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Autore: Dark Sider    26/04/2019    14 recensioni
Jonathan, sarcastico e disadattato insegnante di letteratura, noleggia un misterioso libro dalla biblioteca della scuola, al cui interno vi è un'inquietante lettera a lui indirizzata: una donna gli dichiara il suo folle amore e gli concede una settimana di tempo per trovarla, altrimenti si suiciderà. Jonathan inizia allora delle ricerche che lo porteranno a percorrere un agghiacciante sentiero. In tutti i sensi.
[Terza classificata al contest "Abbia inizio la caccia alle uova di Pasqua" indetto da MaryLondon sul forum di EFP]
Genere: Angst, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: la storia si basa sulla leggenda della dama nera di Parco Sempione.

 

 

La dama nera

 

 

 

1.

 

Era l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze pasquali. La campanella che sanciva la fine delle lezioni era suonata da qualche minuto, e studenti chiassosi ed urlanti si stavano riversando nel cortile, pregustando una settimana di ozio e festeggiamenti; io, che a quel tempo ero un giovane insegnante di letteratura senza pretese, mi godevo l’atmosfera gioiosa passeggiando per i corridoi deserti, diretto alla biblioteca.

Se per i miei studenti tempo libero significava uscire fino ad ora tarda e perdersi in inutili passatempi, per me aveva tutt’altro suono: quello del frusciare lieve delle pagine di un libro, gustato senza fretta sulla mia poltrona, sorseggiando un buon bicchiere di Burbon. A nemmeno quarant’anni, sarei decisamente dovuto uscire di più e cercarmi, magari, una donna da sposare e con cui mettere su famiglia: era ciò che mi ripeteva continuamente Wilson, che sulla soglia dei sessant’anni pareva convinto di possedere la saggezza di un santone indiano; con i suoi tre divorzi alle spalle, tuttavia, mi dava l’impressione che il mio ritiro ascetico fosse decisamente migliore di qualsiasi interazione sociale non necessaria. E poi lui era un matematico, un razionale, io uno che viveva di castelli in aria: non poteva di certo pretendere che avessimo la stessa concezione della vita.

Non dubitavo che le calde cosce di una bella donna avrebbero potuto darmi più appagamento di Dickens o Joyce, così come avere sempre le camice stirate ed inamidate ed un pasto decente, anziché i surgelati di Wal-Mart, ma mi sentivo decisamente più al sicuro tra le pagine di un libro che in qualunque altro posto.

Non deve stupire, dunque, che mi stessi dirigendo proprio in biblioteca. A dire il vero, per ironia della sorte, non ero mai entrato in quella della scuola, ma la mia bibliotecaria di fiducia, la vecchia e cara miss Harlin, aveva deciso di prendersi due settimane di vacanza, non lasciandomi altra scelta se non noleggiare un libro nel luogo in cui insegnavo.

«Jonathan, che sorpresa vederti qui!» cinguettò Charlotte, non appena varcai la soglia della mia meta. Charlotte era la bibliotecaria, aveva trentadue anni - appena tre in meno di me -, era carina e le interessavo, a quanto diceva Wilson: insomma, aveva tutti i requisiti necessari per proporle di uscire a cena. Non che avessi la benché minima intenzione di farlo, comunque.

«Ciao, Charlie: sono venuto a noleggiare un libro» risposi, laconico. Lei assunse un colorito più rosso del maglione che indossava ed abbassò lo sguardo. «Cercavi qualcosa in particolare?» mugugnò, iniziando a picchiettare animatamente sui tasti del vecchio computer, più per disimpegno che per altro.

«A dire il vero, no: credo che darò un’occhiata in giro e mi lascerò ispirare» risposi, con un sorriso serafico: dubitavo che la biblioteca della scuola fosse sufficientemente fornita da possedere qualche volume che non avessi ancora letto, tuttavia non mi dispiaceva l’idea di rispolverare qualche classico.

Charlotte parve delusa dalla mia dichiarazione d’indipendenza, ma non ci feci particolarmente caso. «È bizzarro vederti qui» mi urlò dietro mentre iniziavo ad avviarmi verso gli scaffali, in barba ai cartelli appesi lungo i muri, che intimavano di parlare a bassa voce.

«Sembra che la mia presenza qui fosse destino» ridacchiai, senza nemmeno voltarmi. Il silenzio da parte di lei mi fece intendere che aveva travisato le mie parole.

Come pronosticato, non trovai nulla d’interessante né che non avessi già letto. Stavo per arrendermi a La fiera della vanità di Tacheray, quando uno strano volume attirò la mia attenzione. Era proprio accanto a quello che stavo per prendere io e non aveva alcun titolo o autore sul dorso; pareva molto vecchio, a giudicare dallo stato della copertina in pelle rossa.

Tentennai per un istante, poi abbandonai il libro che avevo parzialmente estratto dallo scaffale ed agguantai il tomo misterioso. Appena lo ebbi tra le mani, una sensazione di familiarità mi pervase, in contemporanea ad un angoscioso brivido, ma mi dissi che doveva trattarsi solamente di autosuggestione.

Ora che potevo osservarlo meglio, mi resi conto che il tomo era molto più antico di quello che m’era parso ad una prima occhiata; odore di polvere e muffa mi invase le narici mentre mi rigiravo lo spesso libro tra le mani. La copertina era macchiata e graffiata in vari punti e le pagine ingiallite. Sul fronte, sbiaditi e consunti, ma ancora leggibili, vi erano autore e titolo del libro: La dama nera di Josephine Collins.

Aggrottai le sopracciglia. Non avevo mai sentito parlare di quel libro, tantomeno dell’autrice. Cominciai a sfogliarlo, credendo si trattasse di uno scherzo e aspettandomi di non trovarvi nulla scritto all’interno. Le pagine incartapecorite scricchiolarono sotto le mie dita mentre le giravo, rivelandomi un testo sorprendentemente scritto a mano, in una calligrafia fitta ma ordinata. Mi pervase l’improvvisa curiosità di leggere quel libro, così violenta e vorace che feci fatica a richiuderlo e a non lasciarmi vincere dalla tentazione di rimanermene lì in piedi e divorarne il contenuto.

Avevo dimenticato persino dove mi trovassi e, in un primo momento, mi guardai intorno parecchio spaesato. L’urgenza di conoscere l’argomento di quel bizzarro tomo mi aleggiava ancora dentro, insistente. Mi diressi verso la scrivania di Charlotte, trasognato.

«Hai trovato quello che cercavi?» mi domandò, studiandomi di sottecchi: non dovevo avere il migliore degli aspetti.

«In realtà, non proprio» risposi, strascicando le parole come se avessi la bocca impastata. Charlotte mi restituì uno sguardo interrogativo.

«Ho trovato questo libro e mi sembra piuttosto bizzarro: tu lo conosci?» chiesi, dopo alcuni istanti di pausa, porgendole il tomo con una certa riluttanza. Lei lo studiò per un secondo, poi lo afferrò con le esili dita: per un lungo istante, continuai a trattenerlo, poi lasciai la presa quasi disgustato.

Charlie si rigirò il libro tra le mani, lo sfogliò brevemente, lasciando di tanto in tanto scorrere lo sguardo sulle parole, poi lo richiuse e me lo restituì con una stretta di spalle. «Mai visto. Probabilmente è più vecchio del preside Wilkins» ridacchiò. «Comunque, ha tutta l’aria di essere una storia d’amore» aggiunse, iniziando a digitare il nome del libro sulla tastiera, per registrarne il noleggio.

Mi diede fastidio la noncuranza con cui liquidò la faccenda.

Attesi impazientemente che Charlotte terminasse la procedura, stringendo convulsamente il tomo tra le mani, ma d’un tratto lei sollevò uno sguardo corrucciato su di me e disse: «Che strano, questo libro non compare nel database». Un improvviso senso di panico mi avvolse: temetti di non poter portare via il tomo, dal momento che era impossibile registrarlo, e la prospettiva mi lasciò attonito.

Iniziai a pensare ad una serie di argomentazioni che potessero convincere l’integerrima Charlotte Stevens a cedermi comunque il libro, quando lei mi precedette. «Facciamo così: è tardi, io voglio andare a casa e tu anche, immagino. Prendi pure il libro: mi fido di te. Quando torneremo dalle vacanze, risolverò questo inconveniente. Però devi restituirmelo non appena riapre la scuola, intesi?»

Annuii con vigore quasi esagerato, poi le stampai un bacio sulla guancia, senza pensarci. «Grazie, Charlie» cinguettai, mentre lei sbarrava gli occhi e diventava ancora più rossa di quanto non fosse già stata fino a quel momento. Senza darle il tempo di aggiungere altro, mi precipitai fuori dalla stanza e, altrettanto celermente, raggiunsi la mia macchina.

 Guidai febbrilmente fino a casa, senza badare al rispetto delle norme stradali. Il libro posato sul sedile al mio fianco sembrava attrarmi a sé con una forza innaturale: dovevo sapere i suoi segreti; dovevo scoprire cosa la mano sconosciuta di Josephine Collins aveva vergato su quelle pagine ingiallite dal tempo. Non m’importava di null’altro e a nient’altro riuscivo a pensare. Quasi non vedevo la strada: ancora oggi mi sorprendo di come sia riuscito a non avere un qualche tipo d’incidente.

Giunto a destinazione, agguantai il libro come se ne andasse della mia stessa vita e mi precipitai in casa con urgenza. Ignorai Rufus, il mio gatto, che era venuto a salutarmi con delle fusa affettuose e mi lasciai cadere pesantemente su una sedia vicino all’ingresso: non avevo avuto nemmeno la pazienza di raggiungere il salone.

Sospirai di sollievo quando aprii la copertina del libro, lasciando che l’odore di antico mi inebriasse. Il mio sguardo si posò su di una pagina completamente vuota, che tuttavia lasciava intravedere qualcosa scritto sul retro. Con il battito del cuore accelerato senza un apparente motivo, voltai lentamente la pagina, come se temessi ciò che avrei potuto incontrare. Trovai poche parole, vergate anch’esse a mano, ma con una calligrafia differente da quella del resto del libro; l’inchiostro era più scuro e nitido, segno che quell’inciso fosse più recente del resto del tomo.

In un primo momento, feci fatica e decifrare ciò che era scritto su quella pagina, come se le parole fossero vergate in un alfabeto a me ignoto. Dovetti concentrarmi molto a fondo, prima di rendermi conto di essere in grado di leggere quelle frasi.

All’iniziò mi stupii nel trovarmi dinanzi ad una lettera; subito dopo, divenni terrorizzato nel constatare che quelle parole erano rivolte a me.

Mio caro Jonty,” diceva la dedica, “non credo che tu possa ricordarti chi io sia: eravamo nella stessa classe alle elementari ed è passato davvero molto tempo. Inoltre, non ti sei mai curato di me, mentre io non ho fatto altro che pensarti ed amarti per tutto questo tempo. Ti ho aspettato fino ad ora, sperando che tu venissi da me, sperando che ti accorgessi di ciò che provo per te, ma non è accaduto. È per questo che ho deciso di dirti addio: tra una settimana esatta, porrò fine alla mia vita e al tormento che mi accompagna da tanti anni. Se deciderai di cercarmi e mi troverai, allora saprò che in realtà anche tu mi hai sempre amata e potremo stare insieme per sempre. In alternativa, sei libero di ignorare le mie parole ed allora la morte sarà per me compagna gradita. In un certo qual modo, posso dire che il mio destino sia nelle tue mani e non v’è luogo migliore in cui potrei riporlo. Con tutto il mio amore, Violetta”.

Mi accorsi di aver smesso di respirare. Ripresi aria con una boccata disperata: sentivo la testa girare e le mani mi tremavano talmente tanto che quelle parole funeste danzavano follemente dinanzi ai miei occhi, dandomi la nausea. Jonty era il soprannome con cui mi appellavano le miei insegnanti delle elementari: nessun altro mi aveva mai chiamato in quel modo. Forse quella lettera era solo uno scherzo di cattivo gusto, ma sicuramente architettato da qualcuno che davvero aveva frequentato la mia stessa classe.

Cercai di riportare la memoria a quei tempi, per tentare di ricordare i volti ed i nomi dei miei compagni di classe, con il risultato di non rimembrare nulla. E se non fosse stato uno scherzo? Se davvero qualcuno aveva fatto giungere quel libro nelle mie mani, per rivelare i suoi sentimenti nei miei confronti ed i suoi foschi propositi, non poteva che trattarsi di una persona profondamente disturbata. Ma potevo forse ignorala? Se le parole vergate in quella lettera corrispondevano alla verità, potevo vivere con il peso di una morte sulla coscienza?

Certo che no.

Con un sospiro tremulo mi passai una mano incerta sulla fronte, trovandola madida di sudore, dopodiché iniziai a leggere il libro, in parte perché supponevo che la trama fosse in qualche modo legata alla persona che mi aveva destinato il suo proposito di suicidio, in parte perché quell’urgenza di sapere, che mi aveva attanagliato in biblioteca, ancora aleggiava prepotente, più forte del mio terrore e della mia costernazione.

Alzai gli occhi arrossati dal libro che era calata la sera; chiusi il tomo e solo in quel momento mi accorsi di quanto fossi esausto: avevo letto senza fare mai pause, nemmeno per mangiare o per andare in bagno, fatto che la mia vescica mi stava facendo fastidiosamente notare. Il racconto mi aveva attratto in un vortice nel quale non mi ero nemmeno reso conto di star cadendo, e non mi era stato possibile smettere finché non era terminato. Si trattava davvero di una storia d’amore, come pronosticato da Charlotte: la protagonista era una donna di cui non si rivelava mai il nome, ma a cui ci si rivolgeva sempre con l’appellativo di dama nera, che trascorreva la sua misera vita anelando l’amore di un uomo che non aveva occhi per lei; alla fine, resa folle dal suo stesso sentimento non corrisposto, la donna si toglieva la vita, non senza aver prima scritto una lettera d’addio all’amato, il cui contenuto corrispondeva a grandi linee a quello vergato da Violetta sulla prima pagina.

La storia sarebbe potuta essere anche piacevolmente interessante, senonché una psicopatica aveva ben pensato di trarvi ispirazione per rovinarmi la vita. Mi chiesi per quale motivo avessi preso proprio quel libro, perché semplicemente non lo avessi lasciato dove si trovava, in favore de La fiera della vanità: suppongo che sia perché le cose che ci sono destinate trovano sempre il modo di arrivare a noi. Non avevo mai creduto particolarmente al destino, alla sorte o alla predestinazione, ma la coincidenza di aver scelto, tra tanti, proprio quel tomo funesto mi stava facendo ricredere. Non poteva essere un caso che miss Harlin si fosse presa una lunga vacanza, né che io avessi deciso di noleggiare un libro nella scuola in cui insegnavo. Non poteva essere un caso che mi fossi diretto in quello specifico settore della biblioteca e che avessi scelto di prendere proprio La fiera della vanità.

La dama nera di Josephine Collins era destinato a me, e quello era il motivo per il quale ora si trovava posato sulle mie ginocchia.

Mi massaggiai le tempie e sospirai: mi sentivo scombussolato, avevo fame e presto me la sarei fatta addosso come un poppante, se non mi fossi sbrigato a raggiungere il bagno e svuotare la vescica. Quando ebbi soddisfatto i miei bisogni fisiologici, notai che Rufus mi girava intorno nervoso, facendo guizzare la coda con scatti rabbiosi e fissandomi con indignazione, miagolando sommessamente. Mi ricordai solo in quel momento di non avergli dato da mangiare.

«Scusami» mormorai, accingendomi ad aprire una scatoletta di cibo per gatti per Rufus ed una di cibo per uomini per me. Mentre versavo il pasto di Rufus nella sua ciotola, sovrappensiero, mi accorsi di due fatti bizzarri: il primo era che il libro era appoggiato al mio fianco ed io non mi ero nemmeno accorto di averlo portato con me; il secondo era che stavo per dare la mia cena al gatto.

Scossi la testa, cercando di riprendere il controllo di me stesso: mentre trasferivo dalla ciotola ad un piatto un poco invitante stufato, riflettei che avrei potuto ignorare il libro e la lettera che conteneva. Avrei potuto convincermi che non fosse rivolta e me e che mi fossi solamente lasciato suggestionare. Potevo decidere di dimenticarmi di tutta quella storia, riporre il libro lontano dai miei occhi e restituirlo a Charlie non appena fossero ricominciate le lezioni.

Potevo. Ma non sarei stato in grado di farlo. Con tutta probabilità si trattava di uno scherzo di pessimo gusto, ma dovevo accertarmene per riacquistare la stabilità mentale che mi stava lentamente abbandonando.

«Come dovrei comportarmi?» domandai a Rufus, che continuò stoicamente a divorare il suo pasto, ignorandomi completamente. «Avrei dovuto prendere un cane» borbottai, ingollando il primo boccone della mia triste e solitaria cena.

Decisi che sarei andato a letto presto, sperando che la notte mi avrebbe portato consiglio, come un vecchio detto suggeriva. Non avevo idea di come compiere le mie ricerche per scoprire l’identità di Violetta, né da dove cominciare. Avevo un libro ed una lettera come unici indizi e, mentre mi coricavo, pensai vagamente che sarebbe potuta essere una buona idea iniziare da questi. Dopodiché, mi costrinsi a smettere di rimuginare sull’accaduto e cercai di dormire. Sulle prime parve anche funzionare, poi il mio sonno divenne agitato e disturbato da un incubo ricorrente: una donna vestita di nero, con un velo dello stesso colore a celarle il volto, passeggiava lungo un sentiero immerso nella nebbia; io la seguivo poco distante, inquietato ma attratto al contempo. D’improvviso, la donna si fermava e volgeva la sua attenzione su di me: non potevo vederle il volto, ma sapevo ugualmente che era bellissima; lei iniziava ad incedere lentamente nella mia direzione ed un senso di allarme s’impadroniva della mia persona, eppure non mi muovevo, non ne ero in grado. Quando lei arrivava ad un passo da me, il sogno s’interrompeva, per poi ricominciare daccapo. Sempre uguale, per tutta la notte.

Mi svegliai più esausto di quando ero andato a dormire. Mentre mi preparavo il caffè, ragionai sul fatto che non avevo la più pallida idea di quando quella lettera fosse stata scritta, e quindi i sette giorni a mia disposizione potevano anche essere già scaduti da un bel po’. Più passava il tempo, più mi convincevo di essere vittima di uno scherzo di pessimo gusto; tuttavia, ora, ero intenzionato a scoprirne l’autore, anche solo per conoscere le motivazioni che l’avevano spinto ad architettare quella macabra messinscena.

Mi sedetti al tavolo della cucina con un’abbondante tazza di caffè fumante in mano ed accesi il mio portatile. Nel libro, si diceva che la dama nera fosse sempre accompagnata da una fragranza di violette, per cui decisi che fosse inutile cercare una persona di nome Violetta della mia città, perché probabilmente era uno pseudonimo ispirato a quella particolarità della protagonista del libro di Josephine Collins. Piuttosto, mi interessai a sapere se, di recente, ci fossero stati dei casi di suicidio di donne. Ovviamente, non trovai nulla, il che mi convinse ancora di più che si trattasse di una farsa, oppure che i fatidici sette giorni non fossero ancora trascorsi.

Dopo aver passato in rassegna le sporadiche e poco recenti notizie di cronaca nera - tutto sommato, la mia era una città tranquilla -, pensai che fosse una buona idea contattare Charlotte e domandarle se per caso avesse notato qualcuno di strano aggirarsi nella biblioteca della scuola nell’ultimo periodo; ovviamente, il luogo era molto affollato e frequentato, sia da studenti che da docenti, quindi la misteriosa persona che stavo cercando poteva essere passata tranquillamente inosservata, tuttavia un tentativo non mi costava nulla.

Mentre mi munivo dell’elenco telefonico per cercare il numero di Charlie, mi ricordai di esserne già in possesso: me lo aveva fornito l’anno precedente, quando avevamo coordinato il gruppo di teatro per portare in scena un riadattamento di Uomini e topi; era anche venuto fuori qualcosa di decente, senonché la sera della prima Harry Williams, nei panni di George Milton, era caduto dal palco come un deficiente, rovinando quasi un anno di duro lavoro. Al che, ovviamente, mi ero chiamato fuori dal gruppo di teatro: io, di certo, non ero più disposto a fare figure di merda di tal genere.

Scuotendo la testa per scacciare quel ricordo raccapricciante, presi il cellulare e cercai il numero di Charlotte: era davvero lì, nella mia rubrica, per destino o per caso.

Rispose al secondo squillo, con malcelata sorpresa nella voce. Mentre mi chiedeva se mi servisse qualcosa, mi domandai cosa le dovessi dire ed in che modo. Non volevo passare per un pazzo paranoico, ma era esattamente in quel modo che mi sentivo e mi pareva che qualsiasi cosa avessi detto, sarebbe stata fuori luogo.

«Jonny?» provò Charlotte, dal momento che mi ero chiuso in un ostinato silenzio e non avevo intenzione di parlare.

Mi riscossi. «So che ti sembrerà una domanda un po’ bizzarra,» biascicai, «ma volevo sapere se nell’ultimo periodo si è presentato qualcuno di sospetto, in biblioteca.» La pausa che seguì la mia affermazione mi diede conferma del fatto che dovessi apparire completamente fuori di testa.

«Sospetto in che senso?» domandò Charlotte, con la cautela che si userebbe nell’avvicinare un leone affamato.

«Non so: qualcuno che non è della scuola, oppure che si è comportato in modo strano e circospetto.»

«Non mi pare, Jonathan, ma perché me lo chiedi?» Ecco, quello era esattamente il tipo di domanda che non volevo sentirmi porre.

«Per sapere» buttai lì, sentendomi estremamente stupido.

«D’accordo» rispose Charlie, con poca convinzione, poi cambiò discorso, preferendo non indagare oltre, fatto che apprezzai oltremodo. «Com’è il libro che hai noleggiato?»

«Molto bello» risposi precipitosamente, mentre il mio cuore prendeva ad accelerare in maniera innaturale.

«Sicuro di sentirti bene?»

«Certo, ci sentiamo» farfugliai, chiudendo con impeto la chiamata. Mi dispiacque di aver troncato in quel modo la comunicazione, ma mi sentivo nervoso, come se stessi custodendo un prezioso segreto che non doveva essere divulgato. Qualcosa, dentro di me, mi stava impedendo di parlare liberamente degli avvenimenti del giorno prima, anche se non si trattava di nulla di scabroso.

Tornai a sedermi al tavolo della cucina e mi accorsi che il libro era poggiato lì sopra. Quando ce lo avevo messo? Ero certo che non ci fosse, prima.

Mi strofinai gli occhi e sospirai. Probabilmente stavo impazzendo del tutto. Afferrai il volume e lo scagliai contro il muro, dove impattò con un tonfo sordo per poi cadere sul pavimento. Mi accasciai sulla sedia, completamente privo di forze, come se quel gesto mi avesse prosciugato qualsiasi tipo di energia.

Non seppi quantificare il tempo in cui rimasi in quel modo, immobile a fissare il pavimento come se mi trovassi in stato catatonico. Fu il suono del campanello a riscuotermi: mi alzai di malvoglia ed andai ad aprire, mentre Rufus fuggiva a rintanarsi in qualche angolo della casa, come ogni buon gatto che si rispetti.

Sulla soglia apparve Charlotte, cosa che mi lasciò sorpreso e deluso al contempo: sorpreso perché non avevo idea di come facesse a sapere dove abitassi, magari glielo avevo detto una volta e nemmeno me lo ricordavo; deluso perché mi aspettavo che a bussare alla mia porta fossero le risposte che cercavo, venutemi a trovare per pura pietà.

«Cosa ci fa qui?» chiesi, con una certa aggressività che mi lasciò di stucco.

Charlie trasalì, ma non si scompose più di tanto. «Ti ho sentito strano, al telefono. Volevo assicurarmi di persona che fosse tutto apposto.» Nemmeno mia madre si preoccupava tanto.

«Te l’ho già detto: è tutto ok» mormorai, aggrappandomi allo stipite della porta come ad un’ancora di salvezza: avvertivo il libro guardarmi dalla sua posizione sul pavimento, come se mi stesse invitando a pensare molto bene a ciò che dicevo.

«Come vuoi tu» acconsentì Charlotte, con uno svolazzo della mano. «Ti ho portato una crostata, comunque» aggiunse, e solo in quel momento mi accorsi del sacchetto che aveva con sé. Senza ulteriori indugi e senza aspettare che la invitassi a farlo, entrò, spintonandomi con la spalla per farmi scansare. Non avrei mai detto che fosse così impetuosa, abituato com’ero a vederla timida e composta dietro la sua scrivania.

Dopo aver lanciato un’occhiata laconica al mio appartamento, si diresse in cucina, visibile dall’ingresso, e poggiò la crostata sul tavolo.

«Non credevo che un amante della lettura come te trattasse così i libri» sentenziò quando la raggiunsi, dirigendosi verso il libro di Josephine Collins. Dovetti fare appello a tutte le mie forze per non gridarle di lasciarlo dov’era, o l’avrebbe uccisa.

Charlie prese tra le mani il tomo consunto, poi si voltò a guardarmi come se mi conoscesse da sempre e non potessi avere segreti con lei. «Cosa c’è che non va, Jonathan?»

In qualsiasi film romantico degno ti tale nome, ora avrei dovuto raccontarle tutto e lei, con un moto di compassionevole comprensione negli occhi, si sarebbe dovuta avvicinare a me, sussurrarmi che avremmo superato tutto insieme e poi mi avrebbe baciato. A seguire, una scena di sesso appassionato.

Non essendo quello un film, però, ma solamente la mia ridicola vita, incespicai sul topo a carica di Rufus, mentre tentavo di avvicinarmi a Charlotte per strapparle il libro di mano, con sguardo febbricitante. È mio, continuavo a pensare, geloso come un amante. Riuscii a ritrovare l’equilibrio prima di capitombolare a terra, sotto le risate cristalline di Charlie. In un moto improvviso, ebbi voglia di metterle le mani al collo e strozzarla, non tanto perché stava ridendo di me, quanto più perché non si decideva a lasciare La dama nera.

«Jonny, dal momento che va tutto bene ed è quasi ora di pranzo, che ne dici se ti siedi da qualche parte mentre io preparo qualcosa da mangiare?» saltò su Charlie, posando finalmente il tomo sul tavolo; la rabbia cieca che si era impossessata di me svanì ed io rimasi inebetito: Charlotte si stava autoinvitando a pranzo, io avevo pensato di ucciderla perché aveva raccolto un libro da terra e tutto mi sembrava maledettamente assurdo e surreale.

Crollai sulla sedia più vicina senza avere nemmeno la forza di risponderle.

Poiché la mia dispensa non offriva granché ed il frigorifero ancora meno, il nostro pasto consistette in della pasta, riesumata da uno scaffale e probabilmente più datata di mio padre, con del tonno in scatola di sottomarca. Fu comunque il cibo più decente che avessi mangiato negli ultimi anni. La crostata con confettura di ciliegie di Charlotte, poi, fu squisita: ne mangiai con gusto tre fette, dimenticandomi per un istante del libro. Me ne rammentai quando Charlie mi chiese di cosa parlasse, mentre preparava il caffè.

«Di una donna che si suicida per un amore non corrisposto» risposi sussurrando, come se ci trovassimo in una vecchia cattedrale; abbassai lo sguardo ed il tomo era lì, appoggiato sul tavolo accanto a me, dov’ero sicuro che non fosse fino ad un istante prima.

«Alquanto melodrammatico» ironizzò Charlotte, versando il caffè in due tazzine. Era a suo agio, come se vivessimo quella quotidianità da sempre, come se fosse tutto naturale. Provai una strana sensazione, che era disagio ma anche calma.

«Perché, tu non ti uccideresti per amore?» scherzai, con una risatina che voleva essere sarcastica, ma che risuonò isterica.

«Non mi sono suicidata quando ho trovato il mio ex a letto con la mia migliore amica, penso di poter resistere a tutto» ghignò, per nulla a disagio nel parlarmi della sua sfortunata vita privata. «Zucchero?» domandò poi, spingendomi davanti la tazza di caffè. Scossi la testa.

«C’è una lettera sulla prima pagina del libro» buttai lì, per poi sorseggiare il caffè con impeto, per disimpegnarmi dalla sensazione che il tomo fosse molto indignato con me per quell’affermazione.

«Ma davvero? Che tipo di lettera?»

«Una lettera indirizzata a me.» Ecco, lo avevo detto: ora che avevo palesato quella realtà, mi sembrava ancora più assurda di quanto già non m’era parsa nella mia testa e mi pentii di averle dato voce. Charlie, tuttavia, sembrava affascinata ed incuriosita, e non pareva pensare che fossi un pazzo. Non ancora, per lo meno.

«Cosa ti fa pensare che sia diretta a te?» Le feci leggere l’epistola, spiegandole i miei sospetti e tutte le mie ipotesi. Ovviamente, sorvolai sul fatto che avessi desiderato strangolarla quando aveva raccolto il libro, o che me lo ritrovassi sempre intorno, anche in luoghi in cui non ricordavo di averlo spostato.

«Io non prenderei la cosa tanto sul serio» mi disse Charlie, dopo avermi ascoltato attentamente. «Probabilmente è solo qualcuno che ti vuole fare uno scherzo, forse qualche studente a cui hai dato un’insufficienza e che vuole rovinarti le vacanze.»

Charlotte se ne andò un’ora più tardi, consigliandomi di cercare notizie riguardo La dama nera e Josephine Collins, cosa che fu illuminante, poiché io non c’avevo pensato affatto. Rimasto solo, digitai titolo ed autore sul motore di ricerca, scoprendo con sorpresa - ma neanche troppa - che non c’era nessun volume come quello che avevo io; inoltre, esisteva solo una Josephine Collins, che scriveva per un piccolo giornale locale di uno sperduto paesino del Montana e che non aveva pubblicato alcun libro.

L’unica notizia che trovai su una certa dama nera si riferiva ad una leggenda di origine sconosciuta. A quanto sembrava, nel corso degli anni, c’erano stati parecchi avvistamenti di una donna vestita di nero, che passeggiava al tramonto in un parco e portava via con sé coloro che avevano l’ardire di avvicinarla, conducendoli nel suo castello. Le notizie erano imprecise e divergenti: alcuni affermavano che la misteriosa dama regalasse una notte di passione agli uomini che portava via con sé, per poi sparire nel nulla, altri affermavano che fosse un demone maligno assetato di sangue, e che uccidesse chiunque vi fosse entrato in contatto. Anche le aree geografiche erano delle più disparate.

Mi domandai se Violetta non desiderasse che io mi recassi al parco della mia città, dove l’avrei trovata ad attendermi al tramonto. Oppure, più probabilmente, poteva trattarsi di miei inutili vaneggi, di costruzioni mentali senza fondamento, frutto di una fantasia malata e paranoica.

Con un brivido, non potei fare a meno di notare la corrispondenza tra il sogno che avevo fatto la notte precedente e la leggenda della dama nera. Scossi la testa e spensi con rabbia il mio portatile, come se fosse tutta colpa sua.

«Io non andrò proprio da nessuna parte, dico bene, Rufus?» mugugnai, con poca convinzione. Il gatto mi rispose con un miagolio costernato, poi zampettò via; in quel momento, lo invidiai: non aveva nulla a cui pensare, nulla di cui preoccuparsi. Desiderai essere come lui.

Passai il resto della giornata a camminare per casa, irrequieto, ponderando il da farsi. Almeno una decina di volte presi in mano il cellulare, tentato di chiamare Charlie per palesarle i miei tormenti e rinunciandovi subito dopo.

Nel tardo pomeriggio, avevo preso la mia decisione: mi ero infilato le scarpe ed ero uscito, diretto al parco della mia città il più velocemente possibile, prima che mi perdessi il tramonto. Razionalmente, mi sentivo uno sciocco e non potevo fare a meno di dare ragione a Charlotte: probabilmente, avrei trovato qualche ragazzino che, ridendo sguaiatamente, avrebbe ripreso con il cellulare le conseguenze del suo scherzo ben riuscito; inconsciamente, tuttavia, in un modo che non sapevo spiegare ed in un luogo della mia mente che non sapevo individuare, sentivo che stavo facendo la cosa giusta, ciò che dovevo. Ero giunto ad un bivio, mi si erano poste dinanzi due strade ugualmente ignote ed io avevo fatto la mia scelta.

Avevo, naturalmente, portato il libro con me: mi dava sicurezza, per un inquietante e malato meccanismo della mente che non sapevo spiegarmi, e la sola idea di lasciarlo a casa mi dava la nausea.

Quando raggiunsi il parco, lo trovai parecchio affollato: tra coppie che passeggiavano e persone che facevano jogging, mi sentii parecchio fuori luogo, col mio libro sottobraccio e l’aria stralunata. Mi incamminai sulla strada principale, un sentiero acciottolato che tagliava a metà una ovale di alberi e prati, disseminato di stradine e con al centro un laghetto, la cui superficie il tramonto aranciato stava dipingendo di tinte pastello. Era un luogo assolutamente ameno, immerso nel cinguettio degli uccelli e nel parlottare sommesso della gente.

Improvvisamente, mi sentii in pace con me stesso e l’irrequietezza che aveva attanagliato il mio animo fino a quel momento scomparve senza lasciare traccia. A passi lenti, mi diressi verso lo specchio d’acqua, vagamente visibile anche dall’ingresso. Giuntovi, mi appoggiai alla ringhiera che lo delimitava e rimasi e rimirare il tramonto finché il cielo non virò verso una fosca tinta bluastra ed il parco si svuotò.

Dovrei venire qui più spesso, mi ritrovai a pensare, mentre i lampioni s’accendevano specchiandosi sull’acqua come tremuli fuochi fatui. In quel momento, tutto mi parve naturale e razionale: nessuna Violetta era ad aspettarmi in quel parco. Non ci sarebbe mai stata. Chiunque avesse scritto quel libro e quella lettera e qualunque fosse stato il suo scopo, nulla del contenuto del tomo era rivolto a me. Era così semplice che non seppi come avevo fatto a non pensarci prima.

Risi della mia stessa stoltezza, poi flettei l’arto che teneva il libro per imprimervi tutta la forza di cui ero capace e lo distesi, lanciando il volume il più lontano possibile a me: cadde nelle placide acque del lago con un tonfo sordo, sollevando un nugolo di spruzzi che scintillò alla luce argentea della luna. Una calma assoluta continuava ad aleggiare nel parco e nel mio animo: mi sentivo liberato di un peso.

Guidai placidamente fino a casa, mangiai il cibo più invitante che trovai in dispensa e guardai un film qualsiasi, grattando le orecchie di Rufus e godendomi le sue fusa. Quando mi coricai, dormii un sonno tranquillo e privo di sogni.

Il giorno dopo mi svegliai che il sole era già sorto da parecchio tempo, riposato e rinfrancato. Quello stato d’animo, tuttavia, durò solamente il tempo necessario a mettere a fuoco gli oggetti poggiati confusamente sul mio comodino: un abat-jour con la lampadina fulminata da tempo immemore, una sveglia digitale, un pacchetto di fazzoletti, i miei tre libri preferiti e lui, un vecchio tomo consunto rilegato in pelle rossa, che mi fissava sbeffeggiante e placido dalla sua posizione torreggiante.

  
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