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Autore: AminaMartinelli    25/04/2019    5 recensioni
Il tempo passato dal salto di Sherlock dal tetto del St. Bart’s non ha lenito il dolore del dottor Watson, che si rende conto di non poter andare avanti senza il suo amato detective. Le cose sembrano volgere al peggio…ma spesso è meglio non fidarsi delle apparenze!
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fanfiction scritta per l’evento di Pasqua del gruppo “Johnlock is the way…And Freebatch of course!”
CANZONE PROMPT: “HOW CAN I GO ON” – FREDDIE MERCURY, MONSERRAT CABALLÉ
 
 
“Leave a note when”
Niente in lui riusciva ad accettarlo. La sua mente, il suo cuore, si chiudevano ermeticamente all’intrusione di quel pensiero, orribile e revulsivo.
“Leave a note when”
Saperlo, ora, non lo aiutava, anzi. Per giorni, per settimane, mesi, aveva avuto la certezza che niente e nessuno avrebbe mai più potuto aiutarlo. Tantomeno lasciare un messaggio di addio.
Per quel motivo non ne aveva scritto uno. Anche perché ci avrebbe scritto solo “How can I go on?”. Non una richiesta di comprensione, nessuna richiesta di perdono, solo una domanda retorica, un’affermazione, in realtà.
How can I go on? Come posso anche solo immaginare di vivere un altro giorno senza di lui? Ho provato, Dio mi è testimone, ho provato e fallito. Non posso andare avanti, non più ora che non c’è più lui a darmi forza.
Lentamente si avvicinò alla scrivania, con la stessa lentezza aprì il cassetto e ne estrasse la sua ultima amica, la vecchia amica che gli aveva permesso di salvare la vita a Sherlock, dopo solo un giorno dal loro primo incontro. Ora avrebbe salvato lui, da una sofferenza che non poteva più sopportare, da una domanda senza risposta che martoriava la sua mente, dall’immagine del volo di un angelo senza ali che tormentava i suoi giorni quanto le sue notti.
Con la medesima deliberata lentezza portò la bocca di fuoco a contatto con la sua tempia sinistra e lasciò che il suo indice si contraesse sulla virgola di metallo che avrebbe decretato la sua fine, la fine del suo dolore.
In un attimo fu il buio. Poi più nulla.
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“Te lo avevo detto che sarebbe stata una buona idea sostituire i proiettili con le pallottole a salve”
“Tu dici tante cose, Victor, e ascoltare i consigli di un senzatetto non è esattamente il mio sport preferito”
“Ma avevo ragione”
“Ok, ok, un bell’applauso, sei contento ora? Mi aiuti a portarlo a casa?”
“Uffa, sai di essere noioso, vero?”
“Lo so. E tu sei un bugiardo”
“Perché?”
“Perché avevi promesso di raccontarmi la tua storia: come un brillante studente di Cambridge è diventato un giovane senza fissa dimora, che vive di elemosine. Ma continui a custodire il mistero”
Victor si rabbuiò, prima di rispondere “Sistemiamo John, avvisiamo Mycroft e poi giuro che ti racconterò tutto, ok?”
“Ok, muoviamoci”
L’ispettore Lestrade sollevò John per le spalle, mentre Victor lo afferrava dai piedi. Non senza fatica lo portarono fuori e lo adagiarono sul sedile posteriore dell’auto di Greg.
“Ti rendi conto che se qualcuno ci vedesse avremmo un bel po’ di spiegazioni da dare, vero?”, sbuffò l’ispettore.
Victor fece un sorrisetto e scosse le spalle con noncuranza.
“Fifone…”
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Nel salotto del lussuoso appartamento di Pall Mall, Mycroft Holmes lanciò uno sguardo ostentatamente indifferente dal bordo del tumbler da cui sorseggiava il suo liquore preferito.
Appariva più rilassato di quanto in realtà fosse, seduto nella sua poltrona, le lunghe gambe incrociate, le ciglia ramate a nascondere l’interesse con cui osservava ogni dettaglio dell’attraente uomo in piedi davanti a lui.
La determinazione che vibrava nella voce dello yarder, mentre gli illustrava la situazione, gli aveva inviato più di un brivido lungo la schiena, ma non poteva lasciare che nulla di tutto ciò trapelasse da lui.
 
“E io cosa dovrei fare, secondo lei?”
“Farlo ricoverare in una di quelle cliniche per ricconi in riabilitazione e sottoporlo alle cure di uno strizzacervelli veramente bravo, se non vogliamo che ci riprovi…”
“E noi non vogliamo…?”
“MYCROFT!”
“Si calmi, Ispettore. Non dubiti: il dottor Watson avrà le migliori cure”
“Lo so, Holmes, perché me ne accerterò personalmente e sappia fin d’ora che non le conviene deludermi”
“È coraggioso a minacciarmi, Ispettore Lestrade…”
Greg lo squadrò con intenzione, poi gli voltò le spalle e si allontanò mentre replicava…
“Non è una minaccia. È una promessa”
Mentre si allontanava avvertì due laser grigio-azzurri accarezzargli la nuca e poté quasi percepire il suono dell’incresparsi delle labbra di Mycroft in un malizioso sorriso.
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“Quindi, amico mio, ora siamo solo tu ed io. - la cupa figura in abiti dell’esercito serbo tolse i piedi dal tavolo e si avvicinò all’uomo, nudo, appeso per i polsi alle catene che pendevano dal soffitto – Non hai idea di quanto sia stato difficile trovarti”
Afferrò i capelli del prigioniero e li tirò, per sollevargli la testa, poi gli sussurrò nell’orecchio.
“Adesso ascoltami. Mi dispiace, ma la tua vacanza è finita, fratello caro. Devi tornare a Baker Street, Sherlock Holmes”
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“Vivo?”
“Vivo. Più di te e me messi insieme, non che ci voglia molto”
L’ispettore digrignò i denti.
“Maledetto bastardo!”
“Non è stata una sua idea, a sentire Myc non c’era alternativa: Moriarty avrebbe ucciso tutti i suoi amici, compreso te”
“Questa storia è così assurda…”
“Questa storia è Sherlock, averlo nella propria vita ha un costo, o accetti di pagarlo o rinunci a lui”
“Tu hai rinunciato a tutto”
Victor emise un sospiro lungo quanto la sua vita.
“La mia è una storia diversa”
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Sul jet due occhi acquamarina in tempesta scrutavano le nuvole che scorrevano veloci sotto di loro, eppure sembravano ferme. Quel viaggio era infinito, l’aereo non sembrava intenzionato a raggiungere la propria meta e lui non ne poteva più, perché suo fratello lo aveva obbligato a tornare, dandogli vaghe informazioni su una missione di importanza vitale.
Ma Sherlock aveva la certezza che gli nascondesse qualcosa, qualcosa che non era sicuro di voler scoprire…
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“Come sta?”
Le luci fredde del corridoio della clinica rendevano ancora più pallido il viso di Victor, quando lo sollevò per rispondere all’Ispettore Lestrade.
“Sotto sedativi così potenti da stendere un cavallo. Quindi bene, per così dire”
“E il colpo alla nuca?”
“Una lieve commozione, niente di serio, ma lo monitorano in continuazione…Mycroft ha fatto un buon lavoro”
“Meglio di quello che ha fatto con te”
“Lasciamo stare, Greg, non è il momento, e poi, in fin dei conti allora non ebbe scelta”
“Questo è da vedere, ma hai ragione tu: non è il momento. Notizie del nostro amico?”
Un attimo di impercettibile tristezza velò lo sguardo di Victor, che si affrettò ad abbassare di nuovo la testa.
“In volo verso casa”
Greg sollevò le spalle e si appoggiò al muro, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo.
“Ottimo”
“Già, fantastico”, la nota di sarcasmo non sfuggì all’ispettore.
“Hey, non significa che tu debba per forza tornare nei panni dell’Uomo Invisibile…”
Victor si passò una mano sul viso stanco, poi diede una piccola gomitata nel fianco di Greg.
“Non temere: non ti libererai di me tanto facilmente”
L’ispettore sorrise, nonostante fosse anche lui così stanco che si sarebbe volentieri lasciato scivolare lungo il muro fino a sedersi sul pavimento.
“Ci conto”
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Rasato di fresco, indossata una camicia bianca, le schermaglie con Mycroft gli sembravano un prezzo minimo da pagare, per essere di nuovo a Londra, di nuovo in gioco. Non mancava che riprendere al suo fianco il suo Boswell, non aspettava altro, e l’impazienza cominciava a renderlo insofferente.
“Stavo pensando di farmi recapitare a Baker Street in una torta e poi saltare fuori. Sarebbe una bella sorpresa, non credi?”, il sarcasmo era l’unica armatura che lo facesse sentire al sicuro: gli garantiva la solitudine, e lo proteggeva dal complesso d’inferiorità, intellettiva nei confronti di suo fratello, emotiva nei confronti del resto dell’umanità. Un solo uomo non era scappato, di fronte al mostro meccanico, pieno di taglienti sporgenze, che fingeva di essere. Un solo uomo lo aveva voluto, nonostante tutto, vicino tutti i giorni, negandogli la solitudine e facendogli scoprire la forza dell’amicizia e, ancor più, la potenza dell’amore.
“Baker Street? Ma lui non sta lì”
Si volse con cautela verso Mycroft, che lo osservava pur fingendosi intento nella lettura del “Dossier Watson”.
“No?”
In quel momento Anthea entrò porgendogli il fedele Belstaff.
“No, fratellino. Per questo sei qui. Seguimi”
Il bel volto pallido si incupì per un istante, poi tornò impassibile, le sopracciglia aggrottate come unico segno di ansia, tutti i suoi sospetti si stavano concretizzando: non lo avevano fatto tornare in Patria per una missione di stato. Cominciava a pensare che stavolta sarebbe stato cliente di se stesso.
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Quando la berlina nera prese la Fulham Road, Sherlock sentì il sangue gelarglisi nelle vene: sapeva bene che quella strada portava alla clinica che tante volte lo aveva visto dare il peggio di sé. All’altezza del 369 il suo cuore perse un battito, ma la macchina proseguì, facendo il giro dell’isolato. Per un attimo sperò di essere stato pessimista, ma giunti sul retro si fermarono.
Vide l’autista scendere per andare ad aprirgli lo sportello e avvertì, pur senza voltarsi a guardarlo, gli occhi di Mycroft puntati su di lui. Nessuno parlò.
Il detective scese tanto lentamente da sembrare una ripresa alla moviola. Una volta in piedi, appena fuori dall’auto, con lo sportello ancora aperto, si trovò con gli occhi all’altezza di quelli di Oscar e fu il dolore e la compassione che vi lesse a trafiggerlo come una lama, a spaventarlo più di mille soldati serbi, a gettare il caos nel suo palazzo mentale: la peggiore delle previsioni, l’unica che aveva rifiutato di considerare, che aveva relegato nel fondo della sua coscienza, si stava rivelando l’unica reale.
Si avviò verso l’entrata di servizio, lasciata aperta solo per lui, camminando come un sonnambulo, aspettando di svegliarsi da un momento all’altro.
Ma non fu così. Un inserviente lo aspettava per condurlo all’ascensore riservato al personale, per scortarlo all’ultimo piano. Quando la porta d’acciaio si aprì si trovò davanti un lungo corridoio di cui solo l’ultima porzione era illuminata. Fece un passo per uscire dalla cabina e sentì l’ascensore richiudersi alle sue spalle. Non si voltò, però, perché i suoi occhi, i suoi sensi, tutta la sua attenzione fu catalizzata dalla figura familiare che si avvicinava a passo spedito.
Già a metà corridoio aveva riconosciuto Lestrade, ma non era comunque riuscito a muovere un solo muscolo. Nessuna parte del suo corpo sembrava intenzionata a muoversi, incapace di prendere una qualsiasi iniziativa, dato che la mente non stava inviando segnali concreti, nulla di comprensibile, nulla che potesse tradursi in un movimento che avesse senso.
Quando Greg lo raggiunse, lo afferrò per le spalle e lo strinse. Appena in tempo, perché le gambe di Sherlock, stavano per cedere. Aveva affrontato criminali di ogni genere, armi puntate contro di lui, proiettili che fischiavano a pochi millimetri dalla sua testa, terreni minati, prigionie e torture, ma niente, NIENTE, gli aveva instillato il terrore che ora stava provando, niente era paragonabile allo scenario che la sua mente stava allestendo.
Si ritrovò stretto nell’abbraccio soffocante dell’ispettore, sentì, in quell’abbraccio, tutto l’affetto e l’amicizia profonda che lo yarder provava, da sempre, per lui. Non che non ne fosse consapevole, ma l’aveva sempre data per scontata e si era concesso il lusso di fingere di ignorarla. Ora gli sembrava, allo stesso tempo, un porto sicuro e l’ancora che, impigliatasi chissà come alla sua caviglia, lo trascinava giù, nell’abisso della sua paura più grande.
“Dai, ti porto da lui”
Un suono strozzato, un singhiozzo spezzato, gli uscì dalla gola contro il suo volere, e risuonò nel corridoio come il grido soffocato di un animale ferito. Lestrade, che gli teneva un braccio intorno alle spalle, sussultò.
“Hey, non fare così”, non poteva immaginare che Sherlock, conoscendo bene quella clinica, sapeva che l’ultimo piano era quello dell’obitorio. Sentì il tremore di quel corpo sottile, stretto contro il suo fianco, farsi sempre più forte. Avvertì il tentativo di Sherlock di fermarsi davanti alla porta della sala settoria, ma non ci fece caso e continuò ad accompagnarlo, sostenendolo, verso la fine del corridoio, benché il suo amico avesse inclinato il capo verso di lui e lo fissasse sconcertato.
Giunti davanti alla stanza in cui John era ricoverato, si fermarono e, con un piccolo sorriso d’incoraggiamento, Greg lo sospinse verso la porta socchiusa, ma a quel punto il tremito che attraversava il corpo del detective si era fatto incontrollabile. La sua mente, preparatasi alla visione di Watson su un tavolo anatomico, non riusciva a connettere, era nella confusione più totale, in cui tentava di farsi spazio un solo pensiero: ‘non è morto’.
Solo in quel momento Greg capì l’equivoco e gli prese il viso tra le mani:
“Ascoltami: non è cosciente, è imbottito di farmaci di ogni genere, ma sta bene. I dottori volevano solo assicurarsi che non ci riprovasse”
Sherlock gli rivolse uno sguardo vacuo:
“Che non ci riprovasse…”, ripeté come una piccola eco.
L’ispettore lo accompagnò dentro la stanza, ma lui rimase immobile, con gli occhi fissi sul letto in cui giaceva John, pallido come non lo aveva mai visto. Sembrava un bambino, sotto quelle coperte, il ciuffo biondo spettinato, gli occhi chiusi, le labbra curiosamente atteggiate in un piccolo, adorabile broncio.
Greg avvicinò una sedia e dovette quasi costringerlo a sedersi.
Sherlock serrò le mani in grembo, in un disperato tentativo di mantenere il controllo, poi parlò con voce atona:
“Ha – tentato – ha…”
Lestrade gli posò una mano su una spalla e strinse appena.
“Sherl…avevamo perso tutti la voglia di andare avanti, dopo…dopo, beh, lo sai. Immagina cosa dev’essere stato per lui”
“Come…”
“Questa è una storia troppo lunga per raccontartela ora. Stai un po’ qui con lui. Poi risponderò alle tue domande”
I ricci corvini ondeggiarono appena, quando Sherlock annuì debolmente.
Gregory lasciò un’altra piccola stretta di conforto sulla spalla ossuta del suo amico.
“Sono qui fuori”, sussurrò, poi uscì silenziosamente, accostando con cautela la porta per non fare rumore.
Meccanicamente, Sherlock prese la mano di John fra le sue e semplicemente la tenne così, quasi volesse nasconderla…se avesse potuto lo avrebbe nascosto tutto.
Qualcosa dentro di lui gridava che nessuno avrebbe dovuto avere il diritto di vedere John, il suo John, in quelle condizioni: così fragile, debole, così indifeso!
Come si permettevano, gli occhi del mondo, di posarsi su quel viso cereo, su quelle ciglia bionde che parevano non volersi più sollevare?
Un pensiero lo colpì, come un pugno allo stomaco, facendolo piegare in due, la fronte sulle sue mani avvolte attorno a quella di Watson: se John fosse riuscito nel suo intento quelle ciglia non si sarebbero davvero più sollevate, e sarebbe stata solo colpa sua, sua e del folle piano congegnato con Mycroft per simulare il suo suicidio. Colpa sua e della sua ostinazione a non mettersi in comunicazione con John finché l’operazione di smantellamento della rete criminale non fosse conclusa.
Si era dato la più logica delle spiegazioni, per tutto quel tempo: facendolo avrebbe rischiato di mettere di nuovo in pericolo tutti i suoi amici, il dottor Watson per primo, e tutto sarebbe risultato inutile.
Ma con se stesso non poteva fingere: non aveva contattato John per fargli sapere che era vivo perché aveva paura della sua reazione, per questo aveva continuato a rimandare e, col passare del tempo, era diventato sempre più difficile.
Cosa ne sarebbe stato di lui se John fosse morto? La sua mente tentò subito di allontanare quel pensiero, ma non ci riuscì e quello gli si insinuò sotto la pelle, dentro le ossa, facendolo tremare come se un vento gelido avesse invaso la stanza.
Sapeva bene che senza di lui non sarebbe riuscito ad andare avanti, non avrebbe potuto sopportare l’odiosa condanna a vivere senza il suo conduttore di luce, senza il suo blogger…senza il suo amore. Aveva sempre pensato che il sentimento fosse un difetto chimico che ti rende un perdente. Ora ne aveva la conferma, ma aveva anche scoperto che il sentimento che legava loro due non era una debolezza, anzi, era l’unica speranza per lui di sentirsi forte, sicuro, protetto. No. Senza il suo John non gli sarebbe stato possibile continuare a vivere.
Questa consapevolezza lo frustò con una violenza cento volte superiore a quella dei torturatori serbi, perché ebbe l’esatta percezione di quello che John aveva provato, la devastante disperazione che lo aveva spinto al tentare il suicidio.
Non si accorse che Greg era rientrato nella stanza finché non ne sentì di nuovo la forte presa sulla spalla.
“Adesso dobbiamo andare, torneremo domani”
Scosse energicamente il capo, restando in silenzio.
Ma le mani dell’ispettore non gli lasciarono scelta, forzandolo con dolcezza a mettersi in piedi, ad allontanarsi di un passo dal letto. Lestrade posò una mano su quelle, gelide, del suo giovane amico, determinate a non lasciar andare quella di Watson, con l’altra lo costrinse a voltare il viso e guardarlo negli occhi.
“Ti capisco, ma dobbiamo andare…”
Il dolore che lesse in quegli occhi gli strinse il cuore come una morsa.
Sherlock serrò le palpebre con forza, poi poggiò con delicatezza la mano di John sulla coperta, sfiorandone il dorso col pollice, in una piccola carezza.
Si lasciò docilmente guidare dall’ispettore fuori da lì, ma la sua mente e il suo cuore erano rimasti in quella stanza.
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“Non posso presentarmi a lui, come fai a non capirlo!”
Il detective misurava la stanza a passi tanto lunghi e disperati da arrivare in un attimo da una parete all’altra. Si passava nervosamente le dita tra i capelli, gesticolava più di quanto avesse mai fatto in vita sua.
Greg aveva lasciato che si sfogasse per un po’, ascoltando le sue riflessioni ad alta voce senza rispondere, tanto lui non lo avrebbe neanche sentito. Ma ora poteva bastare.
Pur non essendosi mai trovato in una situazione tanto assurda, riusciva a capire le paure del suo amico e quanto impossibile gli sembrasse poter tornare ora nella vita di John. Anche lui avrebbe voluto che ci fosse stato altro tempo, un altro modo, ma gli psichiatri erano stati chiari: lo stato depressivo del dottor Watson non sarebbe regredito a meno di eliminarne la causa scatenante. E la causa scatenante era stata l’aver perso Sherlock, quindi riaverlo con sé era l’unica soluzione.
“Lui ha bisogno di te.”
“Come di un cancro.” , rispose con la voce spezzata, e smorzata dalle mani che aveva portato a coprirsi il viso.
“Sai che non è vero. Deve sapere che sei vivo, ne va della sua vita.”
“Durerà poco, perché mi ucciderà con le sue stesse mani”
“No. Sarà sconvolto, incredulo, poi si arrabbierà moltissimo e ti riverserà addosso tutto il dolore e la disperazione che ha provato, ma ti perdonerà, lo sai perfettamente.”
Lestrade aveva appena espresso la sintesi esatta di ciò che sarebbe successo, Sherlock lo sapeva. E sapeva anche di non potersi sottrarre alla prova più dura della sua vita.
In silenzio uscì dalla stanza e scese le scale, seguito da Greg. Afferrò il cappotto, lo indossò in un solo, fluido gesto, inspirò a fondo e uscì.
La berlina nera che li aspettava lo fece sussultare. Si voltò verso l’ispettore per protestare, ma un gesto di Greg lo fermò.
“Non vuoi mai andare con la mia, un taxi non è proponibile, quindi ho chiesto a Mycroft di prestarci Oscar…qualcosa in contrario?”
Il viso di Sherlock si rilassò, ma rimase serio.
“Basta che non ci sia anche lui”
Gregory alzò gli occhi al cielo e sbuffò mentre spingeva con gentile fermezza, come faceva con i giovani e sprovveduti delinquenti che gli capitava di arrestare, il suo amico dentro la lussuosa auto. Salì a sua volta, ignorando la fitta di tristezza che sempre gli provocava l’astio tra i due fratelli Holmes, entrambi cari al suo cuore, anche se in modo totalmente diverso.
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“Hanno detto che è sveglio, ancora un po’ stordito dai medicinali ma sta bene. Ha già fatto alcune sedute di psicoterapia, anche se non sembra proprio interessato. Vado a parlargli, poi ti faccio entrare, ok?”
Sherlock ebbe solo la forza di annuire. La testa gli girava e non si era mai sentito così debole, nemmeno durante le peggiori crisi di astinenza.
Aveva immaginato infinite volte il momento in cui sarebbe tornato e si sarebbe ripresentato davanti a John. Aveva previsto mille scenari diversi, dal luogo in cui farlo, a cosa gli avrebbe detto, a come lui avrebbe reagito; aveva optato per un modo spiritoso, quasi fosse un gioco. Sarebbe stato folle e divertente, John si sarebbe sicuramente infuriato e forse non gli avrebbe rivolto la parola per un po’ di tempo, ma poi tutto sarebbe tornato a posto, e sarebbero stati di nuovo loro due, contro il resto del mondo.
Aveva immaginato di tutto, ma nemmeno nel più spaventoso degli incubi avrebbe mai potuto prefigurare una situazione come quella, un ritorno così angosciante.
Il sussurro di Greg lo riscosse dai suoi pensieri.
“Coraggio, amico mio, io resto qui fuori, per ogni evenienza…”
Ancora una volta Sherlock poté solo annuire, poi entrò piano nella stanza.
John era seduto nella poltrona accanto alla finestra, lo sguardo perso nel tramonto londinese.
Il detective tentò inutilmente di fermare il tremito che si era impossessato delle sue mani, intrecciandole dietro la schiena.
“John…”, si accorse che le mani non erano le sole a tremare.
Watson raddrizzò di scatto le spalle, immediatamente sulla difensiva, poi rimase immobile.
“Sono io, John…”, che sciocchezza! Era ovvio che il dottore aveva riconosciuto la sua voce, per quanto flebile e tremolante, ma la vulcanica mente del detective, in quel momento, non era in grado di formulare pensieri e frasi brillanti.
Watson si girò verso quella voce muovendosi al rallentatore. Nonostante si sentisse intorpidito, tutti i suoi sensi erano improvvisamente allertati e la sua mente stava cercando di capire cosa stesse succedendo.
Quando i loro sguardi si incontrarono, nella penombra della stanza, Sherlock vide gli occhi di John spalancarsi, poi serrarsi, mentre il viso gli si contraeva in una smorfia di dolore e angoscia.
“Ora mi tormenti anche da sveglio? Non ti basta infestare i miei sogni? Sparisci, maledizione! Mi mancavano solo le allucinazioni! Dio! Sto impazzendo…”
John nascose il viso nelle mani e si piegò su se stesso.
Sherlock fece un passo in avanti.
“Non sono un’allucinazione…sono qui, sono vivo”, la sua voce era poco più di un sussurro.
John rialzò la testa, lo guardò per un istante poi urlò “Greg!”.
L’ispettore entrò immediatamente nella stanza.
“Greg, chiama un medico, sto avendo un’allucinazione…”
Sherlock si voltò verso Lestrade e fece per uscire dalla stanza, ma lui lo afferrò per un braccio e lo trattenne.
A quel gesto John chiuse gli occhi, poi li riaprì, colmi di lacrime.
“Lo – vedi anche tu?”
Si alzò a fatica, facendo leva sui braccioli della poltrona. Sentì le gambe cedere e afferrò la sponda del letto per riuscire a rimanere in piedi.
Greg e Sherlock si mossero all’unisono, per aiutarlo, ma lui li scacciò entrambi.
“Non sei morto”
Sherlock scosse il capo, senza parlare, anche se John non lo stava guardando.
“E tu lo sapevi…”
Lestrade si passò una mano sul volto, era esausto.
“L’ho scoperto solo due settimane fa”
Greg si avvicinò a John e lo costrinse a guardarlo negli occhi
“John, non hai bisogno di un medico, quello è Sherlock, è vivo, è tornato per te!”
Watson sembrò calmarsi improvvisamente, come se tutta l’assurdità di quella situazione si fosse dissolta in un attimo.
Si avvicinò al comodino, aprì il cassetto, ne estrasse qualcosa e si voltò Sherlock.
“Hai ragione, Greg – disse con voce atona – ho solo bisogno di risolvere un problema…il problema finale”
Alzò il braccio e Sherlock si trovò nel mirino di un enorme revolver.
“John, smettila, capisco che vuoi farmela pagare ma ora può bastare, abbiamo cose più importanti”
Ma il dottor Watson non batté ciglio.
Sherlock allora si voltò verso Greg per farsi aiutare, ma rimase paralizzato e ciò che vide gli gelò il sangue: l’ispettore aveva sul viso un ghigno sadico.
Il detective stava per dire qualcosa quando Mycroft entrò nella stanza.
“Allora, dottore, cosa sta aspettando? Perché non ha ancora premuto il grilletto?”
Sherlock spostava lo sguardo da uno all’altro dei tre, incredulo.
John annuì rapidamente e rispose: “Vero, Mycroft, sto perdendo tempo…”
Puntò meglio l’arma verso la testa di Sherlock e fece fuoco.
L’esplosione nella sua mente fu l’ultima cosa che sentì.
“Sherl, hey, calmati amore, che succede? Calmati, calmati…hai avuto un incubo?”
Le braccia protettive del suo uomo lo strinsero quasi a nasconderlo, perché nessuno doveva vedere il suo coraggioso detective in quelle condizioni.
Sherlock tremava violentemente, i riccioli scuri incollati alla fronte dal sudore.
John gli carezzava la schiena e il collo, sussurrandogli dolci parole per farlo calmare.
La luce dell’alba filtrava dalle tende e raggiungeva il letto, posandosi delicatamente ad illuminare le palpebre ancora chiuse del detective.
Piano piano aprì gli occhi e li alzò verso John, colmi di lacrime.
“È…era solo un incubo…”
“Sì, amore mio, va tutto bene”
Sherlock si strinse forte al suo uomo e poggiò la fronte sul suo petto.
“Puoi dormire ancora un po’, se vuoi”, disse John.
“No - la voce di Sherlock uscì flebile – voglio stare così, tra le tue braccia”
“Va bene, tranquillo”
John gli baciò i capelli, poi gli prese il mento con una mano e gli fece sollevare il viso. Abbassò lentamente il capo fino a far combaciare le loro labbra. Il calore di quel bacio sciolse il gelo che l’incubo aveva instillato nelle vene di Sherlock, che sorrise sulle labbra di John e rispose al bacio con tutto se stesso.
   
 
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