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Autore: Roscoe24    26/04/2019    5 recensioni
"Magnus si chiese se il fatto che nel giro di nemmeno un’ora, quella fosse la seconda volta che rimanevano incantati a fissarsi, potesse avere un significato. Forse poteva sperare. Ma in cosa?"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Isabelle stava seduta nel suo ufficio a controllare la contabilità della palestra. Aveva appena aperto il libro dove teneva registrati tutti i movimenti economici, quando qualcuno entrò senza nemmeno bussare. Isabelle avrebbe dato per scontato che fosse uno dei suoi fratelli – avrebbe puntato su Jace, che sapeva essere particolarmente irruento – ma quando alzò lo sguardo, realizzò di aver ipotizzato male. Chi le stava di fronte, infatti, con una punta di panico negli occhi altro non era che la sua collega e amica Aline Penhallow. Di origini cinesi da parte di madre, Aline era una ragazza capace, dedita al suo lavoro e con un carattere buono. Era gentile, con una simpatia genuina che veniva fuori soprattutto quando prendeva confidenza con le persone.  Lei ed Izzy lavoravano insieme da tre anni e non ci era voluto molto per diventare amiche, se non altro perché Isabelle aveva un carattere molto aperto che aveva portato Aline ad aprirsi nello stesso modo.
Capitava spesso che la ragazza piombasse nell’ufficio di Isabelle – sebbene ne avesse uno suo anche lei – durante le ore morte della palestra, o nelle pause pranzo, ma mai, mai, nelle ore dove la palestra pullulava di persone.
“È qui, Izzy, lei è qui!” La ragazza si fece aria al viso arrossato con le mani.
“Intendi Helen?”
Aline annuì con convinzione. “Mi sento una scema ogni volta che mi fa qualche domanda. Lei si avvicina, io inizio a sudare e mi dimentico come si parla.”
“Non capisco perché diventi tanto nervosa. È chiaro come il sole che le piaci.”
“La fai facile tu, sei la femme fatale perfetta! Qualcuno ti ha mai rifiutata?” La voce di Aline salì di un’ottava, mentre si lasciava prendere un tantino dal panico. Gli ultimi appuntamenti che aveva avuto erano stati un disastro e fare la prima mossa la rendeva sempre particolarmente nervosa.
“Certo che mi hanno rifiutata. Succede a tutti.” Isabelle si alzò dalla sua scrivania e si diresse verso l’amica. Le posizionò le mani sulle spalle e le sorrise. “Sei una bellissima ragazza e sei gentile. Helen non viene qui perché le piace la palestra, viene qui per te. Una volta è venuta a chiedermi di te e quando le ho detto che non c’eri, lei ha fatto qualche esercizio e se n’è andata. Quando ci sei tu rimane ore intere. È un segno, Aline. Le piaci un sacco.”  
Aline deglutì rumorosamente. “Non riesco a parlarle. Ha degli occhi così belli.... Come faccio a rimanere concentrata, come?” 
Isabelle sorrise, intenerita. “Non devi essere concentrata, devi essere te stessa. Ti accompagno di là e poi vai a salutarla, d’accordo? Agli altri clienti oggi ci penso io, almeno potete parlare un po’.”
Se riesco a parlarle.”
“Ci riuscirai. Forza, andiamo!” Isabelle fece voltare l’amica verso la porta e insieme la varcarono per dirigersi nella sala allenamento.


Nella sala piena di attrezzi trovarono Alec e Jace. I due si stavano allenando sul ring, piazzato al centro della palestra, in un incontro di boxe che era diventato ormai tradizione. Almeno una volta a settimana, infatti, i due andavano da Isabelle e si sfidavano. Tenevano anche il conto delle vittorie e chi, a fine mese, aveva subito più sconfitte doveva pagare da bere all’altro.
Isabelle si avvicinò con Aline al ring e salutò i suoi fratelli. “State facendo un incontro pulito, o devo controllarvi come dei bambini?”
Aline sorrise, divertita, mentre i due interessanti si scambiarono un’occhiata.
“Mai stati più onesti di così, sorellina.” Rispose Jace, sfoggiando un sorriso tutto paradenti. “Ciao Aline!” la salutò e la ragazza rispose alzando una mano. Salutò anche Alec, che rispose al suo saluto alzando una mano coperta dal guantone.
“Com’è andata con i tuoi?” Le domandò, il paradenti che gli impediva di parlare correttamente. Izzy salì sul ring e si avvicinò ai due, togliendo il paradenti ad entrambi e appoggiandoli negli appositi contenitori, ai rispettivi angoli del quadrato.
“Grazie.” Le dissero all’unisono, poi Alec prestò di nuovo attenzione ad Aline. Essendo amica di Isabelle, aveva legato anche con i suoi fratelli, tanto che era stata invitata al compleanno a sorpresa di Alec a cui, però, non era potuta andare perché i suoi genitori erano in città e volevano cenare con lei. Aline era figlia di diplomatici che spesso viaggiavano per il mondo.  Il giorno successivo alla festa, Aline aveva mandato un messaggio ad Alec, dicendogli che le era dispiaciuto non aver potuto partecipare e sperava che fosse andato tutto bene.
“Bene, sono sempre i soliti. Parlano di lavoro e di trattati di pace e ignorano completamente la mia vita.” La ragazza fece spallucce, abituata al comportamento dei genitori. “Come se la loro mancanza di interesse non fosse un chiaro segno di disapprovazione.” Aline agitò una mano, come se volesse scacciare quel discorso. “Lasciamo perdere. Chi vince?”
Alec la capiva. Lui ed Aline si erano ritrovati a parlare più di una volta. Genitori che non approvavano il suo orientamento sessuale, ne il modo in cui aveva scelto di guadagnarsi da vivere. Quel genere di disapprovazione silenziosa fatta di sguardi freddi e parole di circostanza, come se si stesse parlando con un estraneo e non con un genitore. Non era proprio il massimo, ma Alec capiva anche perché Aline avesse voluto scacciare l’argomento. Faceva male, nonostante tutto. Nonostante il tempo e il supporto che si può ricevere da altre persone.
“Io.” Rispose, quindi concentrandosi solo sull’ultima domanda. Jace, però, aveva risposto la stessa cosa nello stesso momento. Avevano parlato all’unisono, convinti di quello che affermavano, di conseguenza diedero il via ad un battibecco tipicamente fraterno, costellato di bonarie prese in giro. Isabelle, rimasta in silenzio fino a quel momento, scese dal ring e tornò dall’amica.
“Ignora questi due, hai una cosa da fare.”
“Parlare finalmente con la ragazza dalla treccia?” si intromise Jace e Alec gli diede una gomitata. “Che c’è?” Gli disse e l’altro gli riservò un’occhiataccia che stava a significare perché non ti fai gli affari tuoi?
Isabelle, dal basso, alzò lo sguardo sui suoi fratelli dentro al ring. “Perché non vi allenate e basta?”
Jace la ignorò, avvicinandosi alle corde e appoggiandosi su di esse. “Vuoi che le parli io, da biondo sexy a bionda sexy? Ti faccio da spalla, se vuoi.” Ammiccò, sorridendo ad Aline, che rise. I Lightwood erano strani, a tratti, ma erano alcune delle persone migliori che avesse mai incontrato.
“Faccio da sola, Jace, ma grazie.”
Jace fece spallucce. “Come preferisci. Se cambi idea e vuoi qualche consiglio su come fare colpo su una ragazza, sono il tuo uomo!”
“Un uomo è l’ultima cosa che vogliono avere intorno, Jace!” commentò Alec.
“Non si può dire lo stesso di te, non è vero, fratello? Come sta Magnus?” Sorrise provocatorio e sornione.
Alec lo fulminò. “Sta’ zitto.” Gli piazzò un pugno sulla spalla a cui Jace rispose con uno su un pettorale.
Aline corrugò la fronte, non capendo fino in fondo che piega avesse preso il discorso. Una vaga idea se l’era fatta, ma aveva l’impressione che fosse meglio non fare domande, evitare di scendere nei dettagli. Soprattutto perché Alec era un tipo molto riservato.
Lasciò i due a battibeccare di nuovo, mentre osservava Isabelle alzare gli occhi al cielo – come se fosse abituata a questo genere di cose – e salire sul ring per mettere di nuovo ad entrambi i paradenti.
Individuò Helen nella sala e sentì lo stomaco attorcigliarsi su se stesso quando notò che la stava già guardando a sua volta. Sorrise timidamente, anche se la cosa le faceva piacere. Forse Isabelle aveva ragione: il suo interesse era ricambiato. Fece un profondo respiro e si incamminò verso la ragazza con tutta l’intenzione di farsi coraggio e chiederle di uscire.


Magnus aveva un appuntamento con Clary e Maia – anche se chiamarlo appuntamento non era decisamente corretto, se si pensa che non aveva avuto scelta. Era stato obbligato dalle due ad andare con loro alla scelta del vestito per le damigelle perché, a detta delle ragazze, non riuscivano a sceglierne uno che accontentasse tutte. Clary aveva lasciato loro carta bianca, ma c’erano vestiti che piacevano a Maia e non ad Izzy e viceversa. E dal momento che le tre erano convinte che non avrebbero mai cavato un ragno dal buco, finendo per arrivare a maggio senza vestito, avevano chiesto l’intervento di Magnus, che era stato nominato consigliere ufficiale.
E Magnus aveva accettato, se non altro perché non sapeva dire di no alle sue amiche.
Adesso si trovavano davanti alla palestra di Isabelle. Magnus teneva Erin per mano, mentre Clary teneva Diana. Maia, invece, stava controllando l’ora sul cellulare.
“Dovrebbe aver finito.” Commentò. “Possiamo entrare per vedere a che punto è.”
“Probabilmente in alto mare: Jace e Alec stanno facendo il loro incontro settimanale. Se non si sono già scannati è perché c’è Izzy a fare da baby-sitter.” Disse Clary e Maia rise.
“Quale incontro?” domandò Magnus.
“Ogni settimana, Alec e Jace si sfidano sul ring in un incontro di pugilato. A fine mese, chi ha più subito più sconfitte paga da bere all’altro.” Spiegò Maia.
“Ma siccome sono estremamente competitivi tra di loro, questi incontri sfociano in comportamenti infantili e colpi un tantino scorretti.” Concluse Clary. “Pensa che una volta Alec ha mollato un sinistro a Jace così forte da farlo cadere a terra. Tecnicamente era una vittoria per Alec, ma Jace ha pensato bene di fargli lo sgambetto e farlo cadere. Poi gli ha messo un braccio intorno al collo fino a che Alec non è stato costretto a cedere. Scorretto e infantile, come vedi.”
“Gli uomini sanno essere così bambini, se si impegnano!” Esclamò Maia e Clary annuì vigorosamente. Amava Jace con tutta se stessa, ma non poteva negare le parole della ragazza.
Magnus si limitò ad assimilare quell’informazione. E l’unica cosa che il suo cervello gli fece realizzare fu: “Quindi anche Alexander è dentro alla palestra?”
Clary e Maia si scambiarono un’occhiata complice, un sorriso tirò le labbra di entrambe. “Beh, sì.” rispose Maia. “Mi sembra ovvio, a meno che Jace non abbia cominciato a combattere da solo.”
Magnus rispose a tutto quel sarcasmo con una linguaccia.
“Scommetto che improvvisamente la prospettiva di entrare ti sembra decisamente più allettante.” Clary strinse le labbra all’interno della bocca per non ridere, ma i suoi occhi lo fecero per lei.
Magnus guardò male entrambe, facendo passare lo sguardo da una all’altra – come se improvvisamente avesse davanti due bambine e lui dovesse rimproverarle per qualche marachella commessa.
“Sarei entrato in ogni caso! E smettetela di fare insinuazioni!” Detto questo,  Magnus si avviò verso l’entrata con Erin ancora per mano.
Maia e Clary si guardarono e poi scoppiarono a ridere, prima di seguire l’amico dentro la palestra.
 


Le palestre, se lo si chiede a Magnus, sono un po’ tutte uguali. Hanno tutte lo stesso odore di attrezzi nuovi misto a sudore di decine e decine di persone che tentano di migliorare il loro fisico. Hanno tutte file di pesi di vario calibro, finestre che vengono aperte durante le belle stagioni per non rischiare di soffocare, e un impianto stereo che trasmette musica motivazionale ad un volume discreto, una via di mezzo che permette di essere udito, ma che permette anche di fare conversazione nei momenti in cui si vuole riprendere fiato.  
La palestra di Isabelle, tuttavia, era diversa dalle altre: aveva Alexander Lightwood che stava su un ring –  innalzato come se fosse su un altare dedicato alla divinità che era – senza maglietta, sudato e con un paio di pantaloncini che evidenziavano il suo sedere in un modo che Magnus avrebbe definito ingiusto – ed era ingiusto solo perché riassumevano perfettamente quel concetto ampiamente applicato nei musei che recitava: guardare ma non toccare. Ingiusto. Ingiustissimo.  
Quando aveva supposto che Alec senza maglietta stesse bene, non immaginava certo che stesse così bene. Una vaga idea se l’era fatta, ma la realtà in questo caso era decisamente meglio della fantasia. Alexander era alto, aveva una fisicità longilinea, era ben definito nei punti giusti senza essere esagerato ed era sexy – tanto sexy.
“Magnus?” lo chiamò Maia, ma l’uomo non staccò gli occhi dalla figura di Alec. Non era vicinissimo al ring, ma riusciva comunque a vedere piuttosto chiaramente la sua muscolatura che si tendeva ad ogni movimento.
“Sto per svenire.” Confessò. “E la s è puramente facoltativa.”
Maia scoppiò a ridere, coprendosi la bocca con le mani per cercare di trattenere almeno un po’ il rumore. Clary, al suo fianco, invece, gli diede un colpo sul braccio. “Non davanti alle bambine, Magnus!” lo ammonì.
“Le bambine non possono aver sentito!” Ma per sicurezza le adocchiò comunque – l’ultima cosa che voleva era traumatizzare due quattrenni perché i suoi ormoni avevano improvvisamente deciso di mandare all’aria tutti i suoi filtri bocca-cervello. Diana ed Erin, tuttavia, non stavano prestando attenzioni ai grandi, troppo concentrate a fare finta di essere come Iron Man e sparare luce dai palmi.
“Non si sa mai!”
Magnus ridusse gli occhi a due fessure. “È colpa tua. Mi porti in questo luogo pieno di tentazioni e pretendi anche che ne esca sano di mente?”
“Con tentazioni intendi Alec senza maglietta?” commentò Maia, che dal canto suo trovava il tutto estremamente divertente. “Vuoi un fazzoletto per la bava? O magari direttamente un secchio?”
“Piantala.” Gli occhi di Magnus si assottigliarono maggiormente, ma Maia lo ignorò, non facendosi intimorire da quel comportamento nemmeno un po’.
“Vediamo, cosa potrebbe essere?” Si picchiettò il mento con l’indice. “Il fatto che è alto scommetto influisca parecchio, conoscendoti.”
“È moro…” Aggiunse Clary e Maia le diede ragione con un cenno deciso del capo.
“Vediamo, poi che altro?”
Magnus si arrese. Quel giochetto era durato anche troppo e lui era stufo di far finta che non avessero ragione. “Il fatto che assomigli ad una divinità greca penso sia l’elemento portante del suo fascino. È come guardare un Bronzo di Riace!” 
Maia e Clary si zittirono per qualche istante, si scambiarono un’occhiata complice e poi scoppiarono a ridere.
“Sono felice di farvi divertire, biscottini miei…” Magnus notò che Alec aveva cominciato a guardare nella loro direzione, così alzò la mano e lo salutò. “…Ma è la pura verità.”
Alec ricambiò il saluto e Magnus si incamminò verso di lui. Maia e Clary lo seguirono per la seconda volta.

 
Quando raggiunsero il ring, Alec e Jace stavano battendo sui guantoni, segno che il loro incontro era finito. Jace scese per primo, passando tra la seconda e la terza corda. Una volta fuori dal quadrato si avvicinò alla fidanzata e la baciò. Clary, ricambiò il bacio fugacemente. “Puzzi, Jace. Non avvicinarti alla bambina quando odori di carcassa putrefatta, ti prego.” Afferrò le mani del fidanzato per cominciare a slacciare i guantoni – era una procedura che aveva imparato a fare, durante gli anni.
Jace, con le braccia tese verso Clary, si esibì in una smorfia contrariata associata ad una decisa linguaccia. “Nostra figlia mi ama anche quando puzzo. A differenza tua.”
Clary scosse la testa con rassegnazione, ignorando la frecciatina finale, e continuò a slacciare i guantoni, togliendoli poi uno alla volta. “Prima lavati, poi abbracciala.”
“D’accordo capo, come vuoi.” Jace si sporse in avanti per lasciarle un bacio sulla fronte. Individuò Diana che ancora stava giocando con Erin e decise di non attirare la sua attenzione, rimandando il tutto a dopo una doccia. Le bambine erano entrambe con Maia, che stava assecondando il loro gioco, qualsiasi esso fosse.
Jace adocchiò Magnus che si stava incamminando verso la loro direzione. Ma presto si rese conto che non stava camminando verso di lui, ma verso Alec, che si trovava alle sue spalle e stava armeggiando con i guantoni. Il biondo sorrise e si rivolse di nuovo a Clary, che aveva notato la stessa cosa, ma non proferì parola, nello stesso modo in cui non la proferì Jace. Sapeva che certi commenti avrebbero messo a disagio Alec e non voleva che si tirasse indietro in nessun modo.
“Vado a lavarmi.”
Clary annuì. “Ti aspetto qui.”
Jace le lasciò un bacio su una guancia e si diresse verso gli spogliatoi.


Magnus si era avvicinato ad Alec dopo aver lasciato Erin a giocare con Diana e Maia. Il medico stava armeggiando con i guantoni che non riusciva a togliere e aveva un’espressione corrucciata in viso che lo rendeva ancora più carino.
“Vuoi una mano?” domandò, attirando la sua attenzione. Quando Alec alzò lo sguardo su di lui, immediatamente, sorrise. Aveva i capelli appiccicati alla fronte, bagnati di sudore, e li scostò all’indietro meglio che poté con l’avambraccio.
“Sì, grazie.”
Magnus gli afferrò una mano e cominciò a slacciare il guantone. Si concentrò su quello che stava facendo, cercando di non muovere lo sguardo su qualcosa che non fosse il guantone, ma non ci riuscì. Alexander era mezzo nudo a pochi centimetri da lui, bellissimo e con gli addominali in mostra, come se quei sei piccoli infidi bastardi stessero gridando a pieni polmoni VOGLIAMO TENTARTI, MAGNUS! E ci stavano riuscendo alla grande. Fu nello studio di Alexander Lightwood, la nudità, un olio su tela in forma umana generosamente offerto da Madre Natura in persona, che notò il tatuaggio che Alec aveva sul fianco sinistro, un qualcosa di astratto, che ad un primo sguardo sembrava uno scarabocchio.
“E questo cos’è, Alexander?” tracciò il perimetro  del tatuaggio con l’indice d’istinto, senza nemmeno rendersene conto.
“Un tatuaggio, Magnus. Sono sicuro che sai cosa sia.” Rispose Alec, sperando che la sua voce non tremasse per via di quel contatto. Non voleva che Magnus lo toccasse, visto che era sudato in un modo esagerato, ma allo stesso tempo gli piaceva che l’avesse fatto – doveva ammettere che solo essere sfiorato da lui l’aveva acceso dentro. Sperò solo che Magnus non se ne accorgesse: non voleva certo fare la figura del ragazzino con gli ormoni che impazziscono appena un bel ragazzo lo sfiora.
Magnus assottigliò gli occhi, guardandolo in viso. “Sei simpatico, tesoro, davvero.” Ribatté, riflettendo lo stesso tono sarcastico usato da Alec.
Il medico rise e ritirò le labbra all’interno della bocca per cercare di trattenersi un po’. “È una runa dell’amore.” Spiegò. “Anche i miei fratelli ce l’hanno nello stesso punto.”
Magnus riguardò il tatuaggio: iniziava con un piccolo segmento orizzontale, alla cui estremità destra ne partiva uno verticale più spesso. A metà di esso partiva una biforcazione – una parte finiva con una riga, l’altra invece terminava con un ricciolo. Al centro del disegno completo, tagliandolo perfettamente a metà prima dell’inizio della biforcazione, c’era un segmento orizzontale. “Perché una runa?”
“Perché Jace conosce qualsiasi cosa derivi dalle lingue antiche. E Max voleva qualcosa che simboleggiasse l’amore, ma che non fosse troppo ovvio. Ha scartato il latino e l’inglese, per un po’ era stato tentato dal greco, ma poi ha optato per una runa e Jace l’ha accontentato, mostrandogli quale fosse quella dell’amore.”
Magnus distolse lo sguardo dal tatuaggio e sfilò uno dei guantoni di Alec, concentrandosi poi per cominciare a slacciare l’altro. Alec lo lasciò fare.
“Perché l’avete fatto, se posso chiedere?”
“Puoi chiederlo e ti risponderò, ma non qui, Magnus. È un discorso che non vorrei affrontare in una palestra.”
“Ma certo, tesoro.” Magnus gli accarezzò una guancia e gli sorrise dolcemente. Sapeva che con Alec non doveva insistere – e da parte sua, Magnus non aveva nemmeno un carattere che lo spingeva a farlo. Era fermamente convinto che le persone dovessero avere il loro spazio e che dovessero parlare delle loro cose a tempo debito, o quando avrebbero voluto.
“Grazie.”
“Non ringraziarmi, confettino. Sono io che ringrazio te per tutto questo.” Magnus indicò con un gesto della mano tutta la parte superiore del corpo di Alec, il quale arrossì e rise. “Hai altri tatuaggi sul tuo bellissimo corpo che dovrei vedere?”
Alec si passò la mano che ormai aveva libera sulla faccia, sentendo le guance che prendevano fuoco, ma non riuscendo a trattenere un sorriso. “Ho una freccia all’interno del braccio sinistro.”
Gli occhi di Magnus andarono immediatamente a cercarla, così Alec girò il braccio in modo che riuscisse a vederla. Si trovava nella parte alta del braccio, all’interno, poco visibile ad occhi esterni a meno che non si sapesse della sua esistenza.  Ricopriva in lunghezza quasi tutto l’interno del bicipite. Era semplice e con la punta che mirava in avanti, verso la mano.  
“È il primo tatuaggio che ho fatto.” Disse Alec, “Avevo vent’un anni e mi piaceva ciò che simboleggiavano le frecce. Una volta che le lanci, non tornano più indietro. Conoscono una sola direzione: avanti. È un piccolo promemoria per me, che tendo sempre a farmi condizionare un po’ troppo dal mio passato. Non si può tornare indietro. Ciò che è stato, è stato e bisogna solo continuare ad andare avanti nella nostra vita cercando di essere una persona migliore di quello che siamo stati in precedenza.” 
“È un bellissimo promemoria, Alexander.” Magnus gli sorrise, sincero. “In più, eri un arciere, perciò penso sia perfetto per te.”
Alec ricambiò quel sorriso e incatenò i suoi occhi a quelli di Magnus. Rimasero a guardarsi per qualche istante, poi Magnus finì di togliergli i guantoni e successivamente glieli porse.
“Ecco fatto, ho finito.”
“Grazie, Magnus.”
“Quando vuoi, tesoro.”
Alec annuì, un timido sorriso a tendergli le labbra chiuse – le fossette che fecero capolino. “Vado a farmi la doccia. Ti rivedo o devi andare?”
“Ti aspetto.”
Alec annuì di nuovo e camminò per qualche passo all’indietro, non volendo lasciare la figura di Magnus, che a sua volta lo stava guardando. Tuttavia fu costretto a girarsi quando urtò con la spalla uno degli attrezzi di Isabelle, mugugnando per il dolore. Una volta voltatosi, si diresse verso lo spogliatoio e Magnus ne approfittò per guardargli la schiena  muscolosa, se non altro perché gli avevano sempre insegnato che l’arte va apprezzata e osservata nel dettaglio.


Alec non si era mai lavato così in fretta. Uscì dallo spogliatoio con addosso dei jeans e una maglietta nera sopra ad una camicia di flanella a scacchi neri e verdi tenuta aperta. I suoi capelli erano ancora umidi, ma non voleva fare aspettare troppo Magnus, quindi decise di non perdere altro tempo ad asciugarli. Si chiese perché fremeva dentro ogni volta che all’interno del suo cervello balenava l’idea di vederlo, ma decise di non rispondersi. Aveva troppa paura di quello che la sua voce interiore avrebbe detto e lui non era ancora pronto per ascoltarla.  Individuò Magnus in mezzo alla sua famiglia, circondato da Jace, Clary e Maia. Le bambine stavano giocando con dei peluches così piccoli che stavano perfettamente nelle loro manine.
“Che state facendo?” domandò, una volta avvicinatosi al gruppo. Non si erano allontanati più di tanto dal ring, rispetto a poco prima.
Fu Magnus a rispondergli, voltandosi per primo verso di lui. “Ufficialmente, aspettiamo tua sorella per andare a scegliere il vestito delle damigelle. Ufficiosamente, stavo aspettando te.”
Alec gli sorrise, le guance che si coloravano di un delicato rosa. “Ti hanno convinto, quindi?”
“Mi hanno costretto, Alexander.” Magnus lanciò un’occhiata a Clary e Maia, che gli fecero una linguaccia. “Ma mi piace l’idea di rendermi utile. E poi è pur sempre shopping, io amo lo shopping.”
“Fai bene a guardare il lato positivo della cosa. Se può confortarti, in quelle boutique offrono champagne. Io penso lo facciano perché almeno da ubriache le damigelle vedano belli dei vestiti bruttissimi che i commessi non riuscirebbero mai a vendere a delle persone sobrie, ma può essere comunque divertente, in fondo.”
Magnus ridacchiò e Alec sorrise.
“Berrò un sacco di champagne, allora.”
Alec annuì in approvazione. “È lo spirito giusto, Magnus.”
“Tu non berrai un bel niente!” Si inserì Clary. “Mi servi sobrio, Magnus, proprio per evitare di comprare degli obbrobri!”
“Biscottino, riuscirei a scovare un vestito meraviglioso anche ad occhi chiusi. Cosa ti fa pensare che un po’ di champagne sia in grado di ottenebrare il mio giudizio?”
“Già, devi stare tranquilla.” Aggiunse Alec, con un sorriso.
Clary si arrese, emettendo un piccolo sbuffo. “Parliamo dell’organizzazione di questa giornata: quando Izzy avrà finito di prepararsi, noi cominceremo il nostro giro di negozi. Diana starà con Jace, in modo che non…”
“Rischi di annoiarsi,” La interruppe Alec, che conosceva quel piano a memoria, ormai. L’unica componente a sorpresa di quella giornata, infatti, era stato Magnus. Non sapeva che fosse incluso anche lui, in quel piano. “Io e Jace porteremo la bambina al parco, la faremo giocare, poi la porteremo a fare merenda.” Alec mise le mani sopra alle spalle minute della cognata. “Devi stare tranquilla, è tutto sotto controllo. Rilassati. Andrà bene.”
Clary si sporse quel tanto necessario per abbracciarlo e Alec ricambiò. Si scambiavano segni d’affetto simili molto raramente, ma quando succedeva era perché ce n’era bisogno. E Alec sapeva quanto a volte fosse stressata Clary per via dei preparativi delle nozze. “Grazie.” Gli disse, quando sciolsero l’abbraccio. “Ho solo paura che mi sfugga qualcosa.”
“Lo so, ma hai ancora tutto il tempo che ti serve. Devi solo rilassarti.”
Clary annuì e si voltò a guardare Jace, che teneva in braccio Diana. Stavano facendo finta di ballare, insieme a Maia, che teneva in braccio Erin. Le risatine euforiche delle bambine erano chiaramente udibili. E fu in quel momento che Alec realizzò una cosa, dandosi dello stupido per non averci pensato prima.
“Erin può venire con noi, se per te non è un problema.”
Magnus spostò l’attenzione dalla figlia e la portò su Alec. “Non è necessario, Alexander…”
“Non c’è alcun tipo di problema. Erin può stare con noi. Giocherà con Diana e per lei sarà sicuramente più divertente di girare per un mucchio di negozi in cui non potrà toccare quasi niente.”
Magnus parve pensarci su. Alexander aveva ragione, questo non poteva negarlo, ma non sapeva se fosse appropriato chiedergli una cosa del genere. Ma d’altronde, erano amici e gli amici si aiutano in svariate situazioni, anche quando si vuole evitare ad una bambina di quattro anni di girare tutto il pomeriggio per dei negozi. In più, si fidava di Alec, sapeva che si sarebbe preso cura di Erin nel modo giusto, ma… Erin non era mai stata sola con qualcuno senza di lui – a meno che quel qualcuno non fosse Madelaine, ma lei era sua nonna.
“Sei sicuro che per te non è un disturbo?”
“Assolutamente no, Magnus!”
“Lo chiedo a lei, allora. Non è mai stata sola con qualcuno che non fossi io o sua nonna.”
Alec annuì, comprensivo. “Ma certo.”
Magnus si diresse verso Maia ed Erin, mentre Alec rimase a guardarlo.  Osservò il modo in cui sorrise alla sua bambina e il modo in cui lei si buttò, senza titubanza alcuna, tra le braccia del padre, con la totale certezza che lui l’avrebbe afferrata.
Guardare quel quadro perfetto gli provocò una sensazione strana, soprattutto perché aveva degli effetti sul suo cuore che Alec non voleva ascoltare. Era come se il suo cervello, la sua ragione fortemente radicata in lui, avesse eretto delle barriere trasparenti, permettendogli di poter guardare i suoi sentimenti, ma impedendogli di avvicinarsi, di viverli, di dare libero sfogo a qualsiasi cosa fosse ciò che provava per Magnus. Non sapeva identificarlo e su questo era sincero. Si definivano amici, ma Alec sapeva benissimo che c’era dell’altro tra di loro. Come sapeva che non poteva ancora chiamare amore ciò che provava. A trent’anni compiuti si rifiutava di chiamare cotta questo strano ibrido di sentimenti, che non era ne amicizia ne amore, ma forse, in mancanza di un altro termine doveva accontentarsi. Poteva ammettere, almeno con se stesso – e solo a se stesso – che era invaghito di Magnus. E se avesse negato che questa realizzazione lo spaventava, avrebbe mentito. Così come avrebbe mentito se avesse detto di non voler continuare a passare del tempo con lui.
Magnus era come una calamita. Alec si sentiva attratto naturalmente verso la sua direzione e voleva davvero lasciarsi trascinare da quel campo magnetico, da quell’attrazione incontrastabile che lo spingeva sempre verso Magnus. Ma se quel magnete avesse portato ad un burrone? O ad una valanga, o un palazzo in fiamme destinato solo alla distruzione? Se esporsi avesse solo portato ad una catastrofe? Se il suo cuore fosse stato raso al suolo una seconda volta, l’avrebbe sopportato? Alec non lo sapeva. Era tutto una grossa incognita. Alec ripensò alla spiegazione che aveva dato solo poco prima a Magnus riguardante il tatuaggio con la freccia: si faceva condizionare da ciò che era successo con William. La loro storia era finita in una specie di disastro e gli aveva causato problemi di fiducia. E sebbene lui sapesse che non tutti erano Will, che Magnus non era Will, continuava a non riuscire a lasciarsi totalmente andare. Quel promemoria sul braccio non sempre faceva il suo dovere, Alec questo lo sapeva, e in certi casi continuava a farsi condizionare dal suo passato.
“Erin ha detto sì.” Magnus, avvicinatosi di nuovo a lui con la bambina in braccio, lo riportò alla realtà.
Alec sorrise, accantonando i suoi pensieri. “Perfetto!”
“Farai la brava, vero signorina?” Disse Magnus, rivolgendosi alla figlia. Erin annuì con vigore.
“Obbedirò ad Alec.”
“Bravissima, tesoro mio.” Magnus le baciò una guancia ed Erin sorrise, felice, abbracciando poi il collo del suo papà.
Alec sentì chiaramente il suo cuore liquefarsi, era come se ce l’avesse di cioccolata e l’avesse lasciato al sole in una giornata estiva.
“Qualsiasi cosa, qualsiasi¸ mi chiami e io vi raggiungo, d’accordo?” Disse Magnus, dopo aver appoggiato Erin a terra. La bimba teneva già Alec per mano.
“Stai tranquillo.” Gli sorrise incoraggiante e Magnus ricambiò.  
“Alec, possiamo mangiare il gelato?” Domandò Erin, la manina stretta a quella del ragazzo, mentre alzava il viso verso di lui.
Alec, prima di rispondere, guardò Magnus che diede un silenzioso consenso con il capo. Il medico, allora, si rivolse di nuovo alla bambina. “Certo, lo prenderemo doppio gusto.” Le sorrise ed Erin ricambiò, felice.
Magnus aveva notato che Alec aveva un ascendente particolare sulla sua bambina. Riusciva a farla sentire a suo agio, tanto che la fase timidezza davanti ad un estraneo con Alec era durata, forse, solo durante la prima volta che si erano visti, alla scuola di danza. Era bastato che Alec si chinasse all’altezza sua e della nipote e giocasse con loro a battimani per conquistare la fiducia di sua figlia – e di norma, era una cosa che non succedeva quasi mai. Con Alec, invece, era successo. E adesso Erin si sentiva così a suo agio con lui da accettare persino di passare una giornata insieme ad Alec senza il suo papà. Che fosse un segno del destino? Un messaggio divino, qualcosa che lo spingeva verso Alexander?
“Sono pronta!”
I suoi pensieri vennero interrotti da Isabelle, che era finalmente riuscita a raggiungerli. Aveva fatto una doccia, si era cambiata e truccata – ed era, come sempre, bellissima oltre al limite umano. Indossava un paio di short di pelle a vita alta, abbinati ad una maglietta nera a maniche lunghe con uno scollo a V. Ai piedi, portava delle parigine  con un tacco altissimo.  
“Era ora, Izzy, ci metti sempre un’eternità a vestirti!” Esclamò Jace.
Magnus era stato così preso dai suoi pensieri che non si era accorto che tutto il gruppo, adesso, era riunito nello stesso punto. Avevano formato una specie di cerchio strambo nell’unico spazio vuoto della palestra e l’uomo si chiese, per un istante, se gli altri clienti non li trovassero ingombranti.
“La bellezza richiede tempo, fratello.”
“Non quando sei già bellissimo di tuo.” Ammiccò Jace, sicuro di sé, beccandosi di conseguenza un pugno dalla sorella.
“Stai dicendo che non sono bella?”
“Forse non quanto credi di esserlo, se devi impiegare due secoli per prepararti!” Esclamò, massaggiandosi la parte del braccio che era stata colpita.
“Ripetetemi quanti anni avete, per cortesia?” Si intromise Alec, in tono sarcastico. Roteò persino gli occhi al cielo. “Smettetela di bisticciare come dei bambini!”
Jace ed Izzy si guardarono e sbuffarono in sincronia. “Sei sempre il solito!” Disse la ragazza.
“Vuoi dire l’unico con un po’ di cervello?” Ribatté Alec.
“No, il solito rompi palle!” Sentenziò Jace.
“Cos’è un rompi palle?” La vocina di Diana interruppe quel battibecco tra fratelli, riducendo chiunque al silenzio.
Magnus avrebbe trovato la scena persino divertente, ma non poteva certo mettersi a ridere. Quindi, si concentrò per rimanere serio, mentre guardava il viso di Clary che si sforzava di mantenere un’espressione neutra e di non fulminare con lo sguardo il suo futuro marito. “È una parolaccia, Diana, e le parolacce non si dicono.”
“Ma papà l’ha detta!”
Clary, a quel punto, incapace di trattenersi oltre, lanciò un’occhiataccia a Jace. “Papà ha sbagliato, infatti. Vero, papà?” Enfatizzò l’ultima parola come se fosse un sibilo e Jace sentì chiaramente un brivido di terrore corrergli lungo la schiena: sapeva benissimo di essere nei guai.
“Vero, principessa.” Concordò, quindi, rivolgendosi alla figlia.  “Papà ha sbagliato. Le parolacce non si dicono.”
“E adesso chiedi scusa a zio Alec, avanti!” Continuò la rossa.
Jace si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo, ma solo perché era consapevole che doveva educare sua figlia. E perché aveva seriamente timore che Clary gli facesse lo scalpo mentre dormiva. “Scusa, zio Alec, non volevo offenderti.” 
“Non preoccuparti, è tutto a posto.” Alec gli diede una pacca sulla spalla.
“Fantastico, ora possiamo andare!” Esclamò Clary.
I presenti annuirono e, mentre si muovevano in gruppo verso l’uscita, Isabelle andò a cercare Aline per informarla che stava andando via. La trovò nell’angolo dove si trovavano i pesi, intenta a seguire un gruppo di ragazzi che si allenavano. Controllava che facessero gli esercizi in modo corretto, senza che rischiassero di strapparsi un muscolo.
“Aline, sto andando. Allora ti va bene chiudere tu, oggi?”
La ragazza le sorrise. “Ti ho già detto di sì da una settimana, mi sembra. Stai tranquilla, Iz. Chiudo io.”
Isabelle si sporse per abbracciarla. “Grazie!” Sciolse l’intreccio. “Dov’è Helen?”
Aline non riuscì a trattenere un sorriso. “È andata via prima per riuscire ad organizzarsi meglio: stasera usciamo insieme.”
Isabelle aprì la bocca in un’espressione che era un misto tra sorpresa e felicità. Si trattenne dal saltellare perché erano in un luogo pubblico e non voleva attirare troppo l’attenzione su di loro. “Ma è fantastico! Oh, Aline, sono così contenta!” L’abbracciò di nuovo e Aline ricambiò.
“Anche io.” Ammise, quando si separarono.
“ISABELLE!” gridò Jace, dalla porta d’ingresso, interrompendo la loro conversazione. 
Izzy fece una smorfia. “Devo andare, o rischio di venire flagellata. Tu fammi sapere come va, d’accordo?”
“Sicuramente!”  
Le due si salutarono e poi Izzy si incamminò verso l’uscita. Avevano un vestito da comprare.


*


Alec, Jace e le bambine si trovavano in gelateria. Avevano passato l’ultima ora e mezza in un parco giochi a provare qualsiasi gioco ci fosse: l’altalena, lo scivolo, la corsa ad ostacoli per bambini (che consisteva nel saltare dei sassi bassi e azzurri che sbucavano dal terreno) e altri che onestamente Alec non ricordava. Le bambine, poi,  si erano messe in mente di provare anche la parete d’arrampicata e per un pelo ad entrambi i ragazzi era venuto un infarto: quella parete era decisamente troppo alta e con troppe poche misure di sicurezza per delle bambine così piccole, di conseguenza le avevano dissuase da quella missione estremamente pericolosa con la promessa di un gelato.
E adesso si trovavano nel luogo più colorato e profumato dell’universo, seduti ad un tavolo di metallo verde pastello a controllare che le bambine non si sbrodolassero il gelato addosso.
Una volta appurato che la maglietta di Erin non si sarebbe trasformata in un ammasso appiccicaticcio di gelato sciolto, Alec estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scattò una foto alla bambina, mentre teneva la palettina da sola e la infilava nella sua coppetta di gelato.

> To: Magnus, 16.40
Merenda.
PS: niente nocciola per lei. Ha scelto vaniglia e cioccolato.

Alec aggiunse un’emoticon del gelato vicino alla parola merenda e poi inviò la foto.
La risposta di Magnus arrivò veloce come la luce e Alec non riuscì a trattenere un sorriso.

> From: Magnus, 16.40
È così carina quando mangia il gelato <3
Si comporta bene?
PS: ti sei ricordato della sua allergia?


> To: Magnus, 16.41
Si comporta benissimo. Siamo stati al parco e abbiamo giocato. Principalmente le bambine giocavano e noi controllavamo, ma si sono divertite.
PS: certo che mi sono ricordato, sono il suo medico ed un tuo amico. Se l’avessi scordato, sarei pessimo in entrambi i casi.


> From: Magnus, 16.41
Non sei pessimo, tesoro. In nessuno dei due casi. Anzi, direi proprio che sei fantastico. Non trovi?

> To: Magnus, 16.41
Non sta a me deciderlo.

> From: Magnus, 16.42
Allora decido io: sei fantastico.

“Perché sorridi come un diversamente intelligente al tuo telefono?”
Alec alzò lo sguardo dallo schermo e lo portò su Jace, seduto di fronte a sé. “Diversamente intelligente?” domandò, sollevando un sopracciglio.
Jace annuì. “Non posso dire le brutte parole davanti alla bambina, hai visto come si trasforma Clary. Ma penso tu abbia capito cosa intendo.”
In pratica, suo fratello gli aveva appena dato dell’idiota. Alec stava sorridendo come un idiota allo schermo del suo cellulare e non se la sentì nemmeno di negare perché Magnus gli aveva appena detto che era fantastico e tutto ciò gli trasmetteva un’ondata di euforia che passava attraverso le sue vene e attraversava tutto il suo corpo.
“Ho solo mandato una foto di Erin a Magnus e lui ha detto che è carina.” Minimizzò, evitando di dire tutto il resto. Alec era un tipo decisamente riservato – anche con i suoi fratelli. Era sempre stato così fin da quando erano più piccoli. A differenza di Isabelle e Jace che tendevano a dire qualsiasi cosa appena succedeva ai fratelli, Alec doveva prima elaborarla per sé. Se la teneva dentro per un po’, la faceva macerare e poi la diceva ai suoi fratelli.
“Farò finta di crederci.”
Ma Jace lo conosceva come le sue tasche ed era difficile che Alec riuscisse a nascondergli qualcosa. C’era questo rapporto tra di loro, decisamente stretto, che permetteva ad entrambi di capirsi con un solo sguardo. E quando hai un rapporto così con qualcuno, è difficile riuscire a tenergli nascosto qualcosa.
“Perché dovresti fare finta?”
“Perché ti conosco, Alec. E so che mi dirai le cose quando vorrai dirmele. Elaborerai il tutto e poi un giorno me ne parlerai.” Jace guardò Diana che si era sporcata la bocca. “Attenta, tesoro.” Le disse con dolcezza, pulendola con un fazzolettino.
Alec fece passare lo sguardo dal fratello ad Erin. La bambina stava mangiando il suo gelato con tranquillità. Ne aveva un po’ sul mento, così Alec la pulì e lei gli sorrise, ringraziandolo. Erin aveva lo stesso sorriso del suo papà – Alec l’aveva notato la prima volta che li aveva visti sorridere entrambi. E trovava la cosa estremamente tenera.
Trovava Magnus tenero, dolce e adorabile, ma con quel qualcosa di speziato che lo rendeva accattivante.  Guardarlo era come stare sulle montagne russe: sei lì sul tuo vagoncino che aspetti che arrivi la discesa e ne sei spaventato, ma allo stesso tempo non vedi l’ora che la discesa arrivi perché sai già che la sensazione che proverai sarà emozionante ed inebriante.
Magnus era inebriante. Era un tornado di emozioni e una sfaccettatura di caratteristiche che lo rendevano unico. E Alec era irrimediabilmente attratto da lui sotto ogni punto di vista.
Ma Jace aveva ragione: non era ancora pronto ad ammetterlo. Trovava ancora difficile dire ad alta voce che gli piaceva. Era stato difficile dirlo persino a se stesso, figuriamoci a qualcun altro.
“Mi conosci.” Ammise, quindi.
 “Dimmi qualcosa che non so, fratello.” Jace ammiccò, compiaciuto. “Adesso, finisci il tuo gelato o si scioglierà.”
Alec guardò la sua coppetta al pistacchio e costatò che Jace aveva ragione. Non disse nulla, si limitò a continuare a mangiare fino a che non raschiò il fondo della coppetta con la palettina.
Quando ebbero tutti finito di mangiare il gelato, uscirono dalla gelateria per fare una passeggiata. Con Erin per mano, Alec si chiese cosa stesse facendo Magnus, se anche lui lo stava pensando. E in quel preciso istante, ebbe la conferma di essere fregato: che gli piacesse o meno usare quella parola, Alec Lightwood aveva una cotta per Magnus Bane.



Le uscite a base di shopping erano tanto meravigliose quanto stancanti, questo Magnus lo sapeva bene. L’aveva appurato in anni di esperienza e poteva tranquillamente autodefinirsi un veterano, per questo conosceva le conseguenze di una giornata passata a fare acquisti.
Comunque, non poteva negare di essersi divertito. Le giornate passate con Clary e Maia gli ricordavano sempre la sua gioventù, quando le due ragazzine andavano a casa sua e passavano del tempo insieme. Il fatto che in età adulta avessero ancora quel legame stretto rafforzava in Magnus quell’idea secondo la quale famiglia non è solo chi condivide il tuo stesso DNA. Isabelle, poi, era stata un’aggiunta perfetta a quel quadro che Magnus adorava.
Ma in tutta quella giornata bellissima, passata in giro per boutique a guardare abiti su abiti, a ridere per ogni cosa, a commentare certi stilisti, preferendone alcuni piuttosto che altri, Magnus aveva sentito la mancanza di qualcuno. E vorrebbe dire che la sua mente era volata solo ad Erin, ma non sarebbe stato vero. Il pensiero di Alexander era balenato nel suo cervello più volte di quante si sarebbe aspettato. Non faceva altro che pensare che si era offerto di badare ad Erin per fargli un favore; pensava al fatto che la flanella non gli era mai piaciuta, ma se era Alec ad indossarla diventava automaticamente piacevole. Aveva pensato al modo, del tutto naturale, in cui Erin aveva stretto la mano di Alec e lui le aveva sorriso.
Quando gli aveva mandato quella foto, poi, era stato come se tutti i suoi ricordi diventassero più reali di quanto già non fossero. Quella era la prova grafica del fatto che sua figlia stesse passando del tempo con Alec e Magnus inevitabilmente aveva immaginato come potrebbe essere la sua vita se avesse qualcuno al suo fianco. Cosa si prova a crescere una figlia con qualcuno? Era sempre stato abituato all’idea che l’avrebbe fatto da solo che non si era mai soffermato a rispondere a quella domanda. Probabilmente perché non aveva mai trovato qualcuno che gliela facesse porre quella domanda.
Era come se Alexander, con la sua sola presenza, riuscisse a mostrare un mondo nuovo a Magnus – un mondo che li vedeva come una coppia che crescono una bambina.
E sapeva benissimo che stava correndo come un treno ad alta velocità, che gli elementi che aveva erano ancora pochi per formulare pensieri simili riguardanti un futuro così solido – alla fine, lui e Alec non erano nemmeno usciti insieme per poter capire effettivamente cosa fosse ciò che li legava – ma ogni volta che guardava Alec, Magnus riusciva a non vedersi solo.
Dopo Camille aveva sempre dato per scontato che non avrebbe incontrato nessun altro, o quanto meno non qualcuno con cui pensare di vivere una vita insieme seriamente.
Alexander risvegliava in lui questa speranza, in qualche modo. Costruendo il loro rapporto passo per passo, era come guardare un cantiere in cui si costruisce una casa mattone dopo mattone: all’inizio ci sono solo pavimento e muri portanti, ma dopo mesi e mesi di lavoro, la casa prende forma.
Magnus aveva la convinzione che loro sarebbero potuti diventare quella casa, costruita con calma e con pazienza.
Poteva sembrare un pensiero folle, ma… era convinto che Alexander fosse una persona speciale, qualcuno che era riuscito ad entrare nel cuore di Magnus in poco tempo.
Alec gli piaceva e non solo come amico –  era inutile negarlo –  ma Magnus non voleva correre. Voleva guardare come sarebbero andate le cose, lasciando che il tempo scorresse e il loro rapporto germogliasse. Non voleva iniziare subito a correre, prima doveva passeggiare ancora un po’. Passeggiare e aggiungere un mattone alla volta, costruendo piano piano quella casa. E se erano veramente destinati a stare insieme, un giorno quella casa avrebbe preso forma. Era convinto che se il destino li voleva insieme, la loro amicizia si sarebbe trasformata da sola in qualcosa di più.
“Magnus?” La voce di Clary lo distrasse dai suoi pensieri, riportandolo alla realtà: erano rimasti solo loro, a fine giornata – Maia era andata all’Hunter’s Moon per un turno ed Isabelle era tornata a casa – e si stavano dirigendo all’appartamento di Clary, dove sapevano avrebbero trovato Jace, Alec e le bambine.
“Sì, biscottino?”
“Grazie per oggi. Mi ha fatto piacere averti lì.” Clary sorrise e Magnus le circondò le spalle con un braccio, tirandola gentilmente a sé per riuscire a lasciarle un bacio su una tempia.
“Anche a me ha fatto piacere esserci. Ti stai per sposare… vorrei dire che non piangerò al tuo matrimonio, ma probabilmente non è vero.”
Clary accennò un sorriso, che tuttavia svanì quasi immediatamente. Magnus se ne accorse subito e si accigliò, preoccupato di aver detto qualcosa che aveva turbato l’amica.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?”
“No, Magnus, assolutamente! È solo che…” Abbassò lo sguardo sulle sue scarpe, i suoi ricci rossi andarono a coprirle il viso e Magnus, istintivamente si posizionò davanti a lei. Erano fermi in mezzo al marciapiede, uno di fronte all’altra. Magnus guardava Clary, ma lei continuava a tenere gli occhi fissi sulle sue converse.
Sembrava così piccola, minuta e in qualche modo fragile.
Si chiese il perché di quel cambiamento d’umore, mentre le sollevava il viso con le mani, tendendogliele poi appoggiate alle guance. Quando i loro sguardi si incrociarono, gli occhi verdi della ragazza erano velati di un pianto trattenuto.
“Ci pensi mai a lei, Magnus? Io sì, soprattutto in questo periodo.”
“Oh, tesoro.” Sussurrò, stringendola a sé per un abbraccio. Clary ricambiò immediatamente, il viso appoggiato al petto di Magnus.
“Dovrebbe essere qui, con me. Dovrebbe aiutarmi a scegliere il mio vestito, i centrotavola, i fiori. Avrebbe dovuto essere al mio fianco quando ho scoperto di essere incinta e avrebbe dovuto conoscere sua nipote e l’uomo che sto per sposare.” La voce di Clary usciva ovattata, ma si sentiva che non riusciva più a trattenere il pianto, adesso. “Mi è stata portata via troppo presto e sento la sua mancanza ogni giorno.”
Magnus sentì una fitta al cuore: il dolore nella voce di Clary era percepibile, palpabile come se fosse qualcosa di concreto, piuttosto che astratto. Jocelyn era morta quando Clary era ancora una bambina, ma non era così piccola da non ricordare. Clary ricordava eccome, ricordava tutto. La scomparsa prematura di un genitore è devastante e quando sono coinvolti ricordi vividi di un passato di cui si sente la mancanza, la consapevolezza di quell’assenza arriva ad essere così enorme da rischiare di esserne inghiottiti. L’assenza di Jocelyn era un pozzo e Clary camminava costantemente sul bordo. C’erano giorni in cui riusciva a dare solo una sbirciatina verso il fondo e c’erano giorni, invece, in cui perdeva l’equilibrio, cadeva dal bordo e il fondo, scuro e doloroso, la inghiottiva totalmente.
Magnus la strinse di più a sé, quasi avesse voluto proteggerla da quel dolore che si portava dentro. “So che è ingiusto, che si meritava una vita lunga e di guardare la donna che sei diventata. Sarebbe fiera di te, di questo ne sono certo. E so anche che nessuno potrà mai riempire il vuoto che ha lasciato nel tuo cuore, ma… se ti può aiutare, io ci sarò sempre per te.”
Clary ricambiò la stretta con tutta la forza che aveva. “Lo so. Sei la mia famiglia, Magnus.”
“Di questo puoi esserne certa.” Le accarezzò i capelli con dolcezza per consolarla.
Rimasero in silenzio per qualche istante. Intorno a loro i passanti non prestavano attenzione a ciò che stava succedendo. Nessuno aveva notato le lacrime sul viso di Clary perché lo teneva nascosto nel petto di Magnus. Ad occhi esterni, potevano sembrare una qualsiasi coppia che si abbracciava. Nessuno avrebbe mai immaginato quale fosse la verità.
Magnus aspettò in silenzio che Clary si calmasse. Sentì il suo pianto sciamare sempre di più, fino a quando non risollevò la testa e incrociò il suo sguardo. Magnus, d’istinto, le asciugò le lacrime sulle guance con i pollici.
“Grazie. E mi dispiace per essere scoppiata in questo modo.”
“Non scusarti, biscottino. Hai tutto il diritto di piangere, quando senti la necessità di farlo.”
Clary accennò persino un sorriso. “Grazie.” Ripeté.
“Non ringraziarmi.” Le baciò la fronte. “Sono qui per te.”
La ragazza annuì, lo guardò con gratitudine e lo abbracciò una volta ancora, prima di riprendere a camminare verso casa.


 
Arrivarono all’appartamento di Clary dopo una ventina di minuti. Nessuno dei due ridisse nulla riguardo all’argomento Jocelyn, ma Magnus era preoccupato. Voleva fare qualcosa per fare stare meglio la sua amica, ma non sapeva bene cosa. Probabilmente, se avesse parlato con Jace, lui l’avrebbe aiutato. Ma se poi Jace non sapeva niente dello stato emotivo della fidanzata e Magnus finisse per comportarsi da impiccione?
Decise di rimanere in silenzio e di non immischiarsi, ma era comunque determinato a fare qualcosa per Clary.
“Eccoci.” Disse la rossa, mentre arrivavano davanti al suo appartamento. Da dietro alla porta, anche se il suono era ovattato, si sentivano chiaramente le note di Let it Go e delle voci che cantavano a squarciagola.
Clary e Magnus si scambiarono un’occhiata divertita, prima che la ragazza aprisse la porta.
Una volta dentro, lasciarono i giubbotti sull’attaccapanni e si diressero verso il salotto, dove trovarono Jace e Alec, con delle coperte sulle spalle posizionate a mo’ di mantello, e le bambine, che avevano dei foulard legati in vita che fungevano da gonne lunghe e i capelli legati in una treccia laterale. Stavano tutti cantando la canzone più conosciuta di Frozen, così presi dalla loro performance da non essersi accorti che non erano più soli. Clary e Magnus rimasero a guardare la scena ancora per qualche istante, divertiti e inteneriti, prima che la ragazza poi si incamminasse verso la cassa amplificatrice a cui era attaccato il cellulare di Jace e mettesse pausa.
La musica cessò all’istante, così Jace e Alec si voltarono di scatto – sul viso l’espressione di sorpresa tipica di chi è stato colto in flagrante.
“Amore!” Esclamò Jace.
“Magnus!” Disse Alec.
“Mamma!” Si unì Diana.
“Papà!” Concluse Erin.
Clary e Magnus, a quel punto, furono incapaci di trattenersi. Scoppiarono a ridere, mentre guardavano la scena davanti a loro. Era impossibile rimanere impassibili di fronte a tanta tenerezza. In più le facce semi-terrorizzate dei ragazzi erano esilaranti. Non avrebbero potuto negare l’evidenza: stavano cantando una canzone per bambini e si stavano divertendo da morire.
“Vedo anche la vostra giornata è stata piacevole…” Cominciò Clary.
Magnus annuì. “Non saprei dire se si stanno divertendo più loro o le bambine.”
“Loro, sicuramente loro. Non ci sono dubbi.”
E mentre Jace e Alec rimanevano imbambolati sul posto, le due bambine corsero incontro ai rispettivi genitori.
“Guarda papà, Alec mi ha fatto la treccia!” Esclamò Erin, tutta soddisfatta, mentre si voltava per mostrare la sua pettinatura.
Magnus guardò prima la treccia, che era in perfetto stile Regina di Ghiaccio, e poi cercò lo sguardo di Alec. Quando i loro occhi si incrociarono, Magnus gli rivolse un sorriso, che Alec ricambiò timidamente.
“È una bellissima treccia, bintang.”
Erin si voltò nuovamente verso il padre e annuì, un sorriso le apriva il viso e Magnus sorrise a sua volta perché se aveva una certezza, nella vita, era che se sua figlia era felice lui era felice.
“Vi siete divertite?” Domandò Clary, chinandosi all’altezza di Diana e lasciandole un bacio sulla guancia. La bambina annuì e si avvicinò ad Erin, prendendola per mano.
“Siamo sorelle di treccia, adesso.”
Erin confermò, annuendo. “E di gelato. Abbiamo mangiato tutte e due il cioccolato.”
“Chissà com’era buono!” Esclamò Clary, sorridendo. Le due piccole cominciarono a raccontarle nel dettaglio la loro giornata e Magnus, in silenzio, ascoltava a sua volta, guardando la scena dall’alto. Sorrideva, mentre guardava Clary chinata all’altezza di due quattrenni e commentava le loro avventure al parco giochi usando un tono di voce entusiasta e allegro per ogni cosa solo per far sorridere due bambine.  Era così preso da quella conversazione che non si accorse che qualcuno si era avvicinato. Si trattenne dal sussultare, quando una mano si posò sul suo braccio. Si voltò, aspettandosi di trovare Alexander, ma invece incontrò lo sguardo bicromatico di Jace.
“Possiamo parlare?” sussurrò, lanciando un’occhiata furtiva a Clary. Magnus trovò quel comportamento molto sospetto: che sapesse lui, Clary e Jace non avevano segreti, ma decise di non saltare a conclusioni affrettate e ascoltare ciò che il biondo aveva da dire.
“Certo.”
Magnus guardò un’ultima volta Erin. Sembrava fosse presa dalla conversazione, quindi l’uomo pensò che non si sarebbe accorta presto della sua assenza, così seguì Jace che si era incamminato verso la cucina. Per arrivarci, dovettero attraversare tutto il salotto, passando davanti al divano, dove si trovava ancora Alexander, che era intento a sistemare tutti i giocattoli che erano stati usati in precedenza e le coperte che avevano funto da mantello solo poco prima. Gli accennò un sorriso, che Magnus ricambiò, ma al ballerino non sfuggì l’occhiata di intesa che poi lanciò a Jace, seguita da un minuscolo, quasi impercettibile, cenno d’assenso con il capo. Magnus ebbe la certezza che Alec sapesse benissimo cosa Jace stesse per dirgli e si domandò se non fosse il caso di iniziare a preoccuparsi.
Quando arrivarono in cucina, Jace fece entrare Magnus per primo e poi si chiuse la porta alle spalle. Magnus adesso era decisamente preoccupato.
Il biondo, chiusa la porta, si diresse verso la credenza e prese il bollitore. Lo riempì d’acqua e lo mise sul fuoco. Allo sguardo perplesso di Magnus, decise di dargli una spiegazione.
“Mi serve una scusa per averti trascinato qui: Alec mi ha detto che non ti piace il caffè, così fingeremo che ti ho offerto del the.”
Il fatto che Alec parlasse di lui a Jace passò per un attimo in secondo piano, dal momento che adesso Magnus riusciva solo a percepire la propria preoccupazione.
“E siamo qui perché…?”
“Clary ha pianto anche con te. Non è una domanda, ne ho la certezza. So riconoscere quando ha pianto. E sono preoccupato.” Jace si passò una mano sul viso. “Le manca sua madre e da qualche giorno il discorso viene fuori sempre più spesso e io non so come aiutarla. Dal momento che l’ha detto anche a te, a questo punto, penso che potresti aiutarmi ad aiutarla.”
“Ti ascolto.”
Jace fece un profondo respiro.  “So che l’assenza di Jocelyn non potrà mai essere rimpiazzata, ma… pensavo di chiederti se puoi parlare con tua madre e chiederle se potrebbe aiutare Clary con i preparativi. Lo chiederei a mia madre, ma lei è sua suocera e non sarebbe la stessa cosa.” Fece una pausa che impiegò per tirarsi indietro i capelli. Jace continuava a muovere le mani, non riuscendo a stare fermo. Era preoccupato per Clary e probabilmente agitato per ciò che stava chiedendo. “Voi siete cresciuti insieme, sua madre e tua madre erano molto amiche e Clary è molto legata a Madelaine. È tipo una zia e penso che se avesse qualcuno come lei vicino, la sua nostalgia potrebbe affievolirsi, almeno un po’.” Jace fissò il suo sguardo su di lui. “Che dici? Puoi farlo?”
Magnus aveva deciso che avrebbe già detto di sì non appena aveva intuito che piega stava prendendo il discorso di Jace, ma aveva comunque deciso di lasciarlo finire. Certo che l’avrebbe fatto. Gli sembrava un modo adeguato per aiutare Clary ed era sicuro che Madelaine l’avrebbe pensata allo stesso modo.
“Certo che posso farlo. E so già che mia madre dirà di sì.”
Jace emise un sospiro di sollievo. “Grazie, Magnus. Lascia prima che le parli, poi ti faccio sapere.”
Magnus annuì. “Ma certo.”
“Bene, grazie ancora.” Accennò un sorriso pieno di gratitudine, prima che la loro conversazione venisse interrotta dal fischio del bollitore. Sussultarono entrambi, essendosi completamente dimenticati di aver messo a bollire l’acqua.
“Direi che puoi spegnerlo. Non c’è più bisogno di simulare un tea-party.”
Jace ridacchiò. “Hai ragione. Torniamo di là.”
Magnus annuì concorde e insieme uscirono dalla cucina, dirigendosi nuovamente verso il salotto, dove le bambine stavano ancora raccontando la loro giornata.


Erin e Diana aveva passato più di venti minuti a descrivere tutte le cose che avevano fatto e Clary era rimasta ad ascoltarle. Al loro ritorno in salotto, Jace e Magnus avevano trovato anche Alec attento all’ascolto, sebbene avesse vissuto quella giornata in prima persona. I due adulti erano seduti sul pavimento, precisamente su quello che di dorma era il tappeto morbido con i numeri da inserire negli appositi spazi di Diana. Alec e Clary, seduti vicini, stavano ascoltando le bambine.
A Magnus quasi dispiacque dover attirare l’attenzione di sua figlia. “Erin? Dobbiamo andare a casa.”
La bambina voltò la testina verso il padre. “Ma voglio stare ancora un po’ qui.”
Magnus sospirò. “Ma la nonna ci aspetta, tesoro. Vedrai Diana domani.”
“Alla festa di Halloleen?”
Magnus ridacchiò. Erin non riusciva proprio a pronunciarlo in maniera corretta. “Esatto. Giocherete fino allo sfinimento!”
Le due bambine si guardarono sorridenti alla prospettiva di passare un’intera serata insieme a giocare, poi Erin si sporse per abbracciare Diana e salutarla. Sia Clary che Magnus approfittarono di quell’abbraccio per fare una foto alle piccole. Erano troppo tenere insieme e quando manifestavano affetto l’una verso l’altra entrambi si scioglievano. Magnus era sicuro di aver sentito Jace emettere un soffocato aaawww, mentre osservava la scena.
Erin dopo aver salutato Diana, si sporse anche per abbracciare Clary, ancora seduta per terra. La rossa le schioccò un sonoro bacio sulla guancia che fece ridacchiare la bambina. Successivamente, Erin abbracciò anche Alec, circondandogli il collo con le sue piccole braccia. Il ragazzo ricambiò l’abbraccio e si sollevò da terra con la piccola che si sosteneva a lui, stringendogli anche le gambine intorno al busto. Erin era così minuta a confronto con Alec, che sembrava di guardare una minuscola stella marina attaccata ad uno scoglio enorme.   
“Qualcuno ha visto una scimmietta?” Domandò Alec, in tono scherzoso.
“Io so dov’è la scimmietta!” Rispose Erin, ridacchiando e saldandosi meglio ad Alec, che la teneva a sua volta per non rischiare di farla cadere.
“Ah sì? E dov’è?”
“Qui! Io sono la scimmietta!”
Alec le sorrise e cominciò a farle il solletico con una mano, mentre con l’altra faceva in modo di  continuare a sostenerla per non farla scivolare. La risatina euforica di Erin riempì immediatamente la stanza e Magnus avvertì chiaramente la sensazione di star per esplodere. Erin aveva passato soltanto mezza giornata sola con Alec e già si erano inventati un gioco tutto loro. Di questo passo, Magnus avrebbe impiegato trenta secondi a dare retta a Beyoncé e iniziare a pensare di mettere un anello su un determinato dito. Arrivati a questo punto, Magnus era fermamente convinto di essere uscito fuori di testa.
E di essere cotto di Alexander Lightwood, se doveva essere pignolo. Ma dettagli.
Bintang, sei pronta ad andare?”
Erin annuì e Alec la rimise a terra.
“Devo andare anche io. Comincio il turno di notte. Possiamo scendere insieme, se ti va.” Propose Alec e Magnus, in quel momento, dovette sforzarsi enormemente per non cedere alla tentazione titanica di dirgli che insieme a lui avrebbe fatto un sacco di cose – alcune decisamente poco caste e vietate ad un pubblico di qualsiasi età.
“Ma certo, sì.”
Magnus osservò Erin che andava a salutare Jace – a questo punto l’unico rimasto – mentre Alec rivolgeva quasi tutti i suoi saluti a Diana, che gli aveva dato un bacio sulla guancia e adesso lo stava abbracciando.
“Ci vediamo domani, D.”
La bambina annuì, felice e trotterellò dalla madre, mentre Alec si dirigeva verso Jace.
“Allora va bene se domani la passo a prendere?”
“Sì, certo. Le farà piacere stare con te tutto il pomeriggio. Le piacciono le giornate con gli zii.”
“Se conti che sono il suo preferito, le piacerà ancora di più!”
Jace rise e gli piazzò un pugnetto sul braccio con fare scherzoso. “Sei consapevole che dite tutti la stessa cosa? Tu sei convinto di essere il suo preferito, così come lo sono Izzy e Max.”
“Ma solo uno di noi ha ragione.” Ammiccò, sicuro di sé. “Vado, o rischio di fare tardi al lavoro. Ti chiamo domani così ci mettiamo d’accordo.”
“Va bene.” Jace si sporse per abbracciarlo, alzandosi leggermente sulle punte. Alec ricambiò la stretta.
Quando si separarono, Alec si diresse verso Clary per salutare anche lei. L’abbracciò perché in cuor suo sapeva che non stava passando un bel momento, Jace l’aveva informato. Ed era fermamente convinto che in momenti in cui ci si sente più fragili, l’appoggio della famiglia sia importante.
Almeno, per lui era stato così. Se non avesse avuto l’appoggio dei suoi fratelli in quelle situazioni dove tutto sembrava irrisolvibile, avrebbe finito per mettere la testa nel forno.
“Ci vediamo domani!” Alec li salutò, dirigendosi verso la porta affiancato da Magnus ed Erin. Ci fu un ultimo saluto generale e poi uscirono di casa.


Arrivati all’ascensore, Alec fece entrare Magnus ed Erin per primi non appena le porte si aprirono e poi entrò a sua volta. Provava una strana sensazione, qualcosa che assomigliava alla familiarità in un modo pericoloso. Aveva una paura fottuta di essersi diretto in una direzione dalla quale non c’era più ritorno: Magnus gli piaceva, non vedeva l’ora di passare del tempo con lui e iniziava a volere bene ad Erin come se fosse una specie di nipotina acquisita.
C’era qualcosa nel loro rapporto, tuttavia, che lo spingeva a non correre. Non era solo il suo passato, anche se era consapevole che la sua mancanza di fiducia avesse un ruolo quasi fondamentale nella sua decisione di non buttarsi a capofitto nelle relazioni. Era la consapevolezza che lui e Magnus non erano mai usciti davvero. Erano amici. Si erano frequentati come possono farlo due amici. E questo non bastava per capire se erano effettivamente fatti per stare insieme. Gesù, Alec in quattro anni non si era accorto che Will l’aveva riempito di bugie, come pretendeva in poco più di un mese e mezzo di avere la certezza di conoscere Magnus?
Non ce l’aveva, questa era la risposta.
Ma a differenza di altre situazioni, la paura che provava a quella consapevolezza non era paralizzante. Era più che altro catartica: gli dava la spinta per trovare sempre un pretesto per passare del tempo con Magnus. Solo avendo a che fare con lui il più possibile, avrebbe effettivamente capito quali fossero i suoi sentimenti e in che cosa si sarebbe sviluppata la loro relazione. Se davvero poteva usare questo termine per descrivere ciò che c’era tra di loro.
“Cosa fai domani?” gli domandò, dando voce al filo dei suoi pensieri.
“Preparo la casa per la festa.”
“Non hai un po’ di tempo per me?”
Il sorriso che Alec gli rivolse fece afflosciare la colonna vertebrale di Magnus. Per lui avrebbe sempre avuto un po’ di tempo, di questo il ballerino ne era pienamente consapevole. Aveva un debole per quel sorriso e quegli occhi da cerbiatto.
“Mattina o pomeriggio?”
“Pomeriggio. Porto Diana al centro commerciale per attuare la mia vendetta su Jace.”
“Ora capisco: vuoi un complice.”
Alec emise una risata sommessa. “Che ne dici, Magnus? Vuoi passare da finto fidanzato a complice?”
“Suona come una proposta estremamente seria, confettino. Non posso certo rifiutare.” Gli fece l’occhiolino, prima di ricambiare il sorriso che Alec gli stava già rivolgendo.
“Vi passo a prendere domani, allora. Ti chiamo per metterci d’accordo.”
“Perfetto, tesoro.”
Le porte dell’ascensore si aprirono in quel preciso istante, quasi come se il destino o chiunque lo manovrasse avesse voluto lasciarli tutto il tempo per organizzarsi. Uscirono dall’ascensore e si diressero verso l’uscita del palazzo. 
Una volta in strada, Alec adocchiò la sua macchina parcheggiata poco più in là. Aveva trovato quel parcheggio solo qualche ora prima, quando erano tornati dalla loro passeggiata e avevano optato per aspettare Clary e Magnus a casa di Jace. Erin era stata nel sedile posteriore, seduta sul seggiolino che Alec aveva comprato per Diana.
“Vi porto a casa?”
“Non ci starai viziando, Alexander?”
“Forse mi piace farlo.” Alec gli sorrise e incatenò i suoi occhi a quelli di Magnus. Non si sarebbe mai stancato di notare quanto fossero belli, di quanto quel colore ambrato trasmettesse un calore accogliente. “Allora, vi porto a casa?”
Magnus annuì. “Grazie. E grazie anche per esserti occupato di Erin, oggi.” Abbassò lo sguardo sulla figlia, che lo teneva per mano e che, sentendosi tirata in causa, sorrise.
“È stato un piacere. Ci siamo divertiti, vero scimmietta?” Disse Alec, rivolgendosi direttamente alla bambina.
“Vero, io e Alec siamo super amici, adesso!” 
Alec e Magnus sorrisero entrambi alla bambina, prima di guardarsi nuovamente e rimanere per qualche secondo l’uno fisso negli occhi dell’altro – consapevoli che, qualsiasi cosa fosse ciò che li legasse, entrambi non vedevano l’ora di scoprirlo.



*



Quella sera stessa, dopo che Alec li aveva riaccompagni a casa, Magnus stava apparecchiando la tavola, mentre sua madre finiva di preparare la cena. Non lo faceva mai cucinare, quando andava a cena da lui – e questo lo portava sempre indietro di anni, quando era ancora un bambino e vivevano nella stessa casa. Erano sempre stati lui e lei – e la storia si ripeteva adesso che Magnus era padre. Nello stesso modo in cui Magnus aveva avuto solo una mamma, Erin aveva solo un papà.
Si chiese, tuttavia, se lui fosse abbastanza per la sua piccola, se lei in un futuro non avrebbe potuto sentire la mancanza di una figura materna.
Lui, di certo, la mancanza di una figura paterna non l’aveva sentita. Probabilmente perché, a differenza di Erin, lui suo padre per cinque anni della sua vita l’aveva conosciuto. Ed erano ricordi di cui faceva volentieri a meno. Asmodeus, un nome che poteva sembrare irreale, che si sarebbe potuto usare per descrivere il cattivo di una favola, tipo Jafar. Ma per Magnus era reale e di certo non apparteneva ad una favola. Asmodeus era il cattivo della sua infanzia, qualcuno che aveva costretto sua madre a cambiare paese perché troppo possessivo, violento e manipolatore. La violenza fisica arrivava solo dopo quella psicologica. Prima annullava sua madre a parole, poi le mollava qualche schiaffo. Le ripeteva in continuazione che era una nullità, che non era abbastanza, che non sarebbe mai riuscita a combinare niente nella vita, e quando lei provava a rispondere a quegli insulti, arrivavano gli schiaffi. O le percosse. Voleva piegare il suo spirito, la sua mente e successivamente il suo corpo. Suo padre era un maestro nella spregevole arte della manipolazione.
Asmodeus era un uomo terribile, che aveva mascherato la sua meschinità dietro a sorrisi e parole dolci per anni, prima che Madelaine capisse chi fosse colui che aveva vicino.
Un uomo che l’aveva voluta soltanto per sentirla una sua proprietà. Avvilendola in quel modo, essendo sicuro di esserle entrato in testa, inculcandole idee secondo le quali lei non sarebbe mai stata abbastanza, sarebbe riuscito a imporre la sua superiorità, il suo volere su di lei. E una volta completato quel suo sadico piano, Madelaine sarebbe stata sua per sempre – soggiogata nel terrore, consapevole che mai avrebbe dovuto contraddirlo perché era lui quello che dettava regole e leggi, e lei avrebbe solo dovuto obbedire.
Asmodeus non voleva una compagna, voleva solo sentirsi il re del suo regno. Un re cattivo, dal cuore arido e avvelenato dalla sua visione contorta del mondo.
Per questo Madelaine, una notte, era entrata di soppiatto nella camera di Magnus, l’aveva svegliato e l’aveva portato via da quella casa degli orrori, dove più che una famiglia, ormai, sembravano i prigionieri di un sovrano infernale.
Erano saliti su un aereo all’alba.  Magnus si era addormentato durante il viaggio e quando si era svegliato, erano già in America.
Contrariamente a tutto quello che Asmodeus si era sempre impegnato di farle credere, Madelaine era una donna forte e capace che era riuscita a crescere un figlio da sola, in un paese straniero. Avevano cambiato cognome, avevano imparato la lingua insieme e richiesto la cittadinanza per entrambi. Erano cresciuti, cambiati. E senza Asmodeus avevano potuto assaporare finalmente il concetto di famiglia in serenità.
Più di una volta Magnus le aveva chiesto se non avesse paura che li seguisse, che saltasse su un aereo e tornasse a perseguitarli. Madelaine cambiava espressione tutte le volte: il suo viso, per una frazione di secondo, veniva attraversato dal terrore, ma mai una volta aveva espresso quel sentimento al proprio figlio. Non avrebbe mai scaricato i suoi timori su di lui, di conseguenza gli rispondeva sempre che doveva stare tranquillo, che suo padre era ormai solo un incubo lontano.
Non avevano più notizie di lui da trent’anni – e Madelaine, solo adesso, a cinquantacinque anni, riusciva a concedersi la totale tranquillità.
Magnus ancora non riusciva a capacitarsi della forza che aveva avuto sua madre, ma solo perché per lui era così tanta che era impossibile da quantificare. Madelaine era la sua eroina, che l’aveva salvato dal mostro cattivo, dal drago che circondava il castello e li teneva in ostaggio. Se non fosse stato per sua madre e il suo coraggio, la sua vita adesso sarebbe diversa.
Dalla sala, Magnus guardò Madelaine in cucina, ai fornelli intenta a preparare chissà che cosa. Vicino a lei ci stava Erin, che le stava raccontando la sua giornata. Magnus sorrise e si incamminò verso di loro. Quando fu abbastanza vicino alla madre l’abbracciò da dietro, stringendola forte a sé.
Madelaine rise. “Così mi spezzi le costole, annaku.”
Magnus in tutta risposta la strinse ancora di più.
“A cosa devo questo moto d’affetto, tesoro? Nota, non mi sto lamentando, sono solo curiosa.”
“Sei il mio eroe.” Le disse solamente e a quelle parole, la donna lasciò i fornelli e si voltò verso il figlio. Incrociò il suo sguardo, così simile al suo da rendere inequivocabile la parentela.  Madelaine afferrò il viso del figlio tra le mani e gli accarezzò le guance. Sapeva a cosa si stava riferendo, non aveva bisogno di chiedere spiegazioni. Il discorso era venuto fuori parecchie volte, quando Magnus era un ragazzino.
“Ci hai salvati, mamma.”
Gli occhi di Madelaine si velarono di lacrime, ma non le fece scendere. Si limitò solamente ad abbracciare Magnus, a stringerlo forte a sé. “Lui non ci può più fare del male.”
“Lo so.”
“Siamo al sicuro e siamo insieme.” Continuò con tono rassicurante. Una delle tante cose che Magnus apprezzava più di sua madre era il fatto che, nonostante provasse paura, non si faceva mai paralizzare da essa. Sapeva bene che era terrorizzata da Asmodeus – non era stupida, era consapevole che ogni giorno passato con lui rischiava sempre di essere il suo ultimo giorno sulla terra – ma nonostante questo, aveva avuto il coraggio di rischiare. Aveva rischiato, andandosene. Perché era notte fonda e c’era silenzio e anche il minimo rumore l’avrebbe svegliato e se avesse capito cosa stava veramente succedendo l’avrebbe picchiata fino a toglierle la vita e poi chissà cosa avrebbe fatto a Magnus, ora che lei non c’era più a proteggerlo.
Eppure, nonostante i rischi, lei era determinata a portare a termine il suo piano di fuga verso la libertà. Non si era mai guardata indietro, aveva solo guardato in avanti, verso un futuro che sarebbe sicuramente stato migliore del loro passato.
“Ti voglio bene.” Le disse, mentre ricambiava la stretta.
“Anche io, bambino mio.”
Il silenzio calò su di loro, un fantasma dal passato aleggiava sui loro cuori, riportandoli anni indietro, quando stavano ancora a Giacarta.
E poi due piccole braccia scacciarono via quel poltergeist come un raggio di luce porta via le nuvole squarciando il cielo tempestoso. Erin stava abbracciando le gambe di entrambi, unendosi a modo suo in quell’abbraccio.
“Abbraccio grossissimo.” Disse, stringendo una gamba del padre e una della nonna. Sia Madelaine che Magnus si guardarono sorridendo. Il potere di quella bambina era enorme, come il suo cuore gentile e la sua capacità di portare di nuovo il buon umore.
Magnus prese in braccio Erin, che lo abbracciò. Madelaine strinse entrambi a sé. Era quello il suo mondo. Questo era ciò che aveva ottenuto per aver scelto di andarsene, per aver dato retta a quella vocina che le aveva suggerito di rischiare. E l’avrebbe rifatto altre cento volte, se questa era la ricompensa che le spettava. Aveva suo figlio e sua nipote. Per come la vedeva lei aveva tutto ciò che importava.
“Forza, adesso mettetevi a tavola che è quasi pronta la cena.” Diede un bacio sulla guancia ed entrambi, prima di finire di cucinare. Ma Magnus non si allontanò e rimase insieme a lei. La guardò come faceva quando aveva sette anni e rimaneva con lei a guardarla cucinare. La guardò, ringraziando ogni divinità esistente di averla ancora con sé ed essendole grato di tutte le cose che aveva fatto per lui.



Dopo cena, Magnus e Madelaine si trovavano in cucina a lavare i piatti. Erin era in sala a guardare Tarzan della Disney.
Mentre lavava l’ultimo piatto, Magnus pensò al messaggio che aveva ricevuto da Jace solo quindici minuti prima: Ho parlato con Clary. Ha detto sì.
Clary aveva acconsentito alla proposta di Jace di farsi aiutare da Madelaine. A Magnus l’idea piaceva. Sua madre era in grado di trasmettere sicurezza e protezione. Di conseguenza, Magnus voleva sperare che Clary sarebbe stata meglio, insieme a lei.
“Dovrei chiederti una cosa.” Cominciò, quindi.  Madelaine smise di asciugare il piatto che le era stato precedentemente passato e fissò i suoi occhi in quelli del figlio.
“Mi devo preoccupare?”
“No, non troppo, almeno credo.” Magnus si voltò verso di lei, abbandonando momentaneamente quello che stava facendo. Madelaine lo imitò. “Sono stato con Clary, oggi. Siamo andati a scegliere il vestito per le damigelle insieme alle dirette interessate, ma… quando siamo rimasti soli, nel tragitto verso casa, mi ha detto che le manca Jocelyn, in questo periodo particolarmente.” Magnus fece una pausa. “Ho parlato anche con Jace, una volta che siamo arrivati a casa… o meglio, lui ha voluto parlare con me, e ha pensato che a Clary farebbe bene se l’aiutassi con i preparativi. Dice che sei come una zia per lei e averti vicino potrebbe alleviare un po’ la nostalgia. Lo faresti?”
“Certo che sì, non c’era nemmeno bisogno di chiederlo. Adoravo Jocelyn e adoro Clary. Farei qualsiasi cosa per farla stare meglio.”
Magnus le sorrise. “Grazie, ibu, sei la migliore.”
Madelaine si allungò per abbracciarlo forte. “Scrivi a Jace, digli che chiamerò Clary domani e sarò a sua disposizione ogni volta che avrà bisogno.”
“D’accordo.” Magnus estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrisse a Jace. Non c’erano altri messaggi ricevuti e quando diceva così intendeva che Alexander non gli aveva scritto. Evidentemente non aveva avuto tempo e Magnus sperò solo che in pronto soccorso la situazione non fosse troppo grave. Gli avrebbe scritto il giorno dopo, lasciandolo tranquillo fino alla fine del suo turno.
Il suo cellulare vibrò, dando segno che un altro Lightwood aveva risposto. Grazie, a tutti e due, diceva il messaggio.
“Jace ringrazia.”
Madelaine sorrise. “Jace è un bravo ragazzo. Mi piace.”
“Sono tutte brave persone in quella famiglia.” Ragionò ad alta voce Magnus. Ed era vero. Il fatto che ultimamente avesse un Lightwood preferito non rendeva gli altri meno piacevoli.
“Uno più di altri, scommetto.” Madelaine gli rivolse un sorriso onnisciente dei suoi, ma non disse altro. Si limitò solamente a finire di sistemare l’ultimo piatto asciutto nella credenza e incamminarsi verso l’uscita della cucina. “Andiamo a vedere Tarzan?”
Magnus annuì e la seguì fuori dalla cucina. In fin dei conti, però, sua madre aveva ragione. Uno più di altri. Alexander più di altri.


*



Halloween era arrivato. Dopo giorni interi passati a pianificare la festa perfetta e ad indossare almeno qualcosa di arancione, la festa che Magnus preferiva era arrivata. Doveva ancora finire di sistemare casa con gli ultimi dettagli, ma Alec si era offerto di aiutarlo. Aveva detto che siccome l’aveva praticamente sequestrato per le prime ore del pomeriggio, prima di sera e dell’orario stabilito per l’inizio ufficiale della festa, sarebbe rimasto con lui e l’avrebbe aiutato con gli ultimi dettagli.
Magnus aveva accettato, se non altro perché avere delle scuse formali per passare del tempo con Alexander rendeva la propria attrazione nei suoi confronti meno palese. Con una scusa per frequentarlo, poteva evitare tutte le occhiate che già vedeva negli occhi dei suoi amici – e di sua madre – che capivano sempre le cose prima di lui – o credevano di farlo. Saccenti impiccioni. Ma li adorava.
Ad ogni modo, Magnus era consapevole che se Alexander gli avesse proposto di fissare insieme un muro per un’ora lui avrebbe accettato.
Portatelo ovunque, purché ci sia Alexander Lightwood. Come si dice: non conta il posto, ma la compagnia. Giusto?
“Allora, cerbiattino, mi vuoi spiegare il tuo piano?”
Si trovavano dentro al centro commerciale, un luogo che Magnus adorava, se non altro perché era pieno di negozi, ma starci con Alec assumeva tutto un altro significato. Era passato a prenderli, puntale all’ora che avevano stabilito. Aveva aiutato Magnus a montare il seggiolino di riserva per Erin sul sedile posteriore della sua auto, in modo che le bambine potessero stare abbastanza vicine, ma al sicuro nei loro rispettivi seggiolini. Poi Magnus si era sistemato al sedile del passeggero ed erano partiti.
Cerbiattino, davvero?” Si lamentò Alec, lanciandogli un’occhiata laterale. Passarono davanti ad una vetrina carica di giocattoli, così le bambine si fermarono, appiccicando i nasi e le manine per controllare cosa ci fosse di particolarmente bello. I due uomini si fermarono con loro.
“Che ha che non va? Hai dei bellissimi occhi, in pratica è un complimento.”
Alec sostenne il suo sguardo per una frazione di secondo, poi lo abbassò, mordendosi l’interno delle guance – quasi come se avesse voluto trattenere un sorriso.
“Allora grazie.” Sussurrò, alzando di nuovo lo sguardo su di lui.  Magnus si chiese se fosse possibile guardare un paio d’occhi e associarci la parola ridere. Eppure gli occhi di Alec lo facevano. Il suo sorriso partiva dalla bocca e si estendeva fino ai suoi occhi. Ogni volta che sorrideva, il suo viso si illuminava e Magnus si dimenticava come si faceva a respirare.
“Ciò non toglie, però,” continuò Alec, “Che non userai quel soprannome per me.”
“Sei il solito guastafeste, zuccherino.”
Alec rise sommessamente e poi spostò l’attenzione su qualcosa che non fosse  direttamente lui. “Allora, vuoi conoscere il piano?”
“Illuminami.”
Alec guardò oltre la spalla di Magnus e sorrise. “Vieni con me. Te lo faccio direttamente vedere.” Prese Diana per mano, allontanandola delicatamente dalla vetrina e si incamminò verso il negozio successivo. Magnus, afferrata la manina di Erin, lo seguì.


“Un negozio di costumi?” Domandò Magnus perplesso, rimanendo immobile all’ingresso del negozio. “Tesoro, dobbiamo rivedere insieme la tua idea di vendetta.”
Alec gli diede una leggera spallata. “La tua mancanza di fiducia mi ferisce, Magnus.” Oltrepassò la soglia del negozio, inoltrandosi poi al suo interno, tra i vari scaffali. Con Diana per mano, che guardava quel negozio con occhi curiosi, si diresse verso il reparto riservato ai bambini. La piccola cominciò ad indicare ogni cosa, venendo attratta dalla moltitudine di colori.
Quando Alec si fermò in un determinato punto, Magnus lo imitò e rimase in attesa fino a quando non lo vide chinarsi verso uno scompartimento basso dello scaffale davanti al quale si erano fermati ed estrarre un costume piegato e imballato nella plastica.
Alec sollevò il suo bottino con aria trionfante, mostrandolo a Magnus. “Jace odia le papere. Lo terrorizzano. Vestirò Diana da paperotta a sua insaputa.”
“Mi rimangio tutto quello che ho detto. Conosci bene il significato di vendetta. Sei sicuro che non darete il via ad una serie di ripicche eterne?”
Alec stava controllando la taglia del costume, così alzò gli occhi su Magnus. “È probabile. Ma se ci pensi, ci facciamo scherzi simili da tutta la vita, quindi tanto vale portare a termine il piano.”
“Siete strani.” Sentenziò, un occhio socchiuso.
Alec annuì. “Già. Non lo nego più nemmeno, ormai.”  Si chinò all’altezza della nipote e le mostrò il costume.
“Che dici, tesoro, vuoi essere una paperotta, stasera?”
“Posso avere un fiocco rosso in testa come Paperina?”
“Certo che puoi!”
“Allora sì.” Diana annuì con convinzione, un sorriso sbocciò sul visetto paffuto. “Mi piacciono le papere.”
Alec trovò la cosa piuttosto buffa. Sicuramente Diana non aveva preso da suo padre, pensò.
“Anche a me.” Le disse, accarezzandole i capelli. Erano legati in due codini bassi da due elastici a forma di ciliegia. Il rosso spiccava sul biondo dei ricci. I suoi occhi, di quel verde brillante come quello della madre, erano circondati da lunghe ciglia bionde. Diana era davvero un mix perfetto dei suoi genitori, anche se Alec era convinto che assomigliasse un po’ di più alla madre. Tranne quando si intestardiva sulle cose, in quel caso era spiccicata al padre.
Clary diceva sempre che aveva presto la testardaggine dei Lightwood e quando uno di loro aveva a che fare con la piccola, riteneva che fosse una giustizia voluta dal karma. Ho a che fare con la vostra testardaggine da dieci anni ormai. È giusto che sappiate cosa si prova ad avere a che fare con la testa dura di un Lightwood! – diceva sempre, ma Jace sembrava andasse particolarmente fiero di questa cosa. Se fosse stato per lui, avrebbe affisso manifesti in tutta NY che affermavano che sua figlia gli assomigliava.
Ad ogni modo, appurato che il costume piaceva anche alla bambina, Alec se lo sistemò sotto braccio e si rivolse a Magnus. “Devi comprare qualcosa?”
L’uomo negò con il capo. “Ho già i nostri costumi pronti da una settimana!”
Alec non riuscì a trattenere un sorriso. “Giusto, quasi dimenticavo che sei un fanatico di Halloween.” Alzò gli occhi sul ciuffo arancione di Magnus. “Quasi, visto quel costante promemoria che ti porti dietro.”
Magnus alzò un sopracciglio con fare piuttosto accusatorio. “Hai delle critiche da fare riguardanti il mio ciuffo?”
Alec si avvicinò un po’ di più a lui. Percorse con lo sguardo il viso dell’uomo di fronte a sé, quasi avesse voluto impararne a memoria i dettagli. Quando fissò i suoi occhi in quelli di Magnus disse: “Mi piace il tuo ciuffo. E penso anche tu sia l’unico essere umano a cui sta bene l’arancione.” Gli sorrise e, giusto per infliggere l’ultimo colpo di grazia al ballerino, gli fece l’occhiolino. L’occhiolino. Magnus era certo che stesse per morire.
Alec lo superò, dirigendosi con Diana verso la cassa per pagare il costume. Magnus rimase a guardarlo qualche secondo, prima di riprendere la funzionalità corretta delle gambe e seguirlo, tenendo Erin per mano.
Alexander aveva un potere particolare su di lui. Ne aveva molti in realtà. Uno dei quali, aveva appena appurato, era quello di azzerargli le capacità motorie con un semplice occhiolino.


*


Tornarono a casa di Magnus verso metà pomeriggio. Alec, un uomo di parola, era salito con lui con tutto l’intento di aiutarlo a sistemare casa. Nel tragitto dall’ascensore al loft, aveva chiamato Jace per aggiornarlo e dirgli che andava tutto bene: Diana si divertiva, a breve avrebbe fatto merenda e sarebbe rimasta con lui fino a quella sera. La scusa era per lasciare che Jace e Clary passassero un po’ di tempo da soli, la vera ragione era ovviamente che Alec non voleva che il fratello vedesse la figlia prima del previsto, altrimenti avrebbe rovinato il piano.
Arrivati davanti alla porta di Magnus, Alec lo guardò inserire le chiavi nella toppa per aprirla. Erin e Diana entrarono per prime – perché Erin, durante il viaggio verso casa aveva detto a Diana che aveva una nuova costruzione Lego che dovevano assolutamente costruire insieme. Da quello che Alec aveva capito, doveva essere uno zoo con gli animali componibili ed era stato un regalo di Raphael.
“Prima di iniziare a giocare dovete togliervi i giubbotti, signorine!” Esclamò Magnus, mentre si chiudeva la porta alle spalle. Le bambine, ovviamente, lo ignorarono. Sia lui che Alec sentivano già le loro vocine concitate mentre cercavano il pezzo giusto per completare il delfino.
“Penso dovremmo andare da loro e farlo noi.” Disse Alec, togliendosi il suo giubbotto di pelle e appoggiandolo all’attaccapanni. Solo quando si voltò di nuovo con l’intento di percorrere il piccolo corridoio che separava l’entrata dall’ampio salone, Alec si rese conto che Magnus aveva trasformato completamente la sua casa. I mobili erano ricoperti di decorazioni spettrali: ciotole viola piene di caramelle che venivano abbracciate da dei piccoli Frankenstein verdi; candele a forma di zucca, ognuna delle quali aveva un sorriso spettrale intagliato sulla faccia, accompagnato da due occhi triangolari; c’erano streghe di varie dimensioni ad ogni angolo della casa, alcune erano persino dotate di un sensore di movimento che faceva partire una risata non appena gli si passava accanto. Dai soffitti pendevano delle ragnatele così realistiche che Alec si trovò a rabbrividire pesantemente – brivido che gli percorse tutta la schiena e diventò freddo quando notò gli aracnidi decisamente realistici che abitavano in quelle tele. Alec odiava i ragni. Lo terrorizzavano. A cosa servono quattro zampe in più del normale? Perché non potevano essere dei normalissimi quadrupedi come la maggior parte degli animali? Tutti gli animali carini hanno quattro zampe, superato il quattro gli animali in questione diventavano raccapriccianti – vedi, appunto, i ragni.
Alec distolse lo sguardo dal ragno gigante che si calava dal soffitto e lo spostò su uno scheletro enorme nel salotto.
“Si illumina al buio.” Lo informò Magnus, notando il suo sguardo.
“Non scherzavi quando dicevi che ami Halloween. Casa tua è già praticamente perfetta, cos’altro manca?”
“La palla stroboscopica.”
Alec abbandonò lo studio dei dettagli della casa per guardare Magnus, accanto a lui. “Sei serio?” Domandò, alzando un sopracciglio in modo scettico.
“Serissimo, pasticcino. E visto che sei così titubante, la monterai tu.”
Alec emise un verso a metà tra uno sbuffo e un lamento. “Devo proprio? Non posso fare altro?”
“Potresti, ma in quel caso dovrei usare lo stesso verbo riferito ad altro e cadrei nel volgare. E io non voglio cadere nel volgare, tesoro, non mi piace.” Magnus sbatté le ciglia scure in un modo che ne aveva del civettuolo. “Fammi contento, puoi?”
Alec decise di non prestare attenzione al significato nemmeno troppo velatamente sessuale della prima frase – se non altro perché immaginarsi con Magnus in un determinato contesto non gli faceva bene all’autocontrollo – e annuì.
“Posso, sì.”
Tuttavia, commise l’errore di percorrere di nuovo il viso di Magnus con lo sguardo e di scendere al di sotto del suo mento, posando gli occhi sulle curve del collo – dove spiccava il pomo d’Adamo –  e scendendo fino alle clavicole, lasciate completamente scoperte dai primi bottoni aperti della camicia che indossava. Alec improvvisamente sentì la gola secca e l’allusione di Magnus che gli rimbombava chiaramente nelle orecchie. Si leccò le labbra perché cominciava a sentire aride pure quelle, come se non bevesse da ore, e si schiarì la gola per darsi un contegno. Quando si costrinse a rialzare lo sguardo sugli occhi di Magnus, notò che stava sorridendo, in un modo soddisfatto e famelico.
Se Alec sembrava avesse sete, Magnus sembrava avesse fame. Una fame vorace, che solo un bacio e  un intreccio di mani avrebbe potuto saziare. Un corpo che nutre un altro corpo con il contatto, pelle sudata contro pelle sudata e respiri che nascono e muoiono nella bocca dell’altro.  Desideri reconditi confessati all’orecchio, in un sussurro che portava con sé parole proibite. E baci sazianti, che consumano le labbra. Baci che diventano morsi. Mangiarsi di baci, un concetto che Alec non era riuscito a figurarsi fino a quel momento. In quell’esatto istante, quell’unico concetto sembrava essere la sola cosa in grado di spiegare perfettamente l’atmosfera elettrica che si era improvvisamente creata nell’aria.
Deglutì, a vuoto, perché non sapeva che altro fare. Aveva l’impressione di star annaspando e sentiva chiaramente di doversi trattenere dal fare un gesto avventato. Perché afferrare Magnus per la camicia e far scontrare le loro bocche sarebbe stato un gesto decisamente avventato.
“Le bambine!” Esclamò quindi, perché niente annulla la tensione sessuale come la presenza di due quattrenni.
Magnus uscì dalla bolla che si era appena creata tra di loro. “Devono fare merenda.” Disse, come se fosse una realizzazione lontana, quasi appartenesse a qualcun altro e non a lui. Improvvisamente, era come se Magnus fosse stordito.
Alec annuì – forse con un po’ troppo vigore, quasi come se avesse voluto concentrarsi ardentemente su qualcosa che non fosse Magnus. A cosa poteva pensare? A dei biscotti, o ai lama, ai cani che vanno sullo skateboard, o ai panda che starnutiscono. Qualsiasi cosa che non fosse Magnus e il suo modo decisamente seducente di guardare Alec.
“Vado a preparare qualcosa. Tu provi a convincerle a togliersi i giubbotti?”
Alec annuì di nuovo e seriamente sembrava che qualcuno gli avesse mangiato la lingua. Si sentì un tantino idiota, ma non si fidava di se stesso in quel momento: non della sua voce che sarebbe uscita un’ottava più acuta del normale, non delle sue mani che formicolavano per la voglia di sfiorare Magnus. Così rimaneva immobile e in silenzio, annuendo solamente con il capo.
Magnus accennò un sorriso e alzò una mano verso il suo viso. Gli accarezzò una guancia e Alec dovette resistere all’impulso di piegare la testa verso la sua mano. Perché gli faceva quell’effetto? Perché tutto ad un tratto gli veniva difficile controllarsi? Erano stati l’uno vicino all’altro tantissime volte, ma mai prima d’ora Alec aveva provato l’impulso quasi irrefrenabile di scoprire cosa si provava a percepire la pelle di Magnus sotto ai propri polpastrelli. Si trovò a deglutire di nuovo, a vuoto, e a trattenere rumorosamente il respiro quando la mano di Magnus scese dalla sua guancia,  accarezzandogli il collo e fermandosi sul suo petto, dove rimase ferma e salda. Alec si chiese se in quel modo Magnus riuscisse a percepire il battito impazzito del suo cuore, se sentisse la corsa a cui quel gesto l’aveva sottoposto. Un tamburo tribale che aumenta d’intensità ad ogni attimo passato in contatto con lui. E dire che lo stava toccando da sopra alla maglietta.
“Vado. Faccio presto e torno da te.” Magnus ammiccò e Alec sentì la gola essiccarsi e la lingua ridursi ad una striscia di carta vetrata.
Annuì ancora come un beota e lo osservò dirigersi verso la cucina. Riacquistato il controllo di sé, Alec si diresse verso le bambine. I loro giubbottini erano stati abbandonati sul divano e quando lo videro arrivare, gli mostrarono entusiaste il loro zoo che stava prendendo forma. Avevano costruito il delfino, la giraffa e la zebra, ma non riuscivano a trovare il leone, così chiesero ad Alec di aiutarle. Lui accettò volentieri. Almeno avrebbe avuto momentaneamente una distrazione, qualcosa che lo aiutasse a non pensare a Magnus, alla sua mano e ai suoi occhi su di sé.



La tensione era sparita, costatò Alec. Il formicolio alle mani era passato e riusciva a guardare Magnus senza sentire la gola che si seccava. Era stato un attimo, tanto passeggero quanto veritiero. Alec era pienamente consapevole che la sua cotta dovesse sfociare in qualcosa. E quel qualcosa era stato quell’attimo che avevano vissuto. Tensione sessuale. Alec poteva giurare di averla percepita – tanto che avrebbe potuto tagliarla con un coltello. La colpa, di questo ne era quasi certo, era della sua astinenza. Non toccava un altro essere umano da quasi un anno, era logico che avesse avuto pensieri simili. La sua mente – che a questo punto remava contro di lui – aveva lasciato che quella parte di sé che aveva accettato i suoi sentimenti indefiniti per Magnus prendesse il sopravvento e lo portasse dove gli ormoni avevano deciso di portarlo. Verso lidi in cui Magnus gli mangiava la faccia e lui se la faceva mangiare, felice di ricambiare qualsiasi tipo di bacio Magnus desse.
E sul quell’onda di pensieri, Alec si trovò persino a chiedersi che tipo di baciatore fosse Magnus, ma decise di fermare sul nascere quei pensieri per evitare una replica dell’Alec-imbranato-show di poco prima.
L’ultima cosa che gli serviva era immaginare come Magnus baciasse, se le sue labbra fossero morbide o se avessero un buon sapore.
Decise, invece, per il bene della sua sanità mentale, di concentrarsi su ciò che doveva fare: montare la palla stroboscopica. Per questo si trovava su una scala per capire effettivamente dove dovesse attaccare il pallone che adesso teneva in mano. Era ricoperto di piccoli specchi che avrebbero riflettuto la luce.
“Magnus, esattamente dove vuoi che la metta?” Domandò, guardando verso il basso.
Magnus gli stava reggendo la scala, ma era stato momentaneamente distratto dalla parte bassa degli addominali di Alec che erano sbucati dalla sua maglietta quando questa si era alzata dopo che lui aveva sollevato le braccia. “Vedi quella piccola sporgenza nel soffitto?”
Alec sollevò lo sguardo e notò un gancetto. “Intendi questo gancio?”
“Proprio quello.”
“Non è una sporgenza, Magnus. È un gancio.”
Magnus roteò gli occhi. “Non fare il pignolo, adesso. Mi sembra che tu abbia capito lo stesso.”
Alec non poteva dargli torto, così non ribatté. Adagiò la palla in modo che il gancio entrasse nella fessura che si trovava all’estremità della sfera ed Alec ebbe l’impressione si star infilando un’enorme pallina di Natale nel ramo di un albero natalizio. Dopo di che, la fissò al soffitto con del nastro adesivo isolante, come gli aveva spiegato Magnus in precedenza. Sistemò il nastro adesivo in modo che non si vedesse, perché poteva essere davvero antiestetico vedere dello scotch che sbucava dal soffitto. Quando Alec fu sicuro che quella palla stroboscopica non sarebbe finita in testa a nessuno, scese dalla scala.
“Fatto.”  
“Grazie, sei davvero un tesoro.” Si alzò leggermente sulle punte per baciargli una guancia. La sua mano, in quel processo, si appoggiò istintivamente al fianco di Alec, il quale arrossì. “Ma non abbiamo finito. Vuoi ancora aiutarmi?”
Avrebbe mai trovato la forza per dirgli di no? Si chiese Alec.
“Certo che voglio aiutarti.”
Riposta: no, non l’avrebbe mai trovata. Ma questo solo perché assecondando Magnus, avrebbe passato più tempo con lui. Ed era pienamente consapevole di quanto gli piacesse stare in sua compagnia.
Magnus gli rivolse un sorriso felice così luminoso che avrebbe potuto illuminare l’intera galassia. “Allora seguimi.”
Prima di fare come gli era stato chiesto, Alec lanciò un’occhiata alle bimbe. Erano ancora in salotto, intente a giocare ancora con lo zoo Lego. Sul tavolino davanti al divano c’erano due piattini pieni di biscotti e due bicchieri pieni di succo di frutta. Entrambe ogni tanto piluccavano un biscotto e bevevano un sorso di succo, ma la loro attrazione principale erano quegli animaletti componibili. Alec sorrise, vedendo come si scambiano i pezzi che trovavano. Diana aveva deciso di comporre un ippopotamo, Erin una foca, quindi l’una aiutava l’altra a trovare i pezzi del rispettivo animale nel caso la diretta interessata non ci riuscisse.
“Alexander?” Magnus attirò nuovamente la sua attenzione, così Alec decise di seguirlo. Fu così che scoprì che il loft aveva un piccolo ripostiglio. E che Magnus aveva uno scatolone pieno di decorazioni per ogni festa dell’anno. Tra cui, ovviamente, Halloween.



*



Erano stati insieme tutto il pomeriggio, fino a quando, verso le sette di sera, Alexander non era tornato a casa sua con Diana. Dovevano prepararsi, gli aveva detto, e Magnus aveva resistito all’impulso di dirgli che avrebbero potuto farlo a casa sua e rimanere lì con lui fino all’inizio della festa. Questo per due motivi: non voleva rischiare di venire accusato di sequestro di persona, e Alexander aveva il suo costume a casa. Non aveva voluto dirgli da cosa si sarebbe vestito, così Magnus era oltremodo curioso.
Per conto proprio, invece, quell’anno Magnus aveva optato per vestirsi da Elton John: aveva acquistato una giacca dorata, che avrebbe indossato senza niente sotto, un paio di attillatissimi pantaloni dello stesso colore – aveva dovuto resistere alla tentazione di comprarsi degli shorts, ma più che altro perché aveva paura di traumatizzare la sua bambina – e degli occhiali da sole a forma di cuore con le lenti rosa la cui montatura era ricoperta interamente di brillantini. Ai piedi portava un paio di anfibi maggiormente dorati, con la punta blu e il tallone rosso, da cui partivano due ali. Sobrietà non era la parola d’ordine, quella sera. Non per Magnus, ne tanto meno per Elton. Non era diventato un’icona rifiutandosi di osare. Elton aveva osato e Magnus aveva intenzione di fare lo stesso.
Mentre si truccava, Magnus ripensò a quel breve attimo che avevano condiviso quel pomeriggio lui e Alexander. Era certo che Alec avesse provato esattamente ciò che aveva provato lui: gliel’aveva letto nello sguardo lascivo che gli aveva percorso il viso e il petto. Alec era attratto da lui nello stesso modo in cui Magnus era attratto da Alec, ma c’era qualcosa che lo tratteneva. Una vaga idea di cosa potesse essere se l’era fatta: William. Quell’uomo aveva rotto qualcosa, in Alexander. Qualcosa che richiedeva del tempo affinché venisse ricostruita. E per aggiustare certe ferite, certi sentimenti, non basta un’attrazione fisica. Certo, si può partire da quella, ma per avere il coraggio di rischiare di nuovo bisogna avere la certezza che la persona per cui decidiamo di rischiare sia quella giusta, o quanto meno ne valga la pena. Magnus pensava che potessero essere sulla strada giusta.
Gli piaceva il rapporto che si stava istaurando tra di loro e non aveva fretta. Avrebbe rispettato i tempi di Alec, se non altro perché a sua volta voleva avere la certezza di non cadere di nuovo in una trappola come era successo con Camille l’Arpia Senza Cuore – così l’aveva ribattezzata Raphael dopo che era venuto a conoscenza del comportamento della donna.
Magnus sospirò, scacciando il ricordo di Camille dalla mente. Non voleva pensarci. Ne farsi abbattere da ricordi spiacevoli. Così riprese a  truccarsi: finì di passarsi l’ombretto sulle palpebre sfumandolo nel modo giusto, poi si diede l’eyeliner sopra agli occhi, formando due ali perfette ed identiche, infine si passò il mascara sulle ciglia.
Erin era rimasta a guardarlo tutto il tempo, seduta su uno sgabellino in bagno. Magnus teneva trucchi e oggetti per il make-up in un mobiletto in bagno, accanto al lavandino. E ne aveva qualcuno anche nella toeletta che aveva in camera da letto, ma questi erano dettagli. Possedeva così tanti trucchi da far invidia ad un’azienda di cosmetici, ma non avrebbe rinunciato a nessuno di loro. Erano il suo tratto distintivo, qualcosa che lo aiutava a distinguersi dalla massa. Non sono molti gli uomini che si truccano e Magnus voleva distinguersi – e andare contro quella convenzione sociale secondo cui un uomo non può portare l’eyeliner altrimenti la sua virilità viene meno. A Magnus gli stereotipi non piacevano e faceva di tutto per abbatterli a modo suo.
“Papà?”
“Dimmi, tesoro.” Magnus abbandonò la sua immagine riflessa nello specchio per guardare Erin, seduta al suo fianco e vestita da Sdentato. Era adorabile e particolarmente soddisfatta di quel costume: era una specie di tuta che si chiudeva con una cerniera sulla schiena, nascosta dagli spuntoni che il draghetto aveva sulla schiena. La coda, invece, era liscia e biforcuta alla fine. In quel momento, Erin portava il cappuccio abbassato, ma se l’avesse alzato, sulla sua testa sarebbero comparsi gli occhi di Sdentato e le piccole orecchie. Magnus era fortemente convinto che sua figlia fosse il draghetto più carino dell’universo intero.
“Posso mangiare un marshmallow?”
“Certo che puoi. Andiamo di là a sceglierne uno.”
Erin sorrise e scese dallo sgabello, dirigendosi verso l’uscita del bagno. Magnus la seguì e insieme andarono in salotto dove la bambina prese un dolcetto da una delle tantissime ciotoline viola colme di dolciumi. Scelse quello rosa a righe gialle e lo mangiò a piccoli morsi, come le aveva sempre raccomandato di fare il suo papà per evitare che si strozzasse.
Ad Erin piacevano particolarmente i marshmallow e Magnus, ogni Halloween, ne comprava un po’ di più per fare in modo che la figlia potesse mangiarli.
Stava per prenderne uno a sua volta, quando suonarono alla porta. Guardò l’ora dal cellulare che era miracolosamente riuscito ad infilare in una delle aderentissime tasche dei pantaloni che indossava, stretti come una seconda pelle: le 21.15. Chiunque fosse al di là della porta, era puntualissimo.
In cuor suo sperava fosse Alexander, perché non vedeva l’ora di rivederlo, così, inforcando gli occhiali a cuore che aveva sistemato in una tasca della giacca, e sforzandosi di non affrettare il passo, rischiando altrimenti di sembrare troppo impaziente, andrò ad aprire.



Non era Alexander, ma Raphael insieme a Rosa, la sua sorellina, che ormai non poteva più essere definita in quel modo. La piccola Santiago, infatti, aveva diciannove anni e Magnus si sentiva estremamente vecchio. Le aveva cambiato i pannolini, dei del cielo, e adesso aveva davanti una donna! Com’era possibile che fosse successo tutto così in fretta?
Magnus abbracciò prima Rosa – anche perché sapeva bene che era l’unica Santiago disposta al contatto fisico – e poi salutò Raphael.
“Entrate, prego!” Non appena si fece da parte, i due fratelli entrarono. Rosa era vestita da ape, notò Magnus, mentre Raphael… Raphael indossava uno dei suoi soliti completi scuri, il che stava a significare che non era vestito e Magnus non se ne stupì nemmeno. Avrebbe trovato bizzarro il fatto che Raphael si mascherasse ad una festa di Halloween, lui che di solito partecipava alle feste solo perché Magnus lo obbligava e finiva per passare tutto il tempo a guardarlo male, rinfacciandogli che l’aveva portato in un posto dove tutti invadevano il suo spazio vitale.
“Zio Raphi!” Esclamò Erin, trotterellandogli in contro –  la coda del suo costume che si muoveva a destra e a sinistra ad ogni suo passo. Aveva ancora un marshmallow in mano, segno che mentre Magnus era andato ad aprire lei ne aveva approfittato per mangiarne un altro. Magnus sorrise. E lo stesso fece Raphael, che si chinò all’altezza della bimba e non disse nulla riguardo a quel soprannome.
Se era Erin a chiamarlo in quel modo, andava benissimo; se lo faceva Magnus, rischiava di perdere le falangi.
Bene, ma non benissimo, insomma.
Ad ogni modo, Magnus sapeva che Raphael adorava Erin.
“Ehi, mi querida, quanto sei carina!” La prese in braccio e le lasciò un bacetto sulla guancia.
“Sono un drago, tío, hai visto?”
Nel tempo che passavano insieme, Raphael insegnava anche qualche parola in spagnolo ad Erin e la bambina tendeva ad usarle ogni tanto quando era con lui.
“Ho visto. E sputi fuoco?”
Erin annuì vigorosamente. “Sputo anche luce azzurra!”
“Allora bisogna fare molta attenzione, abbiamo un super drago tra noi!”
Erin ridacchiò e si tirò su il cappuccio per mostrare nell’intero il suo costume. Raphael sorrise. Magnus lo vedeva sorridere raramente. Succedeva quando era con Erin, che era in grado di sciogliere il cuore granitico di Raphael. Non gliel’aveva mai fatto notare, però, perché sapeva che si sarebbe guadagnato solo un’occhiata in tralice. Raphael era un ottimo zio ed Erin gli voleva bene.
Il campanello suonò di nuovo: le 21.22. Magnus lasciò Erin con Raphael e Rosa e si diresse di nuovo alla porta.
Anche questa volta, niente Alexander. Magnus si trovò davanti ad Isabelle, vestita da Wonder Woman, il suo ragazzo Mark, vestito da Superman e Max, vestito da…
“Chi saresti, esattamente?”
“Mi deludi, Magnus.” Max afferrò la visiera del suo cappellino e la girò completamente. “Davvero non ti dice niente questo gesto?”
Magnus lo guardò perplesso. “Zero assoluto, mini-Lightwood.”
“Non chiamarmi così, l’unico Lightwood mini è Izzy.”
La ragazza, sentendosi tirata in causa, gli sferrò una gomitata nemmeno troppo gentile sulle costole. “Poppante.”
Max guardò Magnus in cerca d’aiuto, ma questi scosse la testa. “Te la sei cercata.”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo – e Magnus pensò inevitabilmente ad Alec – e sbuffò. “Siete cattivi.” Si massaggiò le costole. “E comunque sono Ash Ketchum, cacciatore di Pokémon!”
“Oooh,” Cominciò Magnus, “Non ci sarei mai arrivato.”
“Questo perché, mio carissimo amico, fai parte di quella generazione infelice che non ha conosciuto i Pokémon!” Sorrise, soddisfatto di sé e varcò la soglia. Magnus ne approfittò per dargli uno scappellotto, che fece sorridere Isabelle.
“Sei bellissima, cara.” Le disse, quando lei si sporse per abbracciarlo.
“Anche tu, Elton.” Gli fece l’occhiolino – e ancora Magnus si trovò a pensare ad Alec per colpa dei suoi consanguinei – e poi si diresse da Raphael. Mark rivolse un saluto a Magnus, il quale ricambiò, e poi seguì Izzy.
Magnus individuò la figlia insieme a Rosa e si avvicinò alle due. Erin stava chiedendo a Rosa se voleva una caramella, perché era Halloween, la festa delle caramelle per eccellenza. Rosa aveva sorriso e le aveva detto sì, così la piccola si era diretta alla ciotola di dolci più vicina.
Rosa era la versione solare di Raphael. Avevano gli stessi capelli neri – la ragazza li portava in un caschetto di riccioli ben definiti che arrivava appena sotto al suo mento – e la stessa pelle olivastra. La genetica aveva voluto che avessero anche le stesse labbra piene, al contrario degli occhi, che sebbene fossero dello stesso colore, quelli di Rosa avevano una forma più allungata e le sue ciglia erano più lunghe.
Quando Erin tornò da Rosa, le caramelle non furono l’unica cosa che portò con sé. Teneva Max per mano e Magnus si chiese perché fosse così impaziente di portarselo dietro, ma poi la sentì aprire bocca.
“Max dice che sono più buone le caramelle al limone, ma secondo me si sbaglia. La fragola è la più buona.”  Cominciò la bambina, rivolgendosi a Rosa. “Secondo te qual è la più buona?”
Magnus sorrise. Sia perché trovava sua figlia adorabile – era un padre di parte, ne era pienamente consapevole – sia perché aveva tutta la sensazione che Max fosse appena stato folgorato. Il ragazzo, infatti, mise su un’espressione soffice, con delle sfumature di incredulità, quasi trovasse difficile capacitarsi del fatto che avesse Rosa davanti. Con ogni probabilità, la trovava bella da togliergli il fiato. Cosa mai vista, dal momento che da quando lo conosceva, Magnus  non aveva mai assistito a Max che rimaneva senza parole. In genere aveva sempre qualcosa da dire.
Magnus sentì chiaramente Rosa rispondere che quelle alla fragola erano decisamente più buone delle caramelle al limone e poi la vide rivolgere un sorriso a Max, il quale sembrò rinsavire e sfoderò tutto il suo charm in stile Lightwood. Era diverso da Jace, ma in qualche modo trasudava la sua sicurezza. Era consapevole del suo aspetto, senza risultare tracotante, o convinto. Aveva un modo tutto suo di rapportarsi con chi gli interessava e Magnus pensò che era giusto così. Somiglianza o meno, ogni fratello ha la propria personalità, e Max, nel suo essere irrimediabilmente Max, era una persona estremamente piacevole.
Osservò i due ragazzi scambiarsi qualche battuta e condividere qualche sorriso, il tutto mentre Erin ascoltava senza interromperli, troppo concentrata a scartare la sua caramella alla fragola. Il fatto che i due ragazzi con lei, adesso, fossero presi da tutt’altro, non significava che lei avesse dimenticato l’argomento principale della conversazione: caramelle.
Ognuno ha le sue priorità: Erin i dolcetti, Max le ragazze. In questo caso, una ragazza.
Magnus si trovò di nuovo a sorridere, guardandoli. Erano giovani e pieni di energia. Erano in quell’età dove la chimica scatta subito e i rapporti nascono con facilità. Basta pochissimo: un interesse in comune, un’idea condivisa, gli stessi gusti – che siano essi culinari, o cinematografici, o altro. Una minuscola scintilla da cui nasce un fuoco. Un piccolo fiammifero che da vita a qualcosa di intenso come un incendio. Nasce tutto così, da un unico attimo, da una singola parola detta al momento giusto. E da lì, si comincia. Il punto di partenza per la nascita di qualcosa di bellissimo. Magnus pensò che Max e Rosa dovessero vivere quel momento a pieno e, soprattutto, in solitudine. Solamente loro due. Così con tutta la discrezione di cui era capace, senza intromettersi nella loro conversazione, o interromperla, si avvicinò ad Erin e la portò con sé. Con la bambina che gli camminava vicino, Magnus cominciò a controllare se tutto era pronto. L’aveva già fatto come minimo dieci volte, ma una in più non guastava mai. Quando ebbe finito di ispezionare tutto, il suo sguardo, inevitabilmente, si alzò sulla palla stroboscopica. Sarebbe arrivato, ne era certo, ma fino a quel momento non gli rimaneva altro da fare che aspettarlo. E proprio mentre formulava questo pensiero, quasi Alec fosse stato in grado di leggergli la mente, sentì il suo cellulare vibrargli in tasca: un messaggio.

> From: Alexander, 21.29
Non mi sono dimenticato della festa. Di solito sono anche un tipo puntuale, ma devo arrivare dopo Jace. E lui non è un tipo puntuale.

> To: Alexander, 21.29
Stai tranquillo, zuccherino. Essendo tuo complice, ti informerò del suo arrivo, così potrai raggiungermi. E attuare il tuo piano. Ma il mio aiuto ha un prezzo.

> From: Alexander, 21.29
Ah sì? E quale?

> To: Alexander, 21.30
Ti monopolizzerò per un periodo di tempo che devo ancora definire, questa sera.

> From: Alexander, 21.30
Mi sembra una richiesta ragionevole, e decisamente più piacevole di arrampicarmi su una scala per montare una palla stroboscopica.

Dire che Magnus stava sorridendo era un eufemismo.

> To: Alexander, 21.30
Perfetto, confettino. A dopo.

Magnus fu tentato di finire quel messaggio con un’emoticon del cuore, ma decise di evitare. Non voleva essere troppo esplicito. Alec rispose a sua volta con un a dopo e Magnus altro non rimase da fare che aspettare. In cuor suo sapeva che quella festa, pe lui, non sarebbe mai cominciata fino a che Alexander non avesse varcato la porta di quella casa.


Ore 21.43. Il campanello di Magnus trillò e il padrone di casa, questa volta, sapeva benissimo chi c’era dietro alla porta: Alexander. Fremeva dalla voglia di andargli ad aprire, ma i patti erano diversi: avrebbe dovuto essere Jace a farlo per trovarsi immediatamente faccia a faccia con la figlia vestita da paperotta. Così Magnus, finse di dover fare qualcosa e si rivolse a Jace – vestito da Hercules, con tanto di armatura e mantello, mentre Clary era vestita da Megara – chiedendogli se poteva andare ad aprire. Il biondo annuì immediatamente e si diresse verso la porta. Quando la aprì si trovò davanti Alec, che stava combattendo con tutto se stesso per non scoppiare a ridere. Jace non fece in tempo a chiedergli per quale motivo avesse quell’espressione sul viso, che la voce di Diana attirò la sua attenzione.
“Papà!” Esclamò la piccola e il biondo abbassò lo sguardo. Puro terrore invase i suoi lineamenti, mentre i suoi occhi si sgranavano. Alec sapeva benissimo che stava combattendo contro la tentazione di girare i tacchi e andarsene, perché aveva la consapevolezza che in quel modo avrebbe ferito sua figlia. Così  si sforzò di  restare esattamente dov’era, anche se il suo colorito era appena impallidito.
“Ciao principessa!” disse quindi, cercando di apparire il più normale possibile. “Ti sei divertita oggi con lo zio?”
La bambina annuì vigorosamente. Il suo costume da paperotta la rendeva rotonda e soffice.  In testa, sopra al cappuccio da cui sbucava la sua faccina e a cui era attaccato un becco, aveva un fiocco rosso. Le sue braccia erano nascoste dalle ali e quando le muoveva, sembrava si stesse per alzare in volo. Diana era una paperotta gialla, dalle zampette arancioni e un fiocco rosso sulla testa. Per Alec era super carina, per Jace, invece, era un incubo. Sua figlia, la sua principessina adorata, era vestita come il suo più grande terrore. Jace non si fidava delle papere, con i loro occhi vitrei e vuoti che ti fissano nell’anima e chissà quali piano complottisti tramano. E per quale motivo dovevano avere i denti, dannazione? Non erano già abbastanza spaventose senza? Perché Madre Natura aveva sentito la necessità di aggiungere quel dettaglio inquietante?
“Tantissimo! Mi ha comprato questo costume!” Esclamò allegra, mentre Jace stringeva i denti e alzava lo sguardo su Alec, guardandolo in tralice. “È un bel costume,” bofonchiò.  Se certi sguardi avessero potuto incenerire…
Alec, tuttavia, non era per niente intimorito da quel comportamento, anzi, stava combattendo con tutte le sue forze per non scoppiare a ridere.
“Tesoro, perché non vai dalla mamma?”
Diana annuì e si diresse verso Clary, che l’aveva appena adocchiata.
“Di’ le tue ultime parole!” Lo minacciò Jace, assicuratosi che Diana fosse abbastanza lontana e non sentisse nessuna minaccia.
Alec esplose finalmente a ridere. Rise così tanto che dovette mettersi una mano sulla pancia e asciugarsi una lacrima che stava fuggendo da un angolo dell’occhio.
“Avresti dovuto vedere la tua faccia! È stata la vendetta migliore che abbia mai programmato!”
Jace gli sferrò un pugno sul braccio. “Ti odio. Passerò la serata ad avere paura di mia figlia!”
Alec sorrise ferino e si chinò leggermente verso il viso del fratello. “Lo so.” Disse, pienamente soddisfatto di sé.
Jace si arrese all’inevitabile. “Hai vinto questa battaglia, ma la guerra è appena cominciata!”
“Mi sembra giusto.” Concesse Alec. “Ora mi fai entrare o devo rimanere sulla soglia tutta la sera?”
“Sarei tentato di chiuderti la porta in faccia, ma Magnus impiegherebbe circa tre secondi a venire qui e riaprirla, quindi tanto vale che ti faccia entrare.”
Alec accennò un sorriso ed entrò.
La prima cosa che fece, che gli venne naturale da fare come respirare, fu cercare Magnus con lo sguardo. Quando lo individuò, respirare non divenne poi tanto facile. Al contrario, Alec ebbe la sensazione che, improvvisamente, tutta l’aria che aveva nei polmoni gli venisse risucchiata via. Magnus era bellissimo. E gli stava andando in contro proprio in quell’esatto momento.


Gli sembrava di averlo aspettato per un’eternità, quando in realtà l’aveva aspettato solo per poco tempo. E adesso che ce l’aveva davanti, Magnus realizzò che anche se avesse dovuto aspettarlo per secoli interi, l’avrebbe fatto. Avrebbe aspettato Alexander in ogni caso, sia che si trattasse del suo arrivo ad una festa, sia che si trattasse di fargli aprire di nuovo il suo cuore ad una possibile relazione.
Certe cose richiedono tempo. E Magnus non era più nell’età di Max e Rosa, dove tutto nasce immediatamente e sboccia con la stessa velocità di un fiore a primavera. Era nell’età in cui si è già stati bruciati dal fuoco e si sa benissimo quanto possa fare male, di conseguenza alla prossima fiammella ci si avvicina con cautela, remore dell’ultima ustione. Magnus si era ustionato, poteva ancora sentire le cicatrici sul cuore, ma ogni volta che guardava Alec e stava con lui, aveva la sensazione che la sua sola presenza riuscisse a passare un balsamo sulle sue vecchie ferite.
Tempo. Era ciò che serviva ad entrambi.
E Magnus aveva tutta l’intenzione di prendersi il tempo che gli spettava per conoscere quell’uomo. Per questo si diresse verso di lui non appena lo vide. Era bellissimo, ma questo ormai era un dato di fatto.
Spiccava in quella stanza come se avesse un cono di luce sulla testa, che lo metteva in risalto, un’aura luminosa naturale che veniva irradiata direttamente dalla sua persona. Un qualcosa che Alec sembrava non si rendesse conto di avere. Ma Magnus la vedeva eccome, chiara e nitida come l’alba.
Non appena si rese conto che anche Alec lo stava guardando, gli sorrise e si incamminò verso di lui. Passò vicino a Catarina, a Simon e a Maia, superandoli, ed ebbe la sensazione di non percepirli nemmeno perché i suoi occhi e tutto se stesso erano unicamente concentrati su Alec, che sorrideva.
“Ciao, tesoro.” Lo salutò.
“Ciao. Sei venuto per sequestrarmi?”
Magnus rise. “È giunto il momento di riscuotere il mio pagamento.”
Alec si morse l’interno delle guance. “Mi sembra giusto. Il mio piano è riuscito alla perfezione, grazie anche a te.”
“Allora vieni con me. Il tempo indeterminato che passeremo insieme comincia adesso.” Magnus lo prese per mano e lo trascinò via. Alec si lasciò guidare senza nemmeno tentare di opporre resistenza.





Alec era appoggiato al bordo del tavolo al centro della cucina e teneva un tumbler con del whiskey in mano. Magnus lo guardava, appoggiato al piano cottura. Erano uno davanti all’altro, separati dalla distanza di due braccia, più o meno.
E se di norma, non aveva mai capito il Mad Love e cosa avesse potuto spingere Harley Quinn a perdere la testa per uno che era arrivato addirittura a scaraventarla da una finestra solo perché aveva provato ad uccidere Batman al posto suo,  in quel momento riusciva quasi a capirla, Harleen Quinzel.
Se non altro perché, come lei, quella sera, Magnus si sentiva particolarmente affascinato da Joker.
Il suo Joker, gli altri giorni dell’anno, indossava principalmente il nero, ma non quella sera. Alec, infatti, aveva messo su una versione tutta sua del Clown di Gotham. Era poco elaborato e questo rispecchiava perfettamente il suo stile: indossava una semplice camicia viola, le cui maniche erano state arrotolate fino ai gomiti e alla quale aveva abbinato un papillon verde. I pantaloni, infilati dentro ad un paio di anfibi, erano a scacchi viola e neri – e in questo Magnus, sospettava ci fosse lo zampino di Izzy. Così come era convinto quasi al cento per cento che Isabelle avesse a che fare con gli accenni di verde che spiccavano sui capelli corvini di Alec e la matita che circondava i suoi occhi.
Il trucco gli donava, risaltava il colore delle sue iridi, intensificandolo in un modo da renderlo quasi irreale. Magnus avrebbe voluto vederlo truccato più spesso, ma sapeva che Alec non era per certe cose. Truccandosi avrebbe attirato l’attenzione su di sé e non era una cosa che lo faceva sentire a suo agio.
“Allora, cosa ne pensi?” Domandò Magnus, togliendosi gli occhiali rosa e sistemandoli in una delle tasche della sua giacca.
Alec fece roteare il whiskey nel bicchiere e ne bevve un altro sorso. “Mi piace. Non mi sorprende che tu lo tenga nascosto in cucina, lontano dalla portata di chiunque.”
Magnus abbozzò un sorriso. “Me l’ha mandato Ragnor dall’Irlanda. Fa l’architetto. Sta seguendo i lavori di costruzione del suo ultimo progetto. Una settimana fa mi ha mandato questa bottiglia con un biglietto: assaggialo e dimmi se non è meglio della brodaglia che bevi di solito. Ragnor sa essere un tantino pungente, se si impegna.
Alec ridacchiò. “Be’, però ha ragione. È buono.”
“Sicuramente, ma io non bevo mai brodaglie. Sono un uomo sofisticato.”
Questo Alec non l’aveva mai messo in dubbio. Sorrise. “Lo so.” Finì il suo drink e appoggiò il bicchiere sul tavolo dietro di lui. “Dov’è Erin? Non l’ho ancora vista…”
“Con Raphael. Non la perde di vista un attimo. Stasera ha fatto anche da Cupido.”
“Raphael o Erin?”
“Erin.”
Alec alzò le sopracciglia, incuriosito. “Cosa mi sono perso?”
“Max e Rosa, la sorella di Raphael. Dovevi vedere la faccia di tuo fratello quando l’ha vista. Si stava letteralmente sciogliendo, era adorabile!”
Alec ridacchiò, intenerito, immaginandosi la scena. Max era un tipo piuttosto espansivo, quello che aveva dentro lo mostrava quasi senza filtri e spesso le sue espressioni parlavano prima che lo facesse la sua voce. Riusciva chiaramente ad immaginarselo mentre si scioglieva per una ragazza carina.
“E lei?”
“Oh, lei era ben contenta di assecondarlo. Voi Lightwood avete quel fascino misterioso a cui è impossibile resistere.” Magnus ammiccò e Alec abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore con gli incisivi. Non credeva di essere lui quello che esercitava un certo fascino. Era Magnus. Ma questo il ballerino già lo sapeva. Alec gliel’aveva confessato, giorni indietro. Non si era pentito. In cuor suo, Alec avrebbe voluto essere più espansivo, in certe occasioni. Come Max, che aveva visto una bella ragazza e aveva attaccato bottone. Come aveva fatto Izzy con Mark. Come aveva fatto Jace con Clary. Si erano buttati. Avevano lasciato da parte ogni remora, ogni timore e aveva agito per prendersi ciò che volevano.
Alec non era così. Non lo era mai stato. Nemmeno con Will. Era stato lui, infatti, a fare la prima mossa.
Suonarono alla porta.
Alec viveva nel suo nuovo appartamento da dodici giorni, non che tenesse il conto. Periodicamente, i suoi fratelli lo andavano a trovare, ma quel giorno aveva già sentito tutti per telefono e nessuno l’aveva informato che sarebbe passato. Soprattutto non all’ora di cena. Escluse quindi che fosse una possibile improvvisata dei suoi fratelli. Ed escluse anche che potesse essere sua madre. Maryse non faceva improvvisate: avvertiva del suo arrivo almeno con un giorno di anticipo. Certo, lo chiamava tutte le sere per assicurarsi che mangiasse e che il lavoro non lo consumasse troppo, ma era una donna estremamente organizzata, di conseguenza non improvvisava una visita nemmeno se si trattava dei suoi figli.
Consapevole, quindi, che doveva escludere il suo nucleo familiare – l’idea che potesse essere suo padre non lo sfiorò nemmeno, dal momento che non si parlavano – si alzò dalla scrivania che aveva in camera sua e si diresse verso l’entrata. Percorse tutto il corridoio, fino a raggiungere la porta.
“Chi è?” domandò.
“William. Il tuo vicino.”
Merda. Pensò. Il vicino figo dell’appartamento accanto al suo era davanti alla sua porta e Alec era in tenuta da casa. Abbassò lo sguardo sui suoi pantaloni della tuta sbiaditi e sul maglione sformato che indossava e si maledisse mentalmente per non aver dato retta a sua sorella tutte le volte che gli diceva che era ora di rinnovare il suo guardaroba. Alec non era presentabile, ma non lo sarebbe stato in ogni caso. Il suo armadio non aveva granché al suo interno. Si arrese all’evidenza: avrebbe aperto al vicino figo vestito in quel modo sciatto, pregando che nel momento esatto in cui si fossero trovati uno di fronte all’altro, una voragine si sarebbe aperta nel pavimento, inghiottendolo e salvandolo dall’imbarazzo.
Con un profondo sospiro, aprì.
Si trovò davanti William e, dannazione, era ancora più bello di quanto ricordasse. Non l’aveva più rivisito dal quell’ unico incontro in ascensore e se dicesse di non aver pensato a lui almeno una volta, mentirebbe. Aveva sperato di rivederlo, magari in circostanze diverse e non quando lui sembrava un senzatetto, mentre William sembrava un modello di Abercrombie. La vita era ingiusta e Alec tendeva ad essere un po’ sfigato, a volte.
“Ciao, Alec. Disturbo?”
Alec negò con il capo. Si ricordava il suo nome. Stava giusto iperventilando un pochino.
“Bene.” William sorrise, mostrando i suoi perfetti denti bianchi. I suoi occhi azzurri come il cielo vennero circondati da rughe d’espressione. Alec lo trovò, se possibile, ancora più bello. Portava i biondi capelli legati in una coda bassa, da cui fuoriuscivano delle ciocche che gli ricadevano in avanti, sul viso – le sue guance erano ricoperte di una leggera barba chiara che in alcuni punti, in particolare sul mento e vicino all’attaccatura dei capelli, si scuriva un po’.
“Perché ti ho portato la pizza.” Continuò il ragazzo e Alec rinsavì, trovando nuovamente l’uso della parola.
“La pizza?”
“Non ti piace?”
“Certo che mi piace, ma… perché l’hai portata?”
“Per mangiare insieme a te. Sarei un pessimo vicino se non condividessi la pizza. A meno che tu non abbia già mangiato.”
Alec non aveva già mangiato. Si era dimenticato, ovviamente, preso com’era dal concludere le ultime pratiche per il chirurgo per il quale lavorava.
“No, non ho ancora mangiato.”
William gli sorrise di nuovo. “Allora mi fai entrare?”
“Certo, s-sì.” Alec abbozzò un sorriso timido e si fece da parte. William entrò, si guardò intorno per qualche istante e poi appoggiò lo scatolone con la pizza sul tavolino che stava in salotto per riuscire a togliersi il giubbotto. Alec si ricordò di dover fare il padrone di casa, così afferrò il giubbotto e lo portò sull’attaccapanni, mentre gli diceva di mettersi comodo. Non stava solo con un ragazzo che gli piaceva da un po’, quindi si sentiva più impacciato ed imbranato del solito. Ma sembrava che William non se ne accorgesse.
Alec apparecchiò in cucina e si spostarono là. Mangiarono seduti uno di fronte all’altro, dividendo una pizza gigante con doppia mozzarella che ad Alec piacque un sacco. Parlarono del più e del meno. William era figlio unico, era laureato in economia e commercio e stava lavorando nell’azienda del padre, che poi avrebbe ereditato.
Alec dedusse che avevano quanto meno un rapporto, ma non disse nulla a riguardo. Non voleva tirare in ballo il rapporto con il proprio padre perché non gli piaceva parlare di Robert, o del fatto che non si parlassero.
William non fece domande, in ogni caso, e la loro serata proseguì tra aneddoti più o meno divertenti ed esperienze fatte al college. William gli raccontò la  figuraccia che aveva fatto in Germania, quando per chiedere informazioni aveva provato a parlare in un tedesco parecchio zoppicante, con la conclusione che aveva finito accidentalmente per offendere la moglie dell’uomo a cui aveva chiesto informazioni.
Alec aveva riso, immaginandosi la scena.
William era divertente, bello e intelligente. E mentre Alec formulava questi pensieri, a fine serata, quando avevano finito di cenare da un pezzo, William si alzò dal tavolo e lo circumnavigò. Rimase in piedi davanti ad Alec, che era paralizzato sulla sedia e lo guardava dal basso verso l’alto.
“Devo dirtelo, non sono venuto qui per comportarmi da buon vicino.” Si chinò in modo che il suo viso fosse vicino a quello di Alec, che ovviamente deglutì rumorosamente.
“Ah no?” Riuscì solo a dire, sentendosi imbranato come non mai. “E per cosa, allora?”
“Per te, Alec. Da quando ti ho incontrato non ho fatto altro che pensarti. Pensavo ti avrei rivisto, ma non è successo. Quindi ho deciso di venire direttamente qui.”
Alec deglutì a vuoto, mentre i suoi occhi andavano a perdersi in quelli azzurri di William. Fu in quel momento che notò le sfumature verdi nelle sue iridi ed ebbe la sensazione di annegare in un oceano bellissimo.
“E quando mi hai fatto entrare, ho iniziato a sperare che il mio interesse fosse ricambiato. Spero invano?”
Alec negò con il capo, incapace di proferire parola.
William sorrise di nuovo e avvicinò maggiormente il viso a quello di Alec. Strofinò il proprio naso contro il suo e poi appoggiò la propria bocca su quella di Alec. Lo baciò e nel momento stesso in cui Alec ricambiò quel bacio, facendo scontrare le loro lingue per la prima volta, Alec provò una strana euforia, qualcosa assopito da tempo. Si alzò dalla sedia e tirò William per la maglietta, avvicinandolo di più a sé. L’altro sorrise sulle sue labbra, mentre lo lasciava fare. William era più alto di lui di qualche centimetro, ad Alec questa cosa piaceva. Non capitava mai, di solito nelle poche relazioni che aveva avuto, era sempre Alec quello più alto. Si mossero non staccando mai le labbra da quelle dell’altro, fino a spostarsi sul divano. William si sdraiò per primo, tirando Alec sopra di sé. Risero, quando durante quella caduta, i loro denti si scontrarono accidentalmente e Will gli baciò il labbro superiore. “Scusa,” gli disse, prima di riprendere a baciarlo. Passarono il resto della serata in quel modo. Semplicemente baciandosi, uno sopra all’altro.
E Alec… Alec era felice.
Quando aveva scoperto come stavano le cose, Alec aveva sempre trovato un po’ strano che un ragazzo gay non dichiarato si fosse comportato in quel modo, soprattutto perché William, quella sera, non aveva la certezza che anche Alec fosse gay. Come aveva potuto, quindi avere quella sicurezza? Come poteva avere avuto la certezza che Alec non l’avrebbe respinto in malo modo, se si fosse esposto?
Prima di decidersi a fare coming-out, lui aveva sempre avuto un certo timore a dimostrare interesse. Se non altro perché non tutti reagiscono come Jace, che davanti alle avances di un ragazzo si limita a dirgli educatamente di essere etero, ma perché ci sono uomini che abbracciano ancora una mentalità omofoba che sfocia spesso nella violenza. Di conseguenza, come aveva potuto Will, con tutti i timori che aveva riguardo alla sua sessualità e che Alec aveva scoperto stando con lui, avere avuto una tale sicurezza?
Quando Alec gliel’aveva chiesto, William gli aveva confessato che aveva sentito la conversazione che avevano avuto lui e Jace la prima volta che si erano incontrati. Pareti sottili, aveva detto. Alec all’inizio non ci aveva pensato, ma adesso con la mente non più obnubilata dall’amore, realizzò con una punta di amarezza che Will per lui non aveva mai rischiato. Nemmeno quando si erano incontrati. Si era avvicinato a lui perché aveva la certezza che era gay. Probabilmente non aveva nemmeno messo in conto un rifiuto, perché, ovviamente, aveva sentito ciò che pensava di lui.  
In definitiva, Will l’aveva sempre dato per scontato, come se Alec fosse addirittura qualcosa di banale. Di poco rischioso. Una pantofola comoda.
“Confettino?” Magnus lo riportò alla realtà e al presente.
Alec sbatté le palpebre. “Sì, scusa, mi sono estraniato un attimo.”
“Me ne sono accorto. Pensieri tristi?”
“Non esattamente.” Ed era vero: William faceva ancora male, ma non tanto come all’inizio. Ricordarlo non gli otturava più le vie respiratorie. Alec era consapevole di essere verso la via della guarigione. “Sto rovinando il nostro tempo indeterminato insieme.” Sorrise, mostrandosi più allegro e scacciando definitivamente dalla testa qualsiasi cosa non fosse Magnus. Il passato era passato e poteva rimanersene dov’era, Alec sapeva già che faceva male. Ma il futuro… il futuro poteva essere Magnus e Alec non l’avrebbe mai scoperto se avesse continuato a guardarsi indietro. Sentì quasi la freccia sul braccio prudergli a quel pensiero e sorrise. “Sono a tua disposizione per qualsiasi cosa.”
Magnus lo guardò con malizia. “Così la fai sembrare persino una cosa sconcia, zuccherino.”
“Anche chiedermi come pagamento potrebbe essere una cosa sconcia. Ma mica te l’ho fatto notare.” Ribatté Alec, che a proposito di sconcio, si ritrovò inevitabilmente a far scivolare lo sguardo sulla giacca aperta di Magnus, che mostrava i suoi addominali. Seriamente, quanti ne aveva? E quanto erano definiti, dannazione?
Magnus si staccò dal piano cottura e si avvicinò ad Alec. Ridusse quasi tutta la distanza che c’era tra di loro e alzò gli occhi nei suoi. Lo guardò in quel modo che faceva tremare Alec dentro. Nessuno l’aveva mai guardato così, nemmeno William.
Magnus lo guardava e Alec aveva la sensazione di sentire il mondo che smetteva di girare solo per far fermare lo scorrere del tempo e lasciare che rimanessero sospesi nell’eternità, solo loro due, occhi negli occhi, mentre i battiti dei loro cuori si sincronizzavano per battere all’unisono, come se dovessero fondersi per diventare un unico cuore. Alec si chiese se fosse da pazzi pensare una cosa simile e si rispose che anche se lo era, non gli interessava, perché era ciò che provava.
“Cosa vuoi fare, adesso?” gli domandò, perché se avesse ancora ascoltato ciò che gli partiva dal cuore, inculcandogli determinate idee in testa, era sicuro che avrebbe finito per baciarlo.
Magnus afferrò una delle mani di Alec e cominciò a giocare con le sue dita, facendo intrecciare le proprie con le sue, facendo incontrare i loro palmi. “Qualsiasi cosa ti serva per scacciare i pensieri tristi di poco prima.”
Alec lo guardò, sorpreso e ammaliato, affascinato ancora una volta da Magnus e dal suo cuore altruista. “Tu allontani i pensieri tristi, Magnus. Mi basta fare qualcosa insieme a te.” Non era esattamente un grande passo, ma era comunque un passo. Era il modo che aveva Alec di fare una mossa. Non diretta come sono tutte le prime mosse, ma comunque una mossa. Una mossetta, si può dire, verso Magnus. Un piccolo passo, qualcosa che gli impedisse di continuare a stare fermo e lasciare che fossero sempre gli altri a sceglierlo. Alec, per una volta, voleva scegliere.
“Qualsiasi? Senza preferenze?”
Alec gli rivolse un sorrise soffice, prima di annuire. “Qualsiasi.”
“Allora torniamo di là. Voglio ballare con il ragazzo più carino di questa casa.” Si alzò sulle punte per lasciargli un bacio sulla guancia.
E mentre Magnus lo trascinava fuori dalla cucina, tenendo le loro dita ancora intrecciate, e il suo profumo ancora invadeva piacevolmente le narici di Alec, il medico pensò che di certo non era Magnus che avrebbe ballato con il ragazzo più carino di quella casa, ma lui.
Alec era fregato. Irrimediabilmente cotto. Tanto da arrivare a credere che Halloween, se lo passava ballando con Magnus vestito in quel modo peccaminoso, fosse una festa meravigliosa.



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Ciao a tutti e ben ritrovati!
Curiosità iniziale: siete sopravvissuti agli ultimi episodi?
Venendo a noi, mi scuso immensamente per il ritardo, ma ho avuto poco tempo e spesso l’ispirazione mi è venuta a mancare.
Questo capitolo è infinito, e spero non l’abbiate trovato noioso, ma dividerlo mi scocciava per due motivi: volevo finalmente che arrivasse Halloween e perché pensavo fosse arrivato il momento di far finire Ottobre. In pratica la tempistica della serie TV, dove tre anni sono tre mesi, mi ha contagiata un po’ troppo e dall’inizio della storia è passato si e no un mese e mezzo. Quindi volevo velocizzare un po’ le cose.
Ci sono dei pezzi che non avevo preventivato: la parte dove si parla di Jocelyn e la storia di Asmodeus. In particolare la seconda avevo deciso di farla venire fuori la prima volta mentre Magnus si confidava con Alec, ma visto che si parlava di madri, ho pensato fosse più appropriato dare un background anche a Madelaine, raccontando un po’ il suo passato turbolento con Asmodeus. Non so se si è capito, ma lei era molto giovane quando stavano insieme. Ha avuto Magnus a vent’anni e cinque anni dopo è scappata, essendosi effettivamente resa conto di chi aveva al suo fianco.
C’è anche una piccola introduzione del personaggio di Rosa, che da quello che ho capito, è la sorella minore di Raphael (o sbaglio? Magari sono io che ho capito male). Non so perché ma mi piaceva l’idea che anche Max avesse qualcuno e quindi ho pensato a Rosa. E poi mi piaceva immaginarmi Raphael versione fratello maggiore, quindi ho pensato di inserire anche lei. Spero di non incasinare troppo il tutto, inserendo troppi personaggi!
C’è un accenno anche alle Heline, ad inizio capitolo, e onestamente ho scritto quel pezzo prima di vedere gli episodi dove veniva introdotta Aline. Rispetto a come ce l’hanno mostrata nella serie, secondo me l’ho resa un po’ troppo OOC, ma spero sia stata comunque apprezzabile.
Concludo dicendo che spero che la realizzazione che hanno avuto i Malec in questo capitolo – ovvero che sono cotti l’uno dell’altro – non sia troppo affrettata. Ho un po’ il timore che lo sia perché fino ad ora hanno sempre insistito sul vedersi solo come amici, anche se non ne hanno mai effettivamente parlato. Volevo che la cosa fosse graduale e mi sembrava che lo fosse, ma ho un po’ il timore che in realtà non lo sia. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va!
Vi saluto e ringrazio chiunque legga questa storia, l’abbia messa tra i preferiti/seguiti/ricordati e chi trova il tempo per recensirla, mi fa un piacere immenso, quindi grazie!
Un abbraccio, alla prossima! <3
   
 
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