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Autore: Amor31    25/04/2019    1 recensioni
A un anno dai terribili eventi del 1896, Laszlo continua ad annegare nel proprio dolore.
Non riesce a darsi pace, si tormenta e si macera nel senso di colpa.
La pena provocata dal suo amore perduto è infinita.
- ATTENZIONE! SPOILER PER CHI NON HA FINITO DI VEDERE LA SERIE -
Storia vincitrice del Contest "Lavoratori allo Sbaraglio" indetto da Laodamia94 sul Forum di EFP
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Laszlo Kreizler, Mary Palmer, Sara Howard
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Pene d’amor perduto

 

Con l'Istituto, per quel giorno, aveva terminato. Non aveva altri appuntamenti – aveva evitato di prenderli di proposito – e il giro di visite ai ragazzi si era concluso poco dopo l'ora di pranzo. Le sorveglianti lo avevano informato con accuratezza dei progressi degli ultimi arrivati, una coppia di gemelli recuperata dalla strada a una settimana dalla morte della loro madre, e il Dottore se ne era rallegrato. Quei piccoli – un bimbo e una bimba di appena quattro anni – avrebbero potuto crescere sani e forti, continuando a vivere nel suo Istituto. Per quanto si fossero già scontrati con la durezza e la violenza del mondo degli adulti, erano ancora abbastanza piccoli da poter dimenticare, da lasciarsi alle spalle tutto come ci si scorda di un brutto sogno. Era molto fiducioso e sperava con tutto il cuore che presto una coppia di possibili genitori si facesse avanti per adottarli.
Non c'era altro da fare, quindi. Era riuscito a ottenere un pomeriggio libero, proprio come aveva desiderato. Sarebbe tornato a casa, si sarebbe rinfrescato e poi sarebbe uscito di nuovo, come da programma. Perciò, riepilogato mentalmente il da farsi, recuperò alcuni documenti dalla scrivania dello studio, li ripose nella borsa di cuoio e strinse la cinghia della valigetta con forza, attraversando la stanza a grandi passi e chiudendosi con uno scatto la porta alle spalle.
Quando si trovò all'aria aperta, la luce abbacinante del sole lo investì con violenza, costringendolo a schermarsi gli occhi con la mano. Sentì il braccio destro dolere a causa del movimento brusco, ma resistette e lasciò vagare lo sguardo lungo la strada, che lo accecava ulteriormente riflettendo la luce del giorno. Aspettò per un paio di minuti, poi, da dietro un angolo, comparve Cyrus Montrose.
«Perdonate l'attesa, Dottore», gli disse l'uomo dopo aver accostato la carrozza al marciapiede. Lasciò le redini e si affrettò ad aprire lo sportello del mezzo.
«Non preoccuparti, Cyrus», lo rassicurò lui. Poi, perplesso, domandò: «Dov'è Stevie?»
«L'ho lasciato a casa, Dottore. Credo che stesse studiando».
La bocca di Laszlo si tirò in un sorriso scettico: «Sarebbe un miracolo, se fosse davvero così. Andiamo».
Sbatté lo sportello e Cyrus si impadronì di nuovo delle redini. La carrozza girò verso la direzione di provenienza e pian piano scivolò lungo la strada, addentrandosi nel cuore cittadino.
L'aria era quasi irrespirabile. Il caldo del pomeriggio non lasciava scampo e non era neppure ancora finita la primavera! Chissà come si sarebbe tramutata New York entro la fine dell'estate: Laszlo immaginò che la cappa di calore l'avrebbe resa una vera fornace infernale.
Immerso in queste considerazioni e sventolandosi il viso con la mano sinistra, si abbandonò allo schienale compatto del sedile e chiuse gli occhi. Non si sentiva stanco, ma il pensiero di ciò che doveva ancora fare lo rese malinconico. Di colpo sentì il peso degli anni gravargli sulle spalle, come se ne avesse avuti molti di più di quelli che gli corrispondevano davvero. Il ricordo di quella mattina lo assorbì.
La fine di maggio aveva lasciato il posto ai primi, tiepidi giorni di giugno. La luce del sole, trapelata come una lama dallo spiraglio delle persiane accostate, aveva pian piano attraversato la stanza, correndo sulle coperte del letto fino a sfiorargli il viso. Quando quell'aura dorata gli aveva solleticato le palpebre, sfumando i sogni che lo tenevano ancora prigioniero, il Dottore aveva socchiuso gli occhi con attenzione, sentendoli pesanti nelle orbite.
Aveva indugiato parecchi minuti prima di trovare il coraggio di affrontare il nuovo giorno. Si era voltato su un fianco, affondando il volto nel cuscino, quasi a voler recuperare le immagini sfuggenti del sogno che ormai si era diradato, poi era tornato a stendersi sulla schiena e la luce lo aveva schiaffeggiato di nuovo. A quel punto, sicuro di non poter riprendere sonno, aveva strizzato gli occhi verso l'orologio da taschino abbandonato la sera prima sul comodino e aveva sbirciato l'orario. Erano appena le sette, ma il sole sembrava già alto.
Laszlo si era messo a sedere, le gambe ancora avvolte nelle lenzuola, e aveva sospirato. Aveva lasciato che lo sguardo si abituasse alla fievole luminosità che ammantava la camera e infine, scostate le coperte, aveva inforcato le pantofole, ciabattando fino all'armadio.
Era rimasto  a fissare il guardaroba a lungo, indeciso sul da farsi. La consapevolezza che quello appena iniziato non fosse un giorno qualunque gli aveva annodato lo stomaco e già prima di scendere al piano inferiore aveva capito che provare a fare colazione sarebbe stato del tutto inutile. Perciò, dopo aver afferrato uno dei completi più leggeri che possedeva, lo aveva poggiato sul letto e con molta calma aveva iniziato a vestirsi. Aveva faticato come al solito nell'indossare la camicia: non era riuscito a far scorrere la stoffa sul braccio destro e gli ci erano voluti alcuni tentativi prima di riuscire nell'impresa, con il risultato di aver sudato come un operaio in un cantiere quando il sole picchia forte sulla testa. La situazione lo aveva innervosito e quando le stesse difficoltà si erano ripresentate per la giacca, l'aveva strattonata via e appallottolata sulle coperte sgualcite, emettendo un sordo grugnito esasperato. Era crollato a sedere sul bordo del letto e prima ancora che se ne accorgesse aveva preso a singhiozzare, la testa piena di ricordi e gli occhi che prudevano a causa di lacrime che si era sforzato di ricacciare indietro.
Solo dopo essersi calmato, inspirando ed espirando per regolarizzare il battito, aveva recuperato la giacca. L'aveva tesa davanti a sé, cercando di eliminare qualche piega, e infine ce l'aveva fatta. Neppure per un secondo aveva pensato di chiedere aiuto a Cyrus o Stevie: non dovevano vederlo in quello stato, per nessun motivo al mondo. E poi, quello della vestizione era un rituale che era appartenuto – e lo sarebbe sempre stato – solo a lui e a lei.
Aveva finito di prepararsi quando mancavano circa venti minuti alle otto. Aveva sostituito le ciabatte con dei mocassini – e li aveva benedetti tra sé e sé: l'unico vantaggio che trovava nell'estate ormai prossima era mettere da parte i maledetti stivali con i bottoni in stoffa che gli causavano tanto fastidio – poi, uscendo dalla stanza, aveva imboccato le scale e aveva raggiunto la cucina, dove aveva trovato Stevie intento a sorseggiare una tazza di caffè. Il ragazzo si era immediatamente alzato per lasciare spazio al Dottore, ma Laszlo lo aveva tranquillizzato con un cenno della mano, spiegandogli che avrebbe saltato la colazione per dirigersi subito all'Istituto. A quel punto Stevie, anticipando qualsiasi ordine, aveva abbandonato il proprio caffè sul tavolo ed era corso a chiamare Cyrus per chiedergli di preparare la carrozza.
Una volta a lavoro, Laszlo aveva avuto una mattinata densa di impegni. Innanzitutto un appuntamento con una coppia più che benestante dell'Upper East Side, che era venuta per consultarsi con lui in merito ad alcune stranezze del loro figlio maggiore; in seguito aveva ricevuto un signore di Hell's Kitchen che, tremante, aveva fatto irruzione nell'edificio per avere notizie di una certa Millie, una ragazza che, il Dottore gli aveva spiegato, non era ospite dell'Istituto né aveva mai incrociato la sua strada. L'uomo quindi, seppur non del tutto convinto, se ne era andato con gli occhi stralunati e l'espressione preoccupata, tormentando tra le mani la coppola che si era tolto al suo arrivo.
Accertatosi che non ci fossero altre interruzioni indesiderate, Laszlo aveva cominciato la solita visita dei suoi piccoli pazienti, decidendo di pranzare in loro compagnia per osservare meglio le relazioni tra loro. Si era ritenuto complessivamente soddisfatto, soprattutto dopo aver ricevuto dettagli più precisi in merito ai gemellini Paulson, e ora eccolo lì, di nuovo in carrozza, a cercare di distrarsi dal futuro incombente ripassando mentalmente ciò che era stata la giornata.
Riaprì gli occhi, resistette alla tentazione di allentarsi il colletto della camicia e sbirciò fuori dal finestrino con aria distratta. Gli fu impossibile concentrarsi sulle strade che Cyrus stava percorrendo, così come non riuscì a focalizzare nessuno dei pochi volti che osavano sfidare il caldo pomeridiano. Nella sua testa si sdoppiava una sola immagine, protagonista di ricordi che non desiderava far riemergere. Tentò di scacciarla pensando ad altro, al suo lavoro, ma niente era più potente e luminoso di quella memoria liquida. Il cuore gli si accartocciò, proprio come accaduto quella mattina al momento di vestirsi.
Presto il rumore degli zoccoli del cavallo scemò e la carrozza si arrestò. Laszlo aprì lo sportello anticipando la cortesia di Cyrus e si trascinò dietro la borsa con i documenti e i fascicoli sui suoi pazienti. Entrò in casa e senza dire una parola filò nella propria camera, oltrepassando quella in cui ora dormiva abitualmente Stevie. Per un attimo lo sfiorò il pensiero di bussare per verificare che il giovane stesse davvero studiando, ma cambiò subito idea: con quel caldo, probabilmente il ragazzo stava riposando. Non lo avrebbe disturbato.
Giunto nella sua stanza, Laszlo poggiò la borsa di cuoio su una poltroncina e si sfilò la giacca, strattonandola con forza per liberarsene il prima possibile. Sbottonò finalmente la camicia e sbirciò con astio il proprio riflesso nello specchio.
«Patetico», sibilò a denti stretti, osservando il torace incurvato leggermente in avanti. Si vide flaccido, impotente, inutile. Decisamente non amabile. Un peso per se stesso e per gli altri. Eppure, lei aveva visto qualcosa di bello, oltre quel guscio di carne inerme. Cosa, avrebbe voluto chiederle? Certo, non sarebbe riuscita ad articolare una risposta: non poteva. Però forse, con pazienza e devozione, Laszlo alla fine avrebbe saputo la verità. Una verità che, adesso, lei non gli avrebbe più potuto svelare a prescindere da tutto. Non era più lì. Non era più con lui.
Si passò una mano sul viso, lasciando il braccio destro molle lungo il fianco. Osservò ancora per un istante il riflesso e poi si spogliò della camicia, aprendo l'armadio per tirarne fuori una pulita. Liberatosi del resto dell'abbigliamento, andò in bagno e si riempì la vasca con acqua gelata, sperando che il freddo potesse farlo concentrare sul dolore provocato dal passaggio da una temperatura elevata – circa trenta gradi, aveva sentito dire da una delle sorveglianti dell'Istituto – a una decisamente inferiore. In parte le sue aspettative furono soddisfatte: al momento dell'immersione sentì il respiro mozzarglisi in gola e per un paio di minuti la sua mente fu sgombra di qualsiasi altro pensiero che non fosse il freddo pungente. Ma non appena si fu abituato, seppur a fatica, l'ossessione tornò a bussare ai confini del suo cervello e le immagini che con tanta difficoltà aveva provato a seppellire riemersero più nitide che mai, dolorose più dell'acqua gelata contro la pelle.
Si asciugò dopo una manciata di minuti, frizionando vigorosamente il braccio destro quasi a voler farlo sanguinare. Recuperò della biancheria da un ampio cassetto del comò e cominciò a vestirsi, deciso a indossare gli stessi pantaloni che si era tolto poco prima. Prima di metterli, però, prese un'altra giacca, la più scura del suo repertorio, e la camicia già scelta in precedenza, sicuro che avrebbe impiegato mezz'ora prima di riuscire a coprirsi le spalle.
Una volta sistemata la manica sinistra, inspirò profondamente, pronto a far fronte alle solite difficoltà; con sorpresa, invece, la stoffa stavolta non fece resistenza, accarezzandogli il braccio come un soffio di vento primaverile. Tirò i bordi della camicia verso il basso, per stirarla bene, e passò a chiudere i bottoni dei polsini. Solo allora si accorse che, sul destro, c'era un alone ingrigito, marchio di una macchia lontana. Lo accarezzò con due dita e sentì il cuore sprofondare: di lei, di loro, non restava che un ricordo sbiadito.
«Dannazione», imprecò, mentre distoglieva lo sguardo. Quasi non riusciva a crederci: sembrava che tutto, quel giorno, dovesse irrimediabilmente portarlo a lei, al passato, al futuro che era stato loro negato. D'accordo, allora; avrebbe abbracciato l'avvenire così come tutto, in quella casa, gli suggeriva di fare. Terminò di vestirsi e fu di nuovo nel corridoio. Stava per scendere al piano di sotto quando un'idea lo fulminò: doveva recuperare quel libro. Ma dove poteva essere? Non ricordava di averlo spostato nella libreria né di averlo portato all'Istituto per lasciarlo alle bambine sue pazienti. Forse era ancora...?
Si voltò sulla cima delle scale e fissò la porta della stanza di Stevie. Si avvicinò cautamente, attese fuori per qualche secondo come ad assicurarsi che dall'interno non provenisse nemmeno un sospiro e poi bussò. Non ottenendo risposta, bussò un'altra volta: il silenzio rimbombò muto. Certo di essere solo, Laszlo abbassò pian piano la maniglia ed entrò.
La camera era piena di luce. Il sole sarebbe tramontato di lì a un paio di ore, ma aveva già iniziato a spostarsi nel cielo, illuminando il retro della casa e conferendo un'aura dorata alla stanza spaziosa in cui il Dottore aveva appena fatto capolino. Laszlo socchiuse la porta dietro di sé e si guardò attorno. Come era prevedibile, il libro che stava cercando non era più sul comodino, altrimenti lo avrebbe trovato ricoperto da due dita di polvere. Forse Stevie lo aveva messo via, non essendo di certo un appassionato di romanzi – non del tipo a cui stava pensando lui, comunque. Il Dottore si avvicinò a uno scaffale addossato sulla parete destra e scrutò i titoli dei volumi riposti sulle mensole. In primo piano c'erano i testi di Jules Verne, che aveva comprato appositamente per far avvicinare Stevie alla lettura, seguiti da qualche saggio di psicologia che Laszlo si domandò come avesse fatto a finire in quella stanza. Non c'erano solo libri, però: il nuovo padrone della camera vi teneva custoditi anche i quaderni che usava per fare esercizi e il Dottore trovò perfino dei vecchi numeri del New York Herald in cui in prima pagina, nei box d'approfondimento, figuravano brevi articoli dedicati ai furti perpetrati da Stevie durante la sua precedente carriera da piccolo criminale di strada. Laszlo restò seriamente colpito dalla scoperta e si insinuò in lui la paura che il suo protetto potesse imboccare di nuovo la strada sbagliata: la presenza di quegli articoli, tra l'altro tanto ben conservati, non era forse una specie di trofeo delle imprese passate? O magari, si disse, era una sorta di memento, non dimenticare per evitare di ricascarci...
Mentre si scervellava, proseguì la sua ricerca finché, quando ormai aveva quasi perso le speranze, non si trovò tra le mani il titolo che desiderava: Rose in fiore, di Louisa May Alcott. Rimirò la copertina e il titolo a caratteri dorati per minuti che gli parvero un'eternità; era passato più di un anno da quando, per puro caso, era venuto a conoscenza della curiosità di Mary per quel libro. Ricordava di essere entrato quasi come un ladro nella stanza, sicuro che vi avrebbe trovato la ragazza, che invece era fuori per una passeggiata insieme al suo amico, John. In altre circostanze sarebbe uscito immediatamente, come per paura di invadere uno spazio che considerava sacro, ma allora aveva prima indugiato sulla soglia, poi si era avvicinato al letto, scorgendo il romanzo sul comodino e raccogliendo da terra una sottoveste abbandonata che sapeva in tutto di lei. Sembrava passato un secolo e quante cose erano cambiate, nel frattempo!
Laszlo si strinse al petto il libro, poi lo infilò sotto la giacca per evitare che qualcuno lo vedesse. Uscì dalla camera con circospezione e chiuse la porta, scendendo finalmente al piano di sotto.
Nell'atrio non incrociò né Cyrus né Stevie. "Tanto meglio", pensò, aprendo la porta di casa e immergendosi nella luce bollente, "non voglio essere accompagnato. Camminare mi farà bene".
Così, con la meta ben delineata nella sua testa, si diresse verso Brooklyn. Sarebbe andato a piedi fin quasi alla baia e lì avrebbe preso una carrozza per essere scortato a destinazione. Avrebbe impiegato circa un'ora per completare il viaggio di andata, ma il tempo era l'ultima cosa a cui pensava: d'altra parte erano settimane che stava pianificando quella giornata e, malinconia a parte, tutto era andato secondo i piani. Sperava solo di non incontrare nessuna faccia conosciuta durante il tragitto. Non che avrebbe faticato a inventare una storia, anzi; ma l'idea di poter essere trattenuto da qualcuno lo irritava terribilmente.
La lunga passeggiata sotto il sole non lo distrasse dai soliti, tristi pensieri. Continuò a rimuginare su quanto era accaduto nel corso dell'ultimo anno, rendendolo sempre più scuro in volto. Il suo stato d'animo sarebbe stato più consono a una piovosa giornata invernale e non a un afoso pomeriggio di fine primavera. D'altra parte, però, non aveva la più pallida idea di come riuscire a superare quel momento così difficile. Aveva letto saggi su saggi in merito alla gestione del dolore e del lutto, ma le parole di grandi studiosi europei gli erano parse vane, vuote, insignificanti. Parlavano di quei concetti con distacco, quasi con indifferenza, come se non avessero mai provato nulla del genere e Laszlo alla fine era stato tentato dal gettarli tutti fuori dalla finestra del suo studio. Non c'era nulla, in quegli scritti, che potesse davvero alleviare la sua sofferenza, niente che riuscisse a persuaderlo che la morte di Mary non era stata colpa sua. "E di chi altri?", continuava a ripetersi, torturandosi l'animo. Così, malgrado fosse passato poco più di un anno dalla scomparsa della ragazza, non era riuscito ad appigliarsi a niente che lo avesse fatto riemergere da quel dannato dolore.
Poi c'erano i sogni. Affollavano la sua mente come l'eco di promesse non mantenute, plasmando davanti ai suoi occhi i bei lineamenti e le labbra carnose che solo una volta aveva saggiato. La risata muta di Mary lo tormentava nelle notti più buie, rendendo impossibile rimarginare quella ferita; i suoi occhi scuri lo invitavano a seguirla lungo sentieri di terra battuta e Laszlo, pur desiderando farsi strada dietro di lei, non riusciva mai a raggiungerla, mai a restare al suo fianco. L'oscurità la inghiottiva e miscelava il paesaggio in un tutt'uno di colori smorti. Così si svegliava di soprassalto, madido di sudore, e fissava il buio senza fondo della propria stanza in attesa che il battito del suo cuore tornasse a essere regolare.
Dei sogni – degli incubi – aveva letto pochissimo, per non dire nulla. Sapeva che il Dottor Freud se ne stava occupando, nella vecchia Europa, ma evidentemente i suoi studi andavano a rilento. Se non fosse stato così occupato con il suo Istituto, probabilmente Laszlo avrebbe preso il primo transatlantico e sarebbe tornato in Germania e da lì in Austria per un aggiornamento che potesse aiutare non solo i suoi pazienti, ma anche se stesso. Non potendolo fare, però, non gli restava che aspettare pazientemente notizie, magari discutendone con il suo vecchio professore di Harvard.
Tornò per un momento alla realtà. Qualcosa aveva catturato la sua attenzione, distogliendolo da quei pensieri agitati. Si fermò lungo il margine della strada e fissò un punto poco più avanti.
Una signora di mezza età stava trafficando dietro un piccolo banco montato su rotelle. In alto, spiovente verso la via quasi deserta, una sorta di telo a strisce bianche e verdi la riparava – per quanto possibile – dal forte sole pomeridiano. Gli occhi di Laszlo si mossero veloci per indagare con due semplici battiti di ciglia cosa stava facendo: la donna, infatti, si chinava ritmicamente ogni manciata di secondi, prendendo da dietro il banco piccoli vasi colmi di terra e fiori variopinti da esporre sul ripiano davanti a sé.
«Martha, fai attenzione con quello», la sentì dire, rivolta al niente. «Pesa troppo per te. Aiutami con le gerbere, da brava».
Fu allora che una bimbetta di non più di cinque anni sbucò da dietro la signora, i capelli castani divisi in due codini ai lati del viso. Laszlo la trovò fisicamente molto piccola per la sua età; non era solo magrissima, ma anche bassa. Sembrava quasi un miracolo che riuscisse a tenersi in piedi, tanto appariva fragile ai suoi occhi. Eppure, nonostante fosse un fuscello, si dava da fare per aiutare l'adulta che accompagnava, spostando vasi e contenitori d'acqua smisuratamente grandi rispetto a lei. Malgrado lo sforzo che impiegava per riuscire a sollevare i contenitori più pesanti, un grande sorriso le rischiarava il visetto, mentre il sudore le imperlava la fronte candida.
«Nonna, posso metterle qui?», chiese, tenendo tra le braccia un bel mazzo di margherite arancioni.
«Poggiale davanti al bancone, ma mettile nell'acqua, altrimenti appassiranno». Poi Laszlo la udì bisbigliare: «Ci mancava solo questo caldo, oggi!»
Restò a guardare il loro operato per qualche minuto e un lieve sorriso gli increspò le labbra quando sentì la piccola domandare alla nonna quando avrebbe fatto merenda.
«Se mi aiuti a vendere i fiori, ti comprerò una bella crema d'uovo al cioccolato, va bene?»
Quella prospettiva sembrò rinvigorire la bambina, che si impegnò ancor di più a sistemare i restanti vasi che la nonna aveva cercato di tenere all'ombra. Laszlo ci pensò su per un'altra manciata di secondi, prima di avvicinarsi al banco. Si schiarì la voce e parlò: «Buon pomeriggio, signora».
La donna drizzò immediatamente la schiena con espressione sorpresa. Evidentemente non si aspettava che qualcuno acquistasse davvero qualcosa da lei con quel caldo tremendo.
«Buon pomeriggio a voi, signore», lo salutò di rimando. Dopo una piccola pausa sorrise: «Come vi posso servire? Volete del mughetto o tulipani o...?»
«Non vedo esposte le rose», notò Laszlo. «In questo periodo dovrebbero abbondare, se non ricordo male».
«Non sbagliate, signore», si affrettò a dire la donna. «Ecco, vedete, stavo allestendo proprio adesso il banco e non ho ancora sistemato tutti i fiori... Martha, svelta, prendi le rose per il signore».
La bambina era rimasta a squadrare Laszlo con curiosità. Aveva finito di mettere a posto le gerbere, curandosi di aver messo tanta acqua da far traboccare il vaso di coccio, e quando uno sconosciuto come lui si era fatto avanti aveva smesso di aiutare la nonna, concentrandosi solo su di lui. Anche adesso lo fissava, la testa appena piegata di lato; Laszlo poteva notarla con la coda dell'occhio.
«Martha, mi hai sentito?»
La piccola si riscosse. Senza annuire, fece il giro del banco e si inginocchiò ai piedi della donna, trafficando tra fiori che il Dottore non poteva vedere.
«La mia nipotina», gli disse quella per intrattenerlo nell'attesa. «Un tesoro, anche se a volte si comporta da birbante».
Laszlo non commentò. Studiò le piante in vaso che erano state esposte davanti al banco e lasciò vagare lo sguardo dai fiori alla donna.
«Se posso permettermi», riprese la signora, «volete regalarne un mazzo per un'occasione speciale?»
«Più o meno», rispose lui senza scomporsi. Avrebbe voluto concedersi una risata ironica, ma si trattenne. D'altra parte, l'anziana fioraia non poteva sapere che quella semplice domanda lo aveva appena trafitto come una freccia dritta nello stomaco.
«Posso prepararvi una bella confezione, allora», proseguì la donna. «Martha, dammi le rose... Ecco, bravissima. Prendi altra acqua dalla fontanella laggiù», ordinò alla piccola, prendendole dalle braccia l'involucro di carta che proteggeva i fiori. La bimba si allontanò con una grossa brocca e Laszlo seguì la sua corsa voltandosi verso il marciapiede opposto.
«Lavora sempre con voi?», si azzardò a domandarle, senza togliere gli occhi dalla bambina.
«Oh, be'», prese tempo l'anziana, «lavorare... Mi aiuta come può una ragazzina della sua età. Mi fa compagnia, più che altro, e intanto impara un mestiere onesto».
Il fatto che avesse calcato su quell'ultimo aggettivo lo insospettì non poco. Avrebbe voluto chiederle della madre, ma Martha era già di ritorno, la brocca stretta tra le braccine e l'acqua che traboccava così da bagnarle il vestitino di lino.
«Brava», le disse ancora la nonna, «sistema anche i tulipani. Attenta a non far cadere troppa acqua. Dunque», si rivolse di nuovo a Laszlo, «come vedete ho rose di tante tonalità. Che ne dite di queste gialle? Anche bianche non sono... MARTHA!»
Ci fu del trambusto. La piccola, spostando un vaso particolarmente grande, aveva urtato quello delle gerbere, che si erano sparpagliate sulla strada polverosa. Inoltre, l'acqua che si era riversata era finita in parte sui mocassini di Laszlo, quasi del tutto zuppi.
La donna girò attorno al bancone e venne avanti, il viso contratto: «Martha, che ti ha detto nonna? Devi fare attenzione!»
La bimba abbassò la testa, sinceramente dispiaciuta, e la signora si avvicinò a Laszlo, costernata: «Signore, mi rincresce molto. Le vostre scarpe, io... È piccola, ha solo cinque anni... Perdonatela, non era mai successo. Martha, chiedi subito scusa al...»
Lui la interruppe. Stava guardando la piccina, ancora imbarazzata per l'accaduto, e senza dire una parola alla nonna le andò incontro, accovacciandosi così da ritrovarsi faccia a faccia con lei.
«Era molto pesante quel vaso, non è vero?»
La bambina annuì in silenzio, ma non alzò lo sguardo su di lui. Non era solo imbarazzata, pensò Laszlo, ma anche molto timida.
«Ti sei fatta male?»
Scosse la testa. «No», esalò. Aveva una vocina rammaricata.
«Molto bene. Che ne dici se raccogliamo i fiori che sono caduti? Posso aiutarti a rimetterli a posto, vuoi?»
La piccola annuì di nuovo e radunarono insieme le gerbere sotto lo sguardo attonito dell'anziana fioraia.
«Ora poggiamo le margherite nel vaso più piccolo, questo qui», Laszlo la guidò con calma, «e aggiungiamo un po' d'acqua. Molto brava, Martha». Si rialzò, mentre la bambina finalmente sorrideva di nuovo, e aggiunse: «Quando vai a riempire la brocca, non colmarla del tutto, altrimenti sarà troppo pesante per te e difficile da portare. Rischieresti di farti male, se cadessi».
La bambina assentì ancora, stavolta con aria giudiziosa, ma di colpo il sorriso le sparì dalle labbra. I suoi occhi erano finiti sui mocassini di Laszlo e il Dottore percepì il senso di colpa venarle l'animo. «Scusate per le scarpe», sussurrò. «Come riuscirete a camminare, adesso?»
«Si asciugheranno presto. Oggi il sole scotta... Anzi, devo ringraziarti: adesso mi sento molto meglio, poco fa avevo davvero caldo».
Le sorrise e lei lo ricambiò, tornando intanto dietro al banco. La nonna, sempre più sorpresa per la piega presa dagli eventi, domandò: «Siete sicuro di stare bene, signore? Volete che...»
«Mi stava dicendo delle rose», Laszlo troncò il discorso.
«Oh, sì, certamente... Allora... Vedete», anche la donna riprese posto accanto alla nipote, «ce ne sono di diversi colori. A seconda dell'occasione, è meglio sceglierne uno invece di un altro. La scelta dipende anche dalla persona a cui si vogliono regalare i fiori e...»
«Vorrei solo rose rosse. Venticinque, se possibile. Ne avete?»
La fioraia fece un cenno alla piccola Martha e la bambina prese un altro grosso involucro sotto al banco.

«Ecco qui», disse la donna, mostrandogli una decina di boccioli. «Questi sbocceranno entro un paio di giorni, mentre queste», e prese altre quindici rose già in esposizione, «sono nel pieno della loro bellezza. Vanno bene?»
«Sono perfette, sì».
«Allora lasciate che ve le incarti. Martha, le forbici e il nastro, per favore».
La piccola obbedì e intanto la nonna recuperò della carta bianca che, al sole, splendeva come seta. Poi prese gli oggetti che la nipote le stava porgendo e si dedicò al confezionamento del mazzo, a cui aggiunse del mughetto.
«Le piace questa disposizione?», gli domandò, tenendo le rose per i lunghi gambi recisi.
«Non sono un intenditore, signora», si schermì lui, «ma credo che sia molto bella».
La donna assentì in silenzio e chiuse il mazzo con del nastro dorato. Glielo porse: «Venti dollari», lo informò.
Laszlo infilò una mano nella tasca interna della giacca. Fece attenzione a non lasciar cadere il libro, ancora al riparo all'altezza del suo cuore, ed estrasse il portafogli, da cui tirò fuori tre banconote. «Tenete», le disse. Tese il braccio per consegnarle il denaro, ma la donna, una volta preso, se lo rigirò tra le mani.
«Signore, state sbagliando. Questi sono trenta, c'è una banconota in più...»
«Martha si è meritata più di una crema d'uovo, non è vero?», replicò lui e schioccò un leggero sorriso alla bambina. Per tutta risposta, gli occhi della piccola si illuminarono di nuovo, vispi e allegri, e Laszlo ebbe l'impressione che sulle sue guance un po' scavate fosse apparsa una spruzzata di colore.
«Vi ringrazio», balbettò la fioraia, del tutto spiazzata. Poi, riprendendosi, invitò la nipote a ringraziare a sua volta. Martha seguì il consiglio della nonna e la sua vocetta solleticò le orecchie del Dottore.
«Arrivederci», le salutò Laszlo. Sollevò il cappello e se lo risistemò sulla testa, strinse tra le braccia il grosso bouquet di rose e riprese la sua camminata sentendosi un po' più leggero.
I mocassini umidi producevano un fastidioso rumore a ogni passo, ma non se ne curò più di tanto. In fondo, prima di uscire di casa si era volontariamente immerso in una vasca d'acqua gelata; non aveva niente da temere da quel paio di calzature fradice. L'unica preoccupazione emerse al pensiero che, una volta asciutta, la pelle delle scarpe si sarebbe seccata al punto da rendere doloroso camminare. Pazienza, si disse, ci avrebbe pensato più tardi. Ora non poteva perdere tempo.
Impiegò poco più di dieci minuti per giungere nei pressi della baia. Scorse un calesse libero e si avvicinò, i fiori protetti dal braccio sinistro che gli sfioravano la barba. Alla guida, un uomo leggeva distrattamente il New York Times, sfogliandolo con aria annoiata.
«Buon pomeriggio, signore», lo salutò Laszlo. Quello scostò gli occhi dalle pagine del quotidiano al suo viso, lo squadrò per un secondo e rimase in ascolto. «Potete darmi un passaggio fino a Brooklyn?», continuò il Dottore.
Il tono rude del cocchiere lo infastidì: «Dove, esattamente?»
«Green-Wood, per favore».
L'uomo lo fissò ancora e chiuse il giornale. Si alzò e lo poggiò con poca grazia sul sedile, così da potercisi accomodare sopra. «Salite, allora», comandò sgarbato e Laszlo, seppur innervosito, prese posto sul calesse.
Il cavallo che trainava il mezzo nitrì sonoramente nel sentire le redini schioccare e partì a velocità contenuta. Il padrone lo indirizzò verso il ponte che collegava Manhattan al quartiere di Brooklyn e presto fu invitato a correre. Laszlo si domandò se non avesse scelto il peggior cocchiere della zona: guidava come un folle, frustando il cavallo senza pietà non appena lo sentiva rallentare. Anche Stevie, a volte, si faceva strada nel centro cittadino in quella maniera, ma solo per questioni urgenti e non come abitudine. L'uomo in questione, invece, sembrava quasi godere nell'infliggere dolore al povero animale, che nitriva sofferente a ogni colpo ricevuto.
Si lasciarono il ponte alle spalle e sfrecciarono dall'altra parte di New York. Laszlo si sentì sballottato ora a destra ora a sinistra, a seconda degli angoli di svolta, e fu quasi tentato di urlargli di fermarsi. Temeva che le rose, con quella velocità, potessero sciuparsi e sarebbe stato davvero un peccato, oltre che una sconfitta personale. In più, la guida tremenda dell'uomo gli stava mettendo lo stomaco in subbuglio e ci mancava solo che, una volta sceso, vomitasse.
Dovette farsi forza per altri due isolati, prima di sentire il calesse rallentare. Quando fu fermo, Laszlo scese con passo instabile, sentendo la testa girare. Chiuse per un istante gli occhi, giusto il tempo di riprendersi, e scoccò un'occhiata truce al cocchiere, che solo in quel momento sembrò ricordare di doverlo informare che erano giunti a destinazione.
«Quanto vi devo?», gli chiese il Dottore a denti stretti. Non lo degnò di un altro sguardo.
L'uomo gli rivolse un sorriso sghembo. «Venti dollari», sibilò.
Laszlo non contrattò sul prezzo. Era un furto, visto che la corsa era stata breve e burrascosa, ma non aveva alcuna intenzione di perdere altro tempo con quel tipo. Perciò tirò fuori il portafogli e pagò per il tragitto. Gli tese una banconota e gli diede le spalle sussurrando un Arrivederci carico di rabbia, ma fu richiamato indietro.
«Ehi, signore», disse l'uomo, «non volete che vi aspetti?»
In altre circostanze Laszlo avrebbe chiesto di essere atteso, certo. Ma l'esperienza appena avuta e il tipo di persona con cui aveva avuto il piacere di interagire gli fecero scuotere la testa. Avrebbe preso un'altra carrozza una volta fatto ciò che doveva.
«No, vi ringrazio», gli rispose. Si voltò solo per educazione e lo vide stropicciare la banconota che gli aveva appena dato, un sorriso malevolo a stendergli le labbra.
Il cocchiere non replicò. Si limitò a girare il calesse e con un forte schiocco costrinse il cavallo a ripartire, lasciando Laszlo di fronte a un grosso cancello in ferro battuto. Il Dottore lo vide allontanarsi e svoltare al primo angolo, poi diede la schiena alla strada e fronteggiò il sentiero di terra polverosa che gli si apriva davanti. Attese un lungo minuto e infine varcò il cancello.
Green-Wood era bellissimo in quel periodo dell'anno. L'erba cresceva rigogliosa e gli alberi gettavano lunghe ombre a terra, creando ampie chiazze scure sul manto verde. Il sole del pomeriggio avvolgeva tutto in un pulviscolo dorato, facendo risplendere le lastre bianche che spuntavano dal terreno. Laszlo strinse più forte le rose e sentì il libro premere contro il torace: la quiete del cimitero e la sua bellezza rendevano quella visita ancor più dolorosa di quanto non fosse già.
Camminò lungo un sentiero che si inerpicava verso una bassa collinetta erbosa. Le lapidi scorrevano ai suoi fianchi a ogni passo, vegliando silenti su di lui: sembrava che lo sospingessero fino alla meta con un incoraggiamento muto che Laszlo non poteva far proprio. Più si addentrava nel cimitero, più sentiva il cuore farsi piccolo, i battiti cadenzati secondo una lentezza esasperante. Erano settimane che pensava a quel giorno, a come si sarebbe sentito, e finalmente lo sapeva; sarebbero potuti passare altri dieci, venti, trent'anni, ma in lui non sarebbe mai cambiato nulla. Il dolore era troppo forte, il ricordo della perdita vivido come non mai, scolpito nella sua mente come se il tempo non fosse mai trascorso.
Mentre continuava a camminare, gettò uno sguardo alle lapidi che sorgevano lungo il sentiero. Il marmo di alcune riluceva, pulito dalla cura di sconosciuti cari; in altri casi, l'incuria aveva avuto la meglio e sulle lastre erano spuntati muschi e macchie di muffa. Forse i parenti di quei defunti si erano estinti, si domandò Laszlo? Forse i morti erano stati dimenticati? Ma come si poteva dimenticare, se l'affetto era profondo, se l'amore era stato assoluto?
Per un attimo ebbe paura. Sarebbe potuto capitare anche a lui di lasciarsi alle spalle il passato? La vecchiaia o una malattia avrebbero soverchiato l'immagine di Mary, ancora fluttuante davanti ai suoi occhi? Il tempo gli avrebbe sottratto anche i ricordi, gli unici che ancora la tenevano in vita?
Scosse la testa e accelerò il passo. Le lapidi diventarono solo macchie bianche e grigie che si confondevano ai margini del suo sguardo, fisso sul sentiero. Non doveva farsi prendere dal panico, cercò di calmarsi. Forse l'ingiustizia della vita gli aveva portato via Mary, ma niente e nessuno sarebbe riuscito a cancellarla dalla sua mente. Nei suoi sogni – e perfino negli incubi – lei avrebbe continuato a esistere. E lì, forse, con un po' di sforzo, avrebbe potuto rifugiarsi anche lui.
Lasciò quei pensieri e si focalizzò di nuovo sulla realtà. Le rose emanavano un profumo intenso, che inspirò a pieni polmoni. Sapevano di momenti passati, di gioia appena accarezzata, di labbra carnose che toccavano le sue. Dai boccioli, invece, si levava una fragranza leggiadra. Si chiese se l'amore, quando nasceva, odorasse così nella sua tenerezza. Ah, che sciocco! Se John avesse saputo quali riflessioni lo tenevano occupato, probabilmente avrebbe riso di lui, rinfacciandogli di aver avuto sempre ragione a proposito dell'origine dell'amore. "Risiede nel cuore", gli aveva detto mesi prima, in una giornata di sole molto simile a quella. E Laszlo ricordava bene di aver scosso la testa, protestando che era solo un prodotto di reazioni chimiche nel cervello. Discorsi vani. Non importava più quale fosse la fonte di quel sentimento. Ormai sapeva che a far male erano entrambi gli organi.
Mentre il sentiero si faceva più ripido, scomparendo oltre la cima della collina, le lapidi iniziarono a diradarsi. Ce n'erano poche lungo quel tratto, quasi la morte avesse voluto dar sollievo alla pesantezza dei cuori degli avventori. Era una sorta di pausa, un preludio a ciò che si stendeva oltre la collina. I cipressi, però, abbondavano. Si ergevano come sentinelle di guardia e quando le loro cime appuntite si piegavano sotto l'alito caldo del vento, sembrava che si inchinassero al passaggio dei vivi, partecipi del loro dolore.
I passi di Laszlo divennero più lenti e pesanti. Si domandò in che percentuale fosse colpa dei mocassini bagnati e quanto, invece, la propria velocità non dipendesse dall'affanno che gli opprimeva il cuore. Doveva tentare di calmarsi, di respirare a fondo per liberarsi, poi, di tutti i pensieri che gli affollavano la mente. Ma ecco, aveva quasi raggiunto la sommità del colle, e di lì a pochi minuti i suoi occhi si riempirono di centinaia di lapidi, tutte ordinate in file parallele, scintillanti come neve al sole. Fu costretto a fermarsi: laggiù, tra i morti senza nome che riposavano sotto terra, dormiva anche Mary. Cercò di non pensare allo stato del suo corpo, alla decomposizione avanzata che le aveva di sicuro stravolto i bei tratti del viso, consumandole gli occhi dolci e le membra delicate. Provò, ma non ci riuscì. L'avrebbe sognata anche quella notte, ne era certo, e lei sarebbe andata a trovarlo pallida nel suo vestito mortale, costringendolo a un risveglio improvviso e doloroso.
Basta. Abbassò lo sguardo sulle punte delle proprie scarpe, ricacciò indietro le lacrime e si morse le labbra. Si accostò i boccioli di rosa al naso, ne inspirò ancora una volta il profumo e quando si sentì rassicurato riprese a camminare.
Il sentiero scivolava gradatamente verso il basso. Era una tortura: chiunque avesse progettato il cimitero, lo aveva fatto così che i parenti e gli amici dei defunti, scendendo lungo quel lato della collina, avessero sempre davanti agli occhi almeno una lapide bianca. Se pure qualcuno avesse voluto dimenticare la propria sofferenza, Green-Wood la teneva sempre viva con le lastre che spuntavano ovunque dall'erba.
Giunto in fondo, Laszlo si allontanò dalla strada principale per immettersi in una secondaria che portava quasi ai confini del cimitero. Si trattava di una zona per lo più adibita alla sepoltura di cittadini comuni, quella che un tempo qualche pezzo grosso dell'aristocrazia locale avrebbe definito plebaglia. In realtà, in quegli ultimi anni, avevano trovato posto in quel tratto di terreno anche personalità di spicco che si erano contraddistinte nel panorama culturale statunitense ed europeo e Laszlo era riuscito ad acquistarne una zolla non molto distante dalla tomba di Lorenzo da Ponte, il celebre librettista italiano che aveva collaborato con Mozart. Mary aveva amato la lirica, o almeno era ciò che lui immaginava, perciò aveva fatto di tutto affinché le spoglie della giovane donna riposassero accanto a quelle dell'autore di Le nozze di Figaro.
Camminò ancora per lunghi, silenziosi minuti. Le lapidi si susseguivano di nuovo senza sosta, occhieggiando dai margini del minuscolo sentiero polveroso. Laszlo si strinse un po' di più contro le rose, come se queste avessero potuto infondergli coraggio, e infine raggiunse la propria destinazione.
La lastra che aveva fatto apporre era più lucente di quanto non si aspettasse. I caratteri incisi nel marmo recavano il nome tanto amato; al contrario della pietra, bianca quasi in maniera innaturale, essi si erano scuriti a causa della polvere sollevata dal vento. Poco più sotto, poggiati a terra, c'erano dei fiori secchi che non avrebbero dovuto trovarsi lì.
Laszlo si guardò attorno con fare circospetto. Non c'era nessuno a parte lui nei dintorni né aveva incrociato anima viva lungo il cammino. E quei fiori, allora? Cosa significavano? Non era stato lui a deporli ai piedi della lapide: d'altronde, erano passate settimane dall'ultima volta che aveva fatto visita a Mary. Chi poteva essere stato? Forse Cyrus e Stevie, durante una delle loro ore libere, avevano fatto tappa a Green-Wood? Perché non dirglielo? Magari credevano di ferirlo, raccontandoglielo. Come se ci fosse stato qualcosa che avrebbe potuto addolorarlo più del pensiero di non poter più stringere tra le proprie braccia la donna che avrebbe voluto sposare!
Malgrado quelle riflessioni e la sorpresa provata di fronte a quel bouquet ormai smorto, Laszlo si avvicinò e sedette sull'erba, proprio accanto alla lapide. Ne accarezzò con riverenza i bordi, seguì il profilo delle lettere scolpite nel marmo e poi, dopo essersi baciato la punta delle dita, poggiò la mano contro la pietra. Lasciò aderire il palmo e sentì il freddo cozzare contro il proprio calore, come se le labbra gelide di Mary lo avessero sfiorato. Ritirò il braccio dopo qualche secondo e tolse i fiori vecchi dal terreno, sostituendoli con il mazzo comprato poco prima.
«Venticinque rose», disse a denti stretti, sussurrando nel vento che si era levato. «Non un numero casuale, Mary. Una per ogni tuo anno, una in più per gli anni che avresti compiuto oggi».
Sentì gli occhi prudere e si passò la mano sinistra sul viso. Premette le dita contro le palpebre e nel buio immaginò la ragazza sorridere di fronte a quel regalo speciale. Se solo fosse stata ancora lì con lui...
«Spero che ti piacciano», aggiunse, mentre sentiva un groppo annodargli la gola. «Ma non ti ho portato solo i fiori. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere sentir leggere qualcosa...»
Introdusse le dita nella giacca e ne tirò fuori il libro che aveva fatto tanta fatica a trovare. Se lo poggiò sulle ginocchia, lo soppesò con lo sguardo e poi parlò di nuovo: «Chissà se avevi finito di leggerlo o se invece ormai lo conoscevi a memoria. Purtroppo non l'ho mai saputo e immagino che non ne avrò mai più la certezza».
Fissò la lapide al proprio fianco e sembrò restare in attesa che da questa si levassero parole di conforto. Il marmo, però, non avrebbe mai potuto proferire una sola sillaba. Laszlo deglutì a vuoto e aprì il libro. Ne sfogliò qualche pagina, immaginando Mary seduta sul suo letto, in pieno giorno, o stesa tra le lenzuola, la sera prima di prendere sonno, tutta intenta a far scorrere lo sguardo sulle stesse frasi che stava percorrendo lui in quel momento. Capitolo uno, capitolo due, capitolo tre... Qualche pagina mostrava i segni di una lettura composta, fatta di piccole pieghe nell'angolo alto della pagina stessa, ma non c'erano altre tracce attribuibili al passaggio di Mary, non visibili, almeno. Laszlo sfogliò più velocemente, facendo scorrere tra pollice e indice decine di fogli straripanti di parole, poi...
Un grosso petalo secco catturò la sua attenzione. Cercò smanioso la pagina in cui lo aveva visto affiorare e quando l'ebbe trovata lo prese con delicatezza, sollevandolo contro la luce del sole.
Doveva essere un petalo di rosa, non dissimile da quelli che componevano le corolle che aveva appena deposto davanti alla lapide. Per quanto fosse stato schiacciato dal peso del romanzo e reso opaco dal trascorrere del tempo, sulla sua superficie erano ancora ben visibili le venature rossastre che una volta erano state colme di linfa bianca. Non profumava più, naturalmente, ma la morte sembrava aver bloccato il tempo catturando l'istante in cui il petalo aveva espresso il massimo della sua bellezza. Un po’ come era accaduto a Mary.
Laszlo lo adagiò di nuovo sulla pagina e nel farlo il suo cuore perse un battito. Si era appena accorto che alcune frasi erano state sottolineate: la traccia sottile della punta di una matita si sviluppava lungo una manciata di righe, come se quel passo avesse avuto una straordinaria importanza agli occhi della lettrice. Il Dottore non perse altro tempo: si sistemò meglio sull'erba, accostò il libro alla lapide e cominciò a bisbigliare ciò che i suoi occhi leggevano.

 

"So che dovrei essere felice, ma non lo sono. La mia vita è davvero confortevole, ma così silenziosa e priva di eventi che me ne stanco e vorrei lanciarmi fuori come fanno gli altri, e fare qualcosa, o almeno provare... Mi piacerebbe sapere qual è il mio dono", disse Rose.

"L'arte di vivere per gli altri con una tale pazienza e dolcezza che noi apprezziamo proprio come il sole, e non siamo comunque grati abbastanza per questa grande benedizione", disse Zio Alec.

 

Laszlo fissò ancora per qualche momento quello stralcio evidenziato. Lo lesse e lo rilesse fino a sentirlo marchiato nel proprio cervello e allora capì. Quelle due frasi dovevano aver significato tanto per Mary perché era Mary stessa quella descritta nella pagina del romanzo. Una giovane donna che, dopo aver passato un'infanzia travagliata, finalmente si ritrovava a condurre un'esistenza tranquilla, ma non per questo felice. Come avrebbe potuto esserlo? Lo diceva anche lo zio della protagonista: non era stata apprezzata abbastanza, la sua presenza non era stata considerata una benedizione finché non era scomparsa. Lui non le aveva mai manifestato apertamente la propria gratitudine, se non due giorni prima di vedersela scivolare via dalle mani.
Quanto era stato sciocco? Quanto era stato stupido nel non averle rivelato i propri sentimenti, nell'avere avuto paura che fosse tutto nella sua testa e non nella realtà? E ora? Cosa gli restava? Solo una lapide. La bianca lastra di marmo su cui avrebbe continuato a versare lacrime dense di rimorso.
«Dottor Kreizler?»
Una voce ben conosciuta lo costrinse a voltarsi e a chiudere di scatto il libro. Non fece in tempo ad asciugare gli occhi arrossati e mentre si girava si pentì di non aver provato a mascherare la propria sofferenza.
Sara Howard era a un paio di metri da lui e stringeva dei fiori tra le mani. Nel vederla, Laszlo scattò in piedi.
«Miss Howard», la salutò. La sua voce sfuggì distorta dalla gola, impastata com'era di dolore e rimpianto. «Siete l'ultima persona che mi sarei aspettato di incontrare venendo qui, oggi».
«Perdonatemi, se vi ho disturbato», si scusò lei in fretta. «Nemmeno io credevo che vi avrei trovato».
Laszlo tirò fuori da una tasca della giacca un fazzoletto di stoffa. Si girò verso la lapide, scacciò le lacrime e si soffiò il naso, poi tornò a rivolgersi alla ragazza.
«Come mai siete qui? Pensavo che la tomba di vostro padre si trovasse nella zona recintata, dietro la collina».
Sara annuì. «Infatti. Sono andata a fargli visita, ma il mio giro non è ancora finito». Gli si avvicinò di qualche passo, gli mostrò i fiori e continuò: «Sono passata per lasciare questi a Mary».
Ora che la giovane segretaria del Dipartimento di Polizia si era fatta avanti, Laszlo ebbe modo di studiare meglio la composizione floreale che aveva tra le mani. Si trattava di un corona dai colori sgargianti: c'erano boccioli gialli e arancioni, margherite bianche e tulipani screziati di rosa. Era un tripudio gioioso che Mary avrebbe sicuramente apprezzato, se solo fosse stata ancora in vita.
«Le porto sempre qualcosa, quando vengo a salutare mio padre», aggiunse ancora Sara. «È un'abitudine, ormai».
«Quindi i fiori secchi che ho trovato...?»
«Li ho presi la settimana scorsa, sì».
Il viso della ragazza era illuminato da un sorriso incoraggiante che Laszlo apprezzò molto. «Grazie, Sara», le disse sincero. «Avete avuto un pensiero molto bello».
Restarono in silenzio a guardarsi, poi Miss Howard lo superò e andò a inginocchiarsi accanto alla lapide. Depose di fronte alla lastra la corona, congiunse le mani e pregò a occhi chiusi sotto lo sguardo di Laszlo, che restò in piedi a osservare la scena.
Quando Sara ebbe finito, si rialzò e si lisciò la gonna. «Vi ho sentito leggere», gli disse. «Posso chiedervi cos'era, se non sono troppo indiscreta?»
Il Dottore si mostrò reticente in merito. Aveva l'impressione che pronunciare ad alta voce il titolo del romanzo equivalesse a profanare i pensieri intimi che avevano agitato la mente e il cuore di Mary. Perciò si limitò a mostrarle di sfuggita la copertina: «Un romanzo. Era il suo preferito».
Sara assentì con un cenno della testa. Laszlo si sarebbe aspettato un commento da parte sua, ma la ragazza non disse nulla.
 
«Oggi avrebbe compiuto venticinque anni», le disse. Non sapeva neanche lui perché glielo aveva rivelato, ma in fondo che importanza aveva? Miss Howard si era sempre comportata gentilmente con Mary e anche dopo la sua morte, facendole visita di tanto in tanto, continuava a dimostrarle affetto. 
«Non lo sapevo», rispose la ragazza. «Grazie per avermelo detto, Dottore».
Laszlo fece spallucce. «Venticinque... La conoscevo da quando ne aveva solo quattordici. È stata tra i miei primi pazienti, speravo che...»
Si interruppe. Il nodo alla gola si era stretto ancor di più. «Speravo che un giorno sarei riuscito a guarirla del tutto. Che sarebbe tornata a parlare».
Sara si pose al suo fianco e lo osservò abbassare lo sguardo, di nuovo inumidito. «Vi era devota, Dottor Kreizler. Avete fatto per lei tutto quanto era in vostro potere».
«Non abbastanza, non abbastanza».
«Ascoltatemi, Laszlo».
Rialzò lo sguardo su di lei, stupito. Era la prima volta che Sara lo chiamava per nome, rinunciando a qualsiasi formalismo. Vide nei suoi occhi un fuoco fatto di risoluzione, una fiamma ben diversa dall'alone spaurito che le aveva velato le iridi quando si erano confrontati e avevano parlato ciascuno del proprio passato, e ciò lo spinse ad ascoltare le sue successive parole con grande attenzione.
«Voi avete reso Mary felice come mai avrebbe potuto immaginare. Le avete dato una casa, una nuova vita, l'amore che meritava. E lei, allo stesso modo, vi ha donato tutta se stessa. Non lasciate che il passato vi travolga, non permettete che il dolore offuschi la gioia che vi siete regalati. Anche se la felicità vi dimentica un po', voi non dimenticatela mai del tutto. Non avete nulla da rimproverarvi né da perdonarvi: vivete nel presente e accettatelo. Mary non sarà più fisicamente con voi, ma resterà per sempre nel posto più importante, nell'unica casa che le spetta: il vostro cuore».
Laszlo la vide arrossire; Sara doveva aver sicuramente pensato di aver parlato con impudenza, ma  lui non era dello stesso avviso. Le sue parole avevano voluto conferirgli forza, avevano desiderato consolarlo come nessuno fino ad allora era ancora riuscito a fare.
«Vi amava incondizionatamente. Lo dimostrava con ogni singolo gesto, con lo sguardo, nel modo di camminare e di occuparsi delle faccende di casa. Quella mattina in cui ci ha preparato la colazione, il suo sorriso felice mi ha colpita. Doveva essersi alzata prestissimo per poter essere al quartiere generale con i manicaretti ancora caldi: quello non era forse un atto di amore?»
«Lo era, è vero», le confermò. «Ma anche allora sono stato così cieco... Volevo solo proteggerla, tenerla lontano dal male che stavamo affrontando, invece è precipitata nell'abisso proprio a causa...»
«Ha difeso la vostra casa senza alcun timore di ciò che sarebbe potuto accadere», lo interruppe Sara. «Si è sacrificata per voi. Per tutti noi. Ed è anche per questo che il suo ricordo non morirà mai».
Si studiarono per alcuni secondi, poi lasciarono vagare lo sguardo sulla lapide bianca che li osservava, muta proprio come la donna che voleva commemorare. I petali dei fiori vibrarono sotto il soffio leggero del vento e Laszlo ebbe l'impressione che a farli muovere fosse stato un sospiro di Mary.
«Per quanto non voglia dimenticare la felicità, la pena che provo per questo amore mai vissuto non mi abbandona, Sara», esalò. «Il senso di colpa, il rimpianto... Nessuno può capirmi più di voi».
«Ed è proprio per questo che vi dico di farvi forza e di guardare avanti», insistette la ragazza. «Usate questo dolore per fare del bene, Dottore. Continuate ad aiutare il prossimo come state già facendo; Mary non avrebbe mai voluto che la sua morte mettesse fine anche alla vostra vita».
Miss Howard non aggiunse altro. Salutò la lapide con un inchino appena accennato e si congedò da lui dopo avergli stretto la mano. Lo sguardo del Dottore la seguì mentre si allontanava e quando fu scomparsa dietro una curva del sentiero tornò verso il marmo scolpito.
Laszlo si asciugò un'ultima lacrima che stava per traboccare dalle sue ciglia. La raccolse con un dito, la studiò e poi la lasciò cadere a terra. La vide scivolare sui fili d'erba e penetrare nel suolo duro: avrebbe raggiunto la sua amata, ne era certo. Si accovacciò, poggiò ancora una volta le labbra contro le dita della mano e accarezzò il terreno. «Buon compleanno, Mary», sussurrò commosso. E mentre si rialzava, deciso a tornare a casa, sperò intensamente che quella lacrima potesse portare via con sé anche le pene alimentate dal suo amore perduto.

 

 

Note dell’Autrice
Il testo in corsivo è realmente tratto dal romanzo Rose in fiore. Quella che ho usato nella fiction è una traduzione libera dall’originale inglese.
Il titolo della storia si rifà alle celebri Pene d’amor perdute di Shakespeare, ma è stato stravolto di proposito in quanto la sofferenza del protagonista, ancora viva in lui, è causata dal suo amore perduto.

   
 
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