Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: shirupandasarunekotenshi    27/04/2019    0 recensioni
Fanfic ambientata in seguito agli eventi raccontati nell'oav "Message". Ryo e i nakama si sono ritrovati e capiscono che non possono più separarsi e che il senso della loro esistenza lo troveranno solo nello stare insieme. Ma Realizzare tale sogno potrebbe non rivelarsi così semplice.
Dinamiche polyamorose. Non si trova tra la opzioni così lo diciamo nell'introduzione: possiamo definirla una fivesome più che threesome :P
Questa fanfic andrebbe letta dopo la nostra "Owari no mae ni owari".
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Kento Rei Faun, Rowen Hashiba, Ryo Sanada, Sage Date
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome
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CAPITOLO 11
 
Ryo passò la mattinata in giro per la montagna, intenzionato a fissare nella memoria ognuno di quegli angoli amati e che avrebbe visto molto più raramente, da quel momento in poi.
Doveva salutare ogni altura, ogni albero, ogni animale, ogni volo d'uccello, ogni colore del cielo e dei fiori.
Era salito in alto, in un luogo che solo lui e Byakuen conoscevano, un punto da cui la vetta del Fuji era visibile nei giorni limpidi come quello.
Aveva sospirato di dolce malinconia, perché non avrebbe più potuto recarsi a contemplare la dama velata ogni volta che avrebbe voluto. Da Tokyo era possibile, ma molto più difficile.
Byakuen si era strofinato contro di lui, per ricordargli che il Fuji, Ryo di Rekka, lo portava dentro, nel cuore e nello spirito.
Quando ragazzo e tigre furono vicini a casa si fermarono qualche istante perché, dall'alto, Ryo notò qualcosa che quando si era allontanato non c'era.
“La macchina di otoosan” mormorò, una mano posata sulla nuca di Byakuen.
La tigre gorgogliò qualcosa, alzando il muso e muovendolo con dolcezza contro la mano del ragazzo.
Ora più che mai aveva bisogno di lui. Ora più che mai doveva essergli vicino. Ora tutto sarebbe cambiato, per sempre.
Byakuen sapeva quanto gli addii fossero difficili, li conosceva fin troppo bene.
Ryo si inginocchiò accanto all’amico felino, un braccio intorno al suo collo e gli occhi fissi sulla casa, laggiù in basso.
“Ho bisogno di chiederti un favore, Byakuen. Non me la sento di affrontarlo in casa, devo farlo qui, tra i nostri alberi, i nostri boschi, sotto il nostro cielo... attiralo fuori e portalo da me”.
Byakuen non si fece pregare.
Corse verso la casa, attento ad aggirarne la parte più esposta agli sguardi, ma recandosi là dove si affacciava la finestra dalla quale, lo sapeva, l’uomo avrebbe potuto vederlo. Giunto a pochi passi si avventurò nella radura, con fare quasi timido: ma stava solo attendendo uno sguardo, un cenno di consapevolezza.
Il signor Sanada stava controllando alcune fotografie ed appariva piuttosto nervoso, mentre borbottava tra sé:
“Ma dove saranno finite? Se non le trovo, non potrò farle pubblicare”.
Sospirò un lamento, mentre la sua testa si sollevava; per puro caso, i suoi occhi si posarono tra gli alberi visibili oltre l’ampia finestra.
Il plico di fotografie che teneva in mano cadde a terra frusciando e, dalle sue labbra, uscì un’esclamazione strozzata.
Fu un attimo: non aveva tempo da perdere per correre alla porta, quella visione poteva sfuggirgli, com’era accaduto tante altre volte.
Saltò con una prontezza degna del figlio oltre il tavolo, spalancò le ante della finestra e la scavalcò, atterrando sul prato con un’agilità data dall’entusiasmo febbrile da cui si sentiva divorato.
La tigre guardò per un attimo l'uomo, pensierosa, poi scattò in avanti, ma non troppo veloce: voleva che lui la seguisse, voleva che la vedesse.
Desiderava che sapesse che era vivida, reale.
Non c'erano più sogni a mettersi tra loro.
Saltò radici, cespugli, ascoltò i passi rapiti e affannati dell'uomo dietro di sé: poteva sembrare un gioco, ad occhi ingenui. In realtà quella era la caccia a un sogno.
Infine svoltò dietro a una maestosa quercia, la cui circonferenza era in grado di nascondere alla vista più di un essere vivente e, prima che l’uomo potesse intraprendere il medesimo percorso, dallo stesso punto in cui era scomparsa la tigre spuntò una figura umana, i capelli lunghi, nerissimi, mossi da un’improvvisa folata di vento.
L'uomo bloccò la propria corsa e, ipnotizzato dalla visione, acuì lo sguardo.
“R-Ryo?”.
Ma c'era stata la tigre... era stata lei ad attirarlo là fuori, non era stato un sogno, era troppo... vivido.
“Ciao... Otoosan”.
La voce del ragazzo era tenera e morbida, ma il suo sguardo serio, troppo adulto per essere quello che l’uomo ricordava, persino severo, troppo severo per essere quello di... del suo bambino. Gli fece correre un brivido lungo la spina dorsale.
“Ryo...?”.
Era assurdo, ma non era sicuro.
Perché sembrava che fosse passato così tanto, troppo tempo. E non era... non era così... tanto.
La testa del ragazzo si reclinò su una spalla, un atteggiamento così innocente, eppure la sua espressione non mutò.
“Stai bene? È andato bene il tuo ultimo viaggio, Otoosan?”.
Era... Ryo?
“Ryo... è successo... qualcosa?”.
Non capiva.
Tutto gli sembrava strano.
Dov'era il piccolo Ryo?
Finalmente, sul viso del ragazzo comparve un sorriso, uno strano sorriso, radioso e malinconico a un tempo.
“È successa la cosa più bella che potesse accadermi, ma non so se tu stia bene”.
L'uomo si passò una mano sugli occhi, stanco: forse era il troppo lavoro, forse stava diventando troppo vecchio.
Vecchio...
“Ryo?”.
Era per quello? Lui era... vecchio?
“Otoosan... mi hai davanti, non serve che continui a chiamarmi. Io voglio che tu stia bene, davvero, ma devo parlarti ed è importante, molto importante per me”.
L'uomo si sentiva stanco, strano. Ma non era ancora diventato cieco agli occhi del cuore. Quel ragazzo, quel giovane uomo... era Ryo.
Aveva trascorso troppo tempo senza di lui.
Troppo.
“Scusami...”.
Per cosa? Per tutto?
Non bastava.
Le parole per certe cose non bastavano mai.
E più invecchiavi, più gli errori risultavano incancellabili.
Si passò ancora una volta la mano sugli occhi.
Che pensieri...
Era la tigre... era il sogno... era...
“Perché devi essere triste, se io ho trovato finalmente la strada per essere felice? Non vuoi, una volta, essere felice per me? Non potrò esserlo pienamente se tu non accetti il fatto che... non sono più il tuo bambino, colui che accetta tutto, ogni cosa, anche la tua assenza, pur di avere una carezza e un sorriso al tuo ritorno... il bambino che accetta la tua assenza se questo tuo continuo vagare è ciò che ti rende felice. Ma adesso... voglio essere felice anch’io, è... è troppo quello che chiedo?”.
La voce di Ryo era cresciuta, espandendosi nell'aria come una nuvola carica di pioggia; poi, tutto d'un tratto, si era fatta tremula e incerta. Forse un po’ di quel bambino era sempre lì, con lui.
Felicità, felicità...
Era sempre alla sua ricerca. Lo era sempre stato da quando l'aveva perduta.
Quando lei se n'era andata, li aveva lasciati soli.
E lui l'aveva cercata, in ogni dove.
Lei era diventata il suo sogno.
Felicità, felicità...
Lei l'aveva sempre rincorsa, ma finché lei aveva vissuto erano stati in due a rincorrerla. Poi...
“Non è mai troppo chiedere la felicità...”.
Te la ricordi la favola dell'uccellino azzurro? Io voglio cercarla assieme a te... voglio trovarla, anche se dovessimo percorrere le strade di tutto il mondo. Non sarà così grande, non credi?
La sua voce...
L'aveva guidato così a lungo... e così a lungo aveva vagato.
Il ragazzo fece un passo, un passo solo verso di lui, un passo che significava solo una cosa: non saremo mai del tutto separati.
“Io me ne andrò da qui, vivrò altrove... vivrò a Tokyo... non sarò più qui ad aspettarti ogni volta che deciderai di tornare”.
Un discorso che, forse, voleva rendere ineluttabile, fatalista, ma nelle sfumature della sua voce vi era come un tono di scusa.
“So che a Tokyo sarò felice, anche se amo questo posto più della città, anche se questo posto mi apparterrà sempre e io apparterrò sempre a lui. Ma vado da chi mi renderà felice... vado da chi potrò rendere felice e mi farà sentire importante. Ma con questo non voglio dire che... sono arrabbiato con te”.
Un altro passo, ancora più vicino.
“Non vado da loro per allontanarmi da te, ma per... essere più vicino... anche a te”.
Tokyo? Ryo?
Era lontano. Non troppo, forse... ma lo era.
Andare fino in campo al mondo... o fare solo un passo. Nessuno sa dove sia la felicità finché non ti si presenta sulla punta del naso. Ma quando la si trova non la si deve lasciare andare... un uccellino scappa così velocemente quando non lo si accoglie a dovere.
Le sue parole si intrecciavano a quelle del figlio.
Erano simili Ryo e sua madre, lo erano sempre stati.
Ora più che mai.
Avevano sempre avuto tutto il coraggio che a lui mancava. Tutta la forza, la speranza...
Gli veniva da piangere. E pianse, anche se faceva fatica a sentire le lacrime.
Il dolore pulsava fin troppo forte nel cuore.
 
Ryo ormai era lì, ad un soffio da lui e lui stesso si sentiva soffocare dalla voglia di piangere: non avrebbe voluto quello, non avrebbe voluto vedere il padre così.
“Hai paura della lontananza? Della mancanza? Perché? Perché proprio adesso che potremmo, invece, essere più vicini? Perché temi di...”.
Ryo deglutì, era troppo doloroso quello che stava per dire, forse troppo crudele, per entrambi, ma lo doveva dire. Non doveva più esistere nulla, tra loro, di non detto.
“...di provare nostalgia per me, se non... non l’hai mai provata in tutti questi anni, in cui... avremmo potuto stare insieme?”.
Perché, tutto d'un tratto, aveva capito.
Era bastato poco.
Era bastata la tigre, il suo sogno... la sua selvatica, bella, libera, giovane moglie.
I suoi ricordi, la sua voce.
Una voce che non aveva dimenticato, ma che non era riuscito più a udire da quando se ne era andata.
Sordo, sordo, sordo.
Sciocco. Stupido. Sognatore. Pieno di paura.
Tanta paura da rifuggire la propria felicità, solo per una chimera.
Una chimera che non lo riportava a casa.
“Hai ragione...”.
Aveva ragione. E non aveva più tempo.
Non aveva mai catturato l'uccellino.
Non c'erano mai state trappole, solo uno sguardo sparuto a seguirlo, da lontano.
Una mano gentile gli sfiorò una guancia.
“Non ti voglio triste... e non voglio essere triste io. Diamoci una possibilità per essere felici, sia tu, che io. Ho trovato la mia strada... e forse anche tu hai trovato la tua”.
Le parole di Ryo furono accompagnate da un ruggito leggero e una creatura meravigliosa, quasi chiamata da quel discorso, comparve accanto a lui.
Era l'uccellino azzurro... il suo Ryo... il suo uccellino.
La sua mano scivolò lentamente e fece qualcosa che da tanti anni non aveva più fatto: abbracciare suo figlio.
Byakuen guardò l'uomo stringere a sé il ragazzo, mosse il capo da un lato con aria tenera e similmente malinconica: l'aveva rincorso tante volte, come un bambino rincorre una farfalla.
Con una gioia cieca, semplice, forse troppo.
E invece di avvicinarlo al suo cucciolo, l'aveva portato lontano.
Per tornare, a volte, è necessario partire.
L'aveva detto tante volte Kaosu. Ora, forse, lo capiva un po’ di più.
Ryo ricambiò l’abbraccio e riuscì finalmente a sorridere, con quella semplicità, quell’istinto sincero che gli era proprio e che non sarebbe mai cambiato, non l’avrebbe mai reso più duro, più cinico. Ryo cresceva insieme alla sua virtù, che diventava sempre più totale, universale, aperta alla vita e all’amore.
“Adesso siamo più vicini di quanto non lo siamo mai stati”.
  
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