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Autore: Koa__    27/04/2019    7 recensioni
Lestrade chiede a Sherlock di aiutarlo con un caso che vede alcune coppie scomparire misteriosamente nel nulla. Lui però non ritiene che queste sparizioni siano degne della sua attenzione, almeno fino a quando il cadavere di una donna non viene rinvenuto sulle rive del Tamigi. Per poter indagare su questo misterioso delitto, Sherlock e John si fingono fidanzati. Loro malgrado si ritroveranno vittime di un gioco che li costringerà a mettersi a nudo e, con la vita di entrambi in pericolo e il pensiero che Rosie possa perdere un altro dei suoi genitori, Sherlock si renderà conto di non poter più negare ciò che prova per John.
Partecipa alla Challenge “Easter Eggs” del gruppo Johnlock is the way, and Freebatch of course.
[Ispirata alla 8x05 di Smallville: Committed]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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“Lift your eyes and let me in
'Cause baby I'm an alien like you”







Non si poteva dire che Greg Lestrade non fosse un buon poliziotto. Aveva un gran senso del dovere, una buona intelligenza e molto senso pratico, ma soprattutto era la seconda persona sulla faccia della terra a riuscire a star dietro a Sherlock Holmes e alla sua imprevedibilità. Dopo di lui, naturalmente. Anche se di recente non era troppo sicuro di se stesso e della propria capacità di comprendere il suo coinquilino. Al contrario, di tanto in tanto Greg gli sembrava persino più bravo di lui. Non sapeva spiegarsene la ragione, forse era perché aveva passato anni a tentare di capir qualcosa da messaggi criptici e chiamate misteriose, o magari era perché lo conosceva da molto più tempo. Fatto stava che il bel faccione di quel gran bravo diavolo di Lestrade, fu la prima cosa che riuscì a focalizzare con chiarezza dopo l’irruzione della polizia. Non era mai stato tanto felice di vederlo, nonostante Greg non gli avesse detto niente, limitandosi a sorridergli e ad annuire appena. A John era sembrato d’intravvedere una punta di sollievo non proprio ben trattenuto, nel modo in cui gli aveva dato una pacca sulla spalla. Di certo ce n’era nell’abbraccio che aveva concesso a Sherlock, quello dentro al quale lo aveva stretto, subito prima di urlargli contro. Schiacciato come stava tra quelle due forti braccia, John lo aveva visto lasciarsi andare a un sospiro e un timido accenno di sorriso. No, pensò ghignando appena, non avrebbero potuto avere amico migliore.
 
 
Lo avevano aiutato a sedersi sul bordo di un’ambulanza perché fino a quel momento non era stato del tutto presente a se stesso. Il paramedico che l’aveva visitato, per un attimo aveva dubitato della sua capacità di rimanere in piedi. Nonostante ciò non era svenuto, era sempre stato sveglio sebbene mai pienamente cosciente. Sguardo vacuo, espressione vuota, John non faceva che rivivere quel momento ininterrottamente. Quello della confessione, ovviamente. Riusciva a sentire il rapitore, ordinargli di dire se era o meno innamorato del suo (finto, ma questo era un dettaglio) fidanzato. Percepiva ancora sulla pelle il brivido che aveva percepito quando Sherlock aveva risposto a quella stessa domanda, una manciata di minuti prima. John non riusciva ancora a crederci, era impossibile che fosse vero. Impossibile. Sherlock Holmes non poteva essere innamorato di lui, lui aveva imbrogliato la macchina della verità, ecco. Aveva detto una bugia e siccome era così intelligente, il marchingegno non aveva segnato variazioni nel tracciato. Era senz’altro così che erano andate le cose e, anzi, si sarebbe complimentato per quanto era stato bravo a non farsi beccare. Davvero bravo. Avrebbe proprio dovuto dirglielo, ma al momento non aveva neppure idea se stesse bene oppure no. Aveva ricevuto una scarica d’elettricità, ma il medico che lo aveva visitato sosteneva con una certa serietà che era in buona salute e non era necessario che venisse trasportato in ospedale per ulteriori accertamenti. Non era però la condizione fisica a preoccupare John, quanto lo stato mentale. Sherlock non aveva ancora detto una parola, rispondendo a monosillabi persino al paramedico. Ostinatamente rinchiuso nel proprio rimuginare frenetico, John Watson non riusciva neppure a pensare poter di parlare con lui. Sebbene sedessero uno accanto all’altro, i “Ragazzi di Baker Street” non sapevano nemmeno più come fare per guardarsi negli occhi. Al contrario fissavano entrambi il vuoto con fare apparentemente assente. Di lui, John poteva percepire il respiro lento e regolare, sentire il suo profumo e scorgere il tormentarsi agitato delle dita delle mani che si torcevano vicendevolmente. Se chiudeva gli occhi ancora ricordava le lacrime scese copiose dopo quella confessione gridata con disperazione. Nonostante fosse trascorsa più di mezzora non si era rasserenato, lo notava dagli occhi arrossati e soprattutto da quelle dita che non la smettevano ancora di torcersi. Che cosa lo preoccupava? Cosa c’era in quel meraviglioso cervello che irrobustiva così troppo le rughe della fronte e che lo obbligava a martoriare le labbra carnose? Che si trattasse per davvero dello shock subito, come aveva suggerito la gentile dottoressa che li aveva visitati? Aveva forti dubbi considerato che Sherlock era una persona molto forte, persino abituata a quel genere di sventure. Non gli aveva mai davvero raccontato cos’aveva subìto durante la caccia alla rete di Moriarty, in quei tristemente famosi due anni passati lontano da Londra, ciononostante gli era ormai perfettamente chiaro che avesse passato anche situazioni spiacevoli, come torture o prigionia. Di conseguenza dubitava che il problema fosse quello. Doveva esserci dell’altro e dal canto proprio sapeva di non essere neppure così troppo lucido da rendersi conto di particolari, che a dirla tutta avrebbe faticato a notare persino da sveglio. Per esempio, non aveva sentito quasi nulla del discorso che Lestrade si era offerto di fargli, di modo da fornirgli una qualche spiegazione. Spiegazione doverosa per il povero John, che man mano che lo aveva ascoltato si era reso conto che di non aver capito proprio niente dell’intera situazione.
 

Greg si era anzitutto complimentato con Sherlock per le sue corrette deduzioni, deduzioni di cui John naturalmente ignorava completamente l’esistenza (e quando mai il geniale Holmes si preoccupava di metterlo al corrente di qualcosa?). A quanto pareva aveva afferrato al volo che il colpevole fosse il gioielliere, deducendolo dal modo in cui camminava. Il tizio doveva aver subito un recentissimo strappo alla schiena in virtù della fatica nel trasportare i corpi delle vittime. Un dettaglio che John neanche aveva notato, distratto com’era stato per tutto il giorno. E non soltanto, aveva anche compreso (chissà come) che agiva per motivazioni personali e che aveva ucciso la moglie appena un paio di mesi prima, in quanto sospettava che avesse una tresca con un collega. Da quel momento si era messo in testa l’idea di salvare le altre coppie da un matrimonio pieno di bugie e tradimenti, inscenando tutto quello. “Quello” che aveva comunque un costo e che, di conseguenza, era rintracciabile. A mettere in allarme Scotland Yard era stato un messaggio di Sherlock, inviato appena prima del rapimento nel quale diceva che erano in pericolo e che il gioielliere era il primo nella lista dei sospettati. Dopodiché, Greg aveva svolto i debiti controlli: conti in banca, precedenti, denunce, proprietà e quant’altro e, indagando, si era reso conto che la ditta per cui lavorava era proprietaria di una palazzina in ristrutturazione nei pressi del fiume. Ma era stato soltanto dopo aver notato alcuni strani movimenti sul conto in banca, che avevano capito che i sospetti erano fondati. Poi, c’era voluto solamente il tempo organizzare un’irruzione. E dovevano anche ringraziare Mycroft che, a quanto pareva, aveva visto tutto dalle solite telecamere di sicurezza avvisando in tempo la polizia. Ma in effetti John non voleva ringraziare nessuno, non voleva parlare e vedere anima viva. Voleva sparire e basta, seppellirsi sotto le coperte e dormire per sempre, dimenticarsi di tutto, di Lestrade, del gioielliere e soprattutto di Sherlock Holmes.
 
 
 

 
*
 


 
Ciò di cui era drammaticamente certo era il suo essere emotivamente, e fisicamente, dipendente da quell’uomo. Per quanti sforzi facesse, per quanto potesse almeno tentare di tenersi alla larga, non sarebbe mai riuscito a escluderlo dalla propria vita. Specialmente non ora che vivevano entrambi a Baker Street e che avevano la responsabilità di una bambina che, oltretutto, stavano crescendo insieme. Perché in quel loro non affrontar mai un discorso serio, neppure di questo avevano parlato. Tuttavia non ci rimuginò troppo, fu infatti in quei frangenti e mentre percepiva un vento freddo schiaffeggiargli la faccia, con il chiacchiericcio insistente dei poliziotti a far da sottofondo e il respiro che mancava, di nuovo, per una paura mai del tutto scemata, che John perse le staffe. Tutto a un tratto e mosso da un raptus di follia, si convinse che sarebbe riuscito presto a metter fine a quell’odioso silenzio una volta per tutte. E quindi prese un respiro profondo, provò a placare il battito del cuore ma invano. Niente sembrava servire, niente se non la prospettiva di riuscire a diradare la nebbia.
«Stai bene, Sherlock?» domandò, spezzando il fruire dei suoi stessi ragionamenti. Era un po’ flebile come inizio e di sicuro quella domanda mormorata e timida non trasudava follia, ma perlomeno avevano rotto il ghiaccio. Ed era ridicolo perché una parte di lui ancora si rifiutava di parlarci, preferiva alzarsi da lì e fuggire lontano. A vincere fu però il bisogno di sapere, perché John doveva sapere e doveva parlare con lui. Con uno Sherlock che, tuttavia, non gli rispose, limitandosi a un impercettibile cenno del viso. Lo evitava esattamente come aveva fatto per tutto il giorno. Ma non volle arrendersi, da una qualche parte dentro di sé aveva capito che non poteva in alcun modo permetterselo.
«Quello che hai detto» balbettò malamente, incespicando più volte nelle parole e maledicendo se stesso per il suo sembrare un ragazzino alla prima stupida cotta. «Tu hai imbrogliato la macchina, giusto? Cioè, so che si può fare e presumo che tu ne sia in grado. Voglio dire, sei capace di fare qualsiasi cosa saprai fare anche quello.» [1] Per l’intera durata di quel discorso John non si era neppure preoccupato di guardarlo in faccia, in realtà aveva tenuto gli occhi puntati avanti a sé, fingendo che quel particolare punto dell’asfalto dal quale non distoglieva lo sguardo, fosse la cosa più importante al mondo. Avrebbe dovuto almeno voltarsi e fronteggiarlo, e lo desiderava, eppure sentiva di non averne il coraggio. Tutta la determinazione di poco prima sembrava già svanita e Sherlock, dal canto proprio, non faceva niente per migliorare la situazione. Pensando positivo, in un moto di ottimismo, John si ripeté che perlomeno si stavano rivolgendo la parola. Un piccolo passettino in avanti lo aveva comunque fatto.
«Sì, ecco, io lo so fare molto bene, ingannare la macchina della verità, intendo. È facilissimo, una cosa da idioti in effetti, ecco io… devo dire una cosa a Lestrade.» E una volta che ebbe detto questo si alzò di scatto, allontanandosi a grandi passi e attraversando quella porzione di parcheggio deserto che le auto della polizia avevano occupato. Non andò lontano in effetti e a Greg neanche stava effettivamente rivolgendo la parola, quindi perché andarsene in quel modo? Il suo balbettare era stato strano, Sherlock Holmes non incespicava mai con le parole. Era come se fosse imbarazzato o nervoso, o magari un miscuglio di entrambi quei sentimenti. C’era qualcosa che non andava e doveva ragionare per bene per capire che cosa lo angustiava tanto. Doveva pensare e poi affrontarlo ancora, possibilmente senza farlo scappare di nuovo. Ecco, forse non aveva avuto una gran bella idea chiedendogli se aveva ingannato o meno la macchina della verità, all’inizio gli era sembrata una furbata ma ora si sentiva soltanto un cretino. Perché la realtà era che quella di Sherlock era una fuga vera e propria, stava scappando e lo stava facendo da lui. Ma qual era la ragione? Non aveva il minimo senso. Non era da lui nascondersi, anzi quando aveva un problema solitamente lo urlava ai quattro venti. Noia, difficoltà a risolvere un caso, fastidio… Sherlock era la persona più emotiva e loquace che avesse mai conosciuto. Successe proprio quando giunse a quel ragionamento, mentre rimuginava su quell’insolito modo di fare e intanto che lo sguardo stava inevitabilmente incollato alla sua figura slanciata, che a John tornarono in mente le parole di Mrs Hudson. Lei era da sempre molto chiara in proposito, era assolutamente convinta che quel sociopatico ad alta funzionalità (come definiva erroneamente se stesso)  fosse in realtà una persona piena di sentimento. Anzi, era stata proprio lei ad aprirgli gli occhi, anni prima. Ricordava ancora con precisione ciò che aveva detto a lui e Mycroft durante il caso di Culverton Smith: “Non è mai una questione di mente, ma di sentimenti” [2]. Era stato grazie a quella frase, detta anche con una punta di quell’ironia sottile che aveva sempre lei, che aveva capito che il suo migliore amico, in fondo era un uomo come molti altri. Molto normale nelle emozioni che provava e questo, oh, questo avrebbe dovuto saperlo prima. Sherlock aveva semplicemente una maniera diversa d’esprimerlo, aveva gusti particolari e amava cose che il resto del mondo detestava o riteneva disgustose, ma era comunque una persona con un grande cuore. Lo vedeva tuttora nelle piccole situazioni che la vita al 221b portava con sé. Lo vedeva nel tè che gli preparava a metà pomeriggio, non debitamente zuccherato ma con due gocce di latte. Lo vedeva nel brillare del sguardo le volte in cui capitava un caso da risolvere particolarmente complesso. Lo aveva visto nella maniera che aveva di occuparsi di Rosie e ora lo vedeva anche nel modo in cui fuggiva. Sherlock era limpido e trasparente, sebbene non su tutto. Per esempio, ancora non sapeva cosa provava per lui. Quello di cui era sicuro era la paura, Sherlock era spaventato da qualcosa e anc… Ma quel concetto non lo terminò mai. Già perché, dato che nessuno dei due accennava a volersi sbrigare, ci si mise il destino a far succedere qualcosa. Per la precisione, accadde appena dopo che un agente della scientifica ebbe raggiunto Sally Donovan, con l’intenzione di mostrarle alcune foto appena scattate sulla scena del crimine. Quell’agente era un tale dall’accento gallese, ossa grosse, pancia prominente e un’altezza considerevole, quasi di due metri. Aveva anche un tono insolitamente elevato, parlava con voce grossa e potente e al punto che, ne era sicurissimo, persino Sherlock riusciva a sentirlo. «Fabbricazione russa, questo gioiellino costa un occhio della testa» stava spiegando con tono professionale. Teneva in mano ancora un paio di fotografie della macchina della verità, prese da un fascicolo voluminoso dal quale spuntavano carte e ulteriori scatti.
«Mercato nero?»
«Di sicuro, mica si trova roba come questa al supermercato.»
«Che cos’ha di tanto speciale?» abbaiò una scettica Donovan, studiando quella immagini pur senza capirci qualcosa, il che era evidente dall’espressione vacua che aveva in faccia. John dedusse che aveva a stento idea di cosa stesse parlando quel poliziotto da una ruga sulla fronte, le pulsava ogni volta che Sherlock si esibiva in una delle sue deduzioni. Era un miscuglio indefinito di rabbia e fastidio, per non esserci arrivata lei stessa.
«Prima di tutto è ultra sensibile, dico che neanche la spia più esperta sarebbe capace di imbrogliarla. Roba che la usano per smascherare gente dei servizi, esercito, CIA, ex KGB, roba così.»
«Sì, mi è chiaro, Taylor, ora non sfoderare tutte le tue teorie del complotto.»
«Scusa che hai detto?» tuonò invece John, intervenendo come una furia tra i due ora sbigottiti yarder. Si era alzato di scatto ed era letteralmente corso in direzione del povero agente il quale, con aria appena un poco stranita, lo fissava come se non comprendesse proprio il senso di quella domanda. Ma a John in effetti non importava di nessuno di loro, lui doveva sapere perché da quella risposta dipendeva ormai l’intera sua esistenza. E sì, probabilmente era un po’ troppo melodrammatico e Sherlock aveva ragione a definirlo una “Regina del dramma” ma voleva e desiderava con tutto se stesso avere la certezza di ciò che, ormai, avrebbe dovuto essere palese.
«Ho detto che non la si può imbrogliare in nessun modo» balbettò l’agente Taylor, intimorito da quel modo di fare molto irruente.
«Ne sei assolutamente sicuro?»
«Ma sì, sì. È un macchinario iper sensibile, di ottima fabbricazione e…» Scommetteva che doveva essere un marchingegno davvero molto interessante, però non rimase ad ascoltare quant’altro quel poliziotto aveva da dire, non gl’importava più. Già perché questa volta, a capire, gli ci era voluto pochissimo. E la soluzione a quel caso era la più che ovvia e la più bella di tutte. La macchina della verità usata dal gioielliere assassino non la si poteva ingannare, di conseguenza Sherlock aveva detto la verità. E la verità era che lo amava e non sapeva come avesse fatto a non arrivarci prima. Lo amava da sempre, da impazzire come aveva detto durante la tortura. Lo amava in un modo che gli stringeva lo stomaco soltanto a pensarci. Lo amava, e lui non aveva mai voluto vedere, non aveva mai voluto capire.


«Stupido coglione» imprecò, maledicendo se stesso, intanto che accelerava il passo. Nel frattempo Sherlock era arrivato sulla strada principale e aveva cominciato a guardarsi attorno, con l’ovvia intenzione di chiamare un taxi. Stava per andarsene e John aveva il sentore che se l’avesse lasciato salire su una qualsiasi auto in direzione di chissà dove, lo avrebbe perduto per sempre. Era un’idea assurda, ridicola quasi, ma non faceva che rimuginare su scenari apocalittici. Pensava a come si sarebbero salutati il giorno successivo, dopo un’ennesima notte fatta di silenzi. E poi fantasticava e lo faceva su ben altro, immaginando che cosa sarebbe successo se invece l’avesse raggiunto in tempo. E intanto correva e nel mentre si figurava davanti agli occhi quel meraviglioso futuro insieme, che non riusciva più a smettere di farlo sentire felice. Rideva, John, rideva come un idiota. Rideva e si malediceva e intanto un po’ dentro moriva, e forse piangeva. Perché Sherlock se ne stava andando via senza di lui.
 
 
 

 
*
 
 
 
 
Per quanto improbabile fosse il riuscire a trovare un taxi a quell’ora della notte, John accelerò il ritmo della corsa insultandosi per le sue stupidissime gambe corte. Non erano più tanto distanti, ma Sherlock aveva un’ottima resistenza e soprattutto aveva due lunghe leve grazie alle quali macinava metri su metri. Era capitato fin troppo spesso che lo lasciasse indietro e poi s’innervosisse poiché costretto ad aspettarlo. In questo senso non era decisamente avvantaggiato, ma quella notte John aveva dentro di sé una determinazione senza precedenti. Non gli avrebbe permesso di andarsene e comunque non ora che aveva capito, perché c’erano molte cose che aveva bisogno di sapere e altrettante da confessare. Da quando si erano conosciuti, Sherlock aveva certamente sofferto e parte di questa colpa era senz’altro sua, del suo non accettare, non vedere, non comprenderlo mai fino in fondo. Colpa del definirlo una macchina senza sentimenti, dell’offenderlo, del picchiarlo, dell’andare con altre donne. Pensare a tutto questo in un simile momento gli permise di trovare la forza per non fermarsi e di cercare in sé quel coraggio che per troppi anni gli era mancato, quindi non perse ulteriore tempo e, con gran voce, iniziò a chiamarlo.
«Sherlock, fermo» gridò con quanto fiato aveva in corpo. Notò distintamente la maniera in cui aveva sussultato, fino a quel momento non si era accorto della sua presenza, il che non era affatto da lui. Probabilmente era troppo sconvolto o troppo distratto per farci caso. Sperò che quel piccolo spavento lo facesse rinsavire.
«Fermati!» urlò nuovamente, attirando anche l’attenzione di uno o due agenti. Qualcuno rise e Donovan scrollò la testa, ma lui non badò a niente se non alla figura alta e slanciata che si stava allontanando in tutta fretta.
«No» lo sentì gridare in rimando. La sua voce aveva squarciato il buio della notte, aveva rotto quell’incantesimo che aleggiava attorno a John e che gli aveva permesso di non rendersi pienamente conto di quanto stava succedendo. Lo comprese nell’attimo stesso in cui il tono della sua voce, rauco al punto d’essere irriconoscibile, sferzò il silenzio di quella strada deserta. Stava rincorrendo un’idea, un qualcosa che nessuno di loro sapeva cosa sarebbe diventato. Parlare a che li avrebbe portati? John era sicuro di amarlo e sapeva ormai di essere ricambiato, ma sarebbe bastato? Di nuovo, invece che fermarsi, accelerò il ritmo del passo perché nonostante la distanza, quel rifiuto lo aveva colpito dritto in faccia come un cazzotto ben assestato. E quindi correva e correva con, nelle orecchie, il potente rombo del fiume che scorreva a qualche centinaio di metri. Con il freddo che gli entrava nelle ossa, sebbene fosse già aprile inoltrato. Correva e basta, e intanto provava a convincerlo a fermarsi. Non servì, non fu utile neppure il tono di comando del “Capitano Watson” e stava ormai per perdere la speranza di raggiungerlo, quando finalmente qualcosa successe e lui iniziò a rallentare. Non seppe mai se fu per merito di tanta insistenza, per il suo aver trovato le parole giuste o più probabilmente se era solo per riprender fiato. In effetti non glielo chiese, semplicemente se approfittò e, alzando la voce di modo da farsi sentire, tentò nuovamente di convincerlo.


«Dobbiamo parlare, Sherlock, anzi io ti devo parlare» disse, a fiato corto pur senza smettere di camminare a passo spedito. «Quindi ascoltami.»
«Ascoltarti?» sputò con una punta d’acido disprezzo. Era il tono per la rabbia, dedusse immediatamente. Era quello della furia gelida e bastardamente sincera. La rabbia appassionatamente glaciale, quella intrisa di sarcasmo e beffarda ironia. Era la rabbia per gli idioti qualsiasi, ma questa volta era permeata di un qualcosa di differente, di un acido dolore che non voleva più soffocare e che gli deformava i tratti del viso rendendoli dolorosamente scontenti.
«E per sentirmi dire che cosa?» riprese, sempre urlando in quel modo che John riconobbe come tutto suo. Aveva una voce che sapeva essere deliziosamente baritonale e le mani che gli si agivano sopra la testa piena di ricci nervosi. «Perché vuoi che ascolti, quando già so quello che avrai da dire?»
«No, tu non lo sai» ribatté prontamente, aveva stretto le mani a pugno in un gesto che era solito fare quando era nervoso e arrabbiato e aveva anche pestato un piede a terra, un moto istintivo per rimarcare il concetto. «Questa volta non lo sai, perché se lo sapessi non fuggiresti via così.»
«Non sono gay, ma possiamo restare amici se vuoi» proruppe, scimmiottando malamente il suo modo di parlare. «Conosco la tiritera a memoria. Quindi, se permetti, fingerò che niente di tutto questo sia successo e domani mattina, quando ti sveglierai, anche tu fingerai allo stesso modo e continueremo come prima.» Cristo, non poteva crederlo davvero. Era un’assurdità, come poteva anche soltanto pensare che sarebbero riusciti a ignorarlo? Forse ci sarebbe riuscito lui, rinchiudendo i ricordi in una stanza del palazzo mentale e dimenticando ogni cosa, ma John non ce l’avrebbe fatta e avrebbe macerato dolore e risentimento per anni finendo col detestarlo. Far finta che niente fosse successo li avrebbe distrutti.


«Ma non si può, Sherlock» gli rispose con tono quasi implorante e carico di preghiera. Sperava che ci arrivasse da solo e che capisse che era un progetto impossibile da realizzare. «Non si può tornare indietro, da questa sera la nostra vita sarà diversa e lo dobbiamo accettare.»
«No, che non lo sarà» ribatté e aveva un’espressione talmente dura in volto da sembrare arrabbiato. Sapeva che una parte di lui credeva davvero a quanto diceva, ma era altrettanto sicuro che non ne fosse completamente convinto e che fosse una maniera come un’altra, magari un po’ sciocca, di scappare dalla realtà. Tremava vistosamente e aveva il volto deformato da un dolore sordo che non riusciva più a controllare, pareva sul punto d’esplodere in una furia che a stento John sarebbe riuscito a contenere. Doveva fare alla svelta, si disse, perché sarebbe arrivato presto al punto d’ignorarlo completamente.
«È successo troppe volte, John. Mi hai fatto male così tanto che…»
«Io avrei fatto male a te?» tuonò, con rabbia appassionata. Non poteva permettersi di dire una cosa del genere, non a lui. Era a dir poco furioso e anche se sapeva che non avrebbe dovuto valicare un certo confine, una parte di lui non era capace di passarci sopra. «Io ne avrei fatto a te? E tu allora? Tu sei tutto tranne che innocente, ti sei gettato da un tetto e mi hai fatto assistere al tuo dannatissimo suicidio e dopo due anni sei spuntato fuori dal nulla, facendo finta che non ci fosse una tua fottuta lapide al cimitero. Oh, ma in realtà è andata benissimo eh, far finta di niente ti riesce da Dio, complimenti.» C’era sarcasmo nelle sue parole, John lo usava di rado perché solitamente preferiva l’ironia, quella intelligente e che anche Sherlock apprezzava, era più dolce e meno tagliente. Ma le volte in cui si sentiva così furioso, le volte in cui si preoccupava anche di voler ferire, allora il sarcasmo diventava un’arma molto utile. Era sempre un abito troppo stretto, inadatto a lui e lo sapeva e si maledì per averlo usato in quell’occasione.
«Ah, ma non credo che tu abbia sofferto poi così tanto. D’altra parte me ne sono andato e ti sei trovato Mary, mi hai sostituito alla svelta.» John non seppe mai con precisione che cosa gli impedì di prenderlo a pugni, doveva essere la psicoterapia che faceva con Ella che evidentemente dava già i suoi buoni frutti. Lei diceva sempre che era necessario comprendere che con la violenza non avrebbe ottenuto nulla, e in quell’occasione le sue parole riaffiorarono, tornandogli in mente. Non poteva picchiarlo, per quanto fosse stato stronzo doveva usare la calma e tentare di fagli capire che era in torto. E poi, beh, era sicuro che in lui non ci fosse soltanto cattiveria e che non volesse semplicemente ferirlo. C’era del dolore e, oh, ora capiva. Era quello il suo problema: Mary. Beh, naturalmente non si era mai aspettato che andassero realmente d’accordo e per questo si era sorpreso quando aveva invece scoperto che i due di scrivevano tutti i giorni, che parlavano di lui e che addirittura amavano lavorare insieme. Sherlock l’aveva perdonata mentre lei aveva accettato la presenza di quel tizio, che aveva praticamente un passo dentro e uno fuori dal loro matrimonio. Ma che fosse addirittura geloso, questo era ridicolo perché non aveva alcun diritto di esserlo, non dopo tutto quello che gli aveva fatto.


«Lo sai perché mi sono sposato? Eh, lo sai? Perché tu te n’eri andato e quando sei tornato ho cercato di convincere me stesso di non avere un disperato bisogno di te.» Aveva gridato, anche se non lo voleva. Eppure lo aveva fatto e con quanto fiato aveva in corpo, urlava e tremava e intanto che lo faceva qualche lacrima si era fatta strada sul viso, bagnandogli gli occhi. Non era così che doveva andare, John si era immaginato una scena ben diversa e invece sembrava che fossero incapaci di chiarirsi. «Tu ti sei gettato da un tetto e mi hai lasciato. Per due anni, Sherlock. Due anni. E io ho fatto quello che potevo, sono andato avanti e sì, ho trovato Mary e lei mi ha aiutato a uscire dal baratro dentro a cui tu mi avevi buttato. Perché tu non lo sai che ogni mattina fissavo la pistola per dieci minuti prima di andare al lavoro. Non lo sai, cazzo!» gridò, e non riusciva a trattenere più le lacrime. Aveva già affrontato con Ella quel periodo, ma riviverlo era sempre doloroso e soprattutto lo era quella notte con tutto ciò che avevano passato ancora addosso e la paura di perdersi per sempre, viva come non mai. «Tu non sai quanto seppellirti sia stato orribile, la mia vita non aveva più alcun senso e la colpa che provavo per averti lasciato morire e per non aver fatto niente per salvarti, mi tormenta ancora adesso.»
«T-tu lo sai perché l’ho fatto, te l’ho spiegato. Sono stato costretto» pigolò, timidamente. John non avrebbe voluto far leva sul suo, di senso di colpa ed era meschino il suo essersi spinto così tanto oltre, ma parlare di Mary e del suo matrimonio facendo intendere che era stato un impedimento, questo non poteva davvero sopportarlo. Perché lei non aveva nessuna responsabilità, certamente aveva avuto ben altre colpe ma di certo non quella d’averli separati. Ci avevano pensato da soli, col silenzio, con le parole non dette. Con quel loro non dirsi mai le cose più importanti.
«Certo che lo so» gli rispose, ora in tono più dolce. Si era fatto più vicino e tanto che avrebbe potuto anche toccarlo se avesse voluto, non lo fece. Gli rimase a distanza e per quanto desiderasse baciarlo sentiva di non averne ancora il diritto. «So perché hai finto la tua morte e ti ho perdonato, esattamente come tu hai perdonato me per il male che io ti ho fatto. Ma non puoi accusarmi di essermi sposato, non puoi biasimarmi d’essere andato avanti e di aver provato a essere felice. Se tu non fossi morto e se io avessi saputo cosa provavi forse sarebbe andata diversamente. Tu avresti dovuto dirmelo, ecco.»
«E per sentirmi ripetere sempre le stesse cose? Mi avresti detto che non sei gay, ma che volevi rimanermi amico. No, grazie. Io…» mormorò, tentennando appena come se non sapesse se procedere oppure no. «Io sono innamorato di te da ormai non so più quanto tempo. E non immagini nemmeno gli sforzi che ho fatto per provare a cancellare ciò che sentivo. Mi sono immerso per ore nel mio palazzo mentale, ma non è mai servito a niente: tu eri più forte di tutto quanto il resto. Ultimamente e con Rosie a cui pensare io ho sentito che stava cambiando qualcosa, ma poi mi sono convinto che era una mia illusione e ho tentato di buttarmi nel lavoro e di prendere molti più casi, ma niente è servito e adesso è andato tutto a rotoli. E questo caso, questo stupidissimo caso non lo volevo nemmeno prendere, ma Lestrade insisteva e il cadavere era interessante» smise per un istante solo di parlare, John notò che aveva il fiatone ma che ciò non gli impediva di voler proseguire. Cosa che fece appena dopo. «La verità era che mi piaceva l’idea di fingermi tuo fidanzato, il nostro matrimonio me lo sono programmato anni fa, in un giorno in cui mi annoiavo. E lo sapevo che era un pessima idea, ma non ho resistito perché sono debole. John, se anni fa era la droga il mio problema più grande, ora sei tu. Io voglio te, ho bisogno di te. Sempre. E oggi tutto si è complicato, ho anche tentato di tenerti all’oscuro perché non volevo che tutta questa faccende delle coppie e delle bugie ti riportasse alla mente ricordi del tuo matrimonio, ma non sono riuscito in niente e quando quel tizio mi ha chiesto cosa provavo per te, ho dovuto dirlo. Non potevo mentire, non potevo più farlo o ti avrebbe ucciso e la tua morte mi avrebbe distrutto.»
«Sh…» tentò d’interromperlo, ma lui glielo impedì. Forse era meglio così dato che neppure sapeva cosa avrebbe dovuto dire.
«Per anni mi sono chiesto perché non mi volessi, non capivo cosa ci fosse in me che non ti piaceva e a essere sincero me lo domando ancora adesso. So che non mi ricambierai mai, però ti chiedo il favore di dirmi che cosa c’è in me che non va. Fallo, ti prego. Se tieni a me, anche solo come amico, dimmelo e avrò un po’ di pace. Potremo andare avanti ed essere quelli di sempre e di questo non ne parleremo mai più. Però io lo devo sapere.» Avrebbe dovuto rispondere. Avrebbe proprio dovuto farlo e dirgli che lui non aveva niente che non andava, che era perfetto nel suo non esserlo affatto. E che, perfetto, di sicuro lo era per lui. Ma invece tacque, non riuscì neanche ad articolare un mezzo pensiero. Semplicemente lo guardava, perché quegli occhi che per troppo tempo si erano evitati a vicenda, ora li tenevano agganciati uno all’altro, uniti come da una corda invisibile. No, non disse niente. Lasciò che fossero i gesti a parlare. E sebbene fosse sicuro che abbracciarlo lo avrebbe confuso, non si tirò indietro e, fatto un ulteriore passo in avanti, lo strinse a sé. Da quanto tempo era che non lo toccava? Giorni? Mesi? Magari anni. Tanto da star male a solo contare in giorni. Sentiva la consistenza della sua schiena muscolosa sotto le dita, la stoffa che tirava e le sue braccia forti che lo abbracciavano in rimando, forse un po’ goffamente. Percepiva il suo odore e il calore del suo corpo, sentiva le sue lacrime bagnargli il volto. Ed era una sensazione bellissima, meravigliosa e calda, che ebbe il potere di cancellare tutte le cattiverie che si erano detti. Naturalmente non sarebbe bastato, ma era comunque un inizio. E poi era ciò che voleva e quindi al diavolo, pensò accentuando la stretta e attirandolo a sé con ancora più forza.


«Perché non mi vuoi, John?» lo sentì mormorare al suo orecchio con fare flebile e insolitamente remissivo. Fu quello a risvegliarlo e il piacevole torpore nel quale era caduto svanì all’istante. Sherlock non sapeva ancora niente, realizzò. Non aveva idea di quali erano i suoi sentimenti né dei tormenti nei quali era rimasto intrappolato. Respirando profondamente, cercò dentro di sé il coraggio necessario ma servì a poco. Le gambe sembravano voler cedere da un momento all’altro, le mani tremavano e un groppo gli era salito in gola. Erano lacrime e dolore, tutto ciò che aveva tenuto dentro di sé per anni e che pareva voler uscire tutto insieme, in un grido disperato.
«Io» provò, ma fu meno di un sussurro, sentì Sherlock scuotersi in quell’abbraccio e poi scioglierlo. Era brutto scostarsi da lui, ma in quel momento era  necessario. Schiarirsi la voce non sarebbe servito a niente, però lo fece lo stesso. Un contatto lo mantenne comunque, erano le dita rimaste intrecciate. Le avevano tenute allacciate per tutto il giorno, ma adesso non era una finzione. Ora lo desideravano entrambi. Le guardò a lungo e Sherlock sorrise quando se ne accorse, ma non si allontanò come aveva temuto. Adesso, John doveva soltanto confessargli ogni cosa. Era facile e difficile al tempo stesso. Bellissimo e terrificante.
«Io non l’avrei mai immaginato» esordì in maniera lievemente più sicura. «Nemmeno nei miei sogni più sfrenati tu provavi questo per me. Potrò sembrarti patetico, ma ho fantasticato tante volte su questo, su come sarebbe potuto essere fra noi, ma in tutte le cose che vedevo tu finivi col rifiutarmi. Perché, andiamo, cosa puoi trovarci in uno come me?»
«John.»
«Io non sono bello, non sono intelligente e non sono nemmeno gentile. Ho un pessimo carattere, prendo fuoco subito e tu sai quanto sono stato capace d’essere violento. Però tu mi ami, potresti avere chi vuoi e invece vuoi me. Me. E questo è pazzesco.» Si fermò per un istante o due, aveva la gola secca e una sete del diavolo e più parlava, più aveva una sensazione di dolore al petto. Ma non sarebbe stato di certo quello a fermarlo, semplicemente si bagnò le labbra e quindi prese un profondo respiro. C’era ancora molto da dire. «Quando ti ho conosciuto mi sei sembrato subito incredibile e ancora più assurdo era il modo in cui riuscivamo a intenderci, non mi era mai capitato con nessuno. Era come se avessi trovato un qualcuno della mia stessa specie aliena e io… Vedi, mi sono sempre sentito fuori posto e soltanto nell’esercito ero riuscito a trovare quello che cercavo, ma quando quella parte della mia vita è finita mi sono sentito perso. E poi sei arrivato tu: bellissimo, geniale, così stronzo…» sorrise di cuore, facendo divertire un po’ anche Sherlock in rimando, sebbene più timidamente. «Con te è tutto facile e infatti il problema per troppo tempo sono stato io, non accettavo quello che sentivo, i miei sentimenti e persino una parte di me stesso. E poi non immaginavo che tu… tu sembri sempre così superiore, così distaccato. È come se non te ne importasse, però adesso ho capito chi sei e voglio sapere tutto.»
«John.»
«Non sai quante volte ho provato a chiederti di guardarmi negli occhi e di lasciarmi entrare, ma non ho mai trovato il coraggio di farlo. Non sapevo come dirtelo e poi temevo quello che tu avresti potuto vedere in me: un mostro, un violento. Una parte di me che, se avessi trovato, ti avrebbe terrorizzato e te ne saresti andato, e io non volevo perderti di nuovo. Non ero e non sono nemmeno adesso pronto per farlo. E quindi te lo chiedo ora, perché devo e perché tacere ti allontanerebbe e io non lo sopporterei. Sherlock, lasciami entrare e io ti permetterò di guardarmi davvero. E se hai dei dubbi su quello che provo o su ciò che voglio per noi due, sappi che te lo dirò e che te lo ripeterò per tutta la vita. Ti darò le rispose che meriti. Ma ti prego, Sherlock, credimi che io… che io…»
 

Non riuscì a finire quella frase e in effetti non riuscì nemmeno più a guardarlo. Se l’avesse fatto avrebbe visto che Sherlock, senza respiro, lo fissava. Ansimava appena e tremava vistosamente. Una lacrima gli rigava il volto, forse erano due o magari tre. Aveva la bocca spalancata, ma non un suono usciva da essa. John non sapeva se gli aveva creduto o se avrebbe accettato di stare con una persona come lui, ma ormai era tardi per tornare indietro. A quel punto, con le parole morte in gola e soltanto quel silenzio a posarsi su di loro, non riuscì più a trattenersi. Non ora e dopo tutto quello che era successo. Stava piangendo come un cretino e non gl’importava della figura che avrebbe fatto. Perché la sua terapista non faceva che ripetergli che piangere era in realtà una cosa buona, e quindi si lasciò andare. E non si sentiva nemmeno stupido. Piangeva e dentro di sé sentiva il bisogno viscerale d’essere abbracciato e che lui gli ripetesse che lo amava. Bisogno che fu soddisfatto perché proprio Sherlock, che per qualche secondo di troppo era rimasto immobile e zitto, adesso si era precipitato e lo aveva stretto a sé. E si erano già abbracciati ancora. Ma neanche allora le lacrime avevano smesso di scendere, al contrario aveva stretto i lembi della giacca lasciandosi completamente andare. Piangeva ma al tempo stesso gli pareva tutto più bello. Il loro trovarsi era più caldo, più meravigliosamente pieno d’affetto. Forse, lo amava persino di più di quanto non aveva mai fatto prima.
«Ma come fai a non capire che ti amo, pezzo di idiota?» Lo sentì ridere, agitarsi appena tra le sue braccia ma questa volta non era per scappare. Era imbarazzo. Un rossore appena accennato gli stava divorando le guance e nel guadarlo affannato e senza troppe parole, John si rese conto che piangere e ridere insieme non bastava comunque a far capire quanto tutto quello lo stesse sconvolgendo. Fu un bacio a calmare entrambi, un bacio e basta. Il primo di tantissimi, scambiato in quel posto buio e umido. Con tutta Scotland Yard che li fissava e con Greg che, da un auto con la quale aveva preso da poco a costeggiare il marciapiede, urlava di gioia. Ma John non sentiva niente se non Sherlock, e quel bacio prepotente, geloso. Appassionato. Un bacio che avevano trattenuto per troppo tempo e che era esploso in un divorarsi agitato, quasi impaziente. Un bacio che finì nell’esatto istante in cui Lestrade pronunciò un: «Salite, piccioncini, che vi porto a casa» che fece ridere entrambi. Era successo e a John pareva incredibile.
 
 
Tornarono a Baker Street quella notte stessa, quando ormai stava per sorgere la mattina. Da allora fu l’inizio di tutto. Dormirono insieme le ore che li separavano dall’alba e giorno successivo, quando Mrs Hudson li scoprì abbracciati sotto le coperte, si mise a urlare e a correre per tutta la casa. Doveva averla sentita dire che avrebbe fatto una torta, perché Mrs Hudson faceva torte quand’era felice e biscotti quando doveva rincuorare qualcuno, ma in effetti non aveva fatto troppo caso a quale tipo di dolce avrebbe preparato. Perché in tutta la sua vita, John non si era mai sentito così meravigliosamente sulle nuvole, così bellamente stordito. Avrebbe mangiato torte per sempre, di qualsiasi tipo se fosse stato per il suo umore. E poi lo dissero anche a Rosie, con la quale fu necessario un discorso più delicato e moderando le parole, fu abbastanza imbarazzante quando lei domandò loro se avrebbero dormito insieme. Niente però fu più complicato che il momento in cui fu Mycroft a dover essere informato della faccenda. Secondo Sherlock era una fatica inutile, ma ligio com’era ai propri doveri familiari, John l’annunciò in modo formale un pomeriggio di maggio quando, puntuale e con fidato ombrello al seguito, Mr Governo aveva agitato la calma disordinata del 221b. Mycroft non era mai stata una persona semplice con la quale interagire, John lo aveva sempre considerato un pomposo rompiscatole. Eppure glielo disse per una sorta di dovere rispettoso, e lo fece a schiena ben diritta e sguardo puntato in una rigida postura militare.
«Io e tuo fratello stiamo insieme.» E lui aveva arcuato un sopracciglio, rigirando la punta dell’ombrello che teneva premuto contro il tappeto di fronte al camino. E intanto che lo faceva, una vaga espressione di disgusto era comparsa sul suo volto. Naturale, aveva risposto prima di aggiungere che era ovvio se si considerava lo stato dei capelli di Sherlock, insolitamente sconvolti. Ma alla fine Mycroft l’aveva presa bene, anche i genitori di Sherlock (sempre gentilissimi) e persino Harry, con la quale stava riallacciando i rapporti. Poi lo dissero anche al mondo intero, tramite un post sul blog circa un mese prima di sposarsi. Fu John a sentirne il bisogno, perché se per troppi anni aveva cercato di nascondere quella parte di sé che era riuscita a innamorarsi di Sherlock Holmes, ora non faceva che urlarlo ai quattro venti. E unicamente perché si sentiva felice. Felice e basta. E non gl’importava delle chiacchiere, del giudizio della gente, degli stupidi pettegolezzi. Con Sherlock accanto, avrebbe potuto superare qualsiasi cosa. Perché era un alieno, esattamente come lo era lui.
 
 
 
 
Fine


 
 
[1]Alla fine dell’episodio di Smallville, Lois e Clark si incontrano al Daily Planet e hanno un imbarazzatissimo dialogo. La confessione che Lois ha fatto, ammettendo d’amare Clark, non viene creduta vera dal suddetto Clark il quale è convinto che Lois abbia imbrogliato la macchina in qualche modo e Lois mente dicendo che aveva staccato un sensore. Come si capirà meglio con le puntate a venire, in realtà Lois è innamorata di Clark e i due poi si metteranno insieme, ma ci vorrà ancora del tempo. Io ovviamente velocizzerò le cose.
[2]Ovviamente si riferisce a The Lying Detective. La frase è parafrasata, ma il concetto è quello.

La citazione in alto al capitolo e il titolo del capitolo stesso provengono dalla canzone che ha ispirato l’intera storia: Alien Like You dei The Piggott Brothers.

Voglio ringraziare K_MiCeTTa_K per aver scelto questa stupenda canzone che ha fatto da collante per tutta la storia e ovviamente devo ringraziare anche tutti coloro che hanno letto sin qui e chi ha recensito. Se lo volete proprio saperlo, sto lavorando a qualcosa di nuovo (che del tutto nuovo non è), ma preferisco terminare il mio progetto prima di pubblicarlo. Ci vedremo quindi fra un bel po'.
Koa

 
   
 
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