” Si aggrappò al kilt del giovane uomo di fronte a lui, nascondendovi il volto “Non andare!”

Non si rese conto di aver cominciato ad agitarsi sulla sedia, né di stare ripetendo all’infinito quella frase a mezza voce. Aveva gli occhi semiaperti ma, al posto della paratia di legno di fronte a lui, vedeva la brughiera scozzese di molti anni addietro, e quella figura sfocata tanto importante per lui, perduta per sempre.
Per quanto lo terrorizzasse, si aggrappava disperatamente a quel ricordo, perché era l’unica cosa che gli restasse di lui.  Non era nemmeno più sicuro che i fatti si fossero svolti esattamente in quel modo, ma così li ricordava e si aggrappava a quelle immagini, per non perdere anche quelle.
Non si accorse di essere rimasto intrappolato nel ricordo finché una figura scura attraversò il suo campo visivo. Sobbalzò nel sentire una mano posarsi sul suo ginocchio mentre un’altra gli stringeva la spalla ed istintivamente si raggomitolò su se stesso per ritrarsi.

La voce che gli giunse, però, era gentile e preoccupata:  “Non andare dove? Con chi stai parlando, Innis?”

Innis.

Il suo primo nome di Battesimo caduto in disuso per nascondere le sue origini: solo una persona lo chiamava ancora così.
Aprì del tutto gli occhi e una parte di lui registrò la presenza del dottor Lyndon, ma al suo viso si sovrappose quello di Mac e crollò di nuovo nel ricordo.

Perso nel suo delirio, si accorse solo vagamente del fatto che il medico gli stesse frugando in una tasca, fino ad estrarre qualcosa che gli premette in una mano, avvolgendola con la sua e stringendola forte: “Senti la mia mano, Innis? La senti?”
Brinie non aveva il fiato né la coerenza sufficienti per parlare ma riuscì ad annuire.
“Bene, bravo. Concentrati su quella, Innis, stringila forte.”

Il ragazzo obbedì e presto si rese conto di avere nel palmo un pezzo di stoffa, il cui bordo sfilacciato e la consistenza gli erano estremamente famigliari. Lo aveva tenuto tra le dita tutto il giorno, cercando conforto dalla marea di ricordi che minacciava di sommergerlo.
Strinse la mano del medico più forte che poteva e inconsciamente cominciò a scivolare nella sua direzione, cercando riparo da tutto quel dolore. Lyndon se ne accorse e gli si fece più vicino, lasciando che gli appoggiasse la testa sulla spalla: “Lascialo andare, lascialo andare. Non ti serve ora.”
“N-no… no…”
“Non preoccuparti: non lo perderai. Ma adesso devi lasciarlo andare perché ti stai solo facendo del male. Lui non vorrebbe che soffrissi per causa sua: ti voleva un bene dell’anima e lo sai.”

Grazie al contatto con il medico e concentrandosi sulle sue parole, Brinie riprese gradualmente il contatto con la realtà circostante e con il suo stesso corpo. Al netto del rollio, aveva un senso di vertigine e lo stomaco tanto contratto da fargli male, nel complesso era ancora più stanco di prima e ansimava come se avesse appena corso per miglia.
Finalmente riuscì a guardare Lyndon in viso e notò che gli stava sorridendo: “Hai il fiatone, eh? Lo credo bene: hai rincorso i tuoi fantasmi per tutto il santo giorno. Adesso mettiti a sedere, da bravo. Ce la fai?”
Innis annuì e, con calma si ricompose, infilando di nuovo il pezzo di tartan (blu, verde, e rosso: i colori del clan MacInness) nella tasca del cappotto dove lo teneva di solito.
Il medico lo aiutò a sistemarsi, ma non gli tolse la mano dal ginocchio: “E’ oggi, vero?”
Brinie dovette stringere le palpebre, per impedire alle lacrime di scendere: “Il sedici aprile[1].”
Lyndon annuì comprensivo e gli accarezzò il ginocchio per consolarlo: “Dio ti benedica, figliolo. E’ per tuo fratello Malcolm, vero?”
“Mac è morto lì.” Un singhiozzo gli spezzò la voce e le lacrime presero a scorrere liberamente.
Il medico conosceva bene quella storia e temette che stesse per crollare di nuovo: “Non sei costretto a parlarne, se non vuoi: non ce n’è bisogno. Dai, tirati su adesso, non stare così accasciato. Non vorrai ritrovarti con un’ernia lombare a trent’anni? Ecco, così va meglio. Tieni: asciugati la faccia.”

Brinie era talmente stravolto dalla giornata e dalle forti emozioni degli ultimi minuti che, dopo essersi pulito le lacrime,  si appoggiò con la testa alla paratia, osservando il viso dell’altro attraverso le ciglia perché i suoi occhi minacciavano di chiudersi da un momento all’altro.
Lyndon gli appoggiò una mano sulla fronte, con la scusa di controllare se avesse la febbre, e ne approfittò per accarezzargli la testa. Gli raccolse una guancia nel palmo dell’altra e gli strofinò lo zigomo con il pollice: “Povero bambino mio, che peso ti tocca portare!”
Il giovane gli dedicò un sorriso storto: “Non sono più un bambino, Doug. Già da un bel po’.”
“Quanti anni hai, scusa?”
“Perché mi fai una domanda se conosci già la risposta?”
“Tu assecondami. Lo so che non ti fidi, ma ti prometto che non ti succederà nulla.”

Innis alzò un sopracciglio e, al netto degli occhi ancora lucidi, gli lanciò uno sguardo sospettoso:  davvero non si fidava, anche se Lyndon era una delle persone più care che aveva al mondo e uno dei pochissimi a conoscere la sua storia, confidenza facilitata dal fatto che la madre del dottore fosse scozzese e che lui stesso all’epoca fosse stato un simpatizzante della rivolta giacobita.
Eppure non godeva della sua completa fiducia. Lo sapeva lo accettava: Brinie aveva avuto una vita molto difficile finché Taylor, che aveva sposato sua sorella, non gli aveva offerto il posto da secondo, cinque anni prima. Quell’atteggiamento era una conseguenza naturale delle sue brutte esperienze e, volendo vedere, neppure la peggiore.
Pur essendo convinto che il ragazzo non sarebbe mai guarito del tutto, Lyndon era persuaso che sarebbe migliorato se avesse ricevuto il sostegno di cui aveva bisogno.
Si prodigava per tanto a prendersene cura, sopportando con pazienza i suoi sbalzi d’umore e standogli accanto in momenti, come quello appena trascorso, in cui era più fragile, per aiutarlo a ricomporre i pezzi della sua anima ferita.

“Allora?” lo incalzò, senza togliergli le mani dal viso.
Innis rispose con un sospiro rassegnato: “Ventisei, compiuti il ventuno marzo.”
“Bravo. E sai quanti ne ho io?”
“Centoventisette?”
“Quasi: cinquantadue a settembre.”
“E allora?”
“E allora sono anziano e tu, dal mio punto di vista, sei ancora un bambino. Quindi zitto e porta rispetto, Innis David Milton Brinie.”
Thalla ‘s cagainn bruis, vecchia scorreggia[2]!”  brontolò il giovane, scrollandoselo di dosso.

Il medico si era messo a ridere, ma si ricompose immediatamente quando vide Innis rischiare di crollare dalla sedia. Intervenne a sorreggerlo prima che si facesse male e lo aiutò a rimettersi seduto.
Aveva gli occhi aperti ed il polso carotideo era solo leggermente accelerato, ma era pallidissimo e respirava ancora con affanno.
Capì che era arrivato il suo turno di incupirsi: “Non hai ancora mangiato oggi, vero?”
Una risatina nervosa: “Perché mi fai una domanda se conosci già la risposta?”
“Non fare il furbo, Innis. A colazione non c’eri, a pranzo nemmeno, e Keith mi ha detto che ti sei rifiutato categoricamente di farti dare il cambio. Capisco che tu stia male, ma non risolverai nulla autodistruggendoti.”
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto e si piegò su se stesso, come se volesse nascondersi.
“Avevi la nausea, vero?”
Un cenno del capo.
“Perché, stavi già male di tuo, ma quello che ti hanno detto stamattina ti ha smosso di nuovo tutto.”
Un altro cenno, a conferma.
“Ho capito. Adesso vediamo di rimediare: aspettami qui.”

Anche volendo, Brinie non avrebbe potuto alzarsi. Si rifiutava di ammetterlo ad alta voce, per non mostrarsi debole, ma era tanto provato da avere le vertigini ogni qual volta muovesse la testa.
Fissava il tavolo davanti a sé senza vederlo realmente, cercando di resistere all’assalto dei ricordi.
 

Piegato in due, con le braccia incrociate e strette al petto, era arrivato a toccare il legno della tavolata con la fronte.
Sentì dei passi avvicinarsi e allontanarsi: Wilson che rientrava nella sua cabina.
Riconobbe la sua voce quando gli rivolse un saluto, ma non si disturbò a cambiare posizione, tantomeno a rispondergli. Qualsiasi contatto umano sarebbe stato troppo da gestire e sarebbe potuto scoppiare a piangere di nuovo.

Con Lyndon poteva anche permettersi di farlo, perché ormai lo conosceva bene, ma con gli altri sarebbe stato intollerabile anche se poteva essere ragionevolmente certo che avrebbero capito.
Non era la prima volta che gli capitava di avere reazioni del genere. Ormai gli altri sottufficiali si erano abituati e avevano sempre mantenuto il massimo riserbo su quel suo lato vulnerabile.
Era stato fortunato, con i suoi compagni: chiunque altro avrebbe pensato che fosse pazzo o posseduto da un qualche demone. Invece loro attribuivano i suoi sintomi all’enorme dolore causato dalla morte dell’amato fratello.

Sicuramente pensavano che fosse strano e forse un po’ tocco ma, fedeli al saldo cameratismo degli uomini di mare, non lo avrebbero mai abbandonato, né avrebbero permesso che qualcuno lo maltrattasse. Non che loro stessi, ogni tanto, non lo facessero. Ma erano scherzi o battute innocue: ridevano con lui, non di lui, e questo gli era spesso di conforto.
 

Sentì, più che vedere, la ciotola che gli veniva posata di fronte.
Alzando appena la testa riconobbe la minestra che costituiva solitamente la cena degli ufficiali, in cui Lyndon aveva spezzettato della galletta e dei pezzi di carne secca, per insaporirla.
Tanto stanco da essere instupidito, Brinie si mise lentamente a sedere.
Muovendosi a scatti, prese in mano il cucchiaio e si avvicinò la zuppiera ma rimase a fissarla senza fare nulla, come se non sapesse come comportarsi.
Capitava spesso, dopo un episodio del genere, che rimanesse così stordito.

Il medico se ne accorse e gli spinse sotto il naso la minestra: “Non costringermi ad imboccarti.”
Con lo sguardo ancora fisso davanti a sé, il giovane sorbì un cucchiaio di minestra: “Lo faresti?”
L’uomo gli rivolse uno sguardo minaccioso e rispose serissimo: “Non mettermi alla prova.”

La galletta era completamente inzuppata e molliccia, mentre la carne secca – per quanto saporita – aveva la consistenza del cuoio, ma Brinie era a digiuno da più di ventiquattro ore e l’appetito non tardò a farsi sentire.
Pian piano, riprese anche la lucidità e si rese conto di del sostegno che stava ricevendo: “Grazie, Doug, per tutto.”
“Non c’è di che, figliolo. Mi fa piacere che tu ti senta meglio.”
“Mi spiace se ti ho creato qualche disturbo.”
“Ma va! Nessun disturbo: oltretutto che aiutare le persone malate o sofferenti è il mio lavoro.”
“Sicuro?”
“Sì. Adesso zitto e mangia: ordini del dottore.”
Il ragazzo rise piano, ma di cuore: “Grazie, Doug.”
“Mangia!”

Con lo stomaco pieno e il cuore più leggero dopo lo sfogo, Brinie si accasciò con la schiena contro la paratia e chiuse gli occhi con uno sbadiglio.
Era stanco, terribilmente stanco.
Tanto stanco che si sarebbe tranquillamente addormentato lì dov’era, e ci sarebbe rimasto per i dieci anni a venire, in uno stato di beato letargo.
La mano che gli calò su una spalla lo fece sobbalzare.
Al netto del sopore che ottenebrava i suoi sensi riconobbe Lyndon e gli mugugnò qualcosa che lui stesso non capì.

Ach.” Annuì il medico “Qualunque cosa volesse dire. Coraggio, adesso, tirati su: è ora di andare a dormire.”
Intrecciò un gomito con il suo ma dovette praticamente sollevarlo di peso perché era ancora afflitto dai capogiri e le gambe non lo reggevano.

Ormai avvezzo a tale pratica, Lyndon gli passò il braccio libero dietro la schiena e lo guidò con dolce fermezza verso la sua cabina, dove lo fece spogliare e lo aiutò ad indossare la camicia da notte.
Si assicurò che non battesse la testa nell’infilarsi nella branda, cosa che vista l’altezza del giovane capitava spesso, specie quand’era esausto o brillo.

Gli rimboccò le coperte e tirò la sedia che stava sotto la scrivania al suo capezzale: “Ti faccio compagnia intanto che ti addormenti, vuoi?”
Brinie sbadigliò di nuovo e annuì, troppo provato anche solo per parlare.
“Domani voglio che ti prenda la giornata libera, intesi? Ordini del dottore. Con il capitano ci parlo io.”

Cullato dal rollio della nave, che faceva oscillare dolcemente la sua branda sospesa, dal calore delle coperte, e dal peso leggero della zuppa nello stomaco, l’ormai semi assopito Innis rispose con l’ennesimo sbadiglio e si rannicchiò più che poteva sotto le coltri.
La voce leggera e melodiosa del medico, che aveva intonato per lui una ninnananna, lo accompagnò dal dormiveglia al sonno.
Un sonno senza sogni, profondo e ristoratore, mentre la goletta filava veloce sulle onde, sospinta dal vento, leggera come l’ala di un gabbiano.
 
Speed bonnie boat like a bird on the wing
Onward the sailors cry.
Carry the lad that's born to be king
Over the sea to Skye.

 
Though the waves heave
Soft will ye sleep
Ocean's a royal bed
Rocked in the deep
Flora will keep
Watch by your weary head.

 
Speed bonnie boat like a bird on the wing
Onward the sailors cry.
Carry the lad that's born to be king
Over the sea to Skye[3]

 
- The End -
Note:
[1][1] Anniversario della battaglia di Culloden. Combattuta il 16 aprile 1746 segnò la sconfitta definitiva dei ribelli giacobiti, fedeli a Charles Edward Stuart ( il “Bonnie Prince Charlie”), per mano delle truppe regolari Inglesi, guidate dal Duca di Cumberland.  Con essa terminarono le pretese degli Stuart di riottenere il trono di Scozia, che venne definitivamente annessa ai possedimenti della Corona Inglese, e ad essa assoggettata.
 
[2] Imprecazione in Gaelico scozzese la cui traduzione letterale mi risulta essere “Fila a masticare un cespuglio”.
 
[3]  The Skye Boat Song, composta nel 1884 su una melodia tradizionale molto più antica ed originaria dell’Isola di Skye, racconta il viaggio del Bonnie Prince Charlie in fuga verso l’isola di Skye dopo la sconfitta di Culloden, assistito da Flora MacDonald. (https://nelcuoredellascozia.com/2015/03/27/the-skye-boat-song/). https://www.youtube.com/watch?v=eMWH75EcvDk
  
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