Film > Thor
Ricorda la storia  |       
Autore: shilyss    24/04/2019    34 recensioni
Archeologico AU!
1914: nell’Europa che si prepara a essere dilaniata dalla Grande Guerra, l’astuto e arrogante archeologo Loki Laufeyson è a caccia di un tesoro spettacolare che ricorda la perduta Asgard, la città degli dèi: quello raccontato nella Canzone di Reginn, un antico poema scaldico.
Affiancato dal compagno d’arme Thor e dalla sua devota assistente Sigyn, tenterà di riportare alla luce ciò che, forse, dovrebbe rimanere nascosto.
Protetto dalle quattro pareti del suo caotico studio, però, Loki Laufeyson abbandonava definitivamente la maschera del compassato e preciso studioso per rivelare la sua parte più selvaggia e, forse, sincera: ascoltandolo nella penombra di un pomeriggio inglese, Sigyn si ritrovò a pensare con un brivido che il confine tra un archeologo e un predatore di tesori per l’uomo fosse decisamente labile, forse persino troppo.
[ ♦ Storia Seconda Classificata al Contest “Lavoratori allo sbaraglio” indetto da Laodamia94 sul forum di Efp. ♦ ]
[ ♦ Storia Prima Classificata al Contest “L’Antica Grecia al giorno d’oggi: vizi e virtù,” indetto da _Vintage_ sul forum di Efp ♦ ]
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Malekith, Odino, Sigyn, Thor
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

L’oro del Reno

 

Capitolo 1

Fortuna e gloria

 

 

 

 

Ora l’oro ti è stato pagato (disse Loki),

ti è dato come riscatto ingente per la mia testa.

Non porterà gioia a tuo figlio:

la morte porterà a voi due

(Edda Poetica, Canzone di Reginn, v. 6)

 

 

Londra, 1983

 

Mancavano un paio d’ore al tramonto e la luce solare filtrava, fioca e sbiadita, attraverso le finestre della biblioteca. Claudette[1] allungò la schiena, stiracchiandosi sulla poltrona. La stanchezza per l’infinito lavoro di catalogazione iniziava a farsi irrimediabilmente sentire. I libri che doveva visionare, del resto, erano centinaia: volumi di storia, di mitologia, di arte e di letteratura, ma qua e là spuntavano anche cataloghi di mostre, atti dei convegni, riviste specializzate, miscellanee, appunti. Registrò con un sospiro l’ennesimo testo, riportando, con quanta più perizia possibile, il nome dell’autore, la casa editrice, l’anno, ma una certa impazienza faceva sì che la mano corresse più rapidamente sul foglio. Il compito che aveva abbracciato con una nota di entusiasmo stava diventando sempre più oneroso e difficile da portare a termine, pensò. La data della mostra si avvicinava e non era ancora a metà dell’opera: avrebbe dovuto telefonare e disdire il cinema che aveva in programma per quella sera, constatò con una smorfia, o non avrebbe mai finito in tempo.

Claudette sfiorò, con le dita su cui spiccava un vivace smalto rosso, la copertina in pelle dell’ennesimo volume che avrebbe catalogato per quel giorno. Lo aprì con delicatezza, cercò il frontespizio, trattenne il respiro. Un foglio ripiegato di giornale, datato più di sessant’anni prima, riportava un breve trafiletto e una fotografia quasi totalmente sbiadita, corrosa dal tempo. Un uomo alto e magro, dall’aria severa, la fissava accanto a una donna bionda e minuta, con la chioma raccolta e un volume ingombrante tra le braccia. Si rese conto di non aver mai visto quella foto e rimase colpita dal modo in cui l’uomo, seduto su quelli che, presumibilmente, dovevano essere i tavolini esterni di un bar, fissava il fotografo quasi con dispetto. Ne seguì la linea elegante del braccio che si allungava possessivo sullo schienale dov’era seduta lei, che guardava da un’altra parte e rideva portandosi con grazia le mani alle labbra. Il profilo delicato e la corona d’oro dei capelli della donna illuminava l’istantanea e creava un contrasto con quelli scuri dell’uomo e con il suo sguardo pungente, che pareva attraversare la pellicola. Si soffermò su ogni dettaglio della fotografia, cercando di capire dalla siepe dietro la coppia dove fosse situato il presunto bar o ristorante, domandandosi con chi stesse ridendo lei, cosa pensasse lui, concentrandosi così tanto su quell’immagine catturata decenni prima, da non accorgersi del leggero movimento della porta.

“Che ci fai tu qui? Cos’è questo disordine?”

La voce allarmata riscosse Claudette. La ragazza sollevò il capo, trovandosi di fronte lo sguardo spaesato e vacuo di sua nonna, avvolta in un maglione di lana nonostante ormai fosse primavera. L’anziana avanzò fissando ansiosa gli scatoloni in cui erano già stati riposti con cura documenti e volumi e appunti.

“Questi sono i libri di tuo nonno! Ci sono tutte le sue ricerche, qui!” boccheggiò, prendendo con le dita sottili e rovinate dalla vecchiaia e dall’artrite un testo che sembrava provenire direttamente da una biblioteca dell’Ottocento e stringendoselo con forza al petto. Claudette si alzò rapida e raggiunse l’altra, osservando il titolo sbiadito del testo che la donna proteggeva; La canzone di Reginn, lesse.

“Nonnina, è per l’Università, ti ricordi? È venuto qui il Rettore in persona, dopo che ci aveva scritto,” spiegò con dolcezza, carezzando la spalla minuta e fragile dell’anziana. Gli occhi grigi dell’altra la scrutarono dubbiosi.

“È il centenario della nascita del nonno: ci hanno chiesto i suoi appunti, i suoi libri – ricordi? – per allestire una mostra. Istituiranno un fondo in suo onore, in vostro onore: si chiamerà Laufeyson-Van der Vanir. Mi hai chiesto di aiutarti a selezionare cosa donare, cosa far vedere alla gente.”

Un altro sguardo smarrito. Non lo ricordava affatto.

“Sarebbe un’idea meravigliosa. L’avrebbe adorata,” mormorò la donna con un tremito. “Ho perso la mia bussola,” annunciò senza posare il libro. “Hai visto da qualche parte la mia bussola?”

Claudette scosse la testa in segno di diniego, paziente. “No, ma adesso ti aiuterò a cercarla. L’avrai messa in un altro cassetto,” ipotizzò, ma prima di cimentarsi nell’operazione di recupero, mostrò all’altra la fotografia che aveva ammirato fino a pochi minuti prima. “Guarda cos’ho trovato: com’eravate belli, nonna.”

Sigyn Van der Vanir inforcò i sottili occhiali da vicino che portava perennemente appesi al collo, facendo tintinnare la catenina d’oro che li reggeva, assottigliando gli occhi, per mettere meglio a fuoco la vecchia istantanea. La sua mente sfilacciata si smarriva nel passato recente, rimanendo, invece, ben ancorata agli anni, ormai lontanissimi, della sua giovinezza. Con un gesto istintivo che la nipote le aveva visto fare tante volte, si sfiorò la fede nuziale ormai larga, che non s’era mai tolta dalla mano sinistra e tormentava ogni volta che una nube si affacciava all’orizzonte.

“Avevo la tua età quando mi prese come sua assistente,” ricordò accennando un sorriso leggero.

Claudette rimase in silenzio, in attesa. Aveva sentito tante, tantissime storie su suo nonno, perché Loki Laufeyson non era stato solamente uno storico e un archeologo di fama, ma anche un eroe di guerra fucilato dal regime mentre gridava Viva la libertà[2].

Una fine tragica, da romanzo, che aveva velato per sempre di dolore gli occhi grigi di sua nonna, togliendole luce persino quando, dopo anni di articoli pubblicati sotto uno pseudonimo maschile, era riuscita a ottenere proprio la cattedra che era stata dell’indimenticato e amatissimo marito e a curarne le opere postume.

In ogni casa ci sono storie che vengono raccontate e altre che, invece, vengono taciute. In ognuna delle fotografie che ritraevano il professor Laufeyson, questi appariva carico del fascino stropicciato dell’avventuriero e con uno sguardo glaciale e, allo stesso tempo, fiero. Sembrava un principe invincibile. Sigyn accarezzò il ritratto, perché il dolore e la nostalgia le laceravano il cuore da quarant’anni, senza sosta, né lei aveva mai voluto né cercato di calmare quel dolore.

“Me la regalò lui, la bussola. Era sua.”

 

 

 

 

 Sigyn Van der Vanir avrebbe collocato l’inizio della sua tragica e romantica storia d’amore quando, in un freddo pomeriggio del Quattordici, il giovane e arrogante professor Laufeyson le allungò la sua relazione finalmente corretta; era piena zeppa di punti interrogativi e chiose a margine scritte con una malcelata nota beffarda che la indispettirono per una serie di ragioni, prima tra tutte che nelle frasi del brillante archeologo c’era un fondo di verità lampante. Si maledisse mentalmente, perché, trovandole impresse sul foglio di carta opaco, le intuizioni di Laufeyson erano pungenti, argute; in un’altra parola, esatte. Ma lui era questo: uno studioso di fama, un pioniere, celebre per aver partecipato a degli importantissimi studi in Egitto quand’era solamente un ragazzo. Solo che, con gli anni e con la fama, il suo interesse era deviato per un punto della storia che non interessava nessuno e per una leggenda più fioca e inverosimile di quella che aveva portato alla scoperta della città della perduta Troia, la tanto cantata Ilio[3]. Sigyn, i capelli biondi tenuti a stento da un fermaglio di tartaruga, gli occhiali poggiati sulla punta del naso grazioso, gettò un’occhiata al complicato disordine che regnava nello studio. Nonostante fosse mattina, una bottiglia di crema di whisky campeggiava sulla scrivania ingombra di carte, appunti, libri, altre relazioni. Accanto, una tazza di caffè probabilmente già vuotata.

Il professor Laufeyson appoggiò le spalle alla bella sedia in pelle, increspò le labbra ironiche e sottili in un sorriso affilato come una lama. Sigyn sentì un brivido scorrerle lungo la schiena, perché c’era qualcosa, nell’archeologo, che la metteva a disagio. La sua voce era calda, avvolgente, appena arrochita, ma il suo sguardo aveva la freddezza dei ghiacci eterni. Colpa della trasparenza delle sue iridi glauche.

“Un lavoro discreto, signorina Van Der Vanir,” fu il suo commento asciutto, accompagnato da un movimento elegante delle mani. Aveva il dono d’irretire chi lo ascoltasse, di trascinarlo nel suo mondo fatto di tesori perduti, sepolti in qualche parte dimenticata del mondo. Le sue lezioni erano brillanti e finivano sempre troppo presto e Sigyn si era ritrovata più volte, alla fine dell’ora, col cuore che batteva e la voglia di porre domande, il timore di non farne di abbastanza intelligenti. Si era firmata col solo cognome, limitando il resto a una esse puntata che avrebbe dovuto, nella sua testa, far nascere nel professore un giudizio più oggettivo e severo. Lui aveva compreso tutto, ovviamente. Quando lei si era presentata, aveva alzato un sopracciglio a metà tra l’incuriosito e il divertito. Non si era pronunciato sul suo desiderio di essere equiparata a uno studente di sesso maschile, né aveva commentato le sue velleità da suffragetta, come certo avrebbero fatto altri accademici più rigorosi di lui. Aveva assottigliato gli occhi, però, scrutandola con l’attenzione che dedicava ad alcuni dei reperti che, talvolta, mostrava loro durante le sue spiegazioni.

“La sua analisi delle fibule è molto appassionata,” continuò Loki, allungandosi per riprendere la relazione che lei, quasi meccanicamente, gli porse e sfogliando le pagine dattiloscritte, zeppe di correzioni, “i disegni notevoli.”

Discreto. Appassionata. Notevoli. Sigyn, dalla sua posizione oltre la scrivania, tentò di interpretare quelle parole. La stava lodando? Aveva la bocca drammaticamente secca e una richiesta sulla punta della lingua; una che era assurdo fare e che, certamente, il professor Laufeyson non avrebbe mai accettato, ma che lei doveva ugualmente arrischiarsi a porre. Mosse un passo in avanti, avvicinandosi ancora di più alla scrivania caotica, agli occhi dell’uomo ora verdi, ora azzurri – dipendeva, probabilmente, dal modo in cui li colpiva la luce – e parlò con una voce sicura, decisa.

“Vorrei diventare la vostra assistente. So che ne state cercando uno.”

L’archeologo inclinò leggermente la testa bruna, come per guardarla meglio. “Cerco un assistente,” confermò, scandendo ogni parola con lentezza, “ma non sono sicuro che voi possiate ricoprire il ruolo, miss Van der Vanir.[4]

“È perché sono una donna?”

“Anche.” Un guizzo negli occhi chiari e indagatori dell’altro la fece sobbalzare. “Sarebbe ipocrita dire il contrario. Ma non è solo questo. È una questione di… come dire? Reputazione.” Loki si mise più comodo sulla sedia, inumidendosi le labbra sottili. “Immagino conosciate ciò che si dice su di me, nell’ambiente. Quello di cui mi hanno accusato…”

“Lo so.” Sigyn rispose in fretta, interrompendolo. “Dicono che siate un ladro di tombe, ma questo si dice di buona parte degli archeologi,” sostenne fiera, alzando il mento quasi volesse sfidarlo. “Non mi importa di quello che è successo. Siete uno studioso brillante, mi basta questo,” aggiunse.

Il professor Laufeyson prese una penna e la fece roteare tra le belle dita lunghe ed eleganti. “Si dice anche altro,” ghignò. “Vuole davvero essere la mia fedele assistente, miss Sigyn?” Il suo sorriso aveva un che di feroce e crudele. “Pensa di avere le qualità necessarie?”

 

 

Fu l’inizio di un legame destinato a durare, con fasi alterne, per tutta la vita. Nel tempo mutò forma e finì per chiamarsi con una serie di altri nomi, ma la sostanza rimase inalterata: lei gli aveva donato la sua fedeltà incondizionata e l’archeologo, da parte sua, si era ripromesso di trattarla come la studiosa che aspirava a essere, senza risparmiarle nulla.

Nei primi mesi della loro collaborazione, Sigyn lo chiamava professor Laufeyson indugiando leggermente sul titolo e guardandolo da sotto le ciglia scure. Non poteva dire di essere immune al suo fascino; quando Loki le si avvicinava, si ritrovava a trattenere il respiro per non lasciare che il suo profumo di cuoio e pelle e tabacco la scuotesse facendole accelerare il battito cardiaco. La bellezza dell’archeologo era sfacciata, esibita, tagliente come le sue frasi spesso troppo crudeli, perennemente venate da una nota di divertito sarcasmo. Sulla carta, i compiti di Sigyn dovevano essere quelli di aiutare Loki a preparare le lezioni, correggere gli elaborati degli altri studenti, gestire la sua agenda universitaria e fare per lui altri piccoli lavori utili alle sue ricerche, ma nel giro di poche settimane le sue mansioni aumentarono di numero e d’importanza. L’archeologo era entrato nella sua vita portandosi dietro tutta l’impetuosità e la sregolatezza che lo contraddistinguevano, pretendendo da lei una devozione assoluta alla sua causa e ai suoi molti, ambiziosi, progetti. Di fronte alla voce graffiata e roca di quell’avventuriero con i modi di un Lord, allettata dalla possibilità di pubblicare le sue ricerche, anche se sotto falso nome, Sigyn si lasciò trascinare in quel mondo d’ombra, illuminato dal sorriso di fiera di Loki Laufeyson e dalle sue ricerche più segrete e quasi folli, perché, come la ragazza si accorse ben presto, la soddisfazione non era nella sua natura.

 

 

 

 

“Professor Laufeyson, Lord Borson.”

Sigyn porse due tazze di tè fumante allo studioso e al suo ospite e fece per allontanarsi, ma un’occhiataccia del primo la inchiodò dov’era.

“Tu non bevi il tè? Siediti, riguarda anche te. Sei la mia assistente, no?” la rimproverò caustico.

La ragazza avvampò. La settimana prima, Loki l’aveva mandata fuori dallo studio senza tante cerimonie per parlare di chissà che losche questioni con un tizio barbuto che giungeva da Ankara e ora, invece, la voleva lì.

Presa in contropiede, lo rimbeccò piccata. “Siete terribilmente volubile, sapete?”

Non era la prima volta che l’accusava di cambiare idea troppo in fretta e di essere scostante; i miei piani variano di minuto in minuto, sosteneva Laufeyson, e lei incrociava le braccia e scuoteva la testa, carica di disappunto, perché Loki si comportava come un principe e pretendeva da lei una fedeltà assoluta, totale, terribile.

Aveva accettato che ricoprisse un ruolo di prestigio che altri le avevano negato, ma il prezzo da pagare si era rivelato essere un tributo alto da versare, forse troppo. Desiderava stargli accanto il più possibile. Cercava di far parte della sua vita.

Lui la ripagava con certe occhiate troppo lunghe e una serie di sorrisi sbiechi e affascinanti che le facevano scorrere troppo spesso un brivido lungo la schiena, mettendola a parte dei segreti di quella disciplina nuova che l’aveva stregata, correggendo con spietata severità i suoi appunti. Certo, da studentessa si era lasciata incantare mille volte dallo sguardo quasi trasparente del bell’archeologo e, nei primi tempi della loro relazione lavorativa, il respiro le si era mozzato nel petto ogni volta che lui si chinato verso di lei per mostrarle il dettaglio di un reperto, suggerirle il significato secondario di un termine latino o greco, sincerarsi della correttezza del suo operato. Bugia, era accaduto ogni volta che Loki le si era avvicinato.

 

 

Molti anni dopo, nella solitudine di una casa ormai vuota, Sigyn Van der Vanir si sarebbe domandata con un sospiro quale era stato il momento esatto in cui il groviglio di emozioni e sensazioni che le scatenava Loki Laufeyson si era trasformato nella consapevolezza di esserne disperatamente innamorata. Ritta in piedi, nello studio troppo ordinato che si era ritrovata ad abitare dopo che la guerra che glielo aveva strappato via senza darle nemmeno la consolazione di una tomba dove poterlo piangere, il ricordo di lui avrebbe avuto il colore delle cose perdute e mai dimenticate. Sarebbe stato bianco come la ciocca di capelli che si attorcigliava attorno al dito, come le ossa mescolate ad altre dell’uomo con cui aveva diviso la giovinezza, ma che non era vissuto abbastanza per vederla sfiorire. Le parole di Loki le sarebbero uscite dalle labbra pallide come una nenia triste, cariche del disincanto di colui che le aveva pronunciate quando l’Europa già tremava sotto i colpi di tensioni antiche, ma ancora inesplose. Una sepoltura degna è ciò che l’uomo ha sempre desiderato per se stesso, diceva, solo che, per ironia della sorte, lui non ce l’aveva avuta, una tomba che uomini nati secoli dopo di lui avrebbero trattato con rispetto. Gli era toccata la triste fine dei guerrieri e dei pirati – le sue spoglie si erano perse. Sì, l’ormai rinomata archeologa conosceva esattamente il punto della sua vita dove doveva scavare per recuperare il ricordo che le serviva, in verità mai dimenticato. Aveva capito d’essersi innamorata nel pomeriggio lontano in cui portò un tè a Lord Borson e a Loki, per sedersi poi assieme a loro con un certo malcelato disagio. Questa consapevolezza le avrebbe fatto spuntare sulle labbra il principio di un sorriso dolce e nostalgico, ma un’altra le avrebbe velato il cuore: nello stesso momento in cui lei si era innamorata, Loki Laufeyson, con quei suoi occhi brillanti e il sorriso astuto dipinto sulle labbra sottili, aveva firmato la sua condanna a morte. Solo, non lo sapeva ancora. Non lo sapeva nessuno.

 

 

“Sei in cerca di fortuna e gloria, Odino?” Loki si era messo ancora più a suo agio sulla poltrona, facendo aderire perfettamente le spalle allo schienale, ma c’era, in lui, il disordine che avrebbe avuto il principe dei furfanti assiso sul proprio trono.

Un guizzo divertito illuminò l’unico occhio di Lord Borson, mentore dell’archeologo. Li accomunava la medesima passione per la retorica: entrambi erano soliti usare nei loro discorsi frasi complesse e sottintesi incredibilmente pungenti – persino troppo – e adoravano invischiarsi in intrighi e piani e ricerche assurde, che spesso traevano la loro origine dai miti e dalle leggende. E, in quel preciso istante, proprio un testo che parlava delle antiche storie dei vichinghi troneggiava sul tavolo, accanto alle tazze di tè. Sigyn abbassò gli occhi sul dorso in pelle consunto, sulle macchie giallastre che si intravedevano sulle pagine.

“Deve essere qui. La leggenda parla di un tesoro enorme nascosto sotto una cascata e sorvegliato da un mostro terribile, forse un drago,” spiegò Odino puntando il dito nodoso sul foglio. “Si tratterà della sepoltura di un capo guerriero, di un re leggendario.”

“L’oro di Asgard,” mormorò Loki e gli occhi verdi s’illuminarono di una luce terribile. “La canzone di Reginn parla di un tesoro maledetto che causò la morte di due fratelli e di una guerra che coinvolse addirittura otto re,” ricordò asciutto. “Ne parla anche Beda il Venerabile[5].”

Durante le sue lezioni, era solito spiegare che l’archeologia, nonostante Ilio dissepolta e strappata dalle nebbie del mito, non era una scienza che studiava le fiabe, né si occupava di andare a caccia di tesori. Era un lavoro fatto d’indagini e pazienza, che si basava su prove e fatti, null’altro. Occorreva scavare necropoli e studiare le sepolture e, da lì, con rispetto e metodo, carpire le testimonianze di un passato remoto, svanito, di cui talvolta non restava che qualche fibbia, l’elsa di una spada con la sua lama ormai rovinata e cocci sparsi di ceramica.

Protetto dalle quattro pareti del suo caotico studio, però, Loki Laufeyson abbandonava definitivamente la maschera del compassato e preciso studioso per rivelare la sua parte più selvaggia e, forse, sincera: ascoltandolo nella penombra di un pomeriggio inglese, Sigyn si ritrovò a pensare con un brivido che il confine tra un archeologo e un predatore di tesori per l’uomo fosse decisamente labile, forse persino troppo.

I volti di Loki e Lord Borson erano solo parzialmente illuminati e ciò rendeva la scena degna d’un quadro fiammingo. Le vennero in mente certe fotografie raffiguranti gli splendidi gioielli trovati in alcuni scavi in Asia Minore[6], ripensò alle parole severe di suo padre quando aveva deciso di dedicarsi all’archeologia: che era una scienza nuova e strana; che assomigliava troppo al latrocinio immondo perpetrato dai profanatori di tombe; che i morti non andavano disturbati. Ma Sigyn aveva letto i lavori di Schliemann[7] e di Flinders Petrie e si era messa in testa di iscriversi proprio nella facoltà di archeologia perché desiderava squarciare il velo tra passato e presente e conoscere ciò che era stato, toccarlo con mano, instaurando un circolo capace di connettere passato e futuro.

A lezione e nelle conferenze, sia Loki Laufeyson che Lord Borson proclamavano a gran voce e con decisione che la loro professione non era andare a scavare tesori, ma rintracciare reperti e studiarli: capire il passato, attraverso la storia particolare di uomini e donne che l’avevano costruito, per rintracciare le proprie origini. Solo la sera prima, entrambi gli studiosi avevano partecipato a un animato dibattito che si era tenuto in un circolo ristretto, per poi discorrere con altri insigni colleghi della novità rappresentata dalla possibilità di eseguire degli scavi stratigrafici: un metodo sperimentale, che offriva la possibilità di compiere ricerche sempre più metodiche e accurate. Il giorno dopo, invece, i due uomini erano lì, di fronte a lei, a raccontarsi una fiaba vecchia di secoli, a cercare un modo per renderla reale, sorridendo alla maledizione che l’oro di Asgard si tirava appresso, incuranti e sfrontati com’erano.

Lord Borson mascherava con più abilità l’espressione del predatore sotto la pelle abbronzata dal sole dell’Egitto e dell’Asia Minore. Merito di un modo di fare che lo rendeva ancora affascinante nonostante gli anni, ma chi lo guardava da vicino poteva cogliere la durezza del suo sguardo celeste e intuire cosa si nascondesse nel suo spirito inquieto.

Loki, animato dalla stessa febbre, aggiungeva nozioni a nozioni, connettendo tra loro gli antichi scritti di monaci che avevano consumato la vista alla luce delle candele di qualche scriptorium altomedievale, ripercorrendo, con la sua bella voce d’incantatore, le epopee di quanti avevano cercato invano l’oro del Reno. Fu lì, mentre l’archeologo si appassionava a quella storia antica e progettava di trovare la tomba di Reginn, che Sigyn s’innamorò definitivamente del suo profilo affilato e bello, della trasparenza degli occhi verdi, delle labbra sottili perennemente arcuate in un mezzo sorriso sghembo, della voce leggermente roca. Con i gomiti poggiati sul tavolo ingombro di carte e mappe di quella parte dell’Europa che, di lì a qualche mese, sarebbe stata sconvolta da una guerra lunga e logorante, muoveva le mani eleganti da prestigiatore per illustrare al proprio mentore e a lei dove e come trovare i finanziamenti necessari per approntare la spedizione, quale fosse il punto in cui era più ragionevole iniziare la caccia a un tesoro maledetto, sepolto, come non se ne erano mai visti, colorato del fascino di un mito noto a pochi. Si rese conto di essersi innamorata di lui mentre la fioca luce che li circondava rendeva anche lei, incantata ad ascoltarli, parte della scena ritratta da un pittore ispirato.

Erano elementi della storia anche loro: i mille anni che li separavano dal gruppo di re guerrieri divenuti leggenda che si erano combattuti fino alla morte, ammirati come fossero dèi e messi sul loro stesso piano, si annullarono improvvisamente.

 

Loki parlava, spiegava, ipotizzava. Afferrata una penna, si era messo a tracciare segni sulla cartina sotto lo sguardo compiaciuto di Lord Odino Borson e Sigyn, col cuore che batteva al ritmo di una consapevolezza che la rendeva leggera e cupa assieme, avrebbe ricordato quel momento fino al giorno lontano in cui sarebbe morta. Gli ultimi pensieri nitidi della sua vita, già corrosi dall’inesorabile perdita di lucidità cui la malattia, alla fine, l’aveva costretta, le avrebbero concesso di rivivere, per un solo momento, quella strana serata, facendole ritrovare la bellezza elegante di Loki Laufeyson e il suo sguardo di lupo. Subito appresso, il pensiero sarebbe volato irrimediabilmente allo spiazzo dietro un edificio grigio dove il nemico di una vita intera si era vendicato di un torto antico, dando l’ordine di sparare al petto dell’archeologo. Luogo dell’esecuzione che lei, alla fine, aveva visitato mentre il figlio la teneva sottobraccio, la figlia si asciugava orgogliosa una lacrima traditrice. Del suo brillante marito dal sorriso laterale e lo sguardo chiaro non era rimasto niente, tranne quegli occhi verdi accanto a lei che scrutavano furiosi la terra battuta, il broncio fiero che, poco distante, soffocava un singhiozzo represso. Ma questa è un’altra storia[8].

 

 

Claudette non aveva idea di dove sua nonna avesse riposto l’indispensabile bussola. Ricordava a malapena l’oggetto, ma era abbastanza convinta che si trovasse nella consolle in camera da letto, magari insieme ai gioielli e ai documenti che l’anziana teneva nella stanza. Fino a pochi anni prima, la mente dell’illustre professoressa Sigyn Van der Vanir era stata pronta e vigile, ma negli ultimi anni le dimenticanze e le leggere distrazioni erano diventate sempre più profonde. Claudette ricordava ancora quando, bambina, talvolta andava a trovare sua nonna nello studio che occupava con fierezza all’università. Adorava sedersi sulla poltrona in pelle color cuoio che troneggiava dietro la scrivania e sfogliare alcuni degli stessi libri che ora stava inscatolando per la mostra in onore di suo nonno. Sigyn allora le sorrideva, energica e vitale, affascinandola con storie di popoli perduti e di città nascoste che dormivano sotto la sabbia e degli uomini e delle donne che, animati da una passione incontrollabile, avevano riportato alla luce case e sepolture, vie e piazze. Quando lei si meravigliava della sua bravura e si mostrava entusiasta, l’altra increspava le labbra in un sorriso leggero e, abbassando il tono della voce, aggiungeva che, se ci fosse stato ancora il nonno con loro, ogni spiegazione o leggenda sarebbe apparsa ancora più bella, perché lui aveva il dono, con la sua lingua d’argento, d’incantare chi lo ascoltasse. Forse, immaginò Claudette, era allora che aveva visto per la prima volta sua nonna sfiorare con un tocco leggero la bussola dal coperchio intarsiato che teneva sulla scrivania. Un moto di tenerezza la invase vedendo la figura sottile dell’anziana archeologa che s’affannava nella ricerca dell’oggetto.

“Proviamo a vedere se è in questo cassetto, nonnina?”

 

 

Il piano per rintracciare il favoloso oro del Reno rimase su carta, destinato a non trovare compimento, per lungo tempo. Era come se la maledizione scritta nell’alfabeto runico, che Sigyn aveva finito per apprendere, avesse impregnato i loro cuori, macchiandone persino le anime. Poche settimane dopo l’incontro serale tra Loki e Lord Borson, scoppiò un conflitto che si sarebbe combattuto nelle trincee scavate nella terra, tra il fango che inzaccherava il filo spinato. Anche il professor Laufeyson vi prese parte. Partì col grado di ufficiale che gli spettava per rango, privo dell’illusione che si trattasse di una guerra giusta, ammantato del disincanto cinico che contraddistingueva molte delle sue idee politiche e del dispetto per essere stato costretto ad abbandonare le sue ricerche in un momento fondamentale: quello in cui, assieme al suo mentore e amico, che considerava alla stregua d’un padre e che ammirava sopra ogni cosa, stava iniziando a raccogliere fondi per preparare l’ambiziosa spedizione. Un’idea folle che si era tramutata in ossessione, perché Loki non era capace di accontentarsi di niente: la soddisfazione non era nella sua natura e Sigyn lo sapeva, lo aveva capito fin dai primi, tumultuosi, giorni in cui era iniziato il loro sodalizio professionale, in cui si consumava gli occhi per sottoporgli precisissime riproduzioni fatte a matita dei corredi funebri che l’archeologo aveva scavato in qualche remoto villaggio del Cumberland da allegare alle sue ricerche e, contemporaneamente, con uno sbuffo, gli sistemava una delle giacche eleganti che gli calzavano comunque a pennello[9].

Il primo conflitto mondiale spazzò via la routine di un continente intero e anche di più, ma, soprattutto, incrinò definitivamente buona parte dei rapporti personali di Loki o, perlomeno, i più importanti, creando una profonda frattura persino nei confronti di Sigyn, che col duro lavoro e la sua intelligenza viva e pungente era riuscita faticosamente a guadagnarsi la sua stima.

Dalla guerra l’uomo tornò spezzato, furioso, arrabbiato.

 

La brama di scoprire l’ignoto, che l’aveva sempre caratterizzato, si era unita a qualcosa di spiacevole, che gli orrori dei campi di battaglia potevano spiegare, sì, ma solo in parte. Era una sete, un’arsura, che poteva essere letta come il bisogno di vendicarsi del mondo intero consegnando il proprio nome alla gloria non solo – o non più – per il bisogno di donare agli uomini il fuoco della conoscenza, ma per un crudele tornaconto personale, per pareggiare dei torti che aveva subìto. Nessuna ferita visibile gli deturpava il fisico asciutto e nervoso, ma i suoi occhi chiari e quasi trasparenti mostravano una traccia evidente d’inquietudine.

Colpa del tradimento che gli era stato inflitto, lungo una vita intera, iniziato nel momento in cui, ancora in fasce, aveva gridato il suo disappunto per essere venuto al mondo.

Sigyn scoprì il mutamento nel peggiore dei modi, nel periodo di una breve licenza dell’archeologo, quando, dopo quasi due anni passata ad attenderlo – a sognarlo – se lo ritrovò finalmente davanti con un bicchiere di whisky in mano e la divisa da ufficiale ancora indosso. Sarebbe falso dire che quella vista la colse impreparata: l’aveva cercato. Alcuni compiaciuti colleghi che mal tolleravano le intemperanze di Laufeyson, all’università, si erano messi a raccontare di come Loki fosse tornato dal fronte furioso e avesse deciso di mostrare il suo disappunto all’intera Londra nel più plateale e scenico dei modi, così come si confaceva al suo animo altero e orgoglioso: aveva raggiunto Lord Borson al circolo, gli si era parato davanti e, puntandogli una pistola, si era messo a gridare che sapeva tutto. Si trattava, come presto avrebbe scoperto a sue spese anche Sigyn, di un segreto noto a troppi, che solo il diretto interessato ignorava ancora. Stando ai racconti dei presenti, Odino Borson stava leggendo un quotidiano con un sigaro che gli pendeva dalle labbra. A quella vista, l’anziano studioso aveva abbassato leggermente il giornale fissandolo con quel suo unico occhio che Sigyn immaginò terribile eppure triste. Pare che non disse nulla, né si mostrò sorpreso di fronte all’arma.

Forse se lo aspettava, se lo era aspettato per una vita intera, che quel momento giungesse. Alcuni raccontarono di come Lord Borson si fosse alzato in piedi, altri che aveva preferito rimanere lì, sulla poltrona rivestita in pelle, in attesa di un colpo che non sarebbe arrivato mai.

Era stato Loki a parlare per primo. “Cosa sono?”

Domanda secca, fatta a bruciapelo, con gli occhi lucidi.

Odino si era concesso un sospiro e aveva parlato con lentezza, come quando, durante le lezioni che teneva all’università tra un’esplorazione e l’altra, voleva assicurarsi che i suoi ragionamenti si sedimentassero nelle menti degli allievi di fronte a lui. “Il mio miglior studente, il mio socio.” Aveva sospirato di fronte all’altro che scuoteva la testa. “Un brillante archeologo.”

“E cosa più di questo? Sir Thor non è l’unico bastardo che hai avuto, vero?”

Loki incalzava, furioso, furibondo.

Odino aveva continuato a sostenere lo sguardo spaventoso che gli era di fronte. “Lasciai sua madre per la tua. Fu una storia breve anche quella,” aveva ammesso.

“Perché? L’hai sempre saputo. Perché?”

“La famiglia di tua madre non gradiva la mia presenza.”

“No, no.” La risposta non era stata giudicata abbastanza esaustiva dal brillante professor Laufeyson, che doveva certi colpi di fortuna proprio all’interessamento e alla raccomandazione dell’uomo di fronte a lui. Il braccio non si era abbassato, né la mano aveva tremato. “Tu mi hai mentito fino a ora per un motivo. Qual è? Dimmelo!”

Lo aveva detto gridando, a denti stretti, carico di un’esasperazione per una scoperta atroce, emersa, del tutto casualmente, una sera, al fronte. E, dinanzi a quell’ira cocente, Lord Odino, alla fine, aveva ammesso il ragionamento fatto quando, dopo anni di disinteresse, aveva preso sotto la sua ala protettrice quel ragazzo dagli occhi verdi e la risposta sempre pronta che aveva il suo stesso sangue nelle vene.

“Pensavo che avresti rifiutato di aiutarmi nelle mie ricerche se avessi saputo la verità, ma le mie preoccupazioni, ora, non hanno più importanza.”

Era calato il silenzio, nella sala. E, forse, qualcuno aveva chiamato la polizia per evitare che Loki sparasse.

“Allora non sono altro che questo: un mezzo, utile per raggiungere cosa? Fortuna e gloria?”

“Perché deformi le mie parole?” Una domanda pronunciata con voce stanca, disincantata, destinata a scontrarsi, ancora, con una furia impossibile da domare.

“Avresti potuto rivelarmi chi ero dall’inizio. Perché non l’hai fatto?”

“Tu sei mio figlio. Ho solo cercato di proteggerti dalla verità.”

Alla fine, Odino Borson l’aveva detto: Loki era suo figlio, come Thor.

 

 

Sigyn venne a sapere tutto questo e mascherò il disagio per quella rivelazione più abilmente che poté, in pubblico, ma si avviò a passo svelto a casa del professor Laufeyson per mille ragioni e nessuna. Il rumore dei suoi stivaletti sul marciapiede accompagnò il ricordo di tutte le volte in cui i due studiosi si erano ritrovati insieme, complici l’uno delle scoperte dell’altro. Ragionavano allo stesso modo, agivano seguendo i medesimi schemi e si stimavano in maniera feroce e orgogliosa. L’oro del Reno era l’ultimo dei loro grandiosi progetti, ma non il primo, né il solo: sarebbe stato l’unico irrealizzato, però. Stringendosi nel semplice paltò di lana per proteggersi dal severo inverno londinese, Sigyn pensò che l’antica maledizione del tesoro vichingo si fosse abbattuta, a distanza di secoli, anche su di loro che avevano solo osato ipotizzare di riportarlo alla luce.

 La cosa peggiore nel trovarsi di fronte Loki non fu capire cosa gli fosse successo cercando di interpretare le ombre scure dietro le sue pupille mobili e inquiete, chiare e sempre acutissime, né sopportare il cinico sarcasmo che le riversò addosso con una smorfia sghemba delle sue labbra sottili, segnate da una cicatrice nuova. Lui era caos e lei se ne era accorta dal giorno in cui si era proposta come sua assistente. Loki si sentiva tradito e pareva un animale in gabbia. Era vissuto dentro un inganno, si era illuso di essere stato scelto per merito, invece il vecchio Lord Borson si era semplicemente pentito di aver abbandonato l’ennesimo frutto delle sue relazioni amorose, anzi, peggio: aveva fatto del proprio figlio bastardo l’assistente perfetto, sfruttando l’ammirazione accademica che il più giovane provava per lui, negandogli una verità dovuta, perché, in fondo, tutti meritiamo di sapere chi siamo e da dove veniamo. È un desiderio legittimo[10].

 

Loki l’accolse squadrandola dall’alto in basso e piegando le labbra in una smorfia tirata, perché lei sapeva – come tutta Londra, del resto. Non l’invitò a restare, ma Sigyn osservò la bottiglia di whisky e il bicchiere con due dita di liquore dentro e disse che bere non sarebbe servito.

“E cosa mi servirebbe, invece miss Van der Vanir?” chiese ironico. La chiamò per nome assaporandone le sillabe sulle labbra sottili e lei tremò sentendo il tono roco e freddamente divertito dell’archeologo, perché quel modo di pronunciare il suo nome era troppo, troppo simile a una carezza fatta sulla pelle. Non parlarono mai di quello che aveva significato, per Loki, scoprire le circostanze della sua nascita e la paternità di Odino. Il professor Laufeyson era bravo a custodire i propri segreti e non li avrebbe condivisi con nessuno, nemmeno con lei, neppure mentre le posava davvero le labbra sulla pelle. Le sue certezze si erano infrante, la sua esistenza e parte della sua carriera si era rivelata una menzogna, una truffa, e allora tanto valeva prendersi ciò che aveva desiderato, ma fino a quel momento aveva scelto di non prendere.

Nello studio avvolto dalla penombra, Sigyn si ritrovò con le spalle contro la libreria che aveva messo in ordine mille volte e la bocca dell’archeologo che sfiorava con infinita lentezza il suo collo, come se volesse assaggiarla, respirando il suo profumo. La strinse per la vita e lei lasciò che lo facesse, perché aveva sognato e sperato che una cosa simile avvenisse, vergognandosi per un simile desiderio. Si morse le labbra, sperando che l’esplorazione sempre più rapace non terminasse, odiandolo, perché le sue carezze audaci la scuotevano, ma lui continuava a negarle il piacere di un bacio sulla bocca. Allora Sigyn gli accarezzò i capelli scuri, ghermì le spalle larghe e robuste, si tese contro il corpo asciutto e tonico dell’uomo per cui lavorava e che le era mancato ogni giorno di quella guerra vicina eppure troppo lontana.

Finirono per fare l’amore sul divano di quello stesso studio dove, un paio d’anni prima, avevano ipotizzato insieme di trovare il tumulo sotto cui era custodito l’oro del Reno. Loki le sciolse i capelli, le tolse dal naso gli occhiali dalla montatura rotonda, le disse che era bella, ma Sigyn non commise l’errore di chiedergli che cosa significasse quel momento di passione non trattenuta, né cedette al medesimo impulso dopo, quando la convinse a spogliarsi del tutto e a rifarlo nel suo letto. Sfiorò le cicatrici leggere che aveva sulle spalle, si addormentò cingendogli la schiena, ascoltando il battito del suo cuore, domandandosi se quell’amore l’avrebbe consumata. Non si pentì di aver scelto di unirsi a lui, quella notte e le altre, troppo brevi, della licenza, ma non gli diede la soddisfazione di farglielo sapere, mai, così come si rifiutò di versare anche una sola lacrima davanti a lui quando Loki dovette tornare al fronte. Immobile alla scrivania della sua casa natale ormai vuota, con la famiglia decimata dal conflitto e un padre troppo malato per poterne vedere la fine, lo maledisse per tutte le lettere cui lui non si degnò mai di rispondere. Sentì di essersi spezzata. L’oro del Reno li aveva maledetti prima ancora che la sua ricerca divenisse realtà.

 

La bussola non le apparteneva ancora: era di Loki, che l’aveva comprata qualche anno prima in una vecchia bottega d’antiquariato. Sigyn l’aveva notata molte volte, mentre era nel suo studio, ma non l’aveva mai nemmeno sfiorata. Una sera, vestita solo di una sua camicia che le copriva interamente i fianchi, si era avvicinata per osservarla meglio: splendeva dentro a una vetrina e pareva un gioiello. Aveva aperto il mobiletto guardandola ammirata, certa che Loki non la stesse osservando, ma lui, invece, l’aveva notata.



[1] Volevo un nome moderno, per questo personaggio la cui funzione è quella di traghettare il lettore verso la narrazione. Molti hanno scelto espedienti simili per raccontare una storia. È solo un personaggio e non mi veniva proprio un altro nome in mente.

[2] La figura di Loki in questa umile minilong AU è fortemente ispirata alla personalità dello storico medievista e padre della moderna Storia Medievale Marc Bloch (1886-1944). Vi invito a leggere la sua biografia e a perdonare la leggerezza di voler accostare, sia pur marginalmente, il dio degli inganni all’autore de L’apologia della storia.

[3] La storia e, soprattutto, l’archeologia medievale, che sarebbe esplosa decenni più tardi.

[4] Loki e Sigyn si danno del voi. Loki sta dicendo che è orientato verso “un assistente” di sesso maschile anziché “un’assistente donna”.

[5] Storico inglese, monaco del VII secolo. Questa è una licenza poetica, Beda non ne parla.

[6] Mi riferisco agli scavi di Ilio, la città di Troia.

 

[7] L’archeologo che scoprì la sopracitata. Il secondo nome menzionato è quello di un importante archeologo inglese del primo Novecento.

[8] Il figlio e la figlia richiamano una mia serie, Tutte le tue bugie/La tela degli inganni: si tratta di Vali e Sonje.

[9] Il Cumberland è un easter egg, visto che siamo in tema: è la zona dove è situata Crimson Peak.

[10] Odino farfallone? Ebbene sì, almeno nel mito. Thor lo ebbe da Gea, non da Frigga. Figlio di quest’ultima è solo Balder il Buono.

   
 
Leggi le 34 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Thor / Vai alla pagina dell'autore: shilyss