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Autore: little_psycho    23/04/2019    0 recensioni
{Spoiler! QoAaD ● Ty&Livvy ● side!Ty/Kit}
«Avevo voglia di cambiamenti.»
Lo sapeva che stava mentendo, lo sapeva dagli occhi che fuggivano i suoi e il labbro inferiore che tremava leggermente – non si può mentire al figlio di un truffatore, eppure eccoli lì che gliela faceva in barba a tutto, e lui non poteva neanche puntargli il dito contro.
«Le occhiaie fanno parte del nuovo look?»

---
«Tenere una persona al sicuro da se stessa è ancora più difficile che proteggerla da qualcun altro.»
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Kit Rook, Livia Blackthorn, Ragnor Fell, Tiberius Blackthorn
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Abisso chiama abisso


 
Abyssus abyssum invocat in voce cataractarum tuarum;
omnia excelsa tua et fluctus tui super me transierunt.
Hic mortui vivant, hic mortui vivant.
Igni ferroque, ex silentio, ex animo.
Livia Blackthorn.
Resurget.
Resurget.
Resurget.
.
 
«All’Accademia iniziai a dare dei nomi a tutti i topi che trovavo. Non potrà andarti peggio!» Così aveva iniziato Simon, dandogli una discreta pacca sulla spalla. Dopo il disgusto iniziale aveva iniziato a farsene un vanto, sotto lo sguardo scocciato di Isabelle Lightwood.
Ty si era illuminato per un momento, guardandolo estasiato. «Ci saranno dei topi?»
L’altro aveva aggrottato le sopracciglia, un po’ sorpreso, e gli occhiali erano scivolati dal naso.
Kit non sarebbe dovuto essere lì.
Non sarebbe dovuto essere nascosto dietro il muro dell’Istituto di Los Angeles, un Portale luccicante a qualche metro da lui e il battito cardiaco che lentamente saliva fino alla gola, soffocandolo.
Ty sarebbe andato alla Scholomance, alla fine. Non avrebbe dovuto importagli, non più – non l’aveva neanche salutato, prima di andare a costruire una nuova famiglia per rimpiazzare la sua assenza.
Eppure non aveva potuto fare altrimenti, dopo le parole di Jem.
«Un castello enorme, tra le montagne, umido e senza musica. Non certo il posto per me.» Aveva detto scrollando la testa e appoggiando la guancia sul violino, mentre Tessa sorrideva innamorata accarezzandosi la pancia.
«Ha scalciato! Lo vuoi sentire, Kit?» La sua espressione follemente contenta lo aveva contagiato, e lui le si era avvicinato titubante, allungando le dita e sfiorando il maglione rosa cipria della donna.   
Pessima, pessima idea. Ma quasi come un comando, a quel fievole umido e senza musica, non aveva resistito. Come avrebbe fatto Ty a viverci, abituato alla chiassosa presenza della sua ingombrante famiglia e alle cuffie appoggiate attorno al collo e pronte all’uso?
Veloce, si ripromise. Una toccata e fuga. Si sarebbe affacciato, gli avrebbe sorriso, e poi avrebbe fatto bruciare la runa della Velocità sul suo polpaccio, correndo a gambe levate.
In un attimo gli fu davanti, e l’altro sembrava quasi una figura spettrale, avvolta dalla luce bluastra del Portale.
«Kit…»
I capelli erano arruffati come le ali di un piccolo corvo, gli occhi di ferro che vagavano per il suo volto, confusi, come a valutare se fosse reale o meno.
Oh, Ty…
Lo abbracciò rapido, quasi facendo scontrare le fronti, senza dire niente.
Poi si allontanò, ma non prima di scorgere un’aura buia attorno a Ty, corrosiva ma leggera come una seconda pelle.

 
°°°°
Stanza singola al quarto piano, bagno in comune, alle sette iniziava un breve allenamento e alle otto la colazione alla mensa. Corsi vari di lingue demoniache, Antiche Rune, poi combattimento.
C’erano degli spifferi e in alcuni punti il legno era marcio d’umidità, non aveva ancora trovato nessun topo, ma in compenso un ragnetto riposava sul suo comodino, che forse stava mangiando le briciole di pane che gli aveva portato, o forse no.
Il letto cigolava e aveva già ricevuto due lettere: una da tutti quanti, l’altra da Tavvy, che aveva voluto a scrivere tutto da solo, con la sua insicura calligrafia tondeggiante.
Il castello era grande e immobile nel tempo, con le statue arcigne e i lampadari importanti, le finestre spaziose e gli alberi secolari.
Niente di troppo difficile, si era detto. Niente che le abili mani verdi di Ragnor Shade – Fell, Ragnor Fell –  non potessero aggiustare.

 
°°°°
«Ehi, matricola!» Uno dei loro insegnanti, un uomo sulla cinquantina e con i lineamenti aspri di cui Ty aveva sentito il nome per poi lasciar perdere l’informazione che era diventata inutile, quando il primo giorno aveva urlato ai quattro venti di voler essere chiamato “Signore”, si stava avvicinando a lui.
Rimase in quello che pensava fosse un rispettoso silenzio, in attesa di capire dove avesse sbagliato. Respirava a fatica e fitte per mancanza d’ossigeno gli attraversavano la pancia, ma non aveva rallentato.
«Che stai facendo, eh, con quelle cose?!» Sbraitò sputacchiando per terra e  sentì una leggera risata dietro di sé.
Piegò leggermente la testa senza capire, e prima che potesse fare alcunché, le cuffie che erano rimaste pigramente appoggiate al suo collo erano nelle mani dell’uomo.
«Dove pensi che ci troviamo, matricola?» Tutti quelli del primo anno erano “matricole”, a partire da secondo potevi aspirare a diventare “ragazzo” e all’ultimo anno magari si sarebbe ricordato anche il tuo cognome.
«Io…»
Era una domanda retorica – Emma gli aveva insegnato il loro significato qualche anno prima, confondendolo ancora di più. Se chi le poneva già sapeva la risposta, perché farle in primo luogo? – probabilmente, considerata l’occhiataccia fulminante che aveva ricevuto per quella misera parola.
Calmo.
Calmo.
Calmo.
Artigliò ferocemente il polso sinistro con la mano destra, esercitando pressione.
Calmo.
«Cosa farai, quando un Raum deciderà di soffocarti? Starai lì ad ascoltare la musica e a farti uccidere? Eh, matricola?!»
Si ricordò di Arthur e i suoi rimproveri, gli occhi distanti e persi in un altro mondo che lo analizzavano, sputando veleno.
All’epoca c’era stato Julian a proteggerlo, una gabbia dorata costruita con amore e dedizione, piena di libri e dell’aria salmastra di Los Angeles.
Era paralizzato e sembrava una farfalla ancora viva ma appesa alla parete – la libertà era così vicina, ma al contempo un sogno lontano.
Quando sentì un rumore di vetri rotti e vide le sue cuffie in mezzo alla polvere, schiacciate da una spessa suola, qualcosa in lui si spezzò.
Con la coda dell’occhio notò una gonna bianca e svolazzante disperdersi nell’aria.

 
°°°°
Qualcuno cercava di avvicinarlo, lamentandosi platealmente a suo uso e consumo di quanto quella lezione fosse stata difficile, o quell’altro allenamento sfiancante.
 Ty sorrideva educatamente e falsamente, come Jules quando le cose non andavano secondo i piani, con una diplomazia perfetta.
Nella biblioteca evitava i compagni molesti e la mancanza delle sue amate e compiante cuffie.
In certi momenti sentiva un leggero formicolio là dove si sarebbero dovute appoggiare, un dolore fantasma che gli faceva stringere i pugni per la rabbia e deglutire forte.
Si arrampicava sull’immenso albero al centro, sempre più in alto e sempre più veloce, come ai Campi Immortali. Ma sotto di sé non c’erano fate morte e spade insanguinate, solo un silenzio assordante e libri vecchi.
A volte si portava i manuali sulla demonologia, ma finiva sempre con le solite rassicuranti storie: Il mastino dei Baskerville, Uno studio in rosso, Il segno dei quattro.
La concentrazione era poca, le materie difficili e il Signore impossibile.
 Una mano leggera come una falena si posava fra i suoi ricci, e tutto quello che sentiva erano brividi lungo la schiena e uno spiffero gelido.
 
°°°°
Kit faceva incursioni improvvise nei suoi pensieri, come l’ultima volta che l’aveva visto: un lampo biondo e corrucciato che lo abbracciava con sguardi di scuse per poi sparire fra le strade trafficate della Città degli Angeli.
Avrebbe voluto scrivergli una lettera, fra le tante che mandava all’Istituto. Per sapere come si trovasse con Jem e Tessa, se avesse imparato a lanciare decentemente i pugnali, anche senza toccare il loro punto dolente.
Se lo ricordava sarcastico e comprensivo, con delle graffette fra le mani a insegnare a Dru come scassinare una serratura, a mangiare patatine per colazione e accettare l’appellativo di Watson con le guancie rosse e gli occhi luccicanti.
Sospirò pesantemente applicandosi un’altra iratze sul braccio, nel punto in cui gli era accidentalmente scivolata una spada corta.
Era stanco e avrebbe voluto solo dormire, ma doveva studiare ed esercitarsi meglio con l’arco e la  balestra – ma ogni volta che li prendeva in mano le orecchie a punta di Mark e il sorriso di Julian esplodevano come supernove dietro le palpebre e posava tutto.
Nel suo campo visivo apparve un’ombra che scivolò nelle tenebre, lì dove i lampadari di ferro erano spenti e oscillavano pericolosamente.
Ma era un vestito bianco quello che vide, e partì all’inseguimento.
Scattò anche senza nessuna runa della Resistenza ma non dovette macinare molta distanza, effettivamente.  Da una delle mastodontiche finestre, che sembravano quasi occupare tutta la parete, la luce della luna filtrava a stento, combattendo con il vetro opaco e a tratti lercio.
Strinse fra le mani la stregaluce e la differenza fu così forte che dovette un attimo chiudere gli occhi. Quando li schiuse una chioma bruna ondeggiava al ritmo di una canzone sconosciuta, i piedi nudi non lasciavano impronte nella polvere e il vestito bianco si gonfiava, facendola sembrare una fata.
 Poi si girò.
Era pallida e con il vestito abbandonato e spiegazzato che cascava giù dall’esile figura, i capelli sporchi di terra e i piedi incrostati di sangue secco. Non era più una fata, ma un corpo cianotico e dolorosamente familiare.
Livvy danzava nei corridoi e Ty soffocava le urla nel sangue, affondando i denti nelle nocche.
 
°°°°
Il letto non cigolava quando Livvy vi si ci buttava senza grazia, e il terreno con cadeva quando scrollava la testa. Con la gonna ampia e il corsetto di pizzo sembrava una dama dell’Ottocento. La somiglianza con Annabell era impressionante, ma lui taceva e la guardava con venerazione, memore del suo ultimo egoistico desiderio.
«Ma tu puoi restare con me, giusto? Puoi restare anche in questo modo?»
La vicinanza di Livvy era diventata necessaria come respirare, non era passato abbastanza tempo dalla consapevolezza della sua morte per riuscire a controllarsi.
Quando non era nel suo raggio d’azione i suoi occhi saettavano per la stanza, mortalmente preoccupato che potesse succedere tutto un’altra volta.
Aveva dei delicati archi sulle nocche delle mani, scuri contro la pelle pallida. Le lenzuola erano macchiate di sangue e sua sorella era appollaiata sul comodino, gli occhi azzurri fissi su di lui.
«Dovresti smetterla, Ty-Ty.» La sua voce era rassegnata e i piedi penzolanti prendevano a calci l’aria.
Si alzò e le si avvicinò, con il luccicante medaglione dei Blackthorn fra le mani.
«Riproviamoci.» Bisbigliò.
Lei sorrise triste e lo lasciò fare, mentre la collana oltrepassava il suo corpo inconsistente e cadeva sul comodino, facendo increspare le sue gambe.
«Un giorno ce la farai, ne sono sicuro.»  
Affondava un altro po’ i denti nella pelle, mentre se lo metteva al collo.
Non ancora – pensava – ma presto.

 
°°°°
Era difficile ingannare Ragnor, si era ritrovato a considerare sovrappensiero, per poi smentirsi subito dopo.
Non lo stava ingannando, perché fino a che Livvy sarebbe rimasta con lui, andava davvero tutto bene.
Ma la sicurezza negli occhi argentati – la sicurezza dello stare bene con le clavicole sempre più sporgenti, le mani sempre più graffiate e l’aura di morte che lo circondava, percepibile solo da chi si intendeva di quella magia e magari da qualche Nephilim più sensibile – sortì solo l’effetto di far preoccupare lo stregone.
Perché ne aveva visti tanti di Shadowhunters che amavano troppo intensamente una vita troppo breve, alla disperata ricerca di un riflesso quando la vera luce di spegneva.
Tiberius Blackthorn non permetteva il contatto visivo, se non in brevi ed estremi momenti. Nonostante il freddo usciva fuori per dar da mangiare agli scoiattoli qualche noce secca sgraffignata dalla mensa.
L’aveva tenuto d’occhio ed era rimasto incantato da quanto potesse essere fragile un essere così forte – un prescelto dell’Angelo, capace di sopportare le sacre rune e di mantenere una spada angelica senza bruciarsi.
L’aveva visto camminare buttando la testa all’indietro, il profilo evidente del pomo d’Adamo che saliva e scendeva. Guardava il cielo come se aspettasse una pioggia di stelle cadenti o la fine dell’Universo.
Rideva raramente e quando lo faceva si girava verso il nulla e sorrideva affettuoso.
Lanciava sciabole verso il nulla, e mormorava dei febbrili “prendile” con gli occhi spalancati e speranzosi.
Ragnor sapeva. Sapeva e taceva. Sviava l’argomento con Catarina e non ne accennava minimamente a Magnus.
Però il ragazzo era così simile a Jesse, con i capelli d’inchiostro e i tratti delicati.
Mordendosi le labbra scrisse un messaggio a Tessa, facendolo poi bruciare come una fenicie.

 
°°°°
Quando una vampa di fuoco si accese nel salotto, Kit fece la cosa più normale che si ci aspetterebbe in quei casi: strillò e vi buttò sopra il bicchiere di aranciata che stava bevendo, mentre chiamava Jem.
Quando l’uomo arrivò con i capelli spettinati e la maglia al rovescio per trovarsi una lettera fradicia, un ragazzino confuso e un odore di arance nell’aria, rise.
«Era un messaggio di fuoco.»
«Ah, ehm, sì certo, lo sapevo!»
Rise di nuovo e gli arruffò i capelli, mentre portava la lettera a Tessa.  

 
°°°°
In un castello appena preso dal set di un film su Dracula, sperduto fra le montagne, non c’era l’ascensore.
Sarebbe dovuta essere una cosa ovvia, ai limiti del logico, ma Kit ci sperava lo stesso. Ci aveva sperato ancora più ardentemente quando era stato informato che la camera di Ty era niente di meno che al quarto piano, ala ovest.
Il fiatone era un’ottima distrazione dai suoi pensieri. Come sarebbe stato incontrarlo? Che cosa avrebbe detto? Perché Ragnor era tanto preoccupato per lui?
Tessa aveva chiuso le labbra in una linea sottile e austere, mentre con gli occhi tempestosi guardava Kit assorta, persa in ricordi di un altro tempo.
«Dovresti far visita a Tiberius e salutarlo.» Davanti alla sua occhiata scettica – troppo imbarazzo, troppo dolore, il lago Lyn e le fiamme dell’incantesimo ancora impressi nella sua mente – aveva sospirato lievemente.
«Non se la sta cavando troppo bene.»
Lui si era girato ed era scappato, sordo ai suoi richiami, immune a tutto, dandosi dell’idiota.
Se solo fosse rimasto all’Istituto, Ty non avrebbe mai messo piede alla Scholomance.
Adesso si trovava davanti alla porta della sua stanza, e non sapeva cosa fare. Nonostante potesse sembrare una delle poche persone che effettivamente sapeva come interagire con Ty, era bloccato. L’ultima volta non gli aveva dato il tempo di fare niente – non di accusarlo, non di scacciarlo, un abbraccio velocissimo e poi via, verso una realtà che sarebbe dovuta essere meno dolorosa, ma alla fine era solo un sogno confusionario.
Allungò la mano per bussare alla porta e trovarla straordinariamente aperta.  Entrò di soppiatto, incerto su come procedere.
Il letto era sfatto e macchiato di sangue. Una pila di libri svettava sul comodino e sarebbe stato inutile avvicinarsi per leggere i titoli.
Un brivido gelido su per la spina dorsale lo bloccò sul posto. C’era qualcosa di strano, una presenza che mal si accordava con il luogo, come se fosse bloccata fra due dimensioni.
Un fantasma.
Come Jessamine e come il parabatai di Robert Lightwood, una presenza estranea al mondo dei vivi, rimasta per un conto in sospeso o apparso per un avvenimento importante.
Ma non era quello il caso.
Si girò, aspettandosi una Livvy sorridente e magari contenta della sua presenza, ma tutto quello che trovò furono dei candidi piedi che svanivano nell’ombra, e una voce sussurrante.
«Aiutalo.»

 
°°°°
Ty l’aveva guardato un po’ sconcertato e un po’ sollevato, una persona che ritorna a casa e non trova il gatto da nessuna parte e che quando lo nota sopra un armadio lo guarda rasserenato ma confuso. “Sì, okay, sei vivo, ma perché sei lì?”
E forse erano i pensieri che passavano per la testa di Ty – non che lui avesse la presunzione si poter anche solo intuire cosa stesse pensando, in quella matassa aggrovigliata.
Sì, okay, stai bene, ma perche sei qui?”
Non lo voleva, no. Era stata una pessima idea, una delle più pessime che potesse mai aver avuto.
Aiutalo, gli aveva sussurrato Livvy angosciata e speranzosa. Dio, anche per lei, anche  per lei avrebbe dovuto provarci.
«E le cuffie?»
Era qualcosa di così vistosamente sbagliato, la vista del collo niveo di Ty nudo, senza l’ingombrante presenza delle sue eterne compagne. Sarebbero dovute rimanere, almeno loro, dopo che tutto si era sgretolato.
«Avevo voglia di cambiamenti.»
Lo sapeva che stava mentendo, lo sapeva dagli occhi che fuggivano i suoi e il labbro inferiore che tremava leggermente – non si può mentire al figlio di un truffatore, eppure eccoli lì che gliela faceva in barba a tutto, e lui non poteva neanche puntargli il dito contro.
«Le occhiaie fanno parte del nuovo look?»
E i morsi sulle nocche, e il sangue sulle lenzuola, e il pallore mortale, e il penetrante odore di Magia Nera. Urlava disperazione e decadenza, un palazzo ottocentesco mai restaurato, circondato da moderni grattacieli. Un nuovo mondo era stato costruito, ma lui continuava testardamente ad aggrapparsi al precedente, mentre cadeva a pezzi sotto il peso della verità.
A Ty non piacevano i contatti fisici. Si sentì uno stupido per essersene ricordato in quel momento, con la mano tesa verso di lui, e non quella volta davanti all’Istituto, quando l’aveva stretto con troppa forza e troppo brevemente.
A Ty non piacevano i contatti fisici e i posti affollati. Non gli piacevano le cose eccessivamente dolci, eppure mangiava senza emettere un fiato i pancake di Julian, nonostante tappezzassero la gola di Kit con tutto quello zucchero.
Sapeva tante cose su Ty, lo aveva inalato per una quantità di tempo sufficiente per farglielo entrare sottopelle, per renderlo dipendente dalla sua presenza scostante e lontana.
Però lui non era famiglia. E forse quell’allontanamento forzato e quella sensazione di pura angoscia che sentiva all’altezza del petto erano solo per quello: lui non era famiglia, non era altro che un estraneo ai margini del suo campo visivo, che casualmente l’aveva aiutato nel disastroso tentativo di riportare sua sorella indietro.
«Come stai?» – prima che potesse fare a modo suo e iniziare a parlare di allenamenti e compiti assegnati, di tutta quella marea di notizie che Kit moriva dalla voglia di sentire uscire dalla sua bocca come se fossero i due normali adolescenti che non erano, continuò – «Dentro, dico.»
Dentro il suo cuore sanguinava ed era trafitto da tre spade, come nei tarocchi. E Kit ne era sicuro dall’insofferenza della piega della bocca e dalle guancie incavate. Sembrava ancora più fragile del solito, un dente di leone contro una tormenta di neve.
Uscì un suono aspro e secco dalle sue labbra, lo spettro di una risata morta e sepolta da tempo.
«Dentro, fuori, fa male tutto.»
Ty avrebbe odiato la sua espressione impietosita e gli avrebbe voltato le spalle e sarebbe scappato. Quindi guardò un punto indefinito al di sopra della sua spalla, dove la distorta figura di Livvy era scossa da singhiozzi – silenziosi o meno, non avrebbe saputo dirlo, la distanza del Vuoto ne cancellava il suono.

 
°°°°
«Come dovrei fare?»
Era affacciato a una finestra, il freddo dell’altitudine che gli entrava fino dentro le ossa, mentre Livvy giocava sovrappensiero con l’orlo della gonna grigiastra.
«Deve… deve lasciarmi andare. Sento come se ci fosse qualcosa che mi trattiene qui, una forza, forse, un vicolo cieco. Mi capita di correre e correre, e ritrovarmi sempre al punto di partenza. Ci ho provato.»
«Hai provato ad andartene senza dirgli niente?»
Sospirò lievemente, gli occhi azzurri e acquosi che avevano perso la lucentezza di prima – la lucentezza della vita.
«È per il suo bene.»
Kit si guardò il braccio ormai coperto da una discreta quantità di rune, spirali nero carbone, che sembravano quasi dipinte con un pennello. Cercò la leggera cicatrice della primissima, quella che gli aveva tracciato Ty con tanta attenzione.
Era stata un’iratze.
Guarigione.
Adesso era il suo turno di ricambiare il favore.
«Lo spero.»
 
°°°°
Venti. Ventuno. Ventidue. Venti-, no, il pugnale era finito a sinistra, mancando l’obbiettivo di qualche centimetro.
Ventitré. Ventiquattro. Venticinque. Venti-, no, non era proprio arrivato niente. Guardò confuso Ty che a quanto pare si era fermato, dopo aver lavorato come un automa ben oliato per circa una mezzo’oretta. Forse di più. Probabilmente di meno.
Indicò le armi luccicanti appese alle pareti, e poi lui, come se le due cose potessero essere mai lontanamente accostabili in qualunque situazione.
Si avvicinò strascicando i piedi, imbastendo la sua espressione vincente da piantagrane svogliato, quella che teneva a distanza di sicurezza i professori.
Ovviamente, con Ty era tutto inutile.
«Ti sei esercitato con Jem in questo periodo, almeno?»
Se Kit non avesse saputo che l’altro raramente cercava di essere ironico, o della sua più incompleta capacità di lanciare frecciatine pungenti, avrebbe detto che quell’almeno suonava proprio come un rimprovero.
Mi hai abbandonato. Almeno sai tenere una balestra in mano?
Il rimprovero più meritato della sua vita. Se n’era andato nello stesso modo in cui gli era sempre stato accanto – in disparte, lasciandolo parlare con Livvy, avendo la spiacevole sensazione di star guardando dal buco della serratura.
Sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Jem vuole usare le spade. Sono pesanti, l’elsa è troppo liscia, e avrò decapitato una decina di statue in giardino.»
«Di certo – continuò, cercando di darsi un tono e di rispolverare la vecchia vanità che aveva scoperto essere marchio Herondale, nonostante avesse pensato tutta la vita di averla ereditata dal padre – potrei usarle benissimo, se volessi. Ma non voglio.»
Ty lo stava guardando con un sopracciglio inarcato, critico, gli occhi grigio che sembravano leggergli l’anima. Era più vicino di quanto non lo era stato per tanto tempo, vicino e afferrabile, in un certo qual modo. Si sarebbe potuto sporgere per dargli un bacio, leggero e impalpabile come le ali di una farfalla. L’odore di Magia Nera – zucchero bruciato e ferro – gli stava entrando nelle narici, forte e denso, mentre le occhiaie spiccavano come orme sulla neve.
Doveva fare qualcosa. La magia aveva sempre un prezzo – qualcuno sarebbe arrivato a riscuoterlo, e lui sarebbe dovuto essere più veloce.

 
°°°°
Si erano arrampicati tutti e tre sull’immenso albero della biblioteca – sì, molto scenico, ma non esattamente in massimo dell’igiene o della sicurezza, visto come lo spesse radici continuavano a guadagnare terreno sul parquet.
Era proprio come all’inizio – lui, Ty e Livvy, nascosti da qualche parte nell’Istituto a progettare piani che sicuramente avrebbero fatto rizzare i peli sulle braccia di Julian, o anche solo per parlare al sicuro da tutti.
Ty leggeva, lui sfogliava un manuale di Guida avanzata nel mondo dei Nascosti, e Livvy fluttuava fra loro. No, sicuramente non era come all’inizio, e l’unico a non essersene accorto era Ty, ovviamente.
Chiuse il libro e cercò di posarlo in bilico sull’enorme ramo, e urtò pesantemente la spalla di qualcuno – quella di Ty, senz’ombra di dubbio, e si girò per chiedergli scusa.
«Per cosa?»
«No, per prima, ti sono finito addosso.»
Dopo l’ennesimo sguardo confuso, il sangue gli si gelò nelle vene. Non poteva, non doveva…
Lanciò un’occhiata terrorizzata ad una Livvy stravolta, che furtivamente si massaggiava la spalla che lui aveva colpito.
Forse, forse alla fin fine il rituale aveva funzionato. Forse ci voleva solo del tempo, per farla riabituare al loro mondo.
Forse…
«Kit?»
Era così flebile che pensò provenisse da Livvy, per poi ritrovarsi a sorreggere Ty, esamine e con gli occhi buttati all’indietro.
Mentre la runa dell’agilità spariva in una cicatrice traslucida e lui correva verso l’infermeria, sotto le mani poteva sentire le ossa appuntite delle scapole che sporgevano come se volessero strappargli la pelle.
Magari gli sarebbero cresciute delle ali insanguinate e sarebbe volato via da tutto quel dolore.

 
°°°°
Ragnor lo guardò con disapprovazione, aggrottando le candide sopracciglia.
«Pensavo che l’avresti tenuto al sicuro, Herondale.»
Abbassò lo sguardo sul letto che li divideva, dove la zazzera scura di Ty spuntava dalla coperta beige.
«Tenere una persona al sicuro da se stessa è ancora più difficile che proteggerla da qualcun altro.»
Lo stregone scoppiò in una sonora risata, una pioggia di vetri rotti che gli raschiava le orecchie.
«Oh, ma questo lo so bene.»
Nei suoi occhi c’erano vite e vite scivolate via senza un lamento, secoli di mal celato dolore e alla fine un ritiro nella solitudine, l’unica via d’uscita.
Si era finto morto per oltre cinque anni, rispuntando all’improvviso come se non se ne fosse mai andato. Una macchia verde e altalenante fra le pagine della storia.
Si rigirò fra le mani l’anello degli Herondale, passando il dito sopra gli aironi in rilievo.
«Che cos’ha?» Chiese dopo infiniti minuti di silenzio, indicando col mento il letto.
«È qui, vero? La sorella.» Spostò lo sguardo dappertutto, febbrilmente,  guardando attorno a sé e dietro Kit, sfiorandola con gli occhi ma senza riuscire a vederla.
Non sapeva cosa dire. La verità? E se Ty fosse finito nei guai? E se Ragnor già lo sapeva e lo stesse solo mettendo alla prova? Se avesse provato a mentire lo avrebbe considerato indegno di fiducia?
«Sì.» Sputò fra i denti, a mezza voce, trovandosi con le spalle al muro. «Livvy è qui.»
«Non va bene, non va bene. Malcom se ne intendeva di queste cose, ma io… Dio, di questo passo…» Prese un profondo respiro, facendo tremolare le palpebre. Poi allacciò gli occhi ai suoi, guardandolo dritto in faccia.
«Lo sta prosciugando.»
Preciso, diretto, brutale. Uno sparo che gli centrava esattamente il cuore, che gli mozzava il respiro e lo riversava a terra in una pozza di sangue cremisi.
Si voltò e per la prima volta desiderò essere cieco come tutti gli altri, desiderò non riuscire a vedere i fantasmi, di non vedere Livvy che spalancava gli occhi e si tirava le ciocche di capelli con forza, gocciolando lacrime che non avrebbero mai bagnato il pavimento.
«Come?» Fiatò miseramente, immobile, congelato sul posto.
«La linea fra questo mondo e quello che c’è dopo è molto sottile, Kit. Solitamente i fantasmi rimangono qui per un conto in sospeso, a volte per sempre, se non riescono a saldarlo. Tiberius ha cercato di prendere qualcuno che con questo mondo non ci aveva più niente a che fare. Quando ha fatto l’incantesimo l’ha legata a sé, perché altrimenti non sarebbe rimasta. La sua presenza in questo mondo è alimentata dalla vita del gemello.»
«Quindi…» Quindi che avrebbero dovuto fare? Non sarebbe durato molto, ecco cosa gli occhi di Ragnor urlavano ma lui non diceva. Era situazione più grande di loro, avrebbero dovuto chiamare Julian e Helen, avevano il diritto di saperlo. Anche Dru, sì, dopo averle nascosto tante cose quella verità se la meritava.
Non osava guardare Livvy, mentre pensava alla lettera ormai bruciata, quella dell’altra dimensione. Era come l’Universo funzionava. Lì ero morto Ty e in quel mondo Livvy. In un terzo probabilmente lo erano entrambi. In un quarto forse non esistevano neanche i demoni e vivevano in una casa normale e affollata, senza asce appese alle pareti, statue di vecchi poeti nel parcheggio e fratelli maggiori costretti a essere padri.  
Magari lo avrebbe conosciuto a scuola e avrebbero fatto tutte quelle cose che facevano gli adolescenti stupidi – guidare senza patente e bere, saltare le lezioni ed arrampicarsi sui tetti, sognare di scappare di casa per non farlo mai veramente. Tutti e tre, come una squadra.
«Cosa dobbiamo fare?»
Incrociò lo sguardo di Livvy e lei annuì con forza, le spalle che tremavano.
Lo avrebbe fatto per loro. Lo avrebbe fatto per quel Ty morto e per quell’altro mai conosciuto, lo avrebbe fatto per l’iratze sbiadita sul suo braccio e per tutto quello che gli doveva.  

 
°°°°
Seduto sulla sedia accanto al lettino asettico dell’infermeria, sperava che Ty non si svegliasse mai. O che almeno si svegliasse dopo che avesse deciso come spiegargli le cose. Aveva il terrore del suo sguardo vuoto e malato, della sua voce monocorde che diceva che non gli importava proprio di morire.
Pensò a quanto fosse stata solida la spalla di Livvy prima, in biblioteca, e quanta vita avesse involontariamente tolto a Ty, per quel singolo momento.
Trattenne il respiro quando vide le palpebre aprirsi e le braccia stendersi, per sgranchirle. Sentì qualche osso scricchiolare, niente di preoccupante ovviamente, eppure lo osservò apprensivo, immaginandolo cadere a pezzi e accartocciarsi su se stesso.
«Come ti senti?» Aveva la bocca secca e le labbra aride, la lingua era carta vetrata che gli graffiava la gola.
«Dentro o fuori?»
Rimase interdetto per quelli che sarebbero potuti sembrare secoli. Stese le labbra in un ghigno stanco e incredulo, mentre sentiva la pelle spaccarsi e tirarsi.
«Stai facendo del sarcasmo, Blackthorn?»
Gli rivolse un sorriso sibillino, gli occhi lucidi e le guance rosse, in salute come non lo aveva più visto dal suo arrivo alla Scholomance. 
«Dimmelo tu, Herondale.»
Allora rise veramente, spostando i capelli biondi dalla fronte per guardarlo meglio. Era così bello, Ty, perfino sotto il bagliore giallastro delle stragaluci, perfino con i capelli schiacciati da un lato per la dormita, perfino con le guance incavate.
Si guardò intorno, preoccupato, e Kit poteva già leggergli la domanda sulle labbra. Livvy era scoppiata a piangere e se n’era andata, ma non per sempre. Non poteva, dopotutto.
“Mi capita di correre e correre, e trovarmi sempre al punto di partenza.”
Non disse niente. Non disse niente dopo la prima domanda, né dopo la seconda, e resistette fino alla quinta, coraggiosamente. Poi alla sesta, come il codardo che era e che non avrebbe mai potuto nascondere completamente, si era alzato senza parlare e si era diretto verso la camera di Ty.
L’aveva trovata lì, seduta sul comodino a fissare il nulla, gli occhi stanchi, delle isole celesti che scivolavano su un mare rosso. 
«Questa volta rimani, ti prego.»
Si era girata di scatto e l’aveva guardato fisso, i capelli che dondolavano per l’improvviso spostamento.
«Livvy, io…»
Meritava una spiegazione, la meritavano entrambi, eppure Kit non gliela sapeva fornire, tutti i pretesti usati precedentemente era diventati infantili ed inudibili alle sue stesse orecchie.
«Promettimelo. Altrimenti non sarò mai in grado di andarmene.»
«Sì, sì, lo prometto.» Aveva risposto subito, senza pensare, con l’espressione speranzosa di Ty ancora impressa nella mente.

 
°°°°
Aveva urlato. Aveva urlato e pianto e sbattuto i pugni contro la parete. Si era morso le nocche riaprendo ferite non ancora guarite, e Kit non aveva potuto far altro che rimanere a guardare in disparte – come sempre –, mentre le dita spettrali di Livvy accarezzavano dolcemente la zazzera di capelli neri.
Poi si era seduto con lo sguardo vacuo, e gli aveva dato l’impressione di un giocattolo rotto a cui gli si erano scaricate le pile.
Adesso era seduto composto sul suo letto, la schiena dritta e le mani appoggiate sul grembo, macchiate e scorticate. Le guance asciutte e gli occhi che brillavano decisi, e sia lui che Livvy capirono che era l’unica possibilità che avevano, l’unico momento in cui Ty sembrasse abbastanza forte per reggere tutto.
Il boschetto fuori la scuola era fitto e odoroso di resina, il vento gelido si insinuava sotto il giaccone pesante come tanti aghi invisibili. Mesi prima avrebbe fatto qualche battuta su come sembrasse preso dallo scenario di un patetico film fantasy per ragazzine, ma era quella la loro realtà, con uno stregone che tracciava pentagrammi nella terra ghiacciata e un fantasma da riportare nell’Aldilà.
«Pronti?» chiese alla fine Ragnor, buttando di lato il bastone con cui aveva tracciato i profondi solchi nel terreno.
No, ovviamente. Nessuno di loro lo era o lo sarebbe mai stato. Ty era ancora chiuso nel suo mutismo, la testa buttata all’indietro per vedere bene il cielo e gli uccelli che volavano, desiderando probabilmente di essere come loro.
“Magari gli sarebbero cresciute delle ali insanguinate e sarebbe volato via da tutto quel dolore.”  
Livvy gli si avvicinò, sfiorandogli la guancia con i polpastrelli, cercando un contatto visivo. L’ultimo.
«Rimani con Kit, mangia, dormi, e scrivi più lettere a casa. Capito Ty-Ty? Vivi, e fallo bene.»
Poteva sentire quelle raccomandazioni vibrargli nelle ossa, dette soprattutto per lui, perché sapevano entrambi che Ty non le avrebbe mai seguite. Non da solo.
Rimani con lui. Fallo mangiare e dormire, convincilo a scrivere più lettere a casa. Capito? Fallo vivere.
Aveva chiuso gli occhi, privandosi della vista del cielo e delle punte degli alberi. Gli faceva male, forse, vedersi negata tutta quella libertà.
Livvy gli rivolse un sorriso triste e affettuoso, incamminandosi verso il pentagramma. Ragnor taceva, immobile, e dalle sue mani uscivano scintille.
Iniziò una cantilena, lunga e stranamente melodiosa. Latino forse? Magari qualche lingua stregonesca persasi nel tempo. Parlava di benessere, di addii sereni e passaggi sicuri, un lenitivo, in confronto all’incantesimo recitato da Ty al Lago Lyn. Le cinque punte presero fuoco, e fiamme bianche si innalzarono, fino a diventare più alte degli alberi, fino ad arrivare al cielo.
Finalmente Ty aprì gli occhi, come se si fosse svegliato da un lungo sogno, e guardò Livvy al centro dei fuochi, traslucida e inconsistente come non mai.
Se ne stava andando, di nuovo.
Si avvicinò al pentagramma e Kit lo seguì, titubante, ricordandosi di come l’altro si fosse arrampicato sulla pira di Livvy il giorno dei funerali.
«Come farò a vivere senza di te, Livvy?» le disse, quasi dolcemente, mentre la guardava rassegnato.
E stavano soffrendo, di nuovo.
Non c’era nessun altro tranne lui, non c’erano Julian ed Emma, non c’era Dru e neanche Mark, non c’era famiglia a cui aggrapparsi, e lui non lo era.
Ma si avvicinò lo stesso, abbracciando Ty da dietro, premendosi con forza contro di lui. Ty si aggrappò e affondo le unghie nel suo braccio, ma non gliene importò.
Ormai Livvy era quasi un’ombra che si stava dissolvendo nell’aria.
«Ty? Ty, io…» riuscì a dire, prima di sparire.
Le sue ultime parole, di nuovo.

 
°°°°
Non era stato facile come Livvy l’aveva fatto sembrare. Rimanere con lui, farlo mangiare, dormire, scrivere lettere agli altri.
Lo andava a trovare tutti i giorni, con un immancabile portale che Ragnor non faceva neanche tante storie a creare. Lo avevano visto così tante volte in giro che molti erano sicuri che si volesse iscrivere e rimanere in pianta stabile.
Lo avrebbe pure fatto, se non fosse stato un imbranato alle prime armi che a stento aveva ucciso un paio di demoni minori e se non avesse conosciuto così poco quel mondo a cui apparteneva. Ma comunque si dirigeva imperterrito da Ty.
C’erano giorni in cui riceveva solo porte chiuse in faccia o mani da fasciare e marchiare. In altri c’erano incubi e urla disperate.
Era andato avanti così per un po’, autodistruggendosi e dannandosi. Poi era lentamente migliorato, piano, e gli si era tolto un macigno dal petto quando lo aveva visto fresco e riposato, con in mani dei pugnali per allenarsi.
Lo sentiva ripetere demologia ad alta voce, scandendo lentamente i nomi più complicati e ridendo dei suoi tentativi disastrosi di impararne qualcuno.
Dopo due mesi era arrivato con un pacchetto blu, rettangolare e doppio, dove si trovavano altre cuffie bianche. Ty lo aveva scartato con le sue dita sottili e letali che tremavano leggermente.
Gi si erano illuminati gli occhi, eccitato come un bambino piccolo al primo regalo di Natale.
«Grazie, Watson.»
Non erano tornati alla normalità – c’era quello spazio vuoto incolmabile vicino a Ty, quella mancanza che ai suoi occhi sembrava ancora sbagliata –, eppure ci erano vicini.












 
 
 
Notes
Nonostante sembrino cinquemila parole di nonsense più assoluto, mi è davvero piaciuto scriverla. Ty è il mio personaggio preferito, e sono troppo curiosa di sapere come affronterà la Scholomance e il fantasma di Livvy. Ovviamente c’è un grande What If nella trama, perché la questione di Livvy “legata” alla forza vitale di Ty è stato un mio pensiero durante la scrittura. Anche se penso che sia piuttosto probabile, in un certo senso.
Shippo Ty/Kit (Kitty?) davvero tanto, ma in questa storia passa in secondo piano, perché volevo dare la precedenza alla situazione mentale di Ty.
E poi c’è Ragnor, mattacchione che non è altro, che spunta così all’improvviso!
Spero che vi sia piaciuta ~ ♥
little_psycho  
 
 
 
 
   
 
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