Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: Diana LaFenice    29/04/2019    1 recensioni
«Sapevi che esistono ben più di ottantotto costellazioni, nella volta celeste? Alcune sono scomparse, altre esistono già, alcune sono visibili a occhio nudo e altre ancora devono ancora nascere. Invece, alcune sono talmente lontane che non possono essere viste neanche con il telescopio più potente del mondo. Io le conosco tutte, io le vedo e le sento tutte. Eccole, sono proprio qui, davanti a me, le sento sulla punta delle dita».
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: AU, Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Rafting all’Inferno




Death Mask

Il cagnaccio a tre teste era veramente imponente. Lo riconoscesti. Non ti sorprendeva che i Black Saint presidiassero questi luoghi solo da punti strategici, onde evitare di essere ammazzati a propria volta.
Peccato che non avessero fatto i conti con voi. In quattro e quattr’otto li avevate sbaragliati e avevate persino dato da mangiare al cane infernale. Che, ormai, aveva eletto la Seconda Prigione a sua cuccia personale. Vederlo mangiare così di gusto ti aveva rammentato di quando anche tu avevi messo qualcosa sotto ai denti a casa tua.   
Non eri tornato veramente al Santuario. Avevi considerato questa scelta per un po’, ma dopo aver messo a cuccia Cerbero, improvvisamente avevi avuto un brusco calo di energia che ti aveva costretto a rimandare la partenza.
Per ironia della sorte, quando ciò era avvenuto, avevate appena liberato la Seconda Prigione quando così, dal niente, le forze ti erano mancate e ti eri accasciato a terra, privo di sensi. Quando ti risvegliasti, la parte superiore del tuo corpo era sostenuta da una donna che ti chiamava. Per un momento ti tornò in mente Elena e, sperasti, che fosse lei. Ma, quando apristi gli occhi, incontrasti quelli inespressivi della maschera di Cherì. Grugnisti infastidito un: «Levami subito le mani di dosso».
Cui lei rispose: «Non posso, non ti sei ancora ripreso completamente».  
«Ti ho detto: levami le mani di dosso». Ringhiasti e te la allontanasti in malo modo. Non sopportavi essere toccato, tantomeno da quella piaga. Anche qui te la dovevi ritrovare, anche qui.  
«Non posso, il maestro mi ha ordinato di restare con te e aiutarti qualora ti fossi svegliato». Rispose lei stizzita.
«Dove sono andati?»
«Stanno organizzando le mosse per il prossimo attacco».  Provasti ad alzarti ma le gambe non ti ressero. Cherie ti acchiappò al volo, ti aiutò a rimetterti seduto e ti passò del cibo che riconoscesti come una delle vostre razioni K. Razione che, purtroppo, mangiasti, maledicendo il tuo fisico per il crollo. Ma che diavolo ti era preso? 
«Che cosa mi è successo?» Le domandasti parlando tra un boccone e l’altro. Lei ti raccontò tutto in tono aspro. Forse augurandoti di strozzartici con il cibo. Per sua fortuna o sfortuna (dipende dai punti di vista) non accadde. 
Bevesti anche l’acqua nella borraccia che ti porse. Poi gliela restituisti borbottando un ringraziamento che ti sarebbe valso uno sputo in un occhio, se avesse potuto togliersi la maschera.
Ti togliesti l’elmo a maschera e ti passasti una mano sulla faccia e sui capelli. Eri incazzato, soprattutto con te stesso, perché non ti sentivi più così crudele e rabbioso da molto tempo. Non pensavi che facesse così male al fisico essere perennemente incazzati come eri prima di Asgard.
Neanche di essere stato così stronzo.
Ma questo come glielo spiegavi a Cherie?
Indossasti il tuo elmo a maschera e sbuffasti seccato. Odiavi dover scendere a patti con il tuo orgoglio smisurato. E poi, quell’apprendista petulante non era neanche una tua amica. Vero, ma era pur sempre una persona e tu eri pur sempre un adulto. La guardasti di sottecchi mentre si allontanava per riporre la borraccia nello zaino vicino alla tenda del Drago Rosso. Tenda che i soldati ombra stavano smantellando. Segno che era tempo di muoversi. Purtroppo il Guardiano della Casa di Marte era più lento rispetto a voi Gold, ma i risultati erano notevoli.
A vedere il suo operato avvertivi un vago senso di presa per il culo. Non perché lui ce l’avesse con te o con gli altri. Anzi, era una persona piacevole, un ottimo conversatore, anche divertente. Ci avresti preso una birra insieme non fosse stato un essere sovrannaturale. Ma nei confronti del tuo ordine.
Ma non era che quello in cui eravate invischiati voi Cavalieri fosse tutta una scemenza? Oppure era solo perché queste guerre non le potevate combattere coi soliti metodi da Guerra Santa e lampo?  
Se da un lato era fastidioso, dall’altro, la sua metodicità era invidiabile. E ti scoprivi a guardarlo ammirato gestire le sue truppe e stendere piani e strategie che, a te, non sarebbero mai venuti in mente. Diavolo, da lui sì che avresti sicuramente imparato qualcosa! Poi ti ricordavi chi eri, che dei sottoposti ce li avevi, che li comandavi più che bene e tornavi sui tuoi passi.     
Ti frullavano tante cose per la testa, tra cui Arya e la temporanea scomparsa di Eragon. Quello stronzo vi aveva mollati di colpo appena dopo la Prima Prigione. Quando era tornato ti era sembrato distratto e continuava a guardare in direzione Nord Est con speranza e preoccupazione. Diceva di aver sentito il Cosmo di Arya affievolirsi pericolosamente ed era andato a controllare. Quando era tornato i suoi occhi esibivano uno sguardo preoccupato che tu non sapessi decifrare.
Non che fosse stato così importante, dal momento che c’eravate tu e il tuo maestro DeathToll. Una volta che avevate lasciato la vostra Armata degli Straccioni sulle rive dello Yomotsu Hirasaka, eravate andati solo voi quattro. E, la corsa si era alleggerita di molto,
Non avevi mai fatto caso prima a quanto fosse effeminato. Non che ci trovassi qualcosa di male, se lui era felice così, non c’era problema.
E poi, avevi avuto un brutto presentimento tutto il tempo. Adesso che ti eri addentrato tanto nelle profondità degli Inferi, non ti conveniva proprio tornare indietro. A occuparsi del tuo sostentamento era Cherie, «non Cherì» come ti aveva corretto la petulante. Era lei che si occupava di portarti del cibo dal Mondo dei Vivi, facendo avanti e indietro.
Rispetto alla vostra gioventù era molto più piacevole. Forse perché tu eri invecchiato, oppure perché avevi sempre trovato più interessante la compagnia dei defunti che dei viventi. Non era poi così inusuale, no? Tu, il custode del Tempio del Cancro. Tu alla morte eri avvezzo, ma se c’era una persona che non avresti mai voluto che morisse, quella era proprio Astrid.
Eri arrivato a combattere questa guerra anche per assicurare alla sua anima un futuro. Non sapevi in cosa credesse, ma, qualsiasi cosa fosse, non volevi che cadesse nelle grinfie di Don Avido. Era il minimo che potessi fare per lei.
Ti guardasti attorno, non ti eri mai avventurato così a fondo negli Inferi. In un certo senso era una vera novità anche per te. E, da un certo momento in poi, soltanto il maestro DeathToll, Cherie e le sue armate avevano potuto proteggerti.      
«Non preoccuparti», ti disse Eragon con la sua voce profonda, persino più della tua, affiancandoti, «vedrai che finiremo presto».
«Che ti fa dire che io sia preoccupato?» Chiedesti sforzandoti di non inarcare un sopracciglio, di non urlargli contro e di parlare normalmente. Anche se mentalmente l’avevi già coperto di insulti e di imprecazioni e avevi alzato il sopracciglio e fatto tutte le smorfie che non ti eri permesso. Non potevi mancare di rispetto a un alleato prezioso come lui. Le sue armate costituivano il grosso della tua Armata Brancaleone ed era umiliante. Più volte avevi sognato di puntare il dito contro di lui e togliertelo di torno per sempre. Ma non avevi altra scelta, sentivi la tua energia molto più flebile di prima e sentivi tutto il peso della battaglia. Non era normale. Tu eri abituato a sopportare sforzi peggiori che una banale passeggiata nell’Ade. Ma questa non era una delle solite, banali passeggiate nell’Ade. Questa, era una guerra e tu, avevi anche bisogno di riposo. Lo stesso Eragon ti aveva spiegato che il tuo corpo risentiva dello sforzo fisico e la spossatezza mentale la sentivi tutta. Ma aveva trovato una soluzione: l’acqua del Piriflegetonte. Che poi acqua, era un fiume di lava. Ecco, ti stavi abituando anche tu a chiamarlo così. Strano a dirsi, ma era l’unica cosa che si poteva davvero ingerire negli Inferi, senza temere ripercussioni di sorta.
L’unico lato negativo, a parte il fatto che era un fiume di fiamme e lava, era che non sedava affatto la sete, era come bere un bicchiere di sale. Se non altro, lo stomaco te lo riempiva. Neanche quando eri nel tuo vecchio girone avevi mai sopportato una tale tortura, tra la gola e la lingua in fiamme e il bruciore di stomaco. Se fossi andato avanti così ti sarebbe venuta un’ulcera.
«Non lo sei?» Ti chiese, guardandoti.
«Ho l’aria di uno che lo sia?» Richiedesti.
«No».
«Ecco», “E allora non chiedermelo mai più, brutto…” e giù di insulti che non potevi proferire. Ma quanto ti sarebbe piaciuto veramente toglierlo di mezzo. Tu, il più forte tra i Cavalieri d’Oro, la presenza di costui era uno smacco per il tuo orgoglio.  Ma lui vi serviva, perciò dovevi restartene zitto e ingoiare. Chinando la testa sotto allo stivale del tuo alleato. Metaforicamente parlando. Ma non vedevi davvero l’ora di rialzarti di scatto e ribaltare le posizioni.
Eragon si allontanò e tu ti sedesti su uno dei tanti massi lasciando vagare gli occhi sul paesaggio, senza tuttavia, vederlo veramente.  
Il timbro nasale del tuo maestro ruppe le tue elucubrazioni. «Io non te lo consiglio». Ti girasti verso di lui e domandasti, sforzandoti di non ringhiare: «Cosa?»
Il tuo maestro inarcò un sopracciglio spinzettato e ti guardò come a dire: “Pensi sul serio che non me ne sia accorto?”«Il Drago Rosso».
«Se anche fosse?»
Il tuo maestro si accomodò accanto a te e cominciò a giocherellare con il medaglione d’oro che portava al collo. «Sei sempre stato una testa calda. A volte sì tanto da rasentare la stupidità più totale. Credevo che il tempo avrebbe smussato questo tuo aspetto, ma evidentemente mi sbagliavo».
«Che cosa vorreste insinuare?»
«Soltanto di non sottovalutarli mai. Solo perché sei capace di far evolvere la tua Cloth in una Gold Cloth, resti sempre un essere umano. I Guardiani non lo sono».
«Neanche Arya lo è». Gli facesti notare con un verso di disprezzo.
«Ma lei è diversa ancora da te. Lei è pur sempre una Divinità con un Cosmo d’Oro Bianco, sebbene discenda da uno di loro. Anche lei, nonostante sia incarnata in un essere umano, ha una marcia in più rispetto a te. Dammi retta, se qui c’è qualcuno che può tenerli a bada, quello non sei tu». Poi appoggiò la mano sulla tua spalla per rialzarsi e disse: «Prendila come un consiglio, anche perché, non credo che alla Divina Atena farebbe piacere vedere le sue schiere nuovamente decimate a causa del tuo caratteraccio». Consigliò saggiamente. Se c’era una cosa che contraddistingueva DeathToll, era che i discorsi che gli uscivano di bocca, raramente erano stupidi.
Ti sembrava di essere tornato di nuovo sotto la sua egida e la cosa ti dava fastidio alquanto. Soprattutto perché il tuo corpo aveva preso a rimuoversi come il suo. E, certi atteggiamenti, che avevi fatto di tutto per eliminare dalla tua psiche e dalla tua abitudine, non li rivolevi.
Di una cosa bisognava dargli atto. Per quanto poco mascolino fosse, era comunque molto più saggio e intelligente di te. E, se ti dava questi consigli, era meglio dargli retta senza fiatare.
Certo che non l’avresti fatto, non eri così poco controllato. Il tuo sarebbe stato un giocare a chi ce l’ha più lungo, misurandoti in campo. Ne andava del tuo orgoglio personale.
Poi non potevi più permetterti di fare il ragazzino senza cervello. Avevi lasciato la tua protetta da sola e non avevi la più pallida idea di come se la stesse cavando. Se eri preoccupato? Sì, lo eri. Non lo davi a vedere, facevi finta di no, ma certe volte non riuscivi a non rivolgere un pensiero ad Astrid. Il suo sacrificio per gli allievi di Argor continuava a restarti impresso, come anche tutta la paura che avevi provato. 
«Death Mask». Ti chiamò Cherie, sempre con una punta di disprezzo. La guardasti e lei disse: «É il momento di muoverci».
«Arrivo». Bofonchiasti scazzato. Avevi bisogno di una sigaretta, accidenti. Ma non era il momento di pensarci. Non era mai il momento di pensarci.

La Terza Prigione non l’avevi mai vista prima. I tuoi commilitoni erano persino incerti se lasciarti combattere oppure no. Ma tu li avevi convinti che stavi bene. Avevi combattuto in condizioni peggiori, non è vero, Death?
In compenso era tetra e spettrale persino per i tuoi gusti. Più andavi avanti più non riuscivi a credere che il Cosmo di un Dio potesse arrivare a tanto. Né che potesse creare delle vere e proprie zone naturali. Ti tornò in mente il campo di fiori dove riposavano Orpheo ed Euridice trasformati in statue di pietra e circondati di fiori profumati e luminosi.
Ti ricordavi perfettamente che si trovasse alle spalle sulla destra della Seconda. La profondità di una decina di metri circa non la rendevano più insuperabile di un banale fosso. Era l’aria che si respirava dentro ad essere tetra. Roba che, persino te, che eri abituato alla Quarta Casa, ti guardavi attorno circospetto, mentre i soldati ombra camminavano al vostro fianco, silenziosi e leggeri come pochi.
Ricordavi perfettamente che fosse una valle di forma quadrata, una fossa, appunto. Passaste accanto ai macigni semi abbandonati e vi fermaste di colpo nel vedere degli Skeleton armati di falce spintonare alcuni dannati. Era inquietante. Sembravano un branco di pecore, spinte a entrare nel recinto da un pastore tedesco. Non avevi mai pensato che gli Specter e gli Skeleton, con i quali condividevi intenti e ferocia, fossero niente di più che questo: «Avanti, riprendete il lavoro!» Berciò Rock di Golem osservando a braccia incrociate l’operato degli Specter. Se la memoria non t’ingannava, dall’altra parte doveva esserci Ivan di Troll.
«Oh, voi!» Li chiamò DeathToll richiamandoti tanto alla mente la Divina Commedia, che pure ti aveva costretto a studiare per «conoscere meglio gli Inferi», diceva. In realtà per darti un linguaggio più aulico, sperava. I due Specter volsero il capo verso di lui. «Che ci fate qui? Non dovreste essere con il resto delle legioni infere?»
«Oh, voi siete il resto delle Armate?» Rispose lo Specter di Golem, un po’ deluso e con una formalità che proprio non gli vedevi addosso. Al cenno affermativo di DeathToll sciolse la stretta delle braccia e scese dalla sua postazione per venirvi incontro: «Pensavamo che foste già molto più avanti di così, che è successo?» Chiese lo Specter con sguardo contrariato. Stringesti il pugno e, con esso, anche la voglia di abbatterglielo sul grugno.
Tutto attorno a voi gli spiriti dei dannati che venivano collocati ai rispettivi massi. Quei pochi fuggiaschi venivano riacchiappati subito. «Lady Pandora ha dato l’ordine a noi dei posti riconquistati di tornare in queste terre. Flegias è già tornato alla Quarta e anche lo Specter di Behemoth è già tornato a presidiare quei luoghi, sì anche come lo Specter di Pharao». Spiegò.
Tu ci avresti anche creduto se non fosse che Eragon assottigliò gli occhi e dilatò le narici. Quando faceva così, ormai avevi imparato, che stava fiutando le emozioni e i vari odori secerni dal corpo.
A quel punto anche tu lo guardasti e, trattenesti Cherie dal fare qualche cavolata come avanzare di un passo, afferrandola saldamente per un braccio. La Sacerdotessa Guerriero ti guardò e tu scuotesti impercettibilmente il capo. C’era un motivo, dopo tutto, se la Gold Cloth di Cancer aveva scelto te e non lei. 
«Già, peccato che Pharao non sia ancora tornato alla Seconda, altrimenti lo avremmo visto passare o avremmo percepito il suo Cosmo». Disse Eragon, che, fino a quel momento era rimasto zitto. Le sue ali rossastre ebbero un fremito. Con la coda dell’occhio vedesti i soldati ombra rendersi invisibili e disporsi tutto attorno a voi, come una gabbia protettiva, le lance puntate sul collo del traditore. Quello non era il vero Specter del Golem. 
Quelli veri, erano poco più in là a combattere per cercare di liberarsi dall’eterno supplizio in cui erano stati rinchiusi. Anche tu sapevi che alcuni Specter preferirono passare dalla parte di Don Avido per pura convenienza. Lady Asia vi aveva passato anche quest’informazione e, tra questi, c’era proprio lo Specter del Golem e, per esteso, anche Ivan di Troll. Quest’ultimo traditore inconsapevole in quanto persuaso dal collega a passare dall’altra parte per il bene dei dannati.
«Lo tengono tutti azzerato». Si giustificò quest’ultimo battendo le palpebre. Improvvisamente s’immobilizzò sgranando gli occhi.
Eragon fece un sorriso soddisfatto. Spostò le braccia dietro la schiena, nascondendo le mani sotto le ali e prese a dire: «Li senti? Sono attorno a te. Tu non li puoi vedere, ma loro sono sempre qui e sei circondato, non hai vie di fuga. Un passo e conficcheranno le lance nella tua carne. Un mio cenno e tu sei morto. Chiami i tuoi amici Black Saint e tu sei morto. Dicci la verità e forse sopravvivrai, orsù, che cosa ci fai, tu, qui?»
Per sottolineare le parole di Eragon, facesti leva sul tuo Cosmo per prendere il controllo degli Spiriti. I quali si tramutarono in fuochi fatui e accorsero da te, fluttuando come tante lucciole sbiadite. Pensavi che ci sarebbe voluto molto di più. Ma di fronte a uno come un Guardiano chiunque piegava il capo. Lo Specter si gettò in ginocchio e cominciò a implorare pietà.
Il padre di Lady Asia fece una smorfia di disgusto nel sentire tutte quelle preghiere, quelle confessioni gratuite e quelle suppliche infondate. «Basta!» Lo zittì perentorio e Rock di Golem tacque immediatamente. «Lo so che stai mentendo, lo percepisco chiaramente. Dimmi la verità e ti eviterò un supplizio ancora peggiore della morte».
Lo Specter lo fulminò con lo sguardo: «Non ti dirò niente, va all’Inferno, cane». Il Guardiano della Casa di Marte non rispose. Si limitò a tenere le mani nelle tasche dei jeans e ad alzare il mento. Poi disse: «D’accordo, se proprio ci tieni», gli volse le spalle e ordinò ai soldati ombra di ucciderlo, ma lo Specter sgranò gli occhi terrorizzato e lo fermò: «Aspetta!» In coro con voialtri.
«Non puoi farlo! Se lo uccidi daranno a me la colpa del suo omicidio, manderai a monte il Patto tra Atena e Hades!» Il Drago Rosso ti lanciò un’occhiata sprezzante da sopra una spalla. A quel punto anche Cherie e il tuo maestro si unirono a te nel tentativo di farlo ragionare.    
«Vi dirò tutto! Vi dirò tutto!» Urlò lo Specter.
«Ci dirai tutto?»
Il padre di Lady Arya si fece avanti e gli prese la testa tra le mani, con delicatezza. Lo Specter singhiozzante lo guardò: «Grazie, per la tua disponibilità». Rispose riconoscente il Drago Rosso. Poi gli piantò l’artiglio dell’ala nella testa, fracassando l’Armatura..
Cherie lanciò un grido e il tuo maestro la strinse a sé per evitarle quella vista, mentre il Drago Rosso toglieva l’artiglio. Cherie continuò a urlare isterica «Lo hai ucciso!» tra le braccia di DeathToll, che, cercava invano di trattenerla e calmarla.
«Ho detto che gli evitavo un supplizio ancora peggiore della morte, non che lo avrei lasciato in vita». Rispose serafico il Drago Rosso, guardandovi impassibile da sopra un’ala.
«Vigliacco! Lui aveva detto che si arrendeva! Razza di vigliacco, come hai osato? Si era arreso, perché l’hai ammazzato?» Gli urlasti contro, caricando il tuo Cosmo. «Death Mask, non fare lo stupido». Ti ammonì il tuo maestro spaventato. Ma tu continuasti a inveire contro il Guardiano della Casa di Marte. In quel momento non t’importava di chi fosse, eri solo incazzato nero e volevi spiegazioni. Risposte che ti giunsero con un lapidario: «Perché mi andava».
E tu trattenesti il fiato rumorosamente, scattando leggermente indietro con la schiena per la crudeltà della risposta. Il tuo cuore prese a pulsare più velocemente per il terrore, anche se ti ricomponesti per sfoderare la tua migliore espressione truce e menefreghista. D’altronde, anche le tue mani erano macchiate di sangue, no?
Il vostro alleato volse la testa da sopra una spalla per guardarti. Le mani artigliate allacciate dietro la schiena sotto la membrana delle ali rossastre. Ali da demone, persino per te: «Impara una cosa, ragazzo; i Guardiani non rispondono a nessuno, neanche agli Dèi».
«Però ad Arya sì! Ed è comunque una Dea». Rilevasti, provocandolo velatamente.   
Il Guardiano si girò completamente verso di te. Stringesti i pugni, pronto a qualsiasi rappresaglia. Ma lui fece un sorriso stiracchiato e ti domandò, in tono angelico: «Cosa ti fa pensare che io risponda veramente agli ordini di mia figlia?» E, quel tono angelico, ti spaventò più di qualsiasi altra cosa. Per la prima volta, avesti seriamente paura di quest’uomo. No, non era un uomo. Lo era solo fisicamente, ma non era umano. Era un mostro, era un Guardiano. E, per esteso, avesti anche paura per sua figlia. Per la prima volta percepisti il sottile filo del rasoio su cui lei camminava in precario equilibrio e, il tuo cuore perse un battito.
«Ora andiamo». Comandò il padre di Lady Arya e, le sue truppe, obbedienti, lo seguirono.
«Un momento, Cherie non si è ancora ripresa!» Lo fermò DeathToll accennando alla ragazzina che singhiozzava stretta al suo petto. «Raggiungeteci, allora, tanto non è difficile uscire da qui, vi aspettiamo alla Quarta Prigione». Rispose il Drago Rosso. Accompagnasti quel mostro con lo sguardo. Il battito che ti batteva ancora rapidamente per la paura e i muscoli contratti, come se il tuo corpo attendesse chissà quale pericolo.
Chiamasti a te il tuo maestro e Cherie, che, nel frattempo aveva cominciato a singhiozzare un po’ meno.
Attendeste che si riprendesse completamente e, poi, il vostro maestro le dette un fazzoletto. Lei vi dette le spalle per sollevare la maschera e asciugarsi il volto. Dopodiché, ancora singultando, tornò a girarsi verso di voi. «Meglio?» Chiese DeathToll. Nella morte si era addolcito di molto. Quando era ancora vivo non te lo ricordavi così premuroso nei vostri confronti. Ma la presenza di Cherie e di Death Toll potevano essere fondamentali. «Forse possiamo ancora fare qualcosa per questo Specter».
«Che cosa stai dicendo?» Chiese Cherie, confusa e, il vostro maestro ti guardò perplesso. «Sì, esatto, voglio riportarlo in vita».
«Riportarlo in vita? Come?» Chiosò la tua vecchia compagna d’allenamenti, mentre DeathToll cominciò a scuotere il capo. «Non lo so ancora. Ma per ora, quello che possiamo fare è richiamare il suo spirito qui e la sua stella malefica e, se vediamo Hades, lasceremo che sia lui a occuparsene».
«D’accordo». Ciò detto richiamasti a te il fuoco fatuo di  Rock di Golem. Poi, vi addentraste nell’ultima parte della Prigione.
Non ti saresti mai aspettato che si stringesse fino a diventare una gola. E, fu lì che vedeste Ivan di Troll corrervi incontro e chiedervi spiegazioni asserendo di aver visto passare per primo il vostro alleato. Voi lo esaudiste e confermaste. Alla notizia che era libero si sorprese moltissimo. «Che ne è stato di Rock?» Chiese angosciato. E tu indicasti il fuoco fatuo che ti svolazzava accanto. «Ti dispiace?» Chiedesti poi, ironico, notando la sua faccia. «Bè, un po’sì, era comunque un mio collega. Quindi sono libero?» Chiese tornando a guardarvi. Confermasti e gli chiedesti se avesse voluto venire con voi. Il Troll rifiutò. Lui era più utile qui dal momento che adesso era da solo.
Qualcuno doveva proteggere i morti in ogni caso. «Come desideri, allora noi andiamo». Ciò detto vi congedaste ma lo Specter vi fermò: «Aspettate, quando metterete piede nella Quarta state attenti, gira voce che ci sia un tipo laggiù, molto pericoloso. Ho cercato di dirlo ai vostri compagni ma non mi hanno neanche considerato».
«Che tipo è?» Chiedesti.        
«Un tipo strano con un’Armatura d’oro. Quando Rock e io siamo arrivati qui abbiamo fatto moltissima fatica a superare la sua guardia. Gli abbiamo lanciato contro i nostri migliori attacchi ma non è servito a molto. Non ha smesso di darci la caccia finché non siamo arrivati qui. Vi giuro che si muoveva velocissimo e spiccava balzi che non avevo mai visto fare a nessuno, qui dentro».
«Come era ‘sto tizio?»
«Non l’abbiamo visto bene, era troppo veloce, ma abbiamo visto più volte una spada, anche se sembrava tanto il suo amico con l’elmo con le corna ritorte».
Shura? Che minchia ci faceva qui negli Inferi Shura? Quando era sceso? Perché non te ne eri accorto? «Grazie per la dritta. A buon rendere». Salutaste e lasciaste finalmente la Terza Prigione. Quando foste abbastanza lontani vi ritrovaste a confabulare tra di voi. Cherie ancora un po’confusa e scioccata. Partecipava solo a tratti alla conversazione e, se non l’avesse sospinta il vostro maestro, l’avreste lasciata indietro. «Oh, quante storie», borbottasti prima di fermarli e far salire Cherie sulla tua schiena. «Così andremo più veloci», borbottasti imbarazzato mentre il piccolo fantasma si aggrappava a te e ti fissava stupito. Neanche da viva le avevi mai concesso un tale privilegio.
Ciò detto recuperaste le distanze.
La Quarta Prigione non era un edificio, bensì una zona naturale, proprio come la precedente. Era come se Hades non avesse voluto spendere energie e Cosmo per creare questi luoghi.
«I defunti e gli Specter chiamano questo posto Palude Nera». Mormorasti tu guardando questi luoghi avvolti da quella sottile nebbiolina grigiastra che sembrava smog. 
A dispetto dell’aspetto lacustre e spoglio, somigliava a un sinistro acquitrino, ma senza la vita che animava i medesimi. Anche guardandovi attorno non riuscivate a vedere affluenti di alcun tipo. Eppure, eri sicuro che questi luoghi fossero frutto dell’erosione dell’acqua del Cocito, che, abbandonando le sue falde sempre più, si riscaldava fino a tornare allo stato liquido. Solo adesso però, notavi che qualcosa non ti tornava. Infatti, per la prima volta, vedesti l’immissario e l’emissario di questo lago dalle acque nere e stagnanti. A guardarle ti ricordavano la pece. Chissà se era infiammabile allo stesso modo? Ma se anche la Seconda Prigione somigliava a una fossa, allora era come avere a che fare con un lago artificiale che ogni tanto si riempiva e altri si svuotava? «Come…» Mormorasti e Cherie ti sentì: «Cosa?»
«Come è possibile che abbia un immissario? Non c’era l’ultima volta che l’ho visto». Rispondesti sorpreso, dimentico di mostrarti burbero con lei. La giovane aggiustò la presa e rispose: «Hades non vi ha rivelato tutta la vastità di questi territori. Alcune zone le ha protette apposta durante la Guerra».
La guardasti stupito girando la testa sopra la spalla: «Che cosa?»
«É così. Hades non sarà un grande stratega ma il suo lavoro di sovrano lo sa fare. La sua prima priorità è sempre fare in modo di proteggere i defunti e gli abitanti delle sue terre, per questo nelle precedenti guerre sacre non avete incontrato nessuno di noi».
«E tu dov’eri?»
«Non te lo posso dire». Si scusò la giovane e tu berciasti qualcosa di inintelligibile persino per lei. La quale prese fiato per dire qualcosa ma non ne ebbe il tempo che fu interrotta. «Non è il momento di litigare adesso e sì, ti anticipo subito, lo sapevo anch’io ma non posso dire molto altro: un incantesimo ci impedisce di ricordare e di parlarne più del dovuto». Spiegò DeathToll rammaricato di non poterti dire di più. Tu li guardasti entrambi volgendo la testa, prima verso l’uno e poi verso l’altra. Che storia era questa? Perché non ne potevano parlare? Aggiustasti la presa su Cherie che, anche se fantasma, aveva comunque un suo peso. E, questo non era cambiato. «Ma quindi esistono vie secondarie?»
«Se esistono non siamo in grado di indicartele, solo gli Specter possono vederle».
«Anche i Guardiani?»
«In teoria no, non sono Specter».
«Quindi Eragon e i suoi soldati sono comunque davanti a noi. Ottimo». Deducesti. Perfetto, sono costretti a percorrere la vostra stretta strada. «E adesso?»
«Adesso chiamiamo il traghettatore». Rispose DeathToll prima di mettersi due dita in bocca e fischiare. E il fischio si perse nella foschia che s’infittiva, così sembrava, vicino le sponde della Quinta. Laggiù c’erano sicuramente il Drago Rosso e i suoi soldati ombra.
L’idea di tornare nel luogo della vostra punizione non ti attraeva per niente. Anzi, ti faceva accapponare la pelle. Come il cielo nero striato del riflesso delle fiamme che andava a cancellare il viola purpureo della sommità. Le grida dei morti ti giungevano fino a qui come una vaga eco. Ma non capivi se fosse un ricordo imprigionato nelle tue orecchie o se le sentissi veramente ancora adesso.
Proprio in questo momento, sentiste un rumore di passi raggiungervi da destra e, vedeste lo Specter guardiano della Palude Nera. «Mi avete chiamato?» Chiese stupito di vedervi.
«Vorremmo attraversare la Palude, dobbiamo recarci alla Guerra». Rispose il vostro maestro e il Licaone sgranò gli occhi: «Oh, sì, subito, salite».
«Ehi, niente bisogna salirci solo da morti?» Lo schernisti ricordando il tuo passaggio.
«Vista la situazione d’emergenza farò un’eccezione e poi vi aspettavamo. Il vostro contributo sarà fondamentale per riprenderci la Quinta Prigione e il Flegetonte». Saliste e lì poteste mettervi seduti e far scendere Cherie dalla tua schiena. 
Lo Specter fece il suo lavoro e, la zattera scivolò sulla densa acqua nera. Ci doveva volere molta forza per spingere questa chiatta che ondeggiava leggermente ai lati, sospinta dal moto dell’acqua.        
«É una fortuna che siate arrivati, non ci speravo più. Mi avevano detto di attendervi e di farvi passare immediatamente». Continuò lo Specter con voce sorridente. «Adesso sì che gli faremo vedere i sorci verdi a quei balordi».
«Diteci, il Drago Rosso è passato di qua?» Domandò Cherie accucciata vicino a te sulla zattera.
«Eh? No, bambina, il Drago Rosso non ha usufruito dei miei servigi». Rispose, colpito che la sua interlocutrice fosse una bambina così giovane. «Capisco, Flegiàs». Disse la tua ex compagna d’allenamento.
«Flegiàs?» Mimasti con le labbra, guardandola storto e Cherie si strinse nelle spalle, prima di accostare il volto mascherato al tuo orecchio e bisbigliare: «Diciamo che ha sempre avuto un occhio di riguardo per noi giovani morti prematuramente». 
Passaste accanto a picchi rocciosi alti decine di metri, piatti sulla cima ma dalle pareti scoscese e affilate. Se qualcosa vi seguiva, non poteva che volare, nascondersi sott’acqua e nella nebbia. Saltare lo escludevi. I picchi non erano disposti alla giusta distanza perché qualcuno potesse saltare senza problemi. A meno che non fosse uno Specter. Onestamente la prima volta che avevi attraversato queste prigioni eri stato prelevato dalla Bocca dell’Ade da Rhadamantys in persona che ti aveva mandato nel girone della città di Dite, dove avevi riposato fino a quel momento nel sarcofago. Pandora vi aveva temporaneamente resuscitato per usarvi. Ma per tornare su… Santa Dea che mal di testa.
«Avete mal di testa, Cancer?» Domandò Flegias con un ghigno beffardo mentre remava.
«No, riflettevo». Rispondesti, ma lo Specter del Licaone continuò a sogghignare divertito. Mentre alle tue narici la puzza di zolfo e il calore si facevano più forti e, comprendesti che, quella nebbia era vapore.
Toccaste l’altra riva e lo Specter vi fece scendere. «Cosa vi dobbiamo, in cambio?» Chiese Cherie, che sembrava aver trovato un modo per riuscire a comunicare con gli Specter senza ripercussioni. Lo Specter allungò gli angoli della bocca in un ghigno lupesco: «Ammazzateli tutti, quei bastardi». Si capiva che se avesse potuto avrebbe partecipato anche lui alla battaglia, ma che era più utile qui.
«Lo faremo». Promise DeathToll con un mezzo sorriso.
Poi risaliste la china.
Cherie stavolta camminò senza problemi. A dirla tutta sembrava che, grazie alla maschera non avesse problemi con la nebbia e il vago odore sulfureo che si appiccicava ai vostri vestiti e ai capelli. Avevi dimenticato che certe parti degli Inferi fossero tanto stomachevoli. La Quinta Prigione era quella che amavi meno di tutte.
All’improvviso sentiste una risata piovve dal cielo. Cherie alzò lo sguardo e vi ritrovaste attaccati da una massa nera. Afferrasti Cherie e saltasti da una parte mentre DeathToll saltava dall’altra e vedeste un Black Saint dai capelli lunghi con una cloth molto simile a quella di Aphrodite, la differenza era che era circondato dai corvi. Le parole giuste per descriverlo erano un angelo circondato da corvi. Il suo aspetto efebico ti rendeva difficile capire quanti anni avesse. Quello che era certo era che oscillasse tra i quindici e i vent’anni. Uno che, probabilmente, nel Settecento sarebbe stato l’amante di un nobile.
E, poi, c’era un altro particolare che non ti tornava. Assottigliasti gli occhi e capisti: no, non era la Black Cloth di Pisces, quella, era quella del corvo. Di un nero talmente intenso che andava a contrastare con la chiarezza dei capelli setosi che gli coprivano le spalle e il candore della sua pelle perfetta. Lo vedevi anche da lì che era bello e, ciò ti fece venire voglia di rovinarlo ancor più di quanto non fosse. 
«Oh, voi dovreste essere i rinforzi che dovevano arrivare. Molto bene». Disse con la sua voce piacevole. Ma il modo in cui parlava e come spezzava e arrotondava le lettere, capisti che era francese. Sì, ma non di questo secolo. Era la prima volta che ti ritrovavi faccia a faccia con un Black Saint invasore. Eppure tutto ciò non ti fece né caldo né freddo.
«E tu chi sei?» Chiedesti tu, mettendoti la mocciosa dietro la schiena. L’altro parve indispettito, si spostò i capelli dalla spalla e si mise in posa, come se vi stesse concedendo di rimirarlo alla stregua di un gioiello: «Come chi sono? Io sono colui la cui bellezza supera quella del Cavaliere di Pisces, io sono Rusé di Black Crow e sono qui per il tuo Cloth d’Oro; è un peccato che non ci sia anche il Saint dei Pesci, sarebbe stata una ricompensa ancora più grande per i miei sforzi in questa battaglia».
Che gran rottura di palle questo tizio. Doveva essere parente di Aphrodite perché se no questa non te la spiegavi. A vedere dalla posa che aveva assunto eri più sicuro che fosse, quanto meno, della stessa risma. Ciò ti dette un’idea. Chissà se era orgoglioso quanto il tuo compagno. Prima che tu potessi dirlo intervenne il vostro maestro: «Avete perfettamente ragione, signore. In verità sarebbe stato uno scontro epico, degno del vostro nome e del vostro aspetto grandioso: Sentite come suona bene Rusé di Black Crow, non come me che non si capisce se sia uomo o sia donna. Voi che avete forma così bella e definita oh, cosa mai darei per essere come voi».
Lo guardaste allibiti e il Saint perplesso. DeathToll continuò finché l’altro non si convinse che lo stesse adulando. «Naturalmente non avrete mica l’ardire di fare del male a un povero vecchio come me. A dispetto di tutto ho quasi trecento anni, ormai».
«Maestro!» Esclamaste scandalizzati entrambi. Avevi dimenticato questo lato di DeathToll, invece Cherie non aveva avuto occasione di conoscerlo. «Maestro, non potete dire sul serio!» Urlò la bambina.
«Mi dispiace tanto mia cara, ma non posso non aiutarlo in virtù della sua potenza». Rispose portando le mani dalle unghie smaltate a guglia, prima di indicarlo con un gesto del braccio. 
«Saresti disposto a tradire i tuoi allievi per la tua vita?»
«Che volete farci? Ormai non sono più un Gold Saint, posso anche fregarmene delle battaglie. Tutto quello che chiedo è un po’di pace e non mi dispiacerebbe rimirare un giovane bello come voi nel mentre». Rispose con un sospiro affranto. L’altro sorrise: «Normalmente non amo molto i traditori, ma dal momento che mi sono già scontrato con due Gold trovo che sia meglio non rischiare. Dunque, sareste disposto a rivelarmi il segreto di Cancer».
«Ah, per quello è semplice, dovete togliergliela. Naturalmente vorrei continuare a essere lasciato in pace dopo che il buon Don Avido avrà conquistato gli Inferi». Cinguettò DeathToll guardandoti di sottecchi e tu capisti che stava parlando tra le righe a te. Guardasti il vostro avversario con un ghigno sinistro e ti schioccasti le nocche. Quello che non immaginava era che anche senza Cloth restavi comunque un Gold Saint.
Il Black Saint, ignaro di tutto, non fece una piega.
«Ma certamente». Concesse il vostro avversario, ormai rintronato dal fiume di complimenti del tuo maestro.
Cherie continuò a urlare e a fargli la predica. L’uomo la guardò e si scusò con lei sempre in tono finto dispiaciuto, facendola ammutolire.
Rusé sorrise soddisfatto, prima di sganciare la bomba: «Molto interessante, peccato che io non vi creda».
DeathToll sgranò gli occhi: «Ma no, sto dicendo la verità, ho l’aria di uno che mente? Io non tradirei mai voi».
Ma l’altro non ci cascò: «Mettiamola così, non mi piacciono gli sleali e i voltagabbana e voi, messere, lo siete e anche se ci provaste non riuscireste mai a comprare i miei favori, anche fosse solo per tornare giovane. Come potrei mai accettare di essere guardato da uno che non si capisce se sia uomo o se sia donna?»
A quelle parole la carnagione abbronzata del vostro maestro virò sul rosso e, quando riaprì bocca, riempì d’insulti l’avversario. Il quale nel sentirsi dire che valeva meno della metà di te, s’indispettì e lo fulminò con lo sguardo. DeathToll concluse la sua sequela ordinando perentorio, mettendosi in posizione d’attacco. Posizione che voialtri imitaste istintivamente: «Quando è così difenditi, Rusé! Death Mask, Cherie!».     
«Povero illuso». Commentò carezzando il petto del rapace nero appollaiato sulla sua spalla. L’animale si spostò sul suo polso e il vostro avversario lo fece librare in volo.
«Cherie, dobbiamo impedire che prenda Cancer, d’accordo?» “Tu, Death Mask, cerca di catturarlo”, ti fece sapere telepaticamente.
«Sì, maestro». Rispondeste entrambi, la tua ex compagna d’addestramento con voce più stentorea della tua.
«Senza esitazioni!»
«Sì maestro!»
Ottenendo soltanto lo scoppio di risa del nemico. Come se fosse un segnale, i corvi che erano atterrati sul sentiero e sulle rocce, si librarono in volo in un rumoroso frullo d’ali. Sgombrando così il campo.
Rusé si pose una mano sul fianco: «Credete di farmi qualcosa? Non sono più lo stesso Black Saint che combatteva a Venezia nel Settecento. Abbiamo passato secoli a osservare e apprendere da voi, covando odio e vendetta nei nostri cuori e aspettando l’occasione giusta per avere la nostra rivalsa. Noi non perderemo!» Urlò prima di scagliarvi addosso la prima raffica di corvi e fermare l’attacco di Cherie.
A combattere poi fu DeathToll, ma ogni suo attacco fu respinto e infine toccò a te.
«Ma tu non sei morto nello scontro con Albafica di Pisces?» Chiedesti perplesso, che i rapporti gli avevi letti. Sapevi chi era quell’uomo e il nome della sua tecnica. Ma i Gold del passato non avevano mai riportato molto altro nei rapporti. Spesso si limitavano a citare il nome della tecnica urlata dall’avversario, che a descriverla.
«Non nominare quel nome! Io non sono stato sconfitto! Non sono mai stato sconfitto! Sono stato punito dal mio signore per non essere riuscito a portare a termine la missione, ma non sono mai stato sconfitto!» Cherie si portò una mano alla maschera trattenendo il fiato rumorosamente. Il vostro avversario sorrise affilato, mentre sopra di voi volava la più grande cospirazioni di corvi fantasma mai vista. «Ma non importa, adesso mi riprenderò quanto il karma ha messo sul mio cammino e potrò lavare l’onta dalla mia persona, Difesa di piume!» Urlò e i suoi corvi calarono in picchiata su di voi.
Ma, prima che vi raggiungessero DeathToll urlò: «Cancer all beauty ken!» e una serie di luci si abbatterono sui corvi fantasma, neutralizzandoli. Poi il tuo maestro ti urlò di attaccare immediatamente. “Non aveva neanche bisogno di dirmelo”. Pensasti prima di rivolgere un ghigno al vostro avversario.
Il Black Saint fu colto alla sprovvista e perse, per un momento la sua baldanza. Non ebbe neanche il tempo di dire niente che si sorprese di vederti immediatamente davanti a sé, con un ghigno sadico stampato in volto e un bel gancio destro solo per te. A differenza del tuo predecessore, tu non eri uno che andava tanto per il sottile. Ciò che non ti aspettasti, fu che schivasse prontamente il tuo pugno e saltasse agilmente via atterrando su uno sperone vicino. «Chi siete voi? Credevo che foste tutti vivi, come avete fatto a neutralizzare i miei corvi?» Corvi che, per inciso, andavano riformandosi grazie alla nebbia. Ma, ancora una volta, tu decidesti di non dargli tregua. «Usa pure i tuoi trucchetti quanto ti pare, non potranno comunque niente contro di me! Sekishiki Meikai Ha!» Gridasti e il tuo colpo riuscì a sfiorare il Black Saint. Il quale saltò via di nuovo e vi scagliò contro i suoi corvi. Corvi che Cherie e DeathToll contribuivano a toglierti di dosso. La bambina sapeva padroneggiare il Cancer all beauty ken. Quel dannato colpo che tu non eri mai riuscito a imparare, non solo per il suo nome.
In ogni caso sembrò sortire l’effetto sperato perché riuscì a colpirlo, mandandolo subito in panne. Neanche Aphrodite era così poco resistente e concentrato. Il Black Saint del passato, infatti s’immobilizzò e sollevò una mano tremante fino a raggiungere la ferita. Dei versi gli uscivano dalla bocca. Quando l’abbassò, riuscì ad articolare, con voce crescente: «Il mio viso, il mio bellissimo viso, come hai osato colpirmi, come!» Poi lasciò ricadere la mano a pugno, fremendo. Sollevò il volto e vi incenerì con lo sguardo, rivelando il niente retrostante. E, persino tu arretrasti di mezzo passo. Ti eri aspettato un cadavere e, invece, era solo una statuina di porcellana senza sostanza alcuna. Una statuina comunque letale.
E, contrattaccò i tuoi colpi aizzandoti contro altri corvi che, stavolta non riuscisti a fermare tanto erano impregnati del Cosmo del fantasma. Ma non te ne preoccupavi, potevate liberarvene. E, con un ultimo balzo lo mandasti in frantumi.
Anche i corvi si dissolsero in una pioggia di piume nere come la notte che volteggiarono lievi verso di voi. «State bene?» Domandò Cherie preoccupata raggiungendovi e voialtri confermaste.
Attorno a voi cadevano piume nere, lievi come una sinistra nevicata. «Da che parte dobbiamo andare?» Chiedesti guardandoti intorno, poi ordinasti a Cherie di trovare il sentiero. «Il Licaone ti avrà spiegato qualcosa, no?»
Lei parve contenta di potersi rendere utile, infatti disse: «Sì, la strada me la ricordo, lasciate fare a me». E, vi precedette. Tempo pochi secondi si affacciò da un’altura e vi fece cenno di raggiungerla. Da lì in poi, sotto questa nevicata fastidiosa, vi fece sempre lei da guida.
ma pesanti come macigni. Così scopriste quando vi ritrovaste a soccombere sotto di esse. Le piume sembravano non finire mai e, improvvisamente, vi ritrovaste invischiati fino alle ginocchia e poi fino alla vita. Cercasti di sollevare Cherie che era la più bassa di voi e rischiava di avere le piume già alla gola. Ma erano talmente pesanti che vi impedivano ogni movimento. Era come essere sepolti vivi in mezzo ai sassi. Il segno effettivo che fosse proprio così, lo avesti solo quando cercasti di superare Cherie, senza tuttavia riuscire a muovere un passo. Come del resto anche lei e il vostro maestro, il quale si lamentava dietro di voi. Provò persino a disperdere le piume con il Cancer all beauty ken ma non ottenne grossi risultati a parte quelle di farle cadere solo un centimetro più avanti. 
«Cherie!» Esclamasti.
«Death Mask! Maestro! Non avvicinatevi, non riesco a muovermi!» Urlò cercando di girarsi per tornare indietro, riuscendo soltanto ad avvitarsi su sé stessa. Ma il suo avvertimento era arrivato troppo tardi che finiste intrappolati. Le piume si richiusero attorno a voi e s’incollarono l’une alle altre come cemento a presa rapida.
Ma lei non poté vederlo perché si girò di nuovo.
Le piume che finora erano cadute si infittirono. «Cercate di colpirne quante più potete!» E tu ti avvalesti della tua velocità per riuscirci mentre Cherie si sforzava per cercare di togliersi da lì, in quanto, aveva capito di non ostacolarti.
Ma riuscì solo ad avanzare, di tre metri rispetto a te prima di inciampare e cadere tra le piume con uno strillo.
«Cherie!» Strillò DeathToll e solo allora abbassasti lo sguardo e la vedesti che lottava per uscire dalle piume che implorava aiuto. «Cherie! Andiamo, avanti, combatti, usa il tuo Cosmo! Non farmi venire lì, inutile mocciosa, lo so che sei capace di liberarti!» Strillasti a tua volta. Peccato che le tue parole contrastavano completamente con i tuoi gesti. Infatti cercasti di raggiungerla ma era come correre in acqua, solo molto più pesante e denso. Quasi non riuscivi a sollevare le gambe, neanche bruciando tutto il tuo Cosmo. Perché tu eri ancora vivo nonostante tutto. A un tratto inciampasti e cadesti.
«Death Mask! Aiuto, aiutami!»
Ti rialzasti rapidamente ma, le tue gambe erano ormai immobilizzate.
Il maestro che strillava alle tue spalle e la tua ex compagna d’allenamenti davanti a te. 
«Cherie! Afferra la mia mano, afferra la mia mano!» Urlasti allungandoti più che potesti, anche se avevi il busto libero dalla vita in su. Ma anche così non era sufficiente. Lei non riuscì ad afferrare le tue dita. C’erano ancora venti centimetri a separarle e poi scomparve sotto al nero delle piume.
«Cherie! Cherie!» Urlasti anche tu dopo aver fissato esterrefatto il punto in cui era scomparsa.
Mentre lottavate lanciarono un brillio e da esse s’innalzò di nuovo il Black Saint, il volto di nuovo integro. «Sapete, da quando sono qui ho perfezionato la mia Difesa di piume. L’ho resa più potente di prima, sì che possa indebolirvi a forza di cercare di liberarvi. Credevate che fosse così facile liberarsi di me?» Domandò retorico. Il bel sorriso e l’espressione fiduciosa di prima erano scomparse da un sorriso affilatissimo come lame di rasoi. Questo non poteva farlo da vivo, evidentemente, pensasti mentre cercavi di metterti di nuovo in posizione, ma le piume cadevano su ogni parte dei vostri corpi, facendovi sprofondare sempre più. «E la tua Gold Cloth sarà mia, preparati, Cancer, che sto venendo da te!» Ti si scagliò addosso.
Il Black Saint cercò di colpirvi, ma, proprio in quel momento, Cherie riemerse e riuscì a issarsi a sedere dal suo buco. Il petto che si alzava e abbassava rapidamente per lo sforzo: «Ce l’ho fatta».
Solo dopo si accorse delle vostre grida che l’avvisavano di riabbassarsi. Lei si accorse dello spostamento d’aria e si girò. Il Black Saint s’immobilizzò di colpo sgranando gli occhi. La sua faccia si riempì di nuovo di crepe e crollò di nuovo, come se si fosse rotto una qualche sorta d’incantesimo. «No, no!» Fece toccandosi il volto e parte della testa mancante.«Non è possibile, non è possibile, quello non sono io». Gridò folle portandosi le mani al volto che andava sempre più crepandosi, sì come il resto del suo corpo e della sua cloth. Anche le piume sembravano in qualche modo più leggere.
«Qualunque cosa tu stia facendo continua, Cherie!»
«Non sto facendo niente, ho paura maestro!» Urlò la bambina mentre il Black Saint dava il peggio di sé, rivelando tutta la follia che si celava dietro quel bel volto.
«Non guardarmi, smettila di guardarmi! Non guardarmi così! Togliti quella maschera, maledetta!» Urlò cercando di colpirla e lei si protesse istintivamente il volto con le braccia, strillando spaventata. Ma tu fosti più rapido e gli scagliasti il tuo colpo, centrandolo in pieno, distruggendolo completamente.
Prima di scomparire lanciò un grido che si spense in un decrescendo.
Cherie dal canto suo era spaventata, ma non riusciva a togliere gli occhi di dosso a quella scena tanto macabra quanto affascinante. E, poi, s’infranse come una statua diventando polvere.
«Che cosa è successo?» Domandò la ragazzina girandosi verso di voi ma tu non sapesti che rispondere. «Come hai fatto?» Le chiedesti invece.
«A liberarmi? Non lo so. A un tratto ho pensato che fossero solo stupide piume e la mia mente ha agito di conseguenza. Credo… di averne annullato il peso». Disse stupita.
«Dunque il trucco è questo, eh?» Meditò DeathToll accigliandosi sotto la frangia della chioma leonina di cui andava tanto fiero. Entrambi provaste a liberarvi ma l’autosuggestione non funzionò. Dannazione! 
Aggrottasti la fronte e te ne uscisti con un burbero: «Ottimo lavoro, adesso tiraci fuori di qui». La ragazzina si inginocchiò e cominciò a liberare prima te che eri il più vicino. «E spicciati, non abbiamo tutto il tempo del mondo!» Berciasti.
«Non siamo tutti Cavalieri d’Oro come te, Death!» Esclamò stizzita a sua volta aumentando il ritmo fino al suo massimo. La guardasti a bocca aperta per la seconda volta in vita tua: da quando aveva imparato a ribattere alle tue parole?
Arrivata a scavare all’altezza della cintura la fermasti e, prima che lei andasse a liberare DeathToll, che, nel frattempo, era già riuscito a soffiare via qualche piuma, l’agguantasti per un braccio. La ragazzina trasalì e si girò. «Comunque grazie». Dicesti in tono sentito; cercando di mettere un po’ di tutto in quella parola che non pronunciavi più da un pezzo. E, un grazie uscito dalla tua bocca era una rarità. Lei non si rilassò, come poteva? Di te non si fidava. E questo era colpa tua, che in passato l’avevi abituata così, anche se lei non aveva mai fatto mistero di amarti.
Si limitò a muovere il capo in cenno d’assenso e, in quel momento intravedesti un brillio.
Ti accigliasti e le ordinasti di girarsi completamente. «Fatti vedere un po’». Facesti e lei obbedì.
«La mia maschera ha un problema?» Chiese preoccupata mentre tu scrutavi il tuo riflesso su quell’inespressivo volto di metallo. Non rifletteva però il tuo tormento interiore, la parte più buona o cattiva di te come ti eri aspettato. Rifletteva soltanto. Come se le piume avessero tolto la sporcizia che era incrostata sul metallo, lucidandolo addirittura. Ecco cosa aveva visto Rusé per impazzire così: soltanto il suo riflesso in uno specchio. Non avresti mai pensato che avresti dovuto la tua vita a una maschera.
Ripensandoci, poi, lo aveva detto lui stesso, non era più lo stesso Black Saint, forse doveva solo realizzarlo.
Liberasti il suo braccino esile e decretasti di: «No, è tutto a posto. Vai».
La sua maschera non aveva niente che non andava. Erano stati solo la follia e il narcisismo di Rusé a trasformarlo nell’ombra di sé stesso.
Uscisti dalla buca e aiutasti la tua vecchia compagna di allenamenti a liberare il vostro maestro. Dopodiché, camminando sulle piume (tanto erano talmente dure che non permettevano neanche di affondarci) raggiungeste l’armata di Eragon su un promontorio poco distante. Si erano già accampati.
Appena arrivaste alla sua tenda vi venne incontro con un sorriso strafottente: «Era ora che arrivaste». Vi sfotté beccandosi la tua occhiataccia. Quell’essere sapeva veramente essere antipatico quando voleva.  Non che tu fossi simpaticissimo, ma Santa Atena.
«Ti sei ripresa?» Domandò Eragon a Cherie che si scostò rabbrividendo, benché fosse già un fantasma. «Non toccarmi!» Esclamò ad alta voce scacciando via la mano artigliata che lui aveva allungato per scompigliarle i capelli in un gesto paterno.
«Scusatela è molto scossa». Fece DeathToll stringendola a sé per proteggerla. La tua ex compagna di addestramento si strinse a lui di rimando.
Il Guardiano sembrò non darci peso, perché sorrise comprensivo. Poi, continuando a guardarla come un padre amorevole guarda la figlia, domandò: «Non importa, è comprensibile, quanto tempo aveva quando è morta?»
«Otto anni signore, otto anni». Nel sentire quella cifra un’ombra passò sul volto del vostro interlocutore. Quando sparì lui riacquistò la sua espressione serena: «Sì, immagino che per una bambina di una tale età sia già abbastanza traumatico di suo». Disse, in tono più serio. «Parlando di altro, spero che non vi dispiaccia se ci accampiamo qui; c’è una buona vista ed è un posto abbastanza riparato per eventuali attacchi». Fece mentre vi scortava al limitare dell’accampamento.
Il Flegetonte si mostrava fumigante, nello strapiombo sotto di voi, in tutta la sua macabra bellezza.   
«Gli altri sono già accampati dall’altra parte, poco dopo il territorio dei Black Saint che si stanno radunando sulla riva opposta. Combatteremo lì». Disse indicandovi delle zolle nella pianura ribollente. Magma solidificato, ormai roccia, sotto cui il magma riposava.
«É una caldera». Dicesti tu, riconoscendo i vari geyser, le pozze d’acqua, lo zolfo e il tappo poco distante.
«Precisamente». 
«Non è pericoloso?» Chiese Cherie.
«Solo se non si disturba il Flegetonte e la Sacerdotessa degli Inferi non è così pazza. Questo, dopo il Lete, è il fiume più letale di tutti. Ho mandato un vostro collega in avanscoperta per avere una situazione più precisa».
«Un collega?»
«Sì, eccolo che arriva». Vi giraste nella direzione che v’indicò e lo vedeste atterrare vicino a voi.
Era un Cavaliere d’Oro. Forse lo stesso di cui vi aveva parlato Ivan di Troll. Come il tuo maestro, era più basso di una ventina di centimetri. Ma non avresti saputo dire se fosse per genetica o per età. Era un giapponese alto per la sua etnia, sul metro e ottanta, con la pelle di un leggero colorito giallino, gli occhi a mandorla dal taglio severo. I feroci occhi scuri e le sopracciglia inclinate verso il basso, vi suggerivano una forza e una determinazione senza pari. Una rettitudine che non ti era nuova. Una rettitudine e una giustizia implacabile come le lame dei samurai. Ma aveva i capelli bianchi raccolti in una coda bassa e la barba lunga.
A rompere il ghiaccio tra voi fu il vostro maestro che sgranò gli occhi ed esclamò: «Izo». Mentre il nuovo arrivato scendeva dal pendio.
«DeathToll, è un piacere rivederti». Salutò il vecchio samurai dal volto sfregiato e la barba lunga. I capelli bianchi svolazzavano sciolti sulle spalle. Indossava una versione fantasma della Cloth del Capricorno. Quando ti guardò percepisti tutta la sua nobiltà nel portamento e la fierezza nello sguardo. Lo stesso sguardo che avevi ravvisato spesso in Shura. Quegli occhi marroni però, sembravano ancora più taglienti e forti di quelli del tuo collega della Decima.
Questo era il suo vecchio maestro? Ti ritrovasti a invidiare lo spagnolo per cotanta fortuna. A te era toccato l’etoile mancata, con tutto il rispetto per il tuo maestro.
«Izo, questo è il mio fiero allievo, il mio orgoglio, Death Mask di Cancer». Ti presentò DeathToll indicandoti con un cenno della mano dalle unghie laccate di rosso. Il vecchio samurai prese a squadrarti, in silenzio, con una serietà tale che avrebbe fatto sentire inadeguato persino un sasso. Non era proprio uno squadrare era più un misurarti con gli occhi. Un misurare la tua forza e compararla alla sua, giungendo anche a risultati chiaramente sbagliati. Come diavolo si permetteva questo fossile? Ma lo sapeva chi aveva davanti? Tu eri Death Mask di Cancer! Ricambiasti con un’occhiata torva delle tue che ti fece guadagnare un’occhiata gelida da parte del tuo maestro. Che si sfottesse la sua educazione, non sopportavi questa mancanza di rispetto. Collega del tuo maestro o no che fosse. o no, non sopportavi di essere guardato così proprio da nessuno.  
Quest’ultimo non si lasciò scalfire. A un tratto chinò leggermente il busto e se ne uscì con un: «Ai, onorato di fare la tua conoscenza, Death Mask. Allora abbiamo fatto bene ad affidarvi le nostre preghiere e i nostri Cosmi, quattro anni fa e questa è l’altra tua allieva, DeathToll?» Aggiunse poi raddrizzandosi e continuando a squadrarti. Il tuo maestro annuì e fece le presentazioni.
Il samurai tornò a rivolgersi a te: «Spero che adesso possiate combattere al nostro fianco per sorreggere insieme il Regno dei Morti ed evitare un altro collasso. Onorato anche di fare la vostra conoscenza, nobile Guardiano della Casa di Marte, la mia spada combatterà al fianco della vostra». Fece poi, inchinandosi anche al padre di Lady Arya. 
«Ottimo lavoro, degno dei migliori Pilastri degli Inferi». Commentò quest’ultimo, ricambiando con un cenno del capo.
Tu invece eri sbalordito, non ti aspettavi che conoscessero questi… Esseri.
Perché non ve ne avevano mai parlato durante l’addestramento?
Il maestro di Shura si raddrizzò: «No, non siamo noi i Pilastri degli Inferi, ciò che ci muove è solo il desiderio di salvaguardare l’onore della Divina Atena e la pace sulla Terra». Rispose. Tu inarcasti un sopracciglio: ma come diavolo parlava, questo? E che cos’erano i Pilastri degli Inferi? Non ne avevi mai sentito parlare prima.  Prima che poteste domandare qualcosa, tu e i tuoi compagni foste scortati via da alcuni soldati ombra: «Sono certo che vorrete riposarvi, avete fatto un lungo viaggio». Vi congedò il Guardiano. 
E, foste scortati a una tenda dove foste costretti a riposare e ristorarvi. E chiarirvi su quello che era successo prima. 
Solo verso le ventidue e trenta, Izo vi raggiunse e si scusò per non avervi potuto aiutare anzitempo. Il Guardiano aveva voluto sapere ogni cosa per filo e per segno. 
«Perché non ti sei mosso prima?» Domandò DeathToll scontento, incrociando le braccia.
«Mi rincresce tanto, ma non ho potuto, dovevo impedire ai Black Saint di riconquistare i territori riconquistati».
«Anche tutti gli altri sono qui?» Domandò di nuovo Death Toll, speranzoso di incontrare altri suoi ex compagni.
Il maestro di Shura scosse il capo: «Mi dispiace ma non ne ho idea. Non ho visto nessuno della nostra generazione e non ho potuto mettermi in contatto con gli altri a causa delle Creature. Anche se le Creature non sembrano interessate al Cosmo di noi Spiriti, non mi fido lo stesso».
«Cosa ci fai qui?»
«Le paludi Stigie sono state riconquistate da poco, vi ho sentiti arrivare e ho pensato che fosse meglio attendervi e proseguire insieme in attesa della battaglia finale. Per allora avremo bisogno di tutte le nostre forze». Spiegò.
«Anche voi siete entrato al servizio di Lady Pandora come il mio maestro?» Domandasti.
«Gli ho offerto la mia spada, ma mi considero più un alleato che un suo servitore». Rispose il samurai. “Una mossa neutrale” pensasti.
«Una mossa saggia». Commentò il tuo maestro incrociando le braccia e sporgendo un fianco.
Un refolo di vento smosse i suoi capelli finti già arruffati.
Eragon non disse niente.
«Quindi il prossimo scontro è sulle rive del Flegetonte». Continuò poi il vostro maestro e Cherie non poté impedirsi di rabbrividire.
Chiamarlo fiume delle fiamme era riduttivo. Ora che l’avevi visto intuivi quanto potesse essere tremenda la pena per i parricidi e i matricidi. Ti venne persino da pensare quanto fosse inflessibile e implacabile la giustizia infera.  
Il suo collega della Decima confermò.     
Gli occhi di DeathToll lanciarono un lampo e poi annuì con una serietà che non gli avevi mai visto.

Kiki 
Le voci al Santuario non avevano risparmiato nessuno.

  Con la morte di Astrid era come se fosse caduto un tabù. Se molti erano rimasti sconvolti nel sapere che lei aveva sacrificato la sua vita per tutti voi, altri avevano festeggiato la sua dipartita.
Alcuni oppositori di Astrid, della schiera di qualcuno dei tuoi compagni, una sera che eri alla locanda su consiglio di Shion («Vai a svagarti un po’») aveva proposto un brindisi.  
Avevi ordinato una birra, tu che non ne bevevi molta e preferivi il parl perché il Venerabile ti aveva abituato così. Il parl è una bevanda con cui si mescolano miele ed erbe aromatiche assieme alla birra. Per fortuna non era difficile da realizzare. Ma il locandiere ti disse che non ce l’avevano, così ordinasti una semplice rossa media alla spina.  
Mentre bevevi le tue orecchie captarono, in mezzo al vociare la voce maschile di un uomo: «Hai ragione, bisogna festeggiare». Poi scostò la sedia e salì in piedi sul tavolo, beccandosi l’aspro rimprovero del barista. «Ma stai zitto! Bisogna festeggiare, cosa sono questi musi lunghi? L’apprendista del Cavaliere maledetto non c’è più! Il Santuario è salvo, noi siamo salvi! Brindate con me! A Neera, per averci purificato dall’onta di avere una ladra, baldracca, portatrice di sventura tra le nostra fila. A Neera, hip hip urrà!»
E tutti brindarono assieme a lui. Tutti tranne te che digrignasti i denti e posasti il boccale prima di ridurlo in pezzi per la rabbia e il dolore. Come si permettevano?
«A Neera, che ci ha salvati dalla maledizione del Cavaliere Maledetto!» Continuò l’uomo balzando a terra per fare il giro dei tavoli e far cozzare il suo boccale contro i bicchieri degli altri avventori, di ambo i sessi, che urlarono di giubilo. «A Neera, che ha salvato i nostri matrimoni!» E altro coro e altro cozzare di bicchieri. «A Neera, che ha salvato i nostri segreti e il nostro futuro!»
«A Neera!» Cui altri fecero eco e qualcun altro aggiunse: «E alle nostre finanze risanate!» Scatenando le risate del soldato e di altri. Poi, fece l’errore di accorgersi di te, che stringevi i pugni sul tavolo con così tanta forza, che le nocche ti erano sbiancate.
«E la Dea Atena da un possibile traditore e Specter!» Si unì qualcun altro e, riconoscesti la voce per uno dei Bronze della nuova generazione. A quel punto ogni buon senso andò a farsi benedire e 
«Ehi! Ma era una traditrice o solo una Specter?»
«Mah, per me era tutte e due». Rispose e, dalla voce, capisti che era vicino a te. Optasti per la tecnica dell’immobilità assoluta. Avresti voluto essere di pietra per non sentirli, ma purtroppo lo sentisti forte e chiaro. Soprattutto quando ti dette una pacca sulla spalla e te la strinse. «E tu amico? Non brindi?»
«Non mi va». Dicesti con voce sorprendentemente normale e calma.
«Come non ti va? Non lo sai che è festa? Su, su, bevi insieme a noi, non sta bene che qualcuno tenga il muso».
«Ho detto che non mi va, grazie». Ribattesti in tono più secco senza neanche guardarlo.
«Come non ti va? Amico mio, ma lo sai che giorno è oggi? Il nostro settimo giorno di libertà senza più quella piaga d’apprendista di Ophiuchus! Non sei contento?» Facesti uno sforzo notevole per evitare di saltargli alla gola e ammazzarlo di colpi. «Dovrei?»
«E su, non dirmi che tu eri uno dei sostenitori».
«E se anche fosse?»
«Bè mi dispiace ma converrai con me che quella era ambigua, troppo…» Lo interrompesti per avvertirlo: «Dammi retta, lasciami in pace». Non aveva idea di quanto stesse giocando con il fuoco. Poi incitò la folla a rumoreggiare e tu, muovendo solo due dita, spaccasti il boccale con la telecinesi, facendo volare schizzi di birra e pezzi di vetro sul pavimento annaffiando il molestatore.  La locanda ammutolì per un secondo, poi tutti scoppiarono a ridere. Anche la tua schiena e parte della tua chioma furono annaffiate da qualche schizzo, ma non te ne curasti.
Però il molestatore non capì l’antifona in quanto si fece dare un altro boccale e ricominciò a romperti le scatole. A quel punto cercasti di intraprendere una conversazione civile, ma all’ennesimo insulto, mandasti a quel paese ogni riguardo. «Non dire una parola di più!» Esclamasti furibondo afferrando il sottorango per la collottola e alzandolo da terra con la telecinesi.
L’uomo perse immediatamente ogni voglia di ridere e scherzare. Nella sala qualcuno ti riconobbe e, tra le grida saltarono fuori anche degli stupiti e spaventati: «É Aries!», «Il Gold Saint!» e «Cavaliere d’Ariete!», persino un: «Kiki» e un «Nobile Kiriakya!» Ma nessuno osò fermarti, anche se, una piccola parte di te avrebbe voluto. 
«Hai capito? Non dire una parola di più! Non voglio più sentire queste ingiurie sul conto di Astrid! Quella ragazza ha dato la sua vita per salvarci tutti! Io sapevo chi era, io la conoscevo e non si merita affatto tutto il fango che le stai gettando addosso!» Sputasti con tutto il livore di cui eri capace. Sentivi il volto accaldato e il tuo Cosmo crescere pericolosamente a causa della rabbia. Se non lo tenessi sotto controllo, avresti disintegrato questa locanda soltanto espandendolo. E, sebbene fosse molto calato in potenza, tu eri pur sempre un Gold Saint e, in quel momento, ti sembrò di essere tornato forte come prima.
Nonostante ciò ebbe ancora il fegato di ribattere. «Quella baldracca se la merita tutta! A causa sua i Saint vengono decimati e i Gold vengono corrotti! Siete davvero sicuro che non vi abbia ingannato con quel suo bel faccino? L’apprendista del Cavaliere Maledetto di Ophiuchus? Ma quali ingiurie, sapevamo tutti che era una ladra e una prostituta». A quelle parole gli intimasti di tacere ma, costui, continuò a infierire dicendo che Astrid aveva aperto le gambe a tutti, che poi li aveva rapinati e che era giusto che fosse morta. Così anche l’ultima traccia della corruzione che infestava il Santuario era stata debellata definitivamente.
“Ora basta!” Urlasti così forte nella tua testa che il pensiero investì le menti dei presenti costringendoli a piegarsi reggendosi il capo. Mandando gemiti di dolore.
Perdesti la testa e, con il solo uso della telecinesi lo mandasti a schiantarsi contro la parete così forte da spaccarla. Il Cosmo d’Oro ribolliva e splendeva attorno alla tua persona mentre respiravi dalle narici come una belva feroce. Non avevi mai sentito il tuo Cosmo così forte e potente, quasi che sfuggisse al tuo controllo.  «Non osare mai più parlare di Astrid av Stjernene a questo modo!» Sillabasti minaccioso, faticando a tramutare il ruggito che avevi in gola in parole... I pugni contratti lungo i fianchi. Elevasti un braccio e tendesti un dito verso l’uomo che, comunque non si rialzava, continuando: «Mi hai sentito? Non osare più insultare la sua memoria in mia presenza!»
Improvvisamente, mentre il tuo Cosmo si gonfiava pericolosamente, sentisti un vago doloretto alla nuca. Non ci desti peso, scambiandolo per una puntura di zanzara. Solo quando perdesti i sensi la rabbia fu sostituita dallo stupore.
Quando ti rinvenisti, scopristi di essere disteso nel tuo letto. Attorno a te tre voci maschili bisbigliavano come tre rabbiose api rinchiuse in una bottiglia. Apristi gli occhi mugolando e vedesti i tre nel tuo campo visivo. Erano Shiryu, il Venerabile e il Grande Mur, che si erano interrotti per volgere il viso verso di te. «Cosa è successo?» Chiedesti confuso.
«Ho dovuto tramortirti». Spiegò Shiryu senza troppi giri di parole. «Cosa ti è accaduto? Hai quasi ammazzato un soldato semplice, Kiki. Non mi ricordavo che fosse così che ti avessi educato». Aggiunse il Grande Mur guardandoti come se non ti riconoscesse. Nonostante la voce pacata, quello era un rimprovero in piena regola.
A ripensarci sentivi ancora da un lato quella rabbia bruciante che ti consumava come le fiamme dorate. Ma dall’altro, nel realizzarlo ti spaventasti. Trasalisti. «Mia Dea, sta bene?»
«È stato portato in infermeria per un trauma cranico, adesso se ne stanno occupando i medici».
«Cosa ti è successo Kiki?»
«Io… io scusatemi, non ho idea, ho perso il controllo, io…»
«Ormai sono giorni che perdi il controllo facilmente», ti interruppe il Venerabile in tono preoccupato carezzandoti il volto con una delle sue fredde mani bioniche. Si comportava con te come un nonno apprensivo. «Abbiamo fatto una fatica che non hai idea per fermare Kanon dallo spedirti a Capo Sounion e toglierti la Gold Cloth».
«Volete dire che sono ancora un Gold Saint?»
«Sì che lo sei, ma…» Il Venerabile si interruppe e abbassò il capo. Il tuo cuore perse un battito. Sgranasti gli occhi e ti mettesti seduto. Prendesti l’anziano per le spalle e gliele stringesti, esortandolo a parlare. «Ma? Parlate venerabile maestro, per favore, parlate. Vi prego». Implorasti. A rispondere però fu Shiryu: «Sei sospeso da tutti i tuoi incarichi». Trattenesti il fiato rumorosamente e lo guardasti. Il Cavaliere di Libra continuò: «Kanon ha ordinato che sia il tuo secondo in comando a dirigere le operazioni al posto tuo e che, finché non revocherà tale ordine, risponderanno direttamente a te. In quanto coinvolto emotivamente in questa faccenda, sei troppo compromesso e non sei lucido. Perciò Kanon ha ritenuto necessario sollevarti da  ogni responsabilità legata al nostro rango. Non potrai prendere parte alle operazioni di cattura dei traditori e alla probabile battaglia contro di essi».
«E Raki? E i bambini?»
«Purtroppo questo è uno dei motivi per cui sei sollevato. Per non averne parlato prima con il Santuario, Kanon ha scelto di tenerti solo come costruttore di Armature e fabbro, niente di più e niente di meno. Ti vieta, inoltre di indossare la Gold Cloth, di uscire dalla Prima Casa a tempo indeterminato e di combattere al nostro fianco. Ed è solo in virtù del fatto che sei un lemuriano e che, come noi, sai aggiustare le Cloth che ti tiene qui. Il Patriarca pensa che tre fabbri siano meglio di uno solo e, se la guerra è tanto cruenta come si prospetta, allora è bene che tu resti tra queste mura».
Sgranasti gli occhi: «No, non può dire sul serio…»
«Mi dispiace, Kiki». Improvvisamente capisti che cosa avesse provato Astrid per tutto il tempo e, ti rendesti anche conto della tua beffa nei suoi confronti. Sarebbe toccata anche a te una pena peggiore della sua. 
«Ma Grande Mur, Shiryu! Anche voi siete compromessi! Anche voi conoscevate Astrid, se aveste sentito quello che ho sentito io…»
«Abbiamo già sentito, ma abbiamo scelto di ignorare. Conoscevamo Astrid e lei non è mai stata una ladra, tantomeno una prostituta. Tuttavia siamo sorpresi quanto il Patriarca che tu abbia avuto così poco discernimento. Confidiamo tutti nel fatto che sia un periodo molto duro per te e, il Patriarca e la Dea hanno deciso di mutuarti la pena in considerazione della tua condotta e dei tuoi servigi finora eccellenti per il Santuario. Per questo non sei dietro le sbarre». Spiegarono. Stringesti le lenzuola tra i pugni fasciati nel vago tentativo di trattenere la tua rabbia e il tuo senso d’ingiustizia. Adesso capivi perfettamente Astrid. Era impossibile per te non ritrovare analogie con la sua precedente situazione. La rabbia era talmente tanta che non riuscivi neanche a formulare un pensiero di senso compiuto. La tua mente era invasa di immagini che lampeggiavano su uno sfondo rosso e nero. I colori che, per antonomasia associavi agli incendi, all’ira e al sangue dei massacri. Ti sentisti tremare per la rabbia dell’ingiustizia.
Non ci potevi credere. Non avevi fatto niente di male, in fondo, avevi solo difeso la memoria di un’amica. Un’amica molto cara, forse anche più di un’amica. Non capivano che trattandoti così peggioravano la tua situazione? Se ne rendevano conto che prima o poi ti saresti anche potuto vendicare nei confronti dei vostri nemici? Sempre incanalando le tue energie nell’allenamento e negli impegni, ma sempre di vendetta si parlava.
Alla fine, con uno sforzo rilassasti le falangi e ti arrendesti: «Sì, capisco». Pensavi che fosse finita così. Ti stavi già dicendo che con il tempo la rabbia si sarebbe attenuata. Non tanto per farti accettare tutto ciò, quanto, piuttosto, calmarti. Anche se, qualcosa ti diceva che ci sarebbero voluti degli anni. Invece, Shiryu, se ne uscì, in tono compassionevole: «Tuttavia, la Dea ha capito bene che cosa ti ha spinto ad agire così, pertanto» alzasti la testa e lo guardasti, speranzoso, «dice che potrai essere perdonato e riammesso a servizio, se ammetterai i suoi sentimenti per lei. Non pubblicamente, è chiaro, in separata sede, soltanto tu e lei.» si affrettò ad aggiungere.
Udendo quelle parole gli occhi minacciarono di uscirti dalle orbite. “Siamo seri?” Pensasti.
«In fondo, molti Saint hanno fatto molte cavolate in nome dell’amore…» continuò Shiryu ma tu riuscivi solo a fissarlo scioccato. No, non era possibile, cos’era che ti stava chiedendo di ammettere? Ma se per Astrid non sapevi neanche tu che cosa provavi.         
Facesti un bel respiro profondo per calmarti, prima di fermare Shiryu e dirgli: «Ringrazia milady da parte mia e dille che ci penserò».
«Come vuoi».
«Adesso, per favore, lasciatemi solo». Dicesti agli altri incrociando le braccia e distogliendo lo sguardo. Non avevi più voglia di vedere nessuno di loro. Loro e le loro stupidaggini. Come potevano anche solo pensare che tu ti saresti piegato a questa richiesta? E Milady? Possibile che ti conoscesse così poco dopo tutti questi anni passati fianco a fianco?
«D’accordo, come desideri». Ti accordò il Venerabile prima di alzarsi e imboccare la porta. Non che si fidassero ciecamente di te, ma sicuro come l’oro, uno dei due aveva già eretto il Crystal Wall fuori della Prima per impedirti la fuga. Non potevano aver bypassato le tue difese mentali. Shiryu e Mur lo seguirono. Non prima di averti detto che avevano impedito a Seiya di vederti adesso, che se no avrebbe peggiorato la situazione con le sue domande inopportune. «Ha detto che passerà domani mattina».
«Sì, grazie per avermelo detto».
Quando la porta alle tue spalle si fu richiusa, dalla tua gola uscì un verso di frustrazione.           

L’indomani, dopo una notte agitata e una colazione toccata a stento (mangiasti qualcosa e bevesti un tè solo sull’esortazione silenziosa del Venerabile. Anche se impossibilitato a vederti, riusciva ancora perfettamente a intuire i tuoi comportamenti). Non lo si sarebbe mai detto, considerato che faceva tranquillamente colazione e sembrava estraniato dal resto del mondo, come se meditasse.
Verso le nove, puntuale come un orologio, arrivò anche Seiya, il quale ti strinse le spalle e ti espresse il suo sentito cordoglio. Beccandosi un’occhiataccia di rimando. Occhiataccia che s’intensificò ancor di più quando ti chiese che cosa ti fosse preso. Quando eri piccolo sulla sua stupidità soprassedevi, accecato com’eri dalle sue gesta e da quelle degli altri fratellastri. Adesso ti domandavi come fosse possibile che usasse il cervello solo a fasi alterne: «Non so, Seiya, tu come reagiresti se ti venissero improvvisamente tolte due persone a te care e metà Rodorio osasse insultare una delle due davanti a te?» Domandasti liberandoti gentilmente allontanando i polsi dalle tue spalle.
«Io? Bè, io reagirei… Probabilmente come te, ricordo ancora quando Isabel combatté contro Artemide, è stato il periodo più duro e più brutto della mia vita». Ammise abbassando lo sguardo.
Vi spostaste in giardino. Nel bel giardino tibetano che ricordava tanto la Shangri-La delle leggende. Speravi che la bellezza di questo posto bastasse come monito per non rompere niente. Anche perché i giardinieri e i domestici ci avevano messo una vita per risistemarli e, veramente, non ti andava di mandare a monte il loro lavoro.
Perciò vi accomodaste sulla panchina in giardino e ascoltasti le sue consolazioni, a denti stretti. A dir la verità non vedevi l’ora che se ne andasse. Solo che Seiya non era mai stato particolarmente bravo a recepire i messaggi non verbali. Apprezzavi il suo aiuto, davvero. Eri contento che fosse venuto a trovarti e ti stesse vicino, però ora stava esagerando. «In ogni caso ci restano ancora gli appunti di Astrid e le informazioni lasciateci da sua madre. Possiamo ancora fare qualcosa». Dichiarò Seiya risoluto, cercando di infonderti coraggio. E tu annuisti.
Due giorni dopo Odysseus e Lancelot fecero di nuovo la loro comparsa chiedendo di Astrid. Anche se relegato in casa, niente ti vietava di ascoltare e fu quello che facesti. Anche se non riuscisti a mantenere il contatto fino in fondo perché il Venerabile se ne accorse e ti costrinse ad arretrare fino a tornare entro i confini della tua mente.
Non avevi neanche più visto passare la giovane Yuna perché, per proteggerla, Shura aveva deciso di sospendere momentaneamente i rapporti. Inoltre, lo stesso Ionia collaborava attivamente con il Patriarca e la Dea. Potevi solo immaginare quanto stesse bene tutto ciò a Shura. Anche lui era venuto a trovarti e a porgerti le sue condoglianze. Condoglianze che avevi ricevuto sotto forma di bicchiere di sakè perché era così che lui ricordava i caduti. E, ti aveva guardato, nella speranza che tu brindassi con lui. Un brindisi completamente diverso, che andò a cancellare, almeno in parte, quello della locanda. Ma nel tuo cuore auguravi alla giovane e alla tua allieva di salvarsi.
Poi, era scappato subito a organizzare i propri collaboratori. Che, anche lui ne aveva già persi altri. Da quando la giovane era scomparsa eravate di nuovo caduti sotto l’influsso delle Creature e, con la certezza di avere, probabilmente anche un altro assassino, non vi aiutava.
«Probabilmente», aveva detto Shura prima di salutarti, «Dovremo chiedere rinforzi».
«Probabilmente». “Oppure agire di nascosto”. Pensasti, mentre lo salutavi, sull’uscio della Prima.
E non esisteva nessuno al mondo capace di intrappolarti se non eri tu a desiderarlo.     

«Maestro Kiki, maestro Kiki». Ti sentisti chiamare dalla voce squillante di Raki.
Ti girasti da una parte affondando la guancia nel cuscino, cercando di goderti i rimasugli del tuo meritato riposo. Erano stati giorni così intensi che ogni volta che toccavi il letto ti addormentavi di botto.
«Maestro Kiki, maestro Kiki».
«Arrivo, un attimo». Rispondesti con voce impastata e vagamente seccata muovendo un braccio. Ma l’abbraccio delle lenzuola era così invitante che ti limitasti soltanto a metterti supino. 
Ti sentisti picchiettare sulla fronte da due dita. Mugolasti e muovesti una mano per scacciarle, prima di girarti sul fianco. «No, dai, ancora cinque minuti». Borbottasti senza aprire gli occhi. Quel giorno le lenzuola sembravano più calde, avvolgenti e accoglienti. Persino i raggi del sole che ti scaldavano le membra accentuavano la tua voglia di restare a dormire.
Sentisti qualcuno sdraiarsi accanto a te, sul letto. Si puntellò su un gomito, sostenendosi il volto e, ti carezzò delicatamente la guancia con l’altra mano. Quella mano femminile, unita al profumo di sapone, di meltemi e piante aromatiche, ti fece aprire uno spiraglio tra le palpebre. Incontrando così il sorriso luminoso di Astrid. «Svegliati dormiglione». Sgranasti gli occhi, la chiamasti per nome e ti drizzasti a sedere di scatto protendendo una mano verso di lei. Ma non riuscisti a raggiungerla che scomparve e le tue dita incontrarono soltanto l’aria. Restasti per qualche secondo con la mano protesa prima di lasciarla ricadere, annientato dal brusco ritorno alla realtà. Sbuffasti sentendo gli occhi riempirsi di lacrime e il cuore spezzarsi un’altra volta. Ti portasti le mani al volto nel tentativo di fermare quelle lacrime. No, non avresti mai accettato quello che era successo. Non dovevi piangere. Dovevi dimostrare di essere forte. Voi Saint crescevate fianco a fianco con la morte. Avevi detto a tutti che stavi bene, che eri determinato a catturare al più presto Odysseus e Lancelot. Ti eri impegnato come un matto per dimostrare di non essere compromesso come, di fatto, eri. Avevi ignorato le occhiate scettiche dei tuoi colleghi e l’offerta d’aiuto di Sirrah, di metterti in contatto con Astrid.
«Ma perché pensate tutti che io debba sentirmi male? Io sto benissimo!» Avevi ribattuto con convinzione. Una convinzione fragile come un vetro ma che ti ostinavi a tenere in piedi. Non sopportavi di stare con le mani in mano, anche fosse solo per punizione.    
Il cielo in quei giorni era così limpido e sereno da sembrare una presa in giro. 
Ancora non ti capacitavi dell’accaduto e non volevi accettarlo. Nel giro di pochi giorni avevi perso la tua allieva e la tua amica. Avevi accolto la notizia che ti era stata riferita con apparente calma. Mentre Milo continuava a parlare con i soldati e dava le disposizioni per cercare Astrid e portare via il corpo di Neera, tu ti eri dovuto sedere. Improvvisamente le gambe non ti reggevano più. Ti sentivi nauseato, con un sordo dolore alla bocca dello stomaco e un gran peso sul cuore che pulsava in modo doloroso. Non avevi mai provato tanto dolore come in questo momento. 
E quel che era peggio era che Myu era riuscito nel suo intento: aveva infine rapito dei bambini del Santuario. Ma non pensavi che sarebbe arrivato al punto di rapire anche Raki per farti un dispetto.
Il Grande Mur ti aveva visto e ti aveva consigliato di tornare alla Prima. Avevi seguito il suo consiglio dopo che affidasti ogni cosa a Milo. In quanto emotivamente coinvolto eri troppo compromesso per reagire e pensare lucidamente. Come potevi essere lucido in un momento tanto critico? Astrid era riuscita a sfuggirvi, a sfuggire anche a te, che, pure quella notte, la Prima non era certo incustodita. Ed era andata incontro al suo destino.
Mentre Milo aveva guardato il punto dove si trovava Astrid prima che lo Sperone della Carena la annientasse. Poi aveva fatto la sua comparsa Shun. «Che cosa è successo?» Domandò quando vi vide e poi trasalì quando notò il corpo bucherellato e coperto di sangue di Neera. Alla Prima avevi cercato di trattenerti quel tanto che bastava per chiedere spiegazioni al Venerabile. Quest’ultimo ti rispose che non sapeva che Astrid fosse ancora sveglia, non aveva percepito pensieri di nessun tipo da parte sua, neanche una canzone.
Il fatto che poi fosse sfuggita alla sua sorveglianza era stato grazie al trucco più vecchio del mondo. Quando era passato a vedere, aveva usato il cuscino e una maglia appallottolata per simulare il suo corpo. Da lontano e nella penombra, il Venerabile c’era cascato. «Mi dispiace profondamente, Kiki, non immaginavo che sarebbe ricorsa a un gesto tale». In realtà era possibile, ma l’avevate scartato in quanto le possibilità di successo erano di molto inferiori rispetto a quelle di fallire.
Ma perché tutti ti lanciavano quegli sguardi di pietà? Perché tutti si stringevano a te? Non lo capivano che tu non ne volevi sapere niente? Non volevi la loro pietà. Non accettavi questo raccoglimento. Buona parte dei tuoi colleghi aveva sempre mal digerito Astrid. E poi, no… Astrid non era morta. Non poteva essere morta. Pensavi stringendo il pugno e digrignando i denti. Non poteva.
Persino Seiya era dispiaciuto per te e per non aver ascoltato prima Astrid.
Ora lo guardavi. Se da piccolo avevi ammirato lui e i suoi fratelli, adesso ti rendevi conto di averli non solo raggiunti ma addirittura superati. Questo ti avrebbe detto chiunque. Nessuno pensava che tu saresti riuscito a risvegliare il Settimo Senso ed ereditare la Gold Cloth di Aries, nessuno tranne il Venerabile Shion.
Adesso ti domandavi se non fosse il tormento delle Erinni per non averla saputa salvare. Non era così perché Aphrodite non sembrava risentire di questi problemi. Era solo più serio del solito e tu, non osavi neppure guardarti allo specchio per timore di come saresti potuto apparire. Non ti spaventava la pelle secca e la barba un po’lunga o i capelli arruffati. Piuttosto era di trovare una maschera d’impassibilità che poteva rivaleggiare con quella delle Sacerdotesse-Guerriero. Perché se da un lato mentivi a te stesso dicendo che non era successo niente, dall’altro temevi di aver perso ogni cosa. Non volevi risvegliare anche tu il Nono Senso. Il prezzo era troppo alto per questo. Non volevi neanche cadere preda della disperazione. Che pure provavi per aver perso le donne della tua vita.
Ma, al tempo stesso, continuavi a non accettare che gli altri ti trattassero con il guanto di velluto e ti estromettessero da ogni faccenda relativa al Santuario. La Dea aspettava solo te per rimetterti nelle tue file, ma tu non capivi perché. Che cosa andava dicendo? La tua mente si rifiutava di accettarlo e di capirlo.
A pranzo vedesti Makis, il giovane fratello di Makarios. Ora che Shura stava di nuovo bene, era tornato a servire tutti gli altri Saint a rotazione.
Fu lui a cucinare per te, anche se dei piatti greci e, mentre mangiavi, ti domandò come ti sentissi, in tono mite.
«Sto bene». Rispondesti convinto prima di bere un sorso di vino allungato con acqua. Adesso ti premeva solo di trovare un modo per riprendere il controllo dei tuoi collaboratori senza per forza passare dalla via proposta da Lady Isabel. La quale, giorno dopo giorno, mandava Shiryu da te.
«Siete sicuro?» Indagò.
«Sto bene, per favore, non chiedermi altro, non sono dell’umore adatto». Rispondesti in tono irato, senza tuttavia scollarti dalla sedia o interrompere il tuo pasto. «Scusatemi, nobile Kiki è solo che… Che sono preoccupato per voi, ecco».
Lo guardasti e lui si fermò mentre metteva i piatti nell’acquaio. «Sul serio?» Indagasti un po’sorpreso e, il giovane, asserì con il capo. «Sì, signore». Poi ti guardò con i suoi occhi azzurri, incerti. Accidenti, eri così messo male da fargli temere che tu potessi alzare le mani su di lui, come Death Mask ai tempi della dominazione di Arles? Rilassasti le spalle e ti pulisti la bocca. Poi tornasti a guardarlo, addolcendo lo sguardo. In fondo eri contento di percepire la sua sincera preoccupazione. E poi, Makis ti era sempre stato simpatico. «Da quando c’è stata la tragedia e abbiamo saputo… Io e miei colleghi le auguriamo soltanto che la Dea riveda la sua posizione. Se, intanto c’è qualcosa che rientra nelle mie possibilità, la prego di dirmelo e io lo farò». S’offrì con voce più salda sul finale.
Curvasti la bocca in un sorriso. Makis era un bravo ragazzo, meno malizioso del fratello maggiore, ma molto coscienzioso. Era uno dei pochi su cui si potesse sempre contare. Inoltre, era uno dei pochi a non temere la Prima Casa per la stanza delle Sacre Vestigia e l’odore di sangue. Gli avevi insegnato tu a ricucire le ferite, sì che potesse aiutarti. Ed era a lui che avevi dato i primi rudimenti della cultura base. Cosa che l’aveva spinto a leggere molti libri e a migliorare sé stesso per poterti essere d’aiuto. C’erano delle volte con cui, con lui parlavi di sogni e lui, a volte ti confidava i suoi. Aveva un bel modo d’interpretarli. «Mi dispiace, ma è un periodo che non sogno più molto come prima».
Ti alzasti e andasti a posare il piatto vuoto sul lavello. Poi tornasti al tavolo. Ma non ti risedesti. Restasti invece appoggiato al tavolo con braccia e caviglie incrociate.
«Restaste spesso sveglio?» Chiese, desideroso di aiutarti, mettendo da parte lo straccio.
«No, più che altro non mi ricordo cosa sogno. A volte mi domando se io sogni ancora». Era come se la scomparsa di Raki e Astrid ti avesse sottratto la tua fantasia. «Ma disegnate ancora?»
«No, ho smesso da un po’». Facesti appoggiandoti al tavolo, mani e
«Forse dovreste riprendere, potrebbe aiutarvi».
«Grazie del suggerimento, Makis. Ci penserò. Nel frattempo, c’è effettivamente qualcosa che potresti fare per me». Gli occhi azzurri del giovane lanciarono un lampo. «Ditemi cosa devo fare».
«Raduna i miei sottoposti, falli venire qui, devo parlare con loro».
«Sarà fatto, Nobile Kiki». Poi, con un inchino, se ne andò. Poi, ti sedesti di nuovo a tavola e finisti il resto del pranzo.    
Se speravi che potesse esserti effettivamente d’aiuto, ti sbagliasti. Perché a un certo punto il tuo maestro comparve sulla soglia e tossicchiò per attirare la tua attenzione. Alzasti lo sguardo e lo guardasti interrogativo. «Ho fermato proprio ora un giovane servitore con un messaggio per i tuoi sottorango. Cosa stai progettando, Kiki?» Domandò il Grande Mur scrutandoti sospettoso.
«Niente. Volevo solo vederli».
«Vederli, per cosa?»
«Nulla, tanto non potrei fare nulla.» ti pulisti la bocca con il tovagliolo e ti alzasti da tavola: «Ho finito di mangiare. Con permesso, maestro, sono stanco». Facesti fermandoti davanti a lui. In realtà la corporatura del Grande Mur era di poco più esile della tua. Anche con le Sacre Vestigia indosso, non esprimeva appieno la sua vera forza. Tu invece la rivelavi un po’di più. Ti mettesti di lato e gli passasti accanto.
Ma, anche se la sua corporatura era più esile, la sua stretta era salda e ferma come poche che avevi conosciuto. E, bastò questa, per quanto gentile fosse, sulla tua spalla, a fermarti. «Ti prego, Kiki, non prolungare oltre questa tortura. Il Santuario ha bisogno di te e tu hai bisogno di combattere. Non cercare sotterfugi e non cercare di scappare, dimmi che cos’hai e perché fai così».
«Non ho niente». Mentisti.
«Kiki…»
Sospirasti e ti arrendesti. Avresti voluto piangere, eppure, i tuoi occhi, in quel momento erano asciutti. «Avete mai amato sì tanto qualcuno, da impazzire se mai gli succedesse qualcosa?»
«Sì, certo Kiki, che domande sono queste?»
«Non mi riferisco alla Divina Atena».
«Non stavo parlando di Lei, infatti. Tu amavi…».
«Raki sì, come se fosse mia figlia», confessasti. Ed era vero. Perché era per lei che eri sceso in campo contro i Martian ed era per lei che ti eri riunito alla schiera dei Gold. Tu ti sentivi orgoglioso quando la tua piccola allieva ti guardava ammirata, anche se non glielo mostravi. Come desiderava diventare forte come te. Come maestro eri una frana, ammettiamolo. Lei non avrebbe mai acquisito il Settimo Senso, ma il legame che vi univa valeva più di tutti i Sensi messi insieme. Era così stretto che ti si straziava il cuore a non vederla più, a sapere che, per colpa della tua negligenza era accaduto tutto questo.
Inspirasti dal naso, prima di continuare: «Astrid… Astrid non lo so. Le volevo bene, ma non saprei dire altro di più, non sono un guerriero, sono un riparatore di Cloth».
La stretta sulla tua spalla si allentò, ma tu non ti muovesti. «Manderò a chiamare io i Bronze e i Silver sotto al tuo comando, quando potrò». Fece, prima di lasciarti andare.
Lo guardasti da sopra una spalla, poi, ti girasti completamente verso di lui. «Grazie, maestro».
Lui ricambiò con un cenno del capo. Con lui questa confessione ti era venuta spontanea. Perché se c’era qualcuno che capisse bene ciò che provavi, questi era proprio lui.  
I tuoi sottorango ti raggiunsero quasi subito, mentre cercavi di leggere un libro in salotto. Li avevi sentiti arrivare, perciò mettesti da parte la lettura e ti alzasti in piedi. Le braccia che ricadevano lungo i fianchi.
«Nobile Kiki», ti salutarono Ichi di Hydra, il Bronze Saint di Sculptor, di Caelum, di Fornax  e il  Silver Saint di Heracles. Con tuo enorme rammarico ti accorgesti che le Creature avevano già fatto strage anche tra le tue fila. Adesso non immaginavi neanche quanti altri Saint fossero deceduti.
Poi, senza proferire parola alcuna sul tuo aspetto trascurato, si inchinarono. «Benritrovati».
«Volevate vederci? Siete tornato in servizio?» Indagò Ichi spostandosi dietro la spalla i suoi capelli neri e bianchi. Poi il Cavaliere di Fornax aggiunse che «Il Grande Mur ci ha detto che volevate controllare le nostre Cloth in vista di un futuro possibile attacco». 
«Sì, è come ha detto il mio maestro credo che dargli un’occhiata non farebbe male». Rispondesti prima di far loro cenno di rialzarsi e seguirti nella stanza dove riparavi le Cloth.
I tuoi sottoposti si tolsero le Cloth e lasciarono che tu le esaminassi. Non avevi perso la capacità di vedere ciò che agli altri sfuggiva. Per vostra fortuna, queste Cloth avevano bisogno di un po’d’olio di gomito e una bella lucidata. A parte quella di Ichi, era piena di micro scalfitture. Ordinasti al custode degli attrezzi da riparatore di passarti tutto l’occorrente e a Ichi, di tagliarsi, spiegando i danni che aveva la sua Cloth.
I due eseguirono e, mentre lavoravi, parlasti: «Mi hanno riferito che la Dea vi ha preso sotto il suo comando nell’attesa che io mi decida. Vorrei che faceste una cosa per me. Niente di terribile, sia chiaro. Vorrei solo che, in ogni caso continuaste a vedere me come referente, di modo che possiamo elaborare strategie per battere Odysseus».
«Ma signore, questo non è…»
«Legale? Lo so, ma non posso restarmene con le mani in mano e, la mia esperienza in battaglia vi sarà utile. Pertanto vi chiedo di venire a chiedere consiglio anche a me sulle possibili strategie che adotterete». Chiaristi. Poi li guardasti a uno a uno, prima di domandare se potevano farlo.
«Sì, credo di sì».
«Ma la Divina…» Insinuò il Bronze di Sculptor e tu lo interrompesti per spiegarti: «La Divina non credo che disapproverà, Odysseus resta comunque un avversario da non sottovalutare. Più siamo a combattere questa minaccia, più probabilità abbiamo di debellarla».
«Come desiderate, Nobile Kiki».
«Quello che dovevo dirvi l’ho detto». Smetteste di parlare e tu di lavorare. Controllasti la Cloth, che adesso era come nuova e ribollente di vita. Eri più veloce dei tuoi predecessori, ma niente toglieva alla tua bravura di riparatore di Cloth. Restituisti la Sacra Vestigia di Bronzo al suo proprietario, che la indossò subito: «Ecco a te, come nuova. É tutto per oggi, siete congedati».
I Bronze e il Silver si rialzarono e, dopo averti salutato, promettendo di fare quanto richiesto, ti lasciarono di nuovo solo in quella stanza.
Tu li accompagnasti con lo sguardo    
Quella sera, mentre ti rigiravi nel letto, avesti un incubo in cui venivi posseduto da una Divinità. Avevi cercato di opporti, di scacciarla, ma lei non se ne andava. «Vattene via! Lasciami in pace!»
«Cosa credi di fare, misero umano?»
«Io non sono il tuo ricettacolo, vattene!»
«Sì che lo sei, hai risvegliato il Nono Senso, non potrai più tornare indietro».
Poi allungò la mano verso di te e ti svegliasti di soprassalto, madido di sudore e con le lenzuola attorcigliate alle gambe. Era solo un sogno, ma fu abbastanza per toglierti il sonno. 
Con ancora quelle parole nella mente ti alzasti, ti mettesti qualcosa addosso e uscisti. Non avevi voglia di andare dalla Dea, ma sentivi il bisogno di uscire. Per questo decidesti di passare dai sentieri dei servi. Il tuo maestro e il Venerabile stavano già dormendo a quell’ora.
Il giardino era tempestato di lucciole che ti ricordarono i bagliori di Astrid. Appena facesti quest’associazione, il tuo cuore batté più dolorosamente. “No, non è così. Non è così”. Pensasti sigillando gli occhi. Poi li riapristi e un fiume di lacrime scorse sulle tue guance scavate. Stringesti i pugni e ti avviasti verso la scalinata secondaria.
Come potevano arrendersi così? Solo perché non era stato trovato il corpo non significava che lei fosse morta. Era qui, te lo sentivi. Ogni volta che respiravi, i tuoi polmoni si riempivano del suo profumo. Ogni volta che si alzava il vento la sentivi cantare, ogni volta che ti svegliavi era sempre qui. E, ogni volta che sentivi un rumore, pensavi fosse lei che faceva capolino nella stanza.
Non era un’illusione. Il tuo cuore diceva che non lo era. La tua testa temeva che lo fosse, ma era una parte talmente piccola che temevi di essere impazzito. Ma tu non eri impazzito. Non potevi neanche risvegliare il Nono Senso. Niente di tutto questo.    
Senza che te ne rendessi conto arrivasti alla macchia incantata e ti ritrovasti sulla sua spiaggia.
E lì, dopo aver osservato il mare senza vederlo per un po’, crollasti a terra in ginocchio, sconfitto. Ma chi volevi prendere in giro? Era tutta un’illusione data dal dolore dei sensi di colpa. Astrid era morta e non sarebbe mai più tornata. 
«Kiki». Ti chiamò titubante la voce di Milo, poi si avvicinò. Non l’avevi neanche sentito arrivare. 
«Perché fate così? Non può essere morta, non è morta.» Mormorasti in tono lacrimoso.
«Kiki…» Cominciò lui e sentisti anche una seconda voce maschile trasalire. Shun. 
«Non è morta». Ripetesti con voce fragile.
Non avevi versato lacrime quel giorno, non eri caduto in ginocchio e non avevi liberato un urlo straziante che si era perso nella notte e tra le onde della spiaggia. Non eri distrutto, eri annientato e sotto shock. Al punto che il tuo corpo aveva messo il pilota automatico e non avevi che reagito come se ti stessero parlando del tempo.
Nel giro di una settimana avevi perso tutto. Avevi cercato di essere forte perché tu sapevi come era la vita dei Saint. Tu sapevi quanto fosse difficile e dura. Sapevi che la morte viaggiava accanto a voi come una fedele amica. Anche se non lo davi a vedere. Solo la Dea sapeva quanto in realtà avessi avuto paura tutto il tempo, quanto dentro di te crescesse, ora dopo ora, la sensazione d’aver sbagliato tutto, con Astrid. Con Raki ti rammaricavi di non averle prestato più attenzione, certe volte. Ma non ti pentivi di averla trattata più come una figlia che come un’allieva. E, proprio qui, finalmente piangesti, lontano da tutto e da tutti, nella macchia mediterranea che la ragazza aveva scovato e che non aveva più esplorato perché non gliel’avevi permesso. Stupidamente pensavi che sarebbe stata più al sicuro lontano da questo posto e invece. Invece ti pentivi di non averle mai detto la verità, cioè che tu sapevi come raggiungerlo. Avresti voluto vederla qui, tra queste piante, risaltare come un raggio di luce in mezzo a tutto questo verde scuro e vederla esplorare questa foresta insieme a te.
Sentisti la mano di Milo posarsi sulla tua spalla e la sua voce chiamarti, angosciato.
«Lei non è morta». Continuasti a singhiozzare con voce sommessa. Le lacrime che colavano dalla punta del lungo naso affilato. «Non è morta, non è morta». Continuasti scuotendo ripetutamente il capo. «Nessuno di loro, lo è». Aggiungesti con voce talmente sottile che passò quasi in secondo piano rispetto al resto. Raccogliesti la sabbia tra le dita mentre contraevi i pugni e ti abbracciasti nel tentativo di infonderti coraggio. «So che è viva, non può essere morta. Non può».
Shun s’inginocchiò accanto a te ed entrambi ti lasciarono sfogare.
In silenzio, rispettando il tuo dolore, poi, le braccia di Shun ti strinsero al suo petto per consolarti. Nonostante la barba lunga, i capelli sporchi e il fetore che emanavi.
E tu piangesti ancora e ancora. Stavolta apertamente, mentre le tue grida e i tuoi lamenti strazianti si perdevano nella notte, spaventando gli uccelli e i pipistrelli che si levarono in volo. Ma anche così nessuno dei due volle abbandonarti.  

Shaka
Il tormento per la tua scoperta ti aveva gettato nello sconforto più totale. Non ne sapevi molto della Luce Ombrosa ma intuivi che fosse estremamente importante. La cosa di cui non ti capacitavi, era la noncuranza di Lady Asia. Come era possibile che non si tormentasse anche lei? Se, come ti aveva confermato, questo manufatto era andato perduto, allora eravate tutti in serio pericolo.
Come faceva a dormire sonni tranquilli e andare avanti con le sue ricerche così, come se niente fosse? Non volevi credere che fosse così insensibile.
Perciò, quel piovoso pomeriggio gliene parlasti. In realtà fu lei a rompere il silenzio ostinato in cui ti eri chiuso, non volendo, tra meditazioni, riflessioni, piani e tentativi di non divergere i tuoi pensieri sulla bella donna che viaggiava con te. Rieccola qui la tua vena di arroganza eh? Eri tu che viaggiavi con lei, non il contrario. Ma visto che la spocchia è una malattia di cui è dura liberarsi, ci penso io a smontarti.  
Stavate viaggiando su un treno diretti verso le Alpi italiane, ma nonostante la bellezza del paesaggio e i nomi più o meno buffi delle stazioni cui il treno fece scalo, non ci facesti molto caso. Avevi lasciato fare tutto alla Dea. Era stata lei a prenotare il biglietto (in quanto teoricamente facente Viaggio Astrale, sarebbe stato strano prenotare per una persona che, tecnicamente, non era percepibile ai comuni mortali) e metterti il Pandora-Box in una tasca temporale da cui avresti potuto evocarlo una volta uscito dal treno. Le oscillazioni del treno erano una cosa nuova per te. Non avevi mai preso un mezzo di trasporto umano da quando avevi sei anni e, forse neanche prima. Non eri abituato a sentirti tappare le orecchie ogni volta che entravate in una galleria o alla dilatazione del treno quando un altro vi passava accanto e alla sua repentina restrizione. Ma neanche alle frenate più o meno brusche del macchinista che ti avevano fatto rimpiangere le care vecchie corse a piedi e quasi fatto vomitare la colazione semi insipida del vagone bar. Fino a quel momento non avevi mai considerato quanto ti piacesse davvero correre e, quanto ti sentisti libero e padrone del mondo quando lo facevi. Hai capito, Shaka? Grazie alla compagnia tranviaria italiana stavi riscoprendoti uno sportivo fatto e finito. Ma probabilmente avresti subito lo stesso effetto su qualsiasi altro treno di qualsiasi altro stato. Soprattutto quello indiano che pure avevi visto. “Non me ne parlare, per pietà”. M’implorasti, imbarazzato al ricordo, perché un conto è viaggiare sul tetto e può anche essere pericoloso quanto divertente. Un conto è fungere da ornamento umano a un treno in corsa. Perché era questo che somigliavano certe corse in India con tutte le persone allacciate le une alle altre e appigliate a parti esterne del treno. Era un buon esercizio di resistenza fisica e mentale, comunque.
Ovviamente la spoliazione delle Sacre Vestigia non ti aveva entusiasmato. Non tanto perché temevi di essere giudicato per la tua mise o per il tuo corpo, quanto piuttosto che scoprisse il tuo segreto. Ma non successe perché, con un piccolo ausilio della velocità della luce, riuscisti a nascondere il tuo tesoro nella forma totemica della tua cloth. Non ti fidavi moltissimo, ma fu bello togliersi per un po’le Sacre Vestigia. Avevi temuto che si fosse accorta di tutto, ma poi, quando avevi capito che era ancora all’oscuro di tutto ti eri rilassato. Per modo di dire, la donna che ti faceva palpitare il cuore era pur sempre seduta davanti a te.
Lady Asia, dal canto suo, sembrava perfettamente abituata al treno. Talmente tanto che si era assorta su chissà che sito. Aveva collegato gli auricolari del suo telefono di ultima generazione (ovviamente estratti da una tasca temporale) e si era lanciata nella navigazione online. Era la prima volta che vedevi una Dea comportarsi così umanamente. Ti parve quasi una caduta di stile. Se non fosse stato per l’aura di sacralità che l’avvolgeva, avresti continuato a pensare che fosse una semplice donna umana. Considerando però il luogo, era una buona strategia per passare semi inosservati. Probabilmente stava ascoltando della musica, ma non sapevi quale e non avevi il coraggio di chiederglielo.   
Tu osservavi preoccupato l’esterno dal finestrino.
«Cosa c’è, Shaka?» Ti domandò togliendosi gli auricolari dalle orecchie. Finora se ne era rimasta assorta nei suoi pensieri, ascoltando della musica di cui percepivi una vaga eco dai suoi auricolari.  
«Sono preoccupato».
«Sono giorni, ormai che sei preoccupato, potresti dirmi che cos’hai?»
«La Luce Ombrosa.» rispondesti, poi la guardasti: «Milady, so che non dovrei suggerirvelo ma credo che dovremmo fare qualcosa. Non possiamo lasciare il Santuario allo sbaraglio ora che la Luce Ombrosa non è più tra i Vivi. Ci ho riflettuto a lungo e credo che dovremmo andare a cercarla o cercarne un’altra ma…» T’interrompesti per via della faccia della tua interlocutrice. La bella Azona ti guardò come a dire: “Ma sei serio?” e tu ti zittisti perplesso di fronte a quell’occhiata. Giusto, come ti permettevi di darle suggerimenti come se foste al Santuario? Lady Asia era una donna di polso, non era Lady Atena, che, per quanto fosse stata giovane ai tempi, vi lasciava agire come meglio credevate.
Poi prese fiato e «Questo è impossibile, Shaka». Scandì per bene senza staccarti gli occhi di dosso. A un rifiuto ti eri preparato, ma allora perché ti guardava con occhi incerti, guardinghi come se temesse di turbarti? Dopo un respiro aggiunse: «Perché la Luce Ombrosa è ancora viva».
Infatti questa rivelazione ti turbò alquanto. Non era morta? Come era possibile? Nessuno poteva sopravvivere a un attacco come quello. «Ancora viva? Com’è possibile? Abbiamo percepito tutti quella battaglia furibonda».
La Dea si aprì in un sorriso e rilassò le spalle: «Questo è uno dei misteri che le gravitano attorno, ma puoi stare certo che non può essere morta, se non mi credi, controlla tu stesso». Ciò detto ti pose i polpastrelli sulle tempie e, improvvisamente, il tuo terzo occhio si spalancò di scatto e tu, vedesti.

Avesti una panoramica dell’accampamento infernale della Resistenza. Lady Pandora, a seguito dell’alleanza con Erebo e Nyx aveva riconquistato parte degli Inferi e Death Mask, con la sua avanzata, le stava venendo incontro.
Poi la panoramica si restrinse e vedesti dentro una tenda ospedaliera. Non solo i numerosi feriti e i medici, ma anche la Luce Ombrosa. Sobbalzasti. Ti eri immaginato che potesse essere una ragazza, ma non che potesse essere così! Lì per lì ti prese un accidente perché la prima cosa che notasti, fu il suo volto. “Camus?” Pensasti sorpreso. No, Camus non era biondo e non portava i capelli così. Mentre la tua mente si affollava di interrogativi, lei cominciò ad agitarsi nella brandina. Contrasse la faccia in una smorfia, come se stesse facendo un brutto sogno, poi aprì la bocca e mugugnò qualcosa che non afferrasti.

La smorfia si trasformò in un’espressione di dubbio. Strinse le dita a pugno. Poi respirò appianando i lineamenti e tu comprendesti che doveva aver creduto di essere morta. Anche tu, ad Asgard avevi fatto le stesse espressioni, avevi cercato il tuo corpo e, avevi appurato di non essere ancora pronto per scomparire nel Nirvana. Con tuoi sommi sollievo e delusione, la vita ti era ancora molto cara perché tu l’abbandonassi così, anche se per una buona causa. Ci avevi pensato molte volte, ma non avevi mai considerato che avresti avuto lo stesso una paura del diavolo.
Poi la ragazza aprì gli occhi e la visione s’interruppe con un brillio dorato. Guardasti la Dea allontanarsi da te, abbassando le mani. «Che cos’era?»
«Quello che accadrà tra qualche ora». Ti rispose serafica e tu la guardasti incredulo, battendo le palpebre per lo stupore. «Quella era la Luce Ombrosa? Ma io pensavo che fosse un manufatto, non una… una persona!» Erompesti incredulo. Il tuo primo istinto sarebbe stato quello di avvisarli in qualche modo, ma ti bastò un’occhiata alla Divinità per fermarti. Qualcosa ti uccideva le frasi ancor prima che abbandonassero la tua mente. Era il modo in cui ti stava guardando. «Lascia che credano che sia morta ancora per un po’». Consigliò tornando ad appoggiare la schiena allo schienale del sedile perfettamente rilassata. Tu non capivi, per quale motivo avrebbe dovuto rilassarsi se poi… Avesti l’illuminazione e guardasti la bellissima donna davanti a te. Era improbabile per i tuoi gusti, ma sperasti che fosse quella la ragione: «É per la Storia?»
«Sì, il suo aiuto negli Inferi sarà fondamentale, ma c’è un’altra cosa che adesso mi preme».
«Cioè?»

« Mi è arrivato ora una richiesta di soccorso da uno dei miei confratelli, perciò dobbiamo sospendere per un momento la ricerca dei Guardiani». Aggiunse poi sbuffando scocciata. «Di norma non ce ne sarebbe neanche bisogno, ma in questo caso è necessario: dobbiamo impedire il risveglio dei Primi Cavalieri».
«I Primi Cavalieri? E chi sono?»
«Voi li chiamavate la Guardia Reale, se non erro.» strabuzzasti gli occhi e il tuo cuore incespicò prima di riprendere a battere per il terrore. La Guardia Reale erano i soldati scelti del Titano del Tempo, il primo nucleo originario di soldati al servizio di una Divinità. Il tesoro più grande dell’ex Signore delle Divinità dell’Età dell’Argento mitologica. «Si trovano a cavallo tra la dimensione degli Inferi e il Tartaro stesso. Non potevano essere sigillati altrove perché l’Oltretomba li rifiutava in ogni caso». Spiegò preoccupata e tu capisti subito dove volesse andare a parare. «Mandate me». Lady Asia ti guardò esterrefatta e tu continuasti: «Sono un Gold Saint, sono più forte di quanto sembra».
La giovane sospirò e cercò di ponderare la questione, ma tu non glielo permettesti. Ti sporgesti in avanti verso di lei e dicesti: «Milady, per favore, se la mia forza può esservi utile in qualche modo, allora così sia. Non abbiate paura di mandarmi in battaglia, ho risorse che neanche potete immaginare. Quello che ha fatto Camus è niente rispetto a quello che posso fare io. Io da solo tempo fa, bloccai l’avanzata del potere dei Titani e i Titani stessi». Le raccontasti, (ti vantasti,  Shaka, anche se lo dicevi con tono vellutato e pregavi che ti ascoltasse, il tuo era un vanto. Non ammantarti di una modestia che non hai). Lei soppesò le tue parole guardandoti dubbiosa. E tu, che ci tenevi a fare la figura dello spocchioso, insistesti con un «Posso farlo» così convinto, che ci avrebbe creduto chiunque. Peccato che tu ne avesti l’assoluta certezza solo nel momento in cui quelle parole ti uscirono di bocca. Ma questo potevamo saperlo solo io e te, lei non ti conosceva così bene da decifrarti.

Proprio in quel momento il treno si fermò a Trento e lei si alzò per scendere.
La seguisti, un po’confuso. «Se dobbiamo discutere di questo, allora dobbiamo scendere».
«Ma il viaggio?»
«Non preoccuparti per il viaggio». Usciste dalla stazione e arrivaste al parco curato lì davanti. Lei si fermò davanti al laghetto dove le anatre nuotavano e le osservò. L’affiancasti e attendesti.
Lei continuò a osservare l’acqua con un’espressione pensierosa. Ma alla fine sospirò: «D’accordo, Shaka. Ma prima sarà meglio che tu conosca i tuoi avversari» prese un respiro e cominciò a raccontarti della Guardia Reale, aggiungendo fatti, aneddoti e altre informazioni finora a te ignote, a quelle che già avevi. I Primi Cavalieri furono addestrati dal Titano in persona. Non erano mortali e, durante la caduta del Titano, su di loro fu posto un sigillo, che, impedì il risveglio durante la Titanomachia del Settantanove. Complice anche l’amnesia di Crono, non furono risvegliati.
Adesso, a causa dei Black Saint, che erano entrati in possesso di queste informazioni, il sigillo si stava spezzando. Quello che dovevi fare era sigillarli un’altra volta per mezzo del tuo potere e di una striscia di pergamena che materializzò dal niente e ti porse.  
«Che cos’è?»
«Lì troverai tutte le informazioni relative ai tuoi avversari. È quanto di più rapido posso fare per aiutarti, la pergamena funziona anche da sigillo, per cui non esitare a usarlo. Per attivarlo ti basterà scagliarla in mezzo a loro e recitare una preghiera a Buddha, una qualunque».
«D’accordo». Dicesti prendendola.
Poi la Dea ti fece cenno di farti da parte, sfoderò la lama verde e la puntò in alto verso il cielo, incurante delle persone che erano lì e si spaventarono.
L’abbassò di taglio, di modo che il filo le tagliasse in due il volto. La mano destra posta tra la guardia e l’elsa. Prese un respiro profondo per caricare il Cosmo che vibrò. Chiuse gli occhi ed espirò.
Riaprì gli occhi di scatto, abbassò la mano, si spostò di lato roteando la spada e la riportò davanti a sé tagliando la realtà. Poi, si fece da parte e ti disse: «Vai, questo portale ti scorterà dritto nel luogo del sigillo».
«D’accordo, milady». Apristi gli occhi e li usasti per colmarti della sua essenza, della curva delle labbra, del colore dolce della sua pelle, color legno di palissandro, forse? Gli espressivi occhi scuri e i bei capelli cui avresti voluto intrecciare le tue dita. Non ti era mai parsa più bella di adesso e, il tuo cuore batté più rapidamente, reagendo a quella dolce visione. L’avresti voluta baciare, stringere a te e non lasciarla andare più. Avresti voluto scoprire le sue membra, perché immaginavi che ciò che il tessuto copriva fosse anche migliore di ciò che vedevi. Ma dovevi andare, il tuo dovere ti chiamava.
Perciò, evocasti la tua cloth. Le linee dorate del Pandora-Box si disegnarono sopra di te, una forte luce si propagò da esso e, le tue membra si appesantirono, riconoscendo la tua Sacra Vestigia e il tuo tesoro posarsi sulla tua pelle. Il mantello svolazzante alle tue spalle. Proprio come lei aveva promesso.
Quando la luce scomparve indossavi di nuovo la tua Armatura. Ti inchinasti leggermente e la salutasti con un sorriso. «Namastè, milady». Lei non disse niente. Ti raddrizzasti e ti girasti. A due passi dal portale la sentisti raccomandarsi: «Fai attenzione» proferendo rapidamente quelle parole, come se si vergognasse. O come se le fossero estranee.  
Ti fermasti e la guardasti da sopra una spalla per scoccarle un dolce sorriso in cui era insita la tua promessa. “Anche fosse solo per un sorriso io tornerò da voi” pensasti mentre le tue iridi carezzavano un’ultima volta la sua persona: «Non fallirò», promettesti prima di richiudere gli occhi, riportare la faccia dritta ed entrare nel portale. “Perché adesso ho qualcosa di importante a cui far ritorno anch’io”. Pensasti.  

Poter girare il mondo sette volte nel giro di un secondo non significa visitarlo, assaporarlo e conoscerlo in ogni suo singolo dettaglio. Per questo avevi quell’aria così spaesata, che faceva tanto scolaretto il primo giorno di scuola. Almeno, così saresti stato, se tu fossi mai andato a scuola. Ma valeva la scuola del Santuario? Forse non poi così tanto, te ne rendevi conto anche tu, dall’alto della tua illuminazione. Ma la testa e il cuore, ognuno li riempie di ciò che vuole.
Noi potevamo soltanto accettare le sue scelte. E tu? Ti eri soffermato a riflettere su questo? Sì, ovvio che l’avevi fatto, non prenderti in giro, io sono te, l’hai dimenticato? Non mi puoi ingannare neanche se ci provi, perché io saprò riconoscere ogni tua menzogna e, prima o poi ti presenterò il conto.  
“Non sto mentendo”, ribattesti. “Non ho intenzione di scappare da quello che provo, non sono un codardo e poi, il Nirvana si può anche raggiungere immergendosi nel Tutto”. Certo, Shaka, questo è vero, ma tu eri quel genere di persona? Mi ricordavo che eri alla stregua di un lupo solitario, che preferivi meditare per conto tuo, non immergerti nella quotidianità. Ma era anche vero che questa non era quotidianità, era una Guerra. Ammesso che così si potesse chiamare e non, magari, rito d’iniziazione, non credi? Dopotutto eri entrato in contatto con degli Dèi che, in quanto a illuminazione avevano tantissimo da insegnarti. E anche se la tua coppa era piena, non significava che tu non potessi, come dire, riempirne un’altra. Strano, vero? Come ti arroccassi a questo modo per cercare scuse per restare e apprendere. Ma d’altronde solo un cretino si sarebbe lasciato sfuggire un’occasione come questa, al di là della bella donna di cui ti eri invaghito.
Tu volevi sapere come facessero a bilanciare la loro millenaria saggezza e conoscenza con la quotidianità, era quello il mistero che, più di tutti volevi svelare. E poi, eri deciso a mettere in ordine nel tuo mondo stravolto. Cioè, eri abituato a pensare che gli Dèi vivessero tutti arroccati in Santuari come quello della tua Dea, non avevi mai pensato che altri, invece, vivessero perfettamente mimetizzati in mezzo agli esseri umani.
Chissà quanti miracoli avevano potuto compiere. Quante volte erano apparsi e poi spariti nel mucchio come piccole onde nel mare mosso. Per di più senza Sacra Armatura. Già voi Saint combattevate a mani nude, ma avevate pur sempre bisogno di una protezione in più. I vostri corpi erano comunque umani e fragili e, ammettevi anche tu che le Cloth vi davano un’enorme sicurezza.      Per te era una grande conquista il fatto che avesse deciso di concederti la sua fiducia.
Il sorriso ti morì in volto, pensando alla tua missione.
Già, risvegliare i Primi Cavalieri non era una buona cosa, fin qui te ne rendevi conto. Per la prima volta in vita tua, ti domandasti se ne avresti avuto davvero la forza, dal momento che, anche tu, eri uscito parecchio destabilizzato dal combattimento contro l’Astronauta. Nemmeno Loki si era rivelato così potente e duro da combattere. Avevi visto anche tu, poi, le condizioni psichiche, fisiche e cosmiche di Camus una volta finita la battaglia. Non avevi mai visto niente di simile, al limite svenivate, mica collassavate così. Effettivamente era più pericoloso del normale persino per un Gold della tua levatura.
Avresti voluto meditarci su ma non era il momento peccato che non fossi capace di meditare e camminare nello stesso momento. Adesso bisognava studiare un piano d’attacco. Lady Asia non ti aveva mandato allo sbaraglio. Ti aveva dato quante più informazioni possibili su di loro, rivelandoti punti deboli e punti di forza. Avevi dovuto reprimere a forza il tuo lato spocchioso: se lei ti dava queste notizie allora significava che non erano avversari da sottovalutare. Qui non si parlava più delle semplici Guerre Sacre che, finora avevate combattuto, queste erano le Guerre del Mondo Celeste e, voi, c’eravate finiti dentro. Non ti eri mai sentito così piccolo e timoroso come adesso. Neanche di fronte alla morte avevi mai avuto tanta paura. Stringesti più forte gli spallacci dello zaino sulla schiena. Avevi spostato lì il suo album assieme alla tua Cloth. Chissà perché, ma avevi la sensazione che potesse essere come una sorta di talismano, per te. Di solito non te lo portavi dietro ma, stavolta, ne avevi sentito la necessità, come fosse un portafortuna. O, come se potessi portare la Dea che amavi con te.
L’aria era piena di pulviscolo e di scintille, ma tu camminavi dritto spedito sul sentiero di terra battuta in mezzo a questa gola altissima scrutandoti attorno con il Cosmo. Gli altri sensi ben allerta.
Inciampare qui sarebbe stato facilissimo e, cadere preda di chissà quale creatura anche di più.
Prima pensavi che gli unici che potessero trasportarti qui fossero gli Oneiroi ma ora avevi capito che ti sbagliavi.
Aveva detto che l’avresti riconosciuto o ti sbagliavi? Forse la tua mente stava effettuando dei voli pindarici assurdi. Ma, in nome di Atena, saresti riuscito nella tua impresa.
A un tratto ti bloccasti di scatto. «Minos del Grifone?» Domandasti sorpreso e lo Specter girò la testa sopra la spalla per guardarti. Ma a causa delle ali dovette girarsi completamente per vederti bene.
Le creature della Notte che erano con lui, invece, ti riconobbero immediatamente e ti salutarono in coro al  «E tu che cosa ci fai qui?» Sbottato dello Specter. Ringraziasti che Minos non fosse a conoscenza del tuo presunto tradimento. «Potrei chiedervi la stessa cosa». Replicasti accigliandoti. Le belve della squadra ti riconobbero immediatamente come tuo capo e, come tale, ti salutarono: «Comandante Shaka». Ah, già, avevi dimenticato che Erebo e Nyx avevano affidato a te le redini di quelle creature. «Abbiamo fatto come ci avete ordinato e abbiamo riportato le vittorie che servivano alla causa della Sacerdotessa di Hades». Riferì una di esse, in tono reverenziale.
«Bene, sono lieto che abbiate continuato a combattere anche senza la mia presenza, questo vi fa onore».
«Grazie, signore».
Poi tornasti a rivolgerti a Minos. «Allora cosa ci fate quaggiù?»
«Non lo sappiamo, sappiamo soltanto di aver sentito qualcuno invocare aiuto e poi siamo stati teletrasportati qui nel bel mezzo della battaglia. Sei stato tu?» Chiese, insospettito.
«No, non sono stato io». “Non ho questo potere”, pensasti, ma non glielo rivelasti. Una rivelazione simile avrebbe causato non pochi fastidi alla tua immagine. Non potevi permetterti che conoscessero i limiti del tuo Cosmo. «Sai dirmi di più?»
«Non saprei».
«Hai visto qualcosa di strano prima di essere trasportato qui?»
Lo Specter ti fulminò con gli occhi da sotto la lunghissima frangia candida: «Ma che è, un interrogatorio? No; ho solo sentito una voce maschile che continuava a implorare aiuto e ora siamo davanti a questo». Ciò detto ti indicò la scena che si scorgeva oltre le rocce.
A qualche metro di distanza da voi, otto cose nere di forma vagamente umanoide, che sorvegliavano la zona, illuminata dal basso da una luce gialla. L’aria era carica di elettricità e ne sentivate il ronzio di sottofondo, inframmezzato dalle urla di dolore e le grida di aiuto della persona.
Era come se lo stessero fulminando vivo. «É sua la voce che sentivate?»
«Sì, è la stessa». Confermò lo Specter ancora sospettoso.
«Dovremmo liberarlo».
«Dovrebbe cavarsela da solo». Si oppose invece il Grifone, ma tu non lo ascoltasti. Il tuo primo dovere come Gold Saint della Dea Atena era di proteggere gli innocenti e gli indifesi. Per questo ti sedesti sulla roccia nella posizione del loto e caricasti il Cosmo. I soldati si accorsero immediatamente di te, però restarono a guardarti confusi, mentre tu scagliavi il tuo attacco che spazzò via i soldati più vicini. Agli altri occorse ancora meno per dividersi in due schieramenti da quattro per riorganizzarsi. L’aura buia che le circondava scomparve, rivelando delle persone. Dovevano essere i Primi Cavalieri.
Bene. Avresti dimostrato a Lady Asia il fatto tuo. Quattro ti attaccarono e tu, prima di scagliare un’altra volta un attacco, ordinasti alle belve di liberare il prigioniero. Queste obbedirono e si scagliarono addosso alle restanti così che, tu, potessi liberare il giovane, prenderlo tra le braccia e saltare via. Appena lo liberasti, successe, però, un fatto curioso: i cavalieri contro cui avevate combattuto si dissolsero come fumo. «Stai bene?» Domandasti al giovane uomo che reggevi tra le braccia. Il quale aprì a fatica un occhio e rispose, con voce piena di dolore: «Non dovevate liberarmi». Cosa che ti stupì, facendoti aggrottare la fronte; ma il giovane svenne. Proprio in quel momento l’energia si accrebbe producendo ancora più scariche elettrice.
Lo Specter del Grifone imprecò: «Non era un prigioniero, era un sigillo vivente!» Strillò poi a mo’ di spiegazione. Cosa? Questo non ci voleva.
Improvvisamente i fulmini furono risucchiati al centro della zona e, l’energia andò a formare un simbolo sul terreno da cui, cominciarono a espandersi dei Cosmi enormi e carichi di risentimento e vendetta. Come non ne avevate mai sentiti prima.
Persino le belve di Nyx ed Erebo arretrarono spaventati.
«Che cosa sono? Di chi sono questi Cosmi?» Ruggì il Giudice Infernale. Stringesti a te il giovane e urlasti a tutti di ritirarsi. «Ritiratevi, scappate! Andate via, via, via!» Le belve obbedirono allontanandosi. Anche Minos e i suoi Skeleton seguirono questo suggerimento. Tutti tranne quelli che furono troppo lenti e finirono per dissolversi e andare a nutrire ancor di più questi Cosmi spropositati.
«Cerca di fermarli più che puoi!» Urlasti. Poi cercò di usare il Cosmic Marionation per creare una rete di contenimento, ma il suo Cosmo non era sufficientemente potente che una colonna di energia si levò alta verso il cielo per poi ricadere, come acqua di una fontana, nel suo epicentro. Subito dopo cinque figuri, disposti a cerchio, emersero dal sigillo.
Erano tutti uomini. Uno più massiccio e nerboruto dell’altro. I loro volti virili esprimevano tutti una ferocia inaudita. Due di loro erano caucasici e, i restanti erano di carnagione scura come quella dei loro signori. Ormai olivastra, perché anche la loro pelle aveva assunto un colorito cinereo e verdastro, come di cadaveri. Persino il colore delle loro chiome e dei gioielli che adornavano le loro membra erano polverosi e sbiaditi in confronto alla nera, perfetta lucentezza delle loro Vestigia. Era come osservare delle bambole rovinate dal tempo e dall’incuria, troppo a lungo tenute in soffitta a prendere polvere, infilate a forza dentro degli abiti nuovi di zecca. 
Avevano le barbe e i capelli lunghi e arruffati. Persino le loro unghie erano affilate e incurvate come pericolosissimi artigli. Ed esibivano dei cerchi purpurei attorno agli occhi. Tuttavia erano proprio gli occhi erano quelli che ti intimidivano di più: quando li aprirono, vedesti chiaramente che esprimevano solo follia. Probabilmente dovevano essere impazziti a forza di stare rinchiusi per tutti questi millenni.
Le loro Armature erano nere come l’ossidiana, talmente lucide da riflettere la luce e le scintille di questo posto. Dando l’impressione di guardare degli occhi vuoti in cui si tuffava l’abisso.
Le loro Sacre Vestigia non avevano forma definita come la vostra, erano solo corazze. Ma molto più adorne e regali delle vostre. Esprimevano un senso di sinistra potenza, come se il vero potere del Titano fosse contenuto in quelle persone. “No, non persone”, ti correggesti stringendo a te il giovane privo di sensi per proteggerlo.
La tua mente tornò istintivamente al Settantanove, durante la Titanomachia e, il tuo cuore batté più rapidamente per la paura. Neanche davanti a Chronos e gli altri Titani avevi mai tremato. Solo dinanzi alla morte, ma ora... 
I cinque sciolsero il cerchio e fecero per muoversi, quando si scontrarono contro il Cosmic Marionation del Grifone. «Che scherzo è mai questo?» Chiese uno di loro, con voce incolore, notando i fili che si erano avviluppati attorno al suo corpo.
«Questo è il colpo del Giudice Infernale di Hades, ed è compito di uno Specter impedire ai morti di lasciare gli Inferi». Rispose Minos prima di tirare i fili, non ottenendo altro che di tenderli. Era come se i cinque fossero statue di pietra.  Statue provviste di un Cosmo, perché bastò che espandessero il Cosmo per distruggere quei fili. Poi, si volsero verso di lui, «Cosa credi di fare, misero umano? Da quando gli Dèi hanno al loro servizio esseri privi di Ichor nelle vene?»
Il Grifone, comunque non si lasciò intimidire e digrignò i denti, prima di rispondere: «Da quando gli esseri umani si sono votati alla loro causa! E non me ne andrò da qui finché non vi avrò rimesso nella tomba, Gigantic Feather Flap!»
E, il colpo li investì, fu così potente che fece tremare la terra, frantumò i massi che, franarono con fragore. I sassi più piccoli, schizzavano da tutte le parti uscendo come proiettili dal polverone che la  frana sollevò. 
Ma, quando la polvere si posò al suolo, i cinque erano ancora lì, perfettamente illesi e circondati dalla ghiaia. Appena un po’impolverati sulle mani e sulle braccia. Senza che ve ne fosti accorti, avevano polverizzato i massi caduti. Non avevate neanche sentito i rumori della loro azione.
Anche lo Specter trattenne il fiato rumorosamente e si mise in posizione di difesa.
Il biondo sospirò: «Dunque liberi, dopo millenni torniamo a respirare, desti finalmente dal nostro lungo sonno e poi qualche stolto, cerca di rispedirci a dormire». Poi, guardò il Gigante Infernale e domandò, con una pacatezza che stridette moltissimo con le sue parole: «Cosa ti fa credere che obbediremo a un essere insignificante come te?»
Poi tese un dito verso di lui e disse: «Rewind!» I fili che avevano distrutto si ricomposero e tornarono al mittente, avviluppandolo come le trame di una ragnatela. Stringendo le sue carni al punto da farlo urlare di dolore: «Come pretendi di darci degli ordini, se non sai neanche usare decentemente il tuo Cosmo?»
«Minos!» Urlasti e lo Specter strillò ancora più forte, cercando di liberarsi. Si portò le mani alla gola per liberare le vie respiratorie ma quando ritrasse le dita, le scopriste coperte di sangue.
A quel punto anche tu intervenisti. Posasti il giovane e lanciasti il «Tenma Kōfuko!» E l’energia andò a colpire il Cavaliere, ottenendo soltanto di fargli inclinare leggermente la testa. E, in un battibaleno l’attenzione fu tutta per te.
Il Primo Cavaliere si liberò con un gesto secco di Minos, che cadde rovinosamente al suolo, vicino ai suoi Skeleton.
Solo in un secondo momento si accorsero del giovane svenuto alle tue spalle e cambiarono bersaglio, ma tu li tenesti alla larga con il «Kān».
«Non vorrai mica sfidarci anche tu, vero?» Ciò detto ti scagliò un raggio d’energia che tu evitasti con un salto. Ma presto urlò di dolore perché una bestia di Nyx lo assalì e lo stesso accadde anche ai suoi compagni.
«Scappate signore!» Ti urlò uno di loro mentre facevano strage dei nemici.
E, tu obbedisti, anche se a malincuore. Raccogliesti il sigillo vivente e cercasti di fuggire. Ma i Primi Cavalieri non te lo permisero. Improvvisamente t’immobilizzasti, ma non per tua volontà. Che cosa stava succedendo? Cercasti di muoverti, ma non ci riuscisti e, fosti raggiunto tranquillamente dai quattro, che ti circondarono. Provasti a lottare contro il loro incantesimo, ma non ci fu niente da fare.  Come non riuscisti neanche a impedire che ti togliessero dalle braccia il ragazzo svenuto.
Il loro leader ti scoccò un perfido sorriso di compassione, prima di sferrarti un colpo. Non riuscisti neanche a chiudere gli occhi a causa dell’incantesimo.
Stavi per essere colpito, quando una lama verde ti passò accanto e ferì quel pugno, costringendo il suo proprietario a urlare e ritrarsi. Qualcosa ti toccò la spalla e, improvvisamente, percepisti la presenza di qualcun altro dietro la tua schiena. Subito la magia che ti bloccava si allentò e tu potesti girare il volto per incontrare quello di Lady Asia. Dopodiché crollasti a terra come un sacco di patate «Allontanatevi dal mio protetto». Li avvisò mentre i quattro facevano un balzo indietro.
Un secondo dopo, il Cavaliere che ti aveva tolto il ragazzo, urlò di dolore. Girasti il capo in quella direzione e, vedesti il giovane, ben desto, che aveva conficcato un pugnale nero nella gola di quest’ultimo.
I quattro chiamarono il loro compagno in una lingua che non comprendesti, ma non poterono soccorrerlo perché, una serie di anelli diagonali come gli elettroni attorno al nucleo dell’atomo, di sabbia biancastra l’imprigionarono. Solo dopo ti accorgesti che, in realtà, eravate voi due il fulcro di questa gabbia, che andava allargandosi sempre di più. «Perché non hai fatto come ti ho detto?» Ti rimbeccò Lady Asia.
«Mi dispiace, signora, ho visto…»
«Atarassaco, mio fratello! Sarebbe bastato lanciare la pergamena e pregare, lui si sarebbe scostato».
«Ma era ferito!» obiettasti, mentre lei si adoperava a soccorrere anche i sopravvissuti, spostandoli dentro la barriera.
«Era stanco e in meditazione, non tramortito!» Sbraitò lei per tutta risposta, sovrastando le voci dei quattro. Poi, espandendo il Cosmo, allargò anche la gabbia e mandò al tappeto i quattro, anzi, no, di nuovo cinque.
«Accidenti, ma non l’aveva ammazzato?» Domandò uno Skeleton.
«No! Non si possono ammazzare e non si possono controllare, si possono solo sigillare!» Esclamò la Dea. Poi fu costretta a rinforzare la difesa perché uno di loro, materializzando una lancia dal niente, provò a spezzare la barriera. Non appena la lama della picca toccò la sabbia, subito si arrugginì e tornò ricoperta della patina dell’erosione. La stessa cosa sarebbe successa anche alla sua mano se non l’avesse lasciata cadere e fosse balzato via con un grido di spavento.
Lady Asia sfoderò la spada verde e improvvisamente ti accorgesti che indossava le sue Sacre Vestigia. Per la prima volta la vedesti con indosso la sua Wing. Non ti saresti mai aspettato che le Wing avessero quest’aspetto. Semplice, quasi dimesso, le conferiva una grande libertà di movimento. Dunque era questo l’aspetto di un’Azona riunita alla sua Wing. Il Cavaliere di Chronos si ritrasse immediatamente imitato da tutti gli altri, che, per contro, alzarono le loro armi. «E tu chi sei? Come osi sfidare i Primi Cavalieri di Chronos?» Sbraitò quello con la corazza rossa, fissandola adirato. «Oh, siete una donna», commentò poi, sorpreso. Lady Asia, senza perdere tempo attaccò, cogliendoli di sorpresa espandendo il Cosmo e saltando per aria.
Subito fu raggiunta dai vostri avversari che cominciarono a lottare, tra le nubi del cielo tempestoso sopra il sentiero. Cercavi di scorgerli tra le nubi, ma avvertivi solo il clangore delle loro lame incrociate, delle botte e dei colpi che si scambiavano, che emettevano suoni simili al rombo del tuono, delle loro grida e anche degli schizzi di Ichor. Uniti al rumore dei tuoni veri e proprie e delle scintille che piovevano su di voi come una pioggia di fuoco.
Improvvisamente ti arrivò un urlo mentale che per poco ti piegò in due: “Andate, vi copro io!
«Milady, no!»
La giovane piantò un piede nella pancia del suo avversario e lo sbalzò indietro di parecchi metri, costringendolo a piantare i talloni per evitare di volare via, scavando così una scia nel terreno. “Andate!
Poi, un lampo d’Oro Bianco e la Dea si scrollò di dosso i quattro. Si abbassò su uno dei promontori dello strapiombo che davano sul sentiero e, cominciò ad agitarsi. Per come si muoveva sembrava che stesse battendo le mani e i piedi per liberarsi dalla sporcizia che le era rimasta addosso.
Cosa stava facendo? Era questo il momento di mettersi a ballare? No, non era solo questo, stava anche cantando. Non conoscevi questa canzone, ma in breve vedesti un lampo d’oro allargarsi da lei e, il terreno sotto i vostri piedi, cominciò a vibrare. Poi, dal niente, si frantumò in più parti e dell’acqua, zampillò violentemente verso l’alto e ricadde anche nella gola, dove continuò a vibrare e agitarsi.
Voialtri cercaste rifugio sui massi, mentre, altri rumori andavano ad assommarsi a quella cacofonia.
Per quanto foste spaventati, ti rendevi conto che quella cacofonia aveva un senso.
Era una canzone. Le rocce che cadevano e rotolavano erano la batteria, l’acqua era la melodia e la sua voce, che da qui non riuscivi a percepire bene, era il resto. I lampi dorati si allargarono e l’acqua cominciò a essere attratta a serpentina dalle parole stesse. Lo spostamento della massa d’acqua produsse una corrente di vento che catturò le parole di uno dei nemici e arrivarono anche a te. «Acqua? Cosa credi di fare, miserevole Dea?» La quale, nel frattempo, continuava ad agitarsi sullo sperone. E i cinque, come una sola persona, si lanciarono addosso a lei, armi sfoderate. «Milady!» Urlasti e, in mezzo a questo marasma, la tua voce si perse in uno stridio come di gabbiani. Improvvisamente la tromba marina s’allargò e l’inglobò così violentemente che non riuscirono a fare niente.
Al centro della stessa, percepivi ancora Lady Asia. Stavi osservando la scena a occhi sgranati quando ti sentisti chiamare: «La pergamena». Ti girasti e vedesti accanto a te il giovane di prima tenderti la mano. Lo fissasti senza capire, inebetito. A malapena consapevole del fatto che, dietro di lui, gli Skeleton e le belve della Notte ferite erano stati messi al sicuro insieme a voi.
Quando si era ripulito e aveva recuperato le forze e quel bastone molto somigliante a un’alabarda wushu? La sua intera persona riluceva di un Cosmo color Oro Bianco. Questo era un Azone. «La pergamena, sbrigati». Ripeté muovendo le dita, rinsavendoti dal tuo stato. Gliela consegnasti senza pensarci due volte e, appena l’ebbe in mano, Lady Asia saltò via dalla rupe per fluttuare giù fino alla loro prigione. 
«Asia!» Strillò l’uomo e, poi, lanciò la pergamena che scomparve dentro il tifone. Improvvisamente s’illuminò e, tutta la luce andò ad avvolgere l’acqua.
Improvvisamente le Creature sciamarono attorno a voi. Ad avvistarle, però non fosti tu, bensì Minos del Grifone. Ma una terza voce risuonò potente tra le vostre fila: «Non preoccupatevi, signori, non ci toccheranno». Vi tranquillizzò l’Azone e batté la punta del suo scettro sul terreno. Dai suoi piedi si allargò repentinamente il suo Cosmo d’Oro Bianco che vi avvolse in una cupola protettiva che poi scomparve. Eppure, anche così, il vento per voi smise di soffiare. «Che cos’è?» Domandò Minos e tu rispondesti, riconoscendo questa magia: «É una tasca temporale».
«Una che?»
«Te lo spiego dopo». Tagliasti corto con urgenza nella voce. Adesso volevi sapere se Lady Asia stava bene, non avevi tempo da perdere in inutili ciance. Improvvisamente l’acqua si rituffò nell’ingresso della prigione dei Primi Cavalieri e, l’acqua e la luce scomparvero, lasciando lì, soltanto la Dea, che, zittì repentinamente il Cosmo per evitare di essere uccisa seduta stante. Poi si rialzò e vi raggiunse.
Avesti finalmente occasione di osservare la tua Dea. La sua Wing era costituita da un grosso collare d’oro dall’elegante forma a V, con i bordi affilati e leggermente ricurvi. Una grande gemma di smeraldo tagliata a goccia proprio sotto al mento, un po’ come i collari della Divina Atena. Il quale, faceva il paio con gli orecchini e il diadema. Fino a quel momento non avevi pensato che anche quelli facessero parte della Sacra Wing.
La cosa più bizzarra era la sua costituzione. Mentre la tua era un blocco dorato senza divisa sottostante, la sua non l’aveva e, al tempo stesso era fornita di divisa. Nella foggia ricordava più una Sacra Cloth d’Argento che d’Oro. L’unico tessuto facente parte delle vostre Gold Cloth, tanto per dire, era il mantello.
Nella foggia la sua lorica ti ricordò la Silver Cloth di Castalia. Era più piccola e pratica rispetto alle Kamui di cui avevi sentito parlare e delle Soma dei Titani. Persino il rumore prodotto dai movimenti era più ovattato e meno metallico come le vostre. In confronto alla sua, la Gold Cloth di Virgo appariva più rozza.  
La corazza le rivestiva diagonalmente la spalla sinistra e il fianco destro. La spalla era protetta da tre spallacci affilati a forma di foglia triangolare che si allargava sulla spalla e si restringeva sull’esterno. Un po’come quelli dell’Armatura dell’Aquila. La differenza era che scendendo rimpicciolivano fino a scendere sul petto e la scapola in una dolce curva che si tuffava sotto l’ascella destra, finendo per cingerle i seni. Anche questi erano rifiniti con decorazione dorate e d’argento dorato con intarsi di smeraldi. Il blocco centrale era un pezzo unico che metteva in risalto il seno (senza tuttavia essere volgare) e l’addome. Si allacciava al cardigan cingendolo sotto il braccio destro e tenendola ferma, lasciando invece le code  tagliate a parallelogramma sulla sinistra libere di muoversi. A eccezione della coda destra che era spostata più indietro, lasciando scoperta la gamba. Le due punte interne frontali terminavano con una lamina d’oro ed erano decorate diagonalmente da una fiamma verde di poco più scura dei due smeraldi cerchiati di nero disposti sopra la placca a un intervallo regolare di cinque centimetri. La fiamma faceva parte del resto della bordatura del medesimo colore. Ma fu solo osservandola meglio che ti rendesti conto che non era una fiamma, bensì l’elegante sagoma stilizzata di un drago occidentale dalle corna ritorte verso l’interno. Riguardasti le sue braccia e scopristi che quelle decorazioni verdi che avevi scambiato per foglie, altro non erano che teste di drago.
In un certo senso era molto semplice, quasi disadorna rispetto alle vostre cloth, ma era molto elegante. Dei sottilissimi fregi decorativi d’oro e argento dorato, scendevano dalla spalla sinistra fin sotto lo sterno e altri risalivano dal fianco destro, ma senza allungarsi oltre l’ombelico.
Anche gli spallacci erano decorati con lo stesso fregio a forma di foglie e steli di piante. I fregi sembravano muoversi, non erano statici come poteva sembrare.
Il tocco di classe era dato soprattutto per la leggera sciarpa verde prato che cingeva il seno della Sacra Armatura e si allacciava sulla spalla destra alla maniera dello Jamir. Bloccata, probabilmente, grazie a una spilla che non riuscivi a vedere perché sottostante l’unico bavero libero della giacca, la cui punta era bordata di verde era decorata con due smeraldi più piccoli uno sopra l’altro che scendevano verso l’interno.
La fascia, poi, cadeva davanti la spalla destra scivolando leggera fino alla vita.
Un angolo della sua camicia cadeva leggero in una piccola punta scomparendo sotto il tessuto bianco a sinistra, come a controbilanciare l’asimmetria di questa scarsella. La parte atta a proteggere il fianco.
La destra della giacca era spostata più indietro rispetto alla sinistra. Lasciando scoperta la gamba. Sotto la catafratta indossava invece una camicia bordata di verde che le tagliava in due il petto. Una sottile cintura nera era allacciata in vita, probabilmente era il supporto per Tamerlane, teneva ferma la parte libera del cardigan. Ed era sovrastata da tre lacci neri che cadevano diagonalmente sulla corazza. Probabilmente gli allacci dei bottoni celati sotto la divisa. 
Le braccia erano protette da dei bracciali molto semplici e privi di scudo, altra differenza delle altre Sacre Armature. Le mani erano protette da guanti dello stesso materiale molto simili ai vostri, solo che erano un tutt’uno con le placche che rivestivano il dorso e lasciavano libere le dita.
Le gambe erano rivestite di alti cosciali che le arrivavano alle giunture delle cosce, subito uniti a dei ginocchielli, dei parastinchi e alla scarpa d’arme con il piccolo tacco. Anche quelli decorati come il resto dell’Armatura, solo che le decorazioni ricordarono delle elaborate parentesi graffe. Alle caviglie facevano mostra di sé due cavigliere d’oro con uno smeraldo e la scarpa era bordata dello stesso metallo prezioso. Erano di una sottigliezza tale che sembravano un pezzo unico, come il resto della corazza. Ma avevi già avuto una prova di quanto in realtà, fosse resistente.
La divisa era stabilita da una lunga giacca bianca aderente e bordata di verde con inserti di smeraldi sulle punte del bavero elegantemente allungato, la cui punta poteva coprire la spalla. Altre tre gemme di smeraldo erano fissate sul braccio, proprio sotto la spalla tenute unite da una riga verde scendeva dalla spalla fino a tuffarsi nel bracciale. Ma solo la parte destra della giacca si notava, in quanto la sinistra era nascosta dalla corazza di platino dai riflessi candidi e azzurrini, e oro bianco. Il farsetto non era lasciato allo sbando, era, invece trattenuto da una corazza dal bordo destro leggermente asimmetrico, dando l’illusione che la cingesse diagonalmente e che gli abiti si tuffassero per metà sotto i vestiti e viceversa.
Quella era un’Armatura Divina in tutto e per tutto. Persino tu avvertivi la magia e l’energia di cui era permeata. Cosa che faceva rimpicciolire di molto le vostre God Gold Cloth. La loro evoluzione divina era solo una concessione del sangue della Divina Atena, queste erano Divine e basta. Non riuscivi a identificare la fonte della loro forza, per te era oscura. Riuscivi solo a percepire la perfetta completezza cosmica dell’essere che ti stava davanti. Quella era una delle Dee con il mondo negli occhi. In tutte le tue vite e le tue meditazioni, non ti era mai accaduta una cosa simile. E, cadesti in ginocchi in assorta contemplazione mista a incredulità. Non potevi credere che ti fosse stato concesso un tale miracolo.
Lady Asia dal canto suo ti fissò incuriosita, con una punta di angoscia nello sguardo che molte cose aveva visto e raccontava. Stupido che eri a non averla guardata negli occhi direttamente come adesso.
«Grazie per il tuo aiuto, At… Island, è stato fondamentale». Si corresse.
«Dovere, Asia». Replicò questi con un leggero cenno del capo. Poi i due si abbracciarono e tu sentisti lo stomaco rimestarsi per la gelosia. Sentisti anche una fitta di odio verso quel Dio, sebbene il loro fosse stato un abbraccio puramente fraterno, che sciolsero subito. 
Poi tutti voi risaliste il sentiero per tornare indietro.
Le Creature, rimaste a bocca asciutta, se ne andarono fluttuando via.
Durante il tragitto, l’Azone di Hades rispose ad alcune domande fattegli dagli Skeleton e anche dalle Belve della Notte. Ma tu non stavi ascoltando, anche se avresti dovuto.
Improvvisamente la testa prese a farti male e sibilasti per il dolore.
«Tutto bene?» Ti chiese l’Azona, accorgendosi immediatamente del tuo stato di salute.
«Una fitta alla testa, niente di grave». Peccato che poi prese a farti male come se tu indossassi una corona di spine. Ti sfuggì un breve, acuto, grido di dolore e la ragazza ti chiamò angosciata: «Shaka? Che hai Shaka?» Anche il resto della comitiva si fermò tra sbuffi, persone che chiamarono il tuo nome e qualcuno che s’avvicinò. Avresti voluto rassicurarla, ma la sua voce era sempre più lontana e indistinta, mentre una nuova realtà si mostrava sotto le tue palpebre chiuse, sigillate dal dolore. Una realtà molto simile al passato, visto che riconoscesti il tuo omologo appena tredicenne in un tempio buddhista, nella posizione del loto. Riconoscesti quel momento, era di quattro giorni antecedenti alla decisione di Arles di usarti come arma fondamentale per ostacolare i Titani.
Quel giorno il tuo primo istinto fu quello di chiamare la Dea, ma ti ricordasti un’altra situazione, un’altra battaglia e il tuo cuore dette un colpo più profondo che, per te, fu quasi doloroso. Solo che, invece di Virgo, dietro di te comparve un’altra donna. Una figura che fece tremare il Titano che cercò di attaccarti. «Cos’è questo potere? Da dove ti nasce questa luce sacra?»
«Questa è la luce dei sacri guerrieri di Atena». Avevi risposto tu, senza però avere idea che ciò che ti stava alimentando e sciogliendo gli ultimi sigilli del tuo Cosmo, non fosse il tocco della Dea che veneravi. Ma che pure conoscevi più che bene.
La differenza la conoscevi, dal momento che quando la Dea, durante la Guerra Sacra contro Hades posò la mano sul tuo avambraccio per fermarti dal colpire Saga, Shura e Camus. E, no, non era stata lei a supportarti quel lontano giorno.
«Va bene, Shaka, poiché me lo chiedi con tanta passione, ti aiuterò». Aveva concesso la voce di Buddha, virando sempre più su tonalità femminili e, dietro le tue palpebre, per un momento, balenò la figura di una giovane donna con le mani giunte in preghiera. Un’aura di un brillante giallo sole che si allargava dietro le sue spalle mentre apriva gli occhi e tendeva le mani, sciolte, verso di te e ti guardava con amore e speranza. Come se ogni suo gesto fosse dedicato proprio a te. Tu stesso avevi sentito le tue muoversi di riflesso, imitando quella posa e, il Cosmo che ne sprigionasti fu tanto intenso che il tuo nemico si disgregò. Quella, fu la prima volta che usasti l’Agyo.
Avevi creduto che fosse stato Buddha ad aiutarti, ma era stata Lady Asia. 
Quella volta, adesso lo sapevi, qualcun altro ti aveva appoggiato per far sì che tu riuscissi nell’impresa. Adesso lo sapevi, non fu solo in virtù della tua forte convinzione, bensì perché qualcuno ti aiutò. E, quel qualcuno, era proprio la Dea con la tiara e gli orecchini di smeraldo, di cui ti eri infatuato. Per questo, invece che appellarti solo alla Divina Atena, dalle tue labbra, uscì un secondo nome: «Asia! Lady Asia!»
Presto, sentisti il suo Cosmo accanto a te, il suo profumo di gardenie e salsedine e la sua mano sulla tua spalla. Improvvisamente sotto le tue palpebre comparve una visione. La tua Casa profumava di loto non tanto perché eri la reincarnazione di Buddha, quanto piuttosto per nascondere il profumo di quella donna. Sì, ecco il tuo segreto più grande: eri ossessionato da questo profumo di donna da quando eri ragazzino. Dal tocco gentile sulla tua spalla e dalla sensazione che la vicinanza con il suo sublime, ricco, Cosmo, ti aveva donato. Era stato come essere abbracciato da tutto il Creato e dal ricordo che avevi di lei, abbigliata di bianco e bellissima come quando l’avevi vista trasformarsi.
Stupido che eri stato a non averla riconosciuta subito quando l’avevi avuta tra le braccia la prima volta. Ma in una situazione come quella era comprensibile. Altrimenti, al Tempio di Atavaka, l’avresti accolta con tutti gli onori che le si confacevano e anche di più.  
Vedesti la giovane Luce Ombrosa, stavolta con indosso una lunga tunica nera dalle decorazioni argentee. Non sembrava molto a suo agio in quell’abito dalle maniche lunghe e sfrangiate (a pipistrello, Shaka) il corpetto e i fianchi aderenti. Che orrore e poi, come diavolo ci si muove indossando una tenda che ti arriva fino ai piedi? Tu sapevi come muoverti, perché nel tuo ex guardaroba avevi anche un kurta. Anche gli abiti che portavi sotto la tua Cloth non erano molto diversi. L’album da disegno, però, stava cominciando a sfregare contro la tua pelle e, probabilmente, te l’aveva già arrossata. 
Improvvisamente qualcuno bussò alla porta e lei alzò il volto. E tu restasti a bocca aperta per la magnificenza di quelle iridi gialle. Non pensavi che avesse degli occhi così belli.
Dette il permesso per entrare alla persona dall’altra parte della porta, facendo poi una smorfia. Riuscisti a leggere i suoi pensieri direttamente sul suo volto: e, se avessero avuto cattive intenzioni? Invece, con sua grande sorpresa, entrò una ninfa dai capelli ricci color rame lunghi fino alle spalle, con indosso una tunica nera che le sfiorava le ginocchia e tatuaggi scuri su avambracci, collo e occhi a forma di fairy. Non avevi mai visto niente di simile prima d’ora. 
Eri affascinato da ciò. Per quanto tu conoscessi bene il regno degli Inferi, non avevi mai visto prima le sue sfaccettature, né i suoi usi, né i suoi costumi o la gente che lo popolava. Le vostre ancelle e i vostri paggi vestivano ancora come nell’Antica Grecia, qui sembravano decisamente più aggiornati. Ancora una volta ti desti dell’imbecille per non averlo fatto.
La nuova arrivata disegnò un inchino e la salutò con un cordiale: «Ben svegliata, milady». Dopodiché si rialzò, le mani intrecciate sulle cosce, come la nobile Olivia decadi prima. La sosia più giovane di Camus la guardò stupefatta come molti guardavano te a cose normali (sicuro che non ti guardassero come se tu avessi parlato marziano, Shaka?) «Come?»
«La mia pronuncia non è corretta?» Domandò invece la sua interlocutrice, battendo le palpebre dalle lunghe ciglia scure. «No, no, è corretta, solo che… Milady?» Ripeté accigliata. Ah, ora avevi capito dove fosse il problema. «Non è forse così che dovrei chiamarvi?» Richiese in tono innocente battendo nuovamente le palpebre.
«No, non è quello, è che non sono abituata a sentirmi chiamare così».
«Capisco. Allora come volete che vi chiami?»
«Astrid. E, tu sei?»
«Sono Menta, la vostra ancella personale, sono stata assegnata alla vostra persona dal Sommo Rhadamantys». Rispose in tono formale. Menta come la ninfa che fu trasformata dalla Divina Persefone nell’omonima pianta? Ma quello su cui la giovane si concentrò fu solo una parte di tutta la frase. «Rhadamantys?» Le fece eco sgranando gli occhi per lo stupore. Tu ti accigliasti. Perché il Giudice Infernale s’interessava di lei?
«Certamente». Ribatté costei senza scomporsi.
Astrid si guardò attorno: «Dove ci troviamo? Che posto è questo? Come ci sono arrivata?» Chiese e la ninfa le spiegò che, quel posto molto diverso dalla Villa dove avevi soggiornato con Camus, era il Quartier generale della Resistenza del Regno dei Morti. Adesso era da lì che la Somma Sacerdotessa dirigeva le fila dell’esercito infero e dei suoi alleati. «Vi ha portato qui il Sommo Rhadamantys e vi ha affidato alle cure mie e delle mie sorelle, per conto del Sommo Hades». Inspirò e aggiunse: «La nobile Pandora mi manda a dirvi che a dirvi di raggiungerla nei suoi appartamenti privati, qualora foste di nuovo in salute». La guardò incerta, come incerto eri tu di fronte a quell’espressione esterrefatta.
Improvvisamente le immagini cambiarono. Adesso ti parve di vedere tutto come attraverso uno specchio deformante. Cosa stava succedendo? Battesti le mani sul vetro, ma, questo non s’infranse. Sollevasti le dita alla ricerca di una fine di questo specchio, che non vedevi, ma, con tuo grande orrore, scopristi di non averle più, sebbene producessero un suono.
«Ehi, ehi, c’è nessuno? Qualcuno mi sente?» Urlasti, adesso spaventato. Che diavolo era successo? «C’è qualcuno là fuori? Mi sentite?» Dove eri finito? Non si vedeva niente, ricordavi appena di essere stato destato da una luce ma ora c’era solo buio. Battesti le palpebre e scopristi di non avere più neanche quelle.
Ti staccasti dal vetro, terrorizzato come mai prima d’ora. Eri ma non eri, che cosa, adesso che eri privo di verbo e sostanza, mio non-essere di natura filosofica? Eppure tu eri vivo, sapevi di esserlo, benché di te non ci fosse niente e ci fosse tutto. Cercasti altre scappatoie, ma eri dentro… una gabbia? No, sembrava una gabbia ma non lo era. Ti guardasti attorno, in preda alla paura, ma scorgesti solo il buio. Dov’erano gli altri? Dov’era Lady… scopristi di non ricordare più il suo nome. Che la sua essenza era qualcosa di vago, che avevi percepito altre volte, ma che non riconoscevi. Non come adesso. Perché questi tuoi pensieri e sensazioni avevano un vago sentore di déjà-vu? Perché non coincidevano più con la realtà presente?
Improvvisamente, come se ti avessero udito, sentisti le loro voci e i loro battiti mentre compivano la tua stessa scoperta. Poi vedesti il bianco davanti a te. E, sentisti il dolce calore, scaldare il nero che ti avvolgeva e sciogliere la lastra che ti teneva imprigionato. E ti ritrovasti a galleggiare in quest’essenza di luce e calore, con un vago senso di sollievo e liberazione. Volgesti lo sguardo attorno a te cercando di vedere qualcosa cui aggrapparsi e invece no. Era solo caldo.
Credesti di essere libero, invece eri solo spostato. Perché quando provasti a nuotare, scopristi di non potere. Eri immobilizzato e la tortura ricominciò. Bruciasti il tuo Cosmo piangendo per la disperazione ma non servì a niente.
Qualcuno sollevò la tua prigione con delicatezza e la lanciò via con te dentro, con una violenza che neanche ti eri immaginato. Urlasti con quanto fiato avevi in gola. Gemesti di dolore e poi, ti ritrovasti a mettere a fuoco e a osservare il volto di una quindicenne. Una quindicenne dalla pelle olivastra e mossi capelli scuri acconciati in boccoli, portati a caschetto che le incorniciavano l’ovale del volto, simile a quello della Divina. Anche se, aveva gli occhi scuri e le labbra più piene e le sopracciglia più folte e spesse. Era Asia, quando era adolescente. E stava… piangendo? Perché stava piangendo? Erano sue le mani che sentivi? Ti accigliasti, vedendo quel fiume di lacrime rigarle il volto mentre sigillava gli occhi e diceva, in hindi: «Mi dispiace, mi dispiace».  
“Mi dispiace?” Pensasti aggrottando ancor più le sopracciglia per la confusione; ma di cosa stava parlando? Che cosa era successo? Poi fosti strattonato via e ti ritrovasti sdraiato contro qualcosa di morbido e caldo che ti sorreggeva la testa e la parte superiore del corpo. Un refolo di vento ti carezzò la pelle e smosse le ciocche della tua frangia. Sotto di te percepisti il dolce affondare dell’erba, che stringesti tra le dita. Beandoti quasi della loro consistenza. Non avevi mai pensato che potesse essere così bello affondare le dita nell’erba.
Battesti le palpebre e mettesti a fuoco le verdi fronde dell’albero, dolcemente smosse dal vento, sotto al quale eri disteso. La luce che vi filtrava ti costrinse a socchiudere gli occhi.
«Ti sei svegliato?» Ti chiese la voce adulta di Asia. Quando la guardasti, per un momento, vedesti di nuovo la ragazzina di quindici anni con le guance da bambina del tuo sogno. Ma l’impressione svanì subito, restituendoti alla realtà e alla sua espressione confusa. Che tu avessi visto una parte del suo passato? Ma se era così, perché non l’avevi vista attraverso i suoi occhi bensì con i tuoi? Solo in un secondo momento ti accorgesti che quella cosa morbida che ti sorreggeva era lei. Sgranasti gli occhi di colpo e ti si mozzò il fiato.
Lei ti guardò angosciata. «Tutto a posto? Sembra che tu abbia visto un fantasma». 
«Sì, tutto a posto, mia Signora» Dicesti e ti accorgesti che si era tolta la Wing. Ti scostasti da lei tra l’imbarazzato e il lusingato. Non che ti vergognasti veramente, erano i pensieri che formulasti appena ti rendesti conto di tutto, che ti fecero imbarazzare. Solo in quel momento ti accorgesti che ti aveva coperto le spalle e le braccia con la sua mantella. E il tuo cuore batté ancora più rapidamente, facendoti avvampare.
«Ehi, che hai? Sei sicuro di stare bene? Già prima mi hai fatto preoccupare quando sei svenuto e poi hai dormito quasi due ore».
«Sì, sì, per un attimo mi era sembrato… non importa, grazie». Facesti restituendoglielo, le guance rosse. Poi respirasti per cercare di regolarizzare il battito cardiaco.
Lei lo sfilò dalle tue dita e, con un movimento fluido se lo riadagiò sulla spalla destra. Poi, mentre si rialzava finì di allacciarselo sotto l’ascella sinistra. «Mi sembri debilitato, sei sicuro di voler riprendere immediatamente il viaggio?» Ti domandò porgendoti una mano. Mano che tu, guardasti meravigliato, come se ti avesse posto davanti uno scrigno di gioielli. Il tuo cuore cominciò a battere più rapidamente mentre la curiosità e il desiderio di saggiare quelle dita e oltre con i tuoi sensi, con il tuo corpo, reprimesti a malincuore. Oh, se solo quella vista e oltre ti faceva quest’effetto, non osavi immaginare cosa avrebbe significato prenderla nella tua. Per quanto la desiderassi saggiare, per vedere se era liscia come sembrava alla vista, non afferrasti. Alle donne del tuo Paese d’origine era proibito toccare gli uomini. Ti avrebbe fatto meno scalpore se a porgertela fosse stato un altro uomo. Distogliesti lo sguardo a malincuore e cercasti di parlare normalmente, come se quella vista, non ti avesse fatto nessun effetto. Come se tutto di lei, anche la sua preoccupazione, il suo modo di prendersi cura di te, non ti avesse colpito per niente. «Non vi preoccupate, mia Signora», Asia, avresti voluto dire, «ce la faccio». Assicurasti convinto. «Dove sono tutti?»
«Island è tornato subito in servizio e ha chiuso il corridoio. Minos e i suoi sono di nuovo negli Inferi da Lady Pandora e i Black Saint non riusciranno mai a ritrovarli e a destarli nuovamente».
«Bene; scusatemi, mia signora, a causa della mia negligenza io…»
«No, non è colpa tua, non immaginavo che Island avesse usato il suo corpo per sigillare i Primi Cavalieri; non aveva avvisato nessuno di noi. Comunque, sei sicuro di stare bene?»
«Sì, signora, sto benissimo». Reiterasti. 
Lei ti scoccò un’occhiata scettica, ritraendo le dita per incrociare le braccia e, sentisti il suo sguardo su di te raffreddarsi. «Mi prendi in giro?» Ti chiese, perentoria e tu la guardasti di nuovo, stavolta sorpreso; «Perché dovrei?» Non pensavi neanche di averla offesa.
La Dea continuò a fulminarti con lo sguardo: «Perché sei un’Anima Viva, hai bisogno di cibo e riposo veri anche tu. Queste sono le mie regole, se vuoi continuare a viaggiare insieme a me, allora rispettale».  Chinasti il capo con fare remissivo, non volevi che lei si adirasse con te e, non volevi procurarle ulteriore preoccupazione. Inoltre, avevi davvero bisogno di riposo. Se avessi potuto bruciare il tuo Cosmo con la stessa potenza di prima lo avresti fatto e non avresti avuto problemi. Se la Cerca in cui ti eri impelagato fosse stata un’impresa come un’altra allora non ne avresti risentito. Ma questa era di una decina di livelli superiore a dir poco e, tu, ti sentivi stanco: «Avete ragione, mia Signora, sono desolato». Ti scusasti, imbarazzato. «Se posso permettermi, cosa pensate di fare?» Chiedesti, desideroso di prolungare ancora la tua permanenza al suo fianco. Il solo pensiero di doverti separare da lei ti faceva gridare un «No!» pieno di terrore. Era un miracolo che tu riuscisti a fingere ancora la tua espressione neutra e la tua calma apparente che ti caratterizzava.
Lei si strinse nelle spalle: «Devo continuare questa cerca prima che sia tardi. Non posso fermarmi, con o senza il mio album; in fondo, non ho bisogno di quello per trovare gli altri Guardiani. E, tu che cosa pensi di fare? Tornerai negli Inferi e combatterai con Camus o andrai altrove?»
«Io, vorrei proseguire questo viaggio insieme a voi».
«Sei sicuro?» Ti chiese stupita e smarrita.
«Più che certo».
«Anche se sarà rischioso?» Ti chiese, timorosa che tu l’abbandonassi proprio ora. Glielo leggevi nello sguardo.
«Sono un uomo di parola, non lascerò mai che compiate un viaggio simile tutto da sola. Milady, permettetemi di aiutarvi in questa faticosa Cerca». La giovane Dea sospirò e scosse il capo, portandosi una mano alla fronte. «Se questa è la tua volontà io non posso certo impedirtelo». Dichiarò, rassegnata, ma non ti sfuggì il sorriso che incurvava le sue labbra, tantomeno il tono in cui lo disse.

Camus
Atterrasti nel fango degli Inferi e ti rialzasti carponi, dolorante. Privo come eri della corazza, il tuo atterraggio fu anche meno morbido del solito. Non pensavi che, in quanto Anima Viva, lui potesse toccarti e ferirti in tal guisa.
Ma anche così non ti lasciasti sfuggire neanche un lamento. Non avresti mai dato delle soddisfazioni ad Aiacos. Lo Specter ti raggiunse: «Alzati! Hai sentito quello che ti ho detto?»
«Il Patto…» Cercasti di sillabare a causa del dolore alla gabbia toracica.
«Il Patto dice che non possiamo ucciderci a vicenda, ma non sta scritto da nessuna parte che non possiamo massacrarci e io ho intenzione di fartela pagare per la mia nave e per avermi menato per il naso». Avvicinò il suo volto al suo e sibilò, «con gli interessi». Poi, ti afferrò per il gomito e ti rimise in piedi come se tu fossi solo un bambinetto dispettoso.
Solo per spintonarti di nuovo e urlarti di camminare. Erano giorni, ormai, che sopportavi in silenzio questa tortura. Da quando Fianna l’aveva mandato a cercarti, tu non avevi fatto altro che prenderti le botte che, quel folle ti elargiva di persona e senza complimenti. Ringraziasti di non essere un suo sottoposto. E, non immaginavi di essere così impotente, privo del tuo corpo. Neanche quando eri uno Specter ti eri sentito così debole.
Ma non era un caso che tu ti lasciassi pestare così; avevi optato per il metodo di Gandhi, la resistenza passiva. Anche se ciò andava contro il tuo primo istinto, cioè quello di rispondere a tutte le mazzate che ti dava e scatenargli il Cocito contro. Ovvio poi che ci avevi pensato a lungo per prendere questa decisione: volevi dimostrare ad Aiacos che non aveva alcuna influenza su di te. E, sembrava funzionare, nonostante i lividi e tutto il resto, quelle volte che non riuscivi a schivare.  
Contavi che prima o poi Lady Pandora lo rimettesse in riga, ma alla Sacerdotessa sembrava non interessare. Intanto, molti altri spiriti a te legati per qualche motivo, si erano opposti allo stesso modo.
Così, senza rendertene neanche conto, eri diventato il Mahatma Gandhi delle civiltà Celte e Pitte, al punto che le Sacerdotesse e i Druidi di quest’ultime, ti tenessero in gran considerazione. Eri rimasto molto sorpreso, quando, per esempio, ti era giunta la notizia che un principe celtico aveva smesso di servire uno Specter seguendo il tuo esempio. E, grazie a Fianna, che in quel periodo sembrava molto giù di morale, scopristi che aveva deciso di appoggiarti. Che per lui, il tuo era un atto di grande coraggio. Nessuno spirito o fantasma si era mai opposto per davvero agli Specter.
Tu eri un esempio per il suo popolo.
Gli avvolgesti le mani con le tue e scuotesti il capo: «Ti ringrazio molto, ma io non sono l’esempio migliore da prendere a modello». Lui ti guardò battendo le palpebre perplesso e, tu gli spiegasti che tu sapevi come contrastare gli Specter e che sapevi come resistere. Che tu, il Mago dell’Acqua, riuscivi a resistere perché avevi risvegliato il Settimo Senso e, anche il tuo fisico era temprato a tali attacchi. Tu non eri uno degli Spiriti che gli Specter sorvegliavano. Non più, tu eri comunque un’Anima Viva. 
E, forte di questo, ancora, una volta, tornasti al presente e ti rialzasti mentre Aiacos sbuffava seccato: «Ancora? Ma quando è che la finirai?»
Ti asciugasti il rivolo di sangue che ti colava sul mento e, ti mettesti in ginocchio. «Mai». Replicasti, sfidandolo apertamente. Si vedeva che stava cominciando a perdere la pazienza. Tu invece eri sorpreso da te stesso. Non avresti mai detto che il tempo passato in compagnai di Shaka ti avesse lasciato qualcosa. Benché meno questo. Perché tu non ti eri mai opposto apertamente prima. Oppure, semplicemente, quando si sperimentano in prima persona, si acquisisce anche un nuovo punto di vista della situazione.  
Ti preparasti alla successiva raffica di colpi, per schivarli quando davanti a te si pararono alcuni dei Celti che ti avevano accolto. Sbarrasti gli occhi sorpreso.
«Che cosa fate? Andatevene! Lasciatemi punire questo stupido insetto come merita!» Esclamò lo Specter anche per te, in tono adirato, spazzando l’aria con un gesto repentino del braccio. Ma nessun Celta si mosse, anche se tremarono e arretrarono istintivamente di mezzo passo al gesto.
Li guardasti stupefatto, ma nessuno di loro si mosse, anzi, continuarono a fissare impassibili il tuo aggressore. A parlare, fu proprio la piccola Fianna, che non avevi notato e che, coraggiosamente proferì, in uno stentato francese: «No! Tu non puoi toccare lui!» Che strappò ad Aiacos una folle, sonora risata sguaiata.
«Siete seri? E se io vi spazzassi via tutti? Volete davvero sacrificare le vostre vite per lui?»
«Tu non tocchi Mago di Acqua!» Ribatté Fianna, traducendo per il dux bellorum della sua tribù. Aiacos rise un altro po’, ma, piano piano, il suo riso si spense, sostituito dalla confusione e infine lo sconcerto. I Celti erano mortalmente seri.
Una delle Sacerdotesse gli intimò di allontanarsi e Aiacos li guardò tutti stupefatto, mentre alcune donne ti aiutavano a rialzarti. Poi, anch’esse, tenendoti una mano sulla spalla puntarono gli occhi sullo Specter che vi osservava incredulo.     
«Vattene».
Questa parola, però, ebbe l’effetto opposto sul Garuda. Un sorriso inquietante fiorì sul volto del nepalese «L’avete voluto voi». Dichiarò prima di darvi le spalle e muovere un passo per girarsi completamente verso di voi e scagliarvi un attacco che non avevate mai visto. Le particelle d’acqua attorno a voi si alzarono dal terreno, si solidificarono assumendo la forma di numerose lance di ghiaccio che furono puntate su di te.
«Fermati! Così attirerai le Creature!» Urlasti, pronto a congelare a tua volta gli atomi per creare una barriera difensiva attorno a te e ai tuoi protettori. Aiacos stava sottovalutando di molto la potenza di un Gold Saint come te. Adesso che sapevi di poter usufruire dell’appoggio del Cocito non era il caso di sottovalutarti. Ma il Garuda questo non lo poteva sapere. «Sai quanto me ne importa? A me interessa solo prendermi il mio risarcimento!»
Ti mettesti in posizione di difesa, pronto a ribattere al colpo quando il suono di un corno vi richiamò entrambi. «Che sta succedendo?»
«É l’adunata, Cavaliere». Rispose il Garuda sciogliendo la tecnica e le lance caddero di nuovo a terra tramutate in semplice acqua. Poi se ne discese dall’altopiano dove vi trovavate. Ti sporgesti sul bordo e, sulla piccola spiaggia dell’affluente del Cocito che si gettava nel Flegetonte, vedesti ormeggiate le navi e le canoe. Sulla riva un nutrito drappello di Skeleton in file di sei, dietro Pandora. La sua persona l’avresti riconosciuta tra mille, ormai.
Fianna e altri ti raggiunsero e ti dissero qualcosa, ma tu non ascoltasti.
La Sacerdotessa di Hades stava parlando con Violate di Behemoth quando furono raggiunte da Aiacos, che si prostrò cerimonioso. Dopodiché fece calare la passerella per permettere alla luogotenente di Hades di salire sulla nave ormeggiata nelle acque sottostanti.
Ti sorprendesti della rapidità che gli Specter avevano dimostrato nel ripararla. Con i danni che aveva subito eri convinto che ci sarebbe voluto molto di più. Facendo viaggiare lo sguardo leggermente indietro a essa, vedesti, inoltre, anche delle canoe e altre barche della flotta del Garuda. Ovvio che non avrebbero mai lasciato l’ammiraglia da sola. Nel lago retrostante, nascosto dalle montagne, avevano ormeggiato tutta la flotta e l’altra parte dell’accampamento.  
Prima che la donna mettesse piede sulla passerella, si girò e guardò dritto verso di te. Anche da lì riuscisti perfettamente a percepire tutta la forza di quello sguardo. Poi, ti fece cenno di venire e, tu, perplesso e ancora impolverato e dolorante. Fianna ti richiamò più volte e tu ti girasti per farle cenno di stare calma. «Vado solo a sentire cosa vuole». Le dicesti per rassicurarla. Ma non bastò, così, tendesti la mano per invitarla a raggiungerti e, la bambina, trotterellò da te e ti prese per mano. Così, insieme, giungeste sulla riva.
La comandante degli Specter vi accompagnò con gli occhi, attendendovi, con gran sdegno di Aiacos. «Bentrovato Gold Saint di Aquarius», ti salutò guardandoti dal basso verso l’alto, prima di dire: «Sembra che siate appena uscito da una rissa».   
Disegnasti un inchino e ti raddrizzasti, continuando a tenere le mani sulle piccole spalle di Fianna. «Nobile Pandora, no, mi stavo semplicemente allenando con il nobile Aiacos». Lo Specter alle spalle della donna alzò le sopracciglia sorpreso. Mentre la sorella terrena di Hades assottigliò lo sguardo: «Davvero? Questo spiegherebbe la polvere sui vostri vestiti e l’aria stravolta». Eppure anche così era chiaro che le tue parole non l’avessero affatto ingannata. Decidesti di sorvolare e, chiedesti, invece: «Sì, signora, desideravate parlarmi?»
«Certamente, quest’oggi esploreremo il campo di battaglia, i cartografi dell’Oltretomba sono tra i migliori che potevamo sperare di incontrare nel corso dei secoli. Tuttavia un buono stratega deve conoscere il campo di battaglia e, il Flegetonte, non è un terreno come gli altri, tantomeno un fiume come gli altri. E, voi verrete con noi, così mi parlerete bene di questi… allenamenti». Disse infine, dopo aver cercato la parola giusta, indicandoti il galeone con una delle punte del tridente. Dopodiché si accinse a salire e voialtri la seguiste senza fiatare. Fianna strinse più forte la tua mano, spaventata. Era la prima volta che ci saliva. Aiacos chiuse la fila, poi, quando foste saliti tutti, Violate balzò sul ponte e cominciò a urlare ordini in gergo marinaresco ai suoi sottoposti, ricordandoti molto una piratessa. Se fossi rimasto tra i vivi un po’più a lungo avresti visto molto volentieri anche tu la saga di Pirati dei Caraibi. Avevi il sospetto che Violate e Aiacos si sarebbero trovati bene in mezzo a loro.
Vi sistemaste al parapetto, in disparte per evitare di intralciare fantasmi e Skeleton della ciurma. Con gli occhi cercasti Pandora che, si era andata a sistemare su una regale quanto scomoda ottomana nera. Le gambe accavallate scoperte dallo spacco.
Solo in quel momento ti accorgesti che la piccola Fianna accanto a te tremava di paura e le parlasti per rassicurarla. Senza troppo successo. Riuscì appena a balbettarti che aveva paura. 
Poi, quando tutti gli ormeggi furono mollati e la nave salpò, lei si accovacciò ai tuoi piedi. T’inginocchiasti anche tu e le consigliasti di respirare profondamente per far fronte a quella crisi di panico. Avresti dovuto pensarci due volte prima di permetterle di seguirti. Però non eri riuscito a dirle di no. «Dai, guarda, ci sono persino le Creature degli Dèi della Notte». Facesti per convincerla, che lei le adorava, soprattutto quelle acquatiche. Ma neanche questo la convinse.
Lanciò addirittura uno strillo quando sentì il galeone alzarsi in volo e, per un momento temesti che la tua opera di convincimento fosse andata a farsi benedire. Ma riuscisti a recuperarla subito e a ricatturare la sua attenzione. Le dicesti che avevi già volato con loro, che adesso non c’era niente di cui aver paura. Che nessuno vi avrebbe attaccato (“Te la gufi, dì la verità, Camus”). Ignorasti questo mio commento e continuasti a parlare per distrarla. Alla fine, la bambina si calmò e si alzò in piedi, ancora tremante. Tu le cingesti le spalle con un braccio, promettendole che non sarebbe caduta e le indicasti le canoe e le barche che fluttuavano insieme alla vostra, affiancate da alcuni mostri alati al servizio di Nyx, che, da qui, sembravano gabbiani.
Guardasti Fianna e, vedesti un’espressione dapprima di stupore e poi di meraviglia allargarsi sul suo volto. Prese a indicarteli tutti, chiamandoli nella sua lingua, fermandosi solo quando non li riconosceva. Alcuni glieli indicasti proprio tu e, forte di questo gioco, imparasti anche qualcos’altro. 
La sua paura era totalmente dimenticata.
Mentre vi stavate divertendo la Lady vi si avvicinò e vi interruppe: «Vedo che alla bambina piace volare, adesso». Costatò con voce sorridente e voi due smetteste per girarvi a guardarla. «Oh, sì», rispondesti, «era solo spaventata perché era la prima volta che volava, ma adesso va tutto bene».
«Ne sono lieta, mi avete molto divertito con questo spettacolino, sapete? Mi avete riportata indietro nel tempo», tergiversò la mora. Gli occhi violacei persi in chissà quale ricordo. Poi si rinvenne: «Stiamo per sorvolare il Flegetonte, vi consiglio di osservare attentamente tutto ciò che vedrete dalle Colonne d’Eracle in poi».
«Le Colonne d’Eracle?»
«Li chiamano così quei due promontori che delimitano quest’affluente del Cocito». Spiegò la mora appoggiandosi a sua volta al parapetto. La bella, delicata mano dalle unghie curate poggiate sul legno d’ebano. Presto, li vedesti anche tu i monti triangolari di cui parlava. Ed erano neri, interamente anneriti, come se fossero stati costituiti di lava vulcanica. E, più in là il vapore che saliva dal Fiume delle Fiamme. E i colori rosseggianti del magma fuso illuminavano e dipingevano tanto le rocce frastagliate di diversa lunghezza, quanto il cielo, in un macabro riflesso.
Sotto di voi vedeste il punto dove il Flegetonte e il Cocito si univano creando sorgenti d’acqua termale, geyser, solfatare e i vari rigagnoli di magma che andavano a infiltrarsi in un terreno, diramandosi come bronchioli in un polmone, fino a scomparire sotto la terra aspra. Vedesti i vari camini da cui il Flegetonte eruttava le sue piene e vari crateri. Vedeste le croste più scure, segno della lava che si era raffreddata con le ultime piogge (anche negli Inferi pioveva, ma questo l’avevi scoperto solo dopo che eri finito sotto un acquazzone). Qui e là formavano delle vere e proprie pianure se non ponti e gole, dove il Flegetonte si era asciutto.
E continuaste a sorvolare la zona tanto bella quanto perigliosa, fino a raggiungere il Lago di Lava. Cioè il Cratere centrale più grande di tutti gli altri, che ti lasciò a bocca aperta. Anche per il calore che arrivava prepotentemente fino quassù, anche se sopportabile. Ti sembrò quasi di essere in estate per questa calura.
Anche se il tuo Cosmo bastò a schermarti raffreddandoti.  
Fianna si strinse a te guardandolo preoccupata e tu ricambiasti la stretta, strofinando la mano sulle sue scapole.   
«Come vi sembra?» Domandò la Sacerdotessa del Dio dell’Oltretomba mentre sorvolavate finalmente il Flegetonte, sfruttando l’altitudine e il fumo e i vapori come copertura. Persino Specter e Skeleton e drappello si erano zittiti. Chetati dalla necessità.
«É straordinario; è anche terribile, certo, ma è straordinario, non credevo che gli Inferi fossero tanto estesi e tanto suggestivi».
La donna sollevò gli angoli della bella bocca. Lei a differenza di te, il caldo lo sentiva bene, eppure, non versava una goccia di sudore. Era il ritratto della serenità, come se quest’afa non fosse altro che una brezzolina primaverile: «Suggestivi è la parola adatta, Aquarius, suppongo che vi starete chiedendo perché vi ho voluto qui con me in questo giro d’ispezione. L’idea me l’ha data un vostro connazionale, un certo Napoleone Bonaparte. In questi anni ho studiato molto le strategie militari e, quando sono stata richiamata in servizio, ho pensato di applicarle anche agli Inferi. Devo dire che finora ha funzionato molto bene, anche se il vostro contributo degli ultimi tempi è stato fondamentale, soprattutto per la mappa degli Azoni che mi è stata recapitata assieme al suggerimento di risvegliare e riconquistare gli Inferi. Era un trucco che non era mai stato usato prima, lo ammetto io stessa. Neanche immaginavo che si potesse fare e sono lieta di averlo saputo. I Black Saint hanno perso terreno e, in questo preciso istante, la morsa è stretta su di loro. Sì, il vostro collega della Quarta Casa e il Drago Rosso con il loro esercito sono arrivati pochi giorni fa. Mi è giunta la notizia da Flegiàs del Licaone. Pensavo che vi avrebbe fatto piacere saperlo».
«Vi ringrazio, milady». Facesti con un elegante cenno del capo, ma ancora non avevi intuito dove volesse andare a parare.
La donna, che quel giorno indossava alcuni fiori di stoffa colorati tra i capelli, appoggiò entrambi i gomiti alla balaustra. Il manico del tridente ben stretto nella piega tra avambraccio e gomito. «Come vi ho già accennato prima, Napoleone Bonaparte è la mia fonte d’ispirazione principale. È un peccato che fosse cristiano, mi sarebbe piaciuto conoscere di persona quel genio strategico. Per fortuna ci sono i documentari e le sue biografie. Concordo con lui sotto molti aspetti bellici, soprattutto lo studio del territorio. Conosci il tuo territorio e vincerai la guerra, l’errore di Napoleone fu di non calcolare un piccolo appezzamento di terra per la battaglia di Waterloo. Ma io non lo farò. E, ho anche deciso di apportare una piccola modifica alla strategia. Ossia di condividerla con voi. In quanto custode del Cocito, potrebbe farvi comodo osservare l’ultimo e più selvaggio Fiume Vivente dell’Oltretomba».
«Fiume Vivente?»
«Avete capito bene. Non è un caso che ci siano stati indicati questi fiumi da riconquistare, non sono semplici territori e Prigioni, sono veri e propri esseri viventi. I fiumi anticamente erano le ninfe Oceanine, le tremila figlie di Oceano e di Teti. Senza di loro, gli Inferi non sarebbero tali, anche senza il Cosmo di Hades».
«Ma anche quelle erano scomparse».
«Si erano solo spostate, nell’attesa che il mio Signore ricostituisse gli Inferi. Risvegliare questi fiumi non è un’impresa da poco e, il Flegetonte è il più selvaggio e pericoloso di tutti. È da lui che nasce la lava di tutto il mondo e del Regno dei Vivi; ed è sempre da lui che attingiamo nutrimento per evitare di restare intrappolati in questi posti. Il Flegetonte è imprevedibile, lui non fa distinzione tra amici e nemici, lui se si desta spazza via tutti senza domandarsi che cosa stia succedendo ed è qui che entrate in scena voi. In quanto custode del Fiume del Ghiaccio Eterno, potete richiamare a voi quella forza e arginarlo, permettendoci così di salvarci».
«Capisco, ma non so se ne sono capace…» Non potesti finire la frase che lei t’interruppe volgendo il volto verso di te, un sorriso divertito dipinto in faccia: «Ma certo che lo siete, non fate il finto modesto, il Cocito non avrebbe mai risposto al vostro richiamo se non foste stato degno e capace di controllare il suo potere. Non è da tutti essere scelti da un Fiume per esserne il Custode, è una grande responsabilità. Come non è da tutti essere accolto dalle tribù Celtiche ed essere venerati da loro come un druido; è anche per merito vostro che i Celti e i Pitti continuano a combattere insieme a noi. Vi devono amare molto, ed è una cosa ammirevole, conquistarsi il rispetto di un popolo intero.» ti elogiò.
Poi tornò a guardare il paesaggio e ti indicò le varie baie e le insenature, i punti strategici e anfratti. C’era persino una cascata di lava. Anche tu provasti a proporle delle strategie.
Solo dopo ti accorgesti che molti Specter e Skeleton presenti anche sulle altre navi stavano scattando foto con l’ausilio di Polaroid (raccogliendo immediatamente le foto stampate onde evitare che volassero via) e, girando filmati con i loro cellulari ultimo modello. Facendo attenzione a non lasciarseli sfuggire e cadere.
Un paio di volte entraste in dei vuoti d’aria che fecero sì che Fianna si aggrappasse a te per lo spavento e voi alla balaustra. Anche gli altri ne risentirono, però furono abbastanza lesti da evitare di perdere i loro apparecchi e farvi scoprire.
Sarebbe stato un bel disastro se ciò fosse accaduto.
Così uno dei tanti misteri delle sue strategie si era risolto. «Avete delle idee davvero interessanti, Aquarius, non per niente eravate uno dell’élite del Grande Tempio. Questo è un lato dei Cavalieri d’Atena che non si vede spesso». Si complimentò, ma si capiva che, oltre alla sua sorpresa e all’ammirazione c’era un monito per sé stessa di stare attenta. Per la prima volta dopo decadi riusciva a comprendere quanto poteste essere effettivamente pericolosi anche voialtri. E, la sua era solo la costatazione di un fatto.
«Grazie, milady». Ripetesti.
Mille domande e altre strategie si affollarono nella tua mente, ma più di tutte c’era la sorpresa. Non credevi che il Cocito ti avesse riconosciuto alla stregua di un padrone. Prima che però potesti esternarglielo, lei glissò su un altro argomento: «Perché non mi avete detto dei soprusi che state subendo a causa di Aiacos?» Domandò guardando fisso davanti a sé. I capelli e le vesti smossi dalla corrente d’aria.
Beccato.
«Mia Signora, mi scuso profondamente ma…» Iniziasti imbarazzato però la donna t’interruppe nuovamente, in tono perentorio, allargando le mani sulla balaustra e raddrizzando la schiena: «Non tollero che gli Specter abbiano comportamenti ingiusti nei confronti degli Spiriti, chiunque essi siano. La misericordia del Sommo Hades si vede anche in questo e, anche il rispetto del Patto che abbiamo stipulato con tanta fatica; benché meno adesso, che abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile per vincere questa guerra. Vi esorto a riferirmi d’ora innanzi ogni cosa, ogni più piccolo screzio che le Armate del Sotterraneo Oscuro vi arrecheranno, sicché io possa prendere provvedimenti. La situazione è ancora molto delicata e non possiamo permetterci errori e sgarbi tra di noi; dobbiamo essere uniti e compatti come non mai, dobbiamo essere una cosa sola, a prescindere dai colori delle nostre Sacre Vestigia. Siete un uomo ragionevole, Camus di Aquarius e siete coraggioso, non deludetemi lasciandomi d’intendere che vi sentite ferito solo perché vi offro il nostro sostegno». Concluse gettandoti uno sguardo.
«Non è per arrecare fastidio a me stesso o a voi che ve l’ho tenuto nascosto, mia Signora; non è neanche per orgoglio è solo che credevo che…» Che non le sarebbe importato niente. Anzi, che fosse stata lei a ordinare il tuo continuo pestaggio.
«Non so come vi abbia abituati Atena, ma questi sono gli Inferi e non posso permettermi colpi di testa e polarizzazioni all’interno delle truppe, sono stata chiara?»
«Per me siete stata chiarissima, milady».
«Benissimo, parlerò io con Aiacos e gli altri Giudici Infernali, a me daranno ascolto».
Adesso non ne dubitavi più. Ricordavi perfettamente come fosse la vecchia Pandora che avevate affrontato durante la Guerra Sacra del Millenovecentonovanta. La ragazzina di un tempo non riusciva a farsi rispettare neanche dai Giudici Infernali e, si concedeva i suoi svaghi durante la guerra sacra. Avevi sentito dire che era stata proprio la sua passione per la musica a tradirla.
Allora non esercitava su di voi lo stretto controllo di ora. Altrimenti avrebbe scoperto in anticipo la vostra congiura a discapito degli Inferi. Avrebbe interrotto da subito l’invasione dei Bronze e il cammino di Shaka e della Divina Atena. Avrebbe anche sfruttato meglio i suoi punti di forza e interrotto gli svaghi che si era fin lì concessa. In effetti ti ricordavi che la Sacerdotessa degli Inferi fosse un’arpista molto dotata (almeno lo avevi pensato quando tornaste al Castello degli Heinstein). A te era rimasto solo l’udito, mentre a Shura era rimasto solo il gusto e a Saga era rimasta soltanto la vista. In seguito, grazie a Valentine avevi saputo della passione per la musica di Lady Pandora e anche i retroscena della loro precedente sconfitta. Se non avesse interrotto anche gli appuntamenti con il Silver Saint della Lyra forse avrebbero avuto qualche chance in più.
Ma adesso aveva l’esperienza, aveva imparato dai suoi errori e non era più quella ragazzina. Adesso, come ti aveva già detto, aveva un motivo più che valido per combattere. Hades l’aveva resuscitata per punirla, potevi solo provare a immaginare quale minaccia avesse usato per convincerla. Per un istante ti rendesti conto di quanto fosse pesante il fardello che lei, da sola, sosteneva sulle spalle da vite intere. E ne avesti pietà.
Nonostante ciò decidesti di non pensarci. Adesso era più importate pensare a questa Guerra. A discapito di tutto, sarebbe stata la battaglia decisiva. Improvvisamente la nave si addentrò in un banco di vapore e la Sacerdotessa si allontanò dalla balaustra per raggiungere l’albero maestro e, sotto quelle vele, chiudere gli occhi, reclinare leggermente il capo all’indietro e allargare le braccia.  
Inaspettatamente delle volute di vapore si allungarono delle forme umanoidi che volteggiarono verso di lei, circondandola come un turbine. Non immaginavi che il Flegetonte fosse popolato da altre creature. Dovevi immaginarlo, invece, che fossero affini al fuoco e al vapore, queste creature.
Ti chiedesti se per caso aveste respirato dei gas e steste avendo le allucinazioni; ma la voce della Specter di Behemoth, ti sussurrò: «É inutile che fai quella faccia, Cavaliere, questi sono i misteri dell’Oltretomba; non chiederti se è vero o no, rischi di spezzare l’illusione». T’irrigidisti trattenendo il fiato di colpo, mentre Fianna si lasciò sfuggire un piccolo strillo, guadagnandosi un’occhiataccia.
Le volute di nebbia che salivano sulla nave come sirene che scavalcano il parapetto.
Alcune si arrampicarono a serpentina su per i pennoni e gli alberi. 
«Non la smetterai mai di farmi prendere un colpo, vero?» Le domandasti piano, volgendo il capo a guardarla. La Specter si accomodò accanto a te con un ghigno divertito stampato in volto, prima di scuotere il capo e andarsene, avanzando indisturbata tra gli Skeleton. Anche lei fu seguita da alcuni abitanti della nebbia. Solo quando girasti di nuovo il capo ti accorgesti che attorno a voi c’erano altre figure che vi osservavano incuriosite. Ricambiasti lo sguardo e ti lasciasti toccare da queste figure impalpabili come fumo persino per te.
La Sacerdotessa smise di pregare e le guardò con occhi seri. Poi queste figure si alzarono tutte in volo tornando a essere un tutt’uno con il vapore. Quando la Sacerdotessa incrociò di nuovo il tuo sguardo, per la prima volta, appurasti che le vostre volontà erano sulla stessa lunghezza d’onda.  
La donna poi, mantenne la parola, come appurasti nei giorni immediatamente successivi. Appena fosti certo che avesse mantenuto la parola, riferisti la sua promessa anche ai Celti.
Eppure c’era qualcosa che non andava e, a fartelo notare, furono Valentine e Isaak. Fianna sembrava demoralizzata e, a niente servivano le parole di Isaak che, comunque, un po’di francese, grazie a te e a Fianna lo masticava e i bonari rimproveri di Valentine. Anche lo Specter si era affezionato alla bambina fantasma. O questo o la sua paura per le Creature doveva essere aumentata esponenzialmente, visto che insisteva per portarsela dietro molto spesso.
Sulle prime ti eri insospettito, pensavi che ci fosse qualcos’altro sotto, ma non era così. E, sia Fianna sia Valentine te lo confermarono. Addirittura Valentine minacciò di farti a pezzi se tu lo avessi infamato a quel modo ancora una volta. Già al solo sentirne parlare ti appioppò un pugno che bloccasti repentinamente. Lo Specter dell’Arpia sembrò impazzito. «Che si dica ogni cosa di me! Che si dica che io sia un mostro, che si dica che io sia malvagio, che si dica che io sia temibile e potente, ma che non si dica mai che io sia un pedofilo! Hai capito, stupido Saint? Io sono un uomo adulto e, anche se vesto una sacra Surplice, anche se servo il Signore dell’Oltretomba, resto sempre un essere umano con una morale! Io sono un custode di anime, il mio compito è farle spurgare, non torturarle e approfittarmi della loro debolezza! Io non sono un mostro, non fino a questi punti!» Sottolineava ogni frase con un colpo e, così, fu inevitabile per voi, spostarvi nella piccola arena dei tornei con un balzo.
Tu non avesti altra scelta che bloccarlo e difenderti. Sicché ti ritrovasti a osservare quegli occhi furibondi e quella bocca piegata in un ringhio.
Non immaginavi che fosse un tasto tanto dolente per lo Specter. Ma, da questa reazione, capisti di aver esagerato. Provasti a rimediare porgendogli le tue sentite e spaventate scuse, ma il secondo in comando di Rhadamantys si liberò e balzò via. Poi tese un dito verso di te e urlò: «Non me ne faccio niente delle tue scuse, come non m’importa niente di quella stupida mocciosa! Tu hai infangato il mio nome e il mio onore, devi pagare, Greed the Live!» E decine e decine di micidiali raggi luminosi fuoriuscirono dai suoi artigli tesi verso di te. Ti proteggesti la testa con le braccia e congelasti gli atomi dinanzi a te per creare una lente. Mai mossa più sbagliata, perché non erano banali raggi luminosi, ma vere e proprie lame di luce come l’Excalibur di Shura. Che fecero a pezzi il ghiaccio in pochissimo tempo, strappandoti dei gemiti di sorpresa e, poi di dolore, quando una lama ti ferì a un braccio. Da quel momento in poi ti difendesti, mentre qualche avventore si sedeva sulle gradinate della cengia e cominciava a fare il tifo.
Ma questo non era un semplice scontro, qui vi stavate menando per davvero. E, la tua preoccupazione maggiore erano gli spettatori. Ordinaria amministrazione, ma Valentine non era stupido. Anche lui era stato forgiato dal ghiaccio, quindi i suoi colpi, le basse temperature, non gli dicevano niente. Ne avesti la certezza dopo averlo imprigionato nella bara di ghiaccio senza sortire alcun risultato, perché la spaccò senza l’ausilio della spada di Libra. «Lo hai dimenticato, Camus? Io sono lo Specter a Guardia del Cocito!» Ma, prima che potesse dimostrarti la sua forza, foste richiamati entrambi da una voce furibonda: «Che cosa sta succedendo qui?» Entrambi giraste la testa verso gli spalti e vedeste Rhadamantys della Viverna in piedi e con le braccia incrociate.
«Sommo Rhadamantys!» Esclamò lo Specter dell’Arpia.
«Aquarius, Valentine, mi auguro che abbiate un buon motivo per scontrarvi nell’arena senza preavviso alcuno e rischiando di rivelare la nostra posizione ai nemici! Vi ricordo che ci separa solo la prima falda del Flegetonte, non un’intera catena montuosa larga chilometri su chilometri, ed è l’unico motivo per cui non vi faccio a pezzi con il mio Cosmo!» Sbottò lo Specter.
Valentine si prostrò: «Mi dispiace sommo Rhadamantys, sono desolato, non ho pensato…»
Ma fu interrotto dal balzo che il suo superiore spiccò e atterrò davanti a voi, aprendo una piccola depressione nel terreno. Tu e Valentine arretraste istintivamente di un passo. Lo Specter si rialzò e trapassò con lo sguardo il suo secondo: «Taci e sparisci! In quanto a te, che non si ripetano mai più scenate del genere». Non replicasti, ti limitasti soltanto a chiudere gli occhi, mantenendo la tua espressione severa. Anche se dava l’impressione che tu stessi giudicando la situazione come incresciosa, invece che ammettere che il Giudice, aveva ragione.
«Ora tornate alle vostre occupazioni e che non si ripetano mai più scene simili!» Sbraitò la Viverna.
La piccola folla a quell’ordine si disperse e tu apristi gli occhi. Vedesti Valentine scoccarti un’occhiataccia mentre se ne andava.
Quando ti girasti vedesti la piccola Fianna guardarti con il visino piegato in una smorfia di dispiacere. Ma quando provasti ad avvicinarti, lei scappò via.
Quella sera, mentre ti medicavi le ferite in via di guarigione che Aiacos ti aveva procurato, scambiasti due chiacchiere con Isaak.
«A che punto procedono i preparativi?» Anche lui, lavorava in una sezione di ex Marine capitanati da una donna di nome Anfitrite; che era l’equivalente sottomarina di Pandora. Isaak la descriveva come una donna di grande bellezza che, anche nella morte, conservava la sua fierezza e le sue sembianze. Girava voce che, persino Kanon di Gemini (ai tempi di Sea Dragon) la volesse dalla sua parte, invece che ucciderla.
Erano, infatti, i Marine, i Cavalieri Sirena e i Blue Warrior periti precedentemente al rapimento della Divina da parte di Julian Solo e dopo l’invasione dei Bronze, a presidiare i confini dei fiumi riconquistati. Anche se molti dei compagni d’arme di Isaak erano sotto al controllo di Don Avido, Isaak e i suoi compagni facevano del loro meglio per aiutare nella riconquista.
«Sono quasi ultimati, maestro, sono felice che il nostro aiuto dia qualche frutto, finalmente». Loro, infatti, erano stati i primi ad allearsi con Pandora per recuperare gli Inferi. Guardasti il suo riflesso nel piccolo specchio appeso al palo centrale della tenda. Aveva chinato il capo ed era tornato a concentrarsi sulla propria scale a forma di Kraken, eppure aveva tutta l’aria di voler dire qualcosa.
Di solito preferiva non parlare di fronte a Valentine, non si fidava ancora completamente degli Specter, dato che alcuni, inizialmente, avevano appoggiato don Avido. E lui, il suo periodo di prigionia lo ricordava ancora bene. «Tuttavia?» Lo incalzasti.
«Tuttavia non posso fare a meno di essere preoccupato, non solo per la guerra, ma anche per i nostri alleati; soprattutto per Fianna».    
«A proposito, ultimamente mi sembra scossa, che cos’ha?»
«Non lo so, sinceramente non ci ho fatto molto caso, ma qualsiasi cosa abbia, spero che si riprenda».
Finisti di medicarti e poi lo guardasti da sopra una spalla. «Speriamo, a proposito, dov’è? Domani dobbiamo alzarci presto».
«Ha detto che usciva ma era strana».
«Cioè?»
«Sembrava che stesse officiando un rito, più che strana come lo intendiamo noi».
«Un rito?»
«Bè, sì, ho accumulato un po’di esperienza in queste decadi e ho imparato a riconoscere la stranezza mistica da una che non lo è».
«Quindi lei non sta officiando un rito».
«Così sembrerebbe, ma che rito? Non mi risulta che siamo vicini a una qualche festività della sua gente». Che ormai ti eri abituato anche a questo e ti eri informato onde evitare strani coinvolgimenti. Isaak aggiunse che non ricordava nessun rito celtico che somigliasse a una partenza con tanto di fagotto. Appena lo disse vi guardaste spaventati. Avevate un brutto presentimento, per quale motivo Fianna avrebbe dovuto partire senza alcun preavviso? E per andare dove? Lei non aveva mai mostrato di credere in Lady Viviana e quella sciocca credenza che aveva portato i suoi Dèi alla morte.
Ti alzasti dal tuo giaciglio e uscisti. «Dove andate, maestro?»
«Vado a cercare Fianna».
«Aspettatemi, vengo con voi».
Frugaste l’accampamento in lungo e in largo e, fosti persino costretto a dire a Valentine che la ragazzina era sparita. Appena lo dicesti, lo Specter, che ti aveva già voltato le spalle, s’irrigidì e domandò, con voce preoccupata: «Dov’è andata?»
«Non lo sappiamo».
«Accidenti, quella mocciosa rischia di farci scoprire». Decretò prima di scattare a sua volta. Anche se non lo dava a vedere, si era molto affezionato alla bambina. Sorridesti, lieto di vedere che gli importava.
Poi tornasti a cercarla.  
Alla fine la trovasti vicino alla porta Est con un fagotto in spalla e la sua fidata lancia in mano.
«Fianna!» La chiamasti e lei sussultò prima di girarsi a guardarti: «Camus!» Esclamò stupita e ti accompagnò con lo sguardo per tutta la distanza che vi separava.
«Che cosa stai facendo? Dove stai andando?» Le domandasti, preoccupato e lei ti raccontò tutto. La sua gente l’aveva bandita dalla comunità da quando ti aveva spedito Aiacos alle calcagna. Secondo Lady Viviana, Fianna era portatrice di sfortune ed era stata allontanata se non voleva essere uccisa. Disse anche che aveva provato a dirvelo ma che, all’ultimo, aveva desistito a causa della vergogna e della paura. E, che alla fine aveva deciso di lasciarvi anche per evitare che tu lanciassi una maledizione sulle loro teste.
Tu ascoltasti tutto questo incredulo. Maledizioni? Da quando in qua le sapevi lanciare? Per farlo occorreva usare la magia e tu non sapevi neanche da che parte cominciare. 
Eri talmente basito che per poco non ti accorgesti che ti aveva voltato le spalle e stava guadagnando la porta. «No, Fianna!» Esclamasti mentre la bambina ti lanciava un ultimo sorriso di scuse e  si allontanava. Allungasti una mano e gliela posasti sulla spalla, fermandola. «Non se ne parla neanche». Dichiarasti.
«Camus?» Ti chiamò preoccupata senza capire, girandosi di tre quarti verso di te. Ripetesti ciò che avevi detto e vedesti i suoi occhi inumidirsi di lacrime. Stringesti la presa sulla sua spalla come a rimarcare il concetto.
«Ma io… io devo pagare, io ho messo in pericolo mio popolo e tu». Spiegò allora, guardandoti con occhi lucidi e impaurita. In effetti la coesione che avevano mostrato davanti ad Aiacos era pericolosa per loro. Che erano come fumo per lo Specter. 
«No, non l’hai fatto, la colpa è stata mia che me ne sono andato senza dire niente a nessuno. Tu hai sfruttato Aiacos per cercarmi perché eri preoccupata; non potevi immaginare che avesse un conto in sospeso con me e che arrivasse a tanto pur di saldarlo. Ma non maledirò mai né te né il tuo popolo per tutto ciò che avete fatto per aiutarmi. E poi, io non so usare la magia, so usare il Cosmo, che è una cosa completamente diversa».
«Ma le Sacerdotesse…» Balbettò.
«Ci parlerò io con loro». Promettesti convinto. 
Le lacrime presero a solcare il volto della dodicenne che si mordeva il labbro per non lasciarsi sfuggire alcun gemito. Poi non ce la fece più e ti gettò le braccia al collo urlando il tuo nome. Pianse nel tuo abbraccio, come la bambina che era in realtà. Non eri riuscito a salvare Isaak quando eravate vivi, ma almeno lei potevi farlo. Non avresti mai permesso che le facessero del male.
«Oh, ecco dov’era la pulce». Fece Valentine sarcastico quando vi raggiunse. Scioglieste l’abbraccio e lei si tenne comunque vicina a te, guardando intimorita lo Specter. Si portò le mani ai fianchi cinti dalla Surplice e continuò, in tono burbero. «E via, non piangere così, dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per cercarti, su adesso andiamo a dormire che sto cascando dal sonno». Le posò una mano sulla testa e le scompigliò i capelli rossi, facendola sorridere, mentre si detergeva le ultime lacrime.
Quella sera che passaste insieme a ridere e scherzare tra voi come foste solo dei ragazzi normali e non dei guerrieri, fu una delle più belle che viveste. Aveste avuto anche dei cuscini degni di tale nome, probabilmente Isaak l’avrebbe gettato in faccia a Valentine.
E, quando vi metteste a dormire, vedesti Fianna addormentarsi con un bel sorriso sulle labbra. 
L’indomani mattina, subito dopo colazione ti recasti al consiglio delle Sacerdotesse e i Druidi di Avalon. Avevano appena finito di concedere udienza a principi e cavalieri quando entrasti tu nella tenda.
Se al solo udire che Fianna non se ne era andata si rabbuiarono, al sentire il motivo della tua richiesta si incupirono. Tuttavia, se sulle prime rifiutarono di spiegarsi, poi ti accontentarono. Per un affronto grande come quello che ti era stato arrecato, la Dea esigeva un tributo. Il malcapitato poteva richiedere tale tributo, che, se non veniva riscosso, poteva tramutarsi in una maledizione. Onde preservare Fianna (che scusa tremenda per giustificare l’esilio), l’avevano mandata via.
Così proclamò una delle Sacerdotesse sedute a fianco di Lady Viviana, la donna cui rispondeva direttamente Lady Niniane. Costei aveva lunghi capelli neri intrecciati con dei fiori e dei gioielli, freddi occhi neri ed era abbigliata d’azzurro. La mezzaluna blu capeggiava sulla sua fronte scoperta, in netto contrasto con le labbra sottili pittate di rosso.
Costei si alzò dallo scranno centrale. Le ricche vesti e i gioielli però, non contribuirono affatto a farla sembrare più imponente, più bella o regale. Aveva charme e lo stava usando, si vedeva, ma non ti interessava mescolarti a lei. Gli Specter a guardia del Cocito, ti avevano detto che era stato soprattutto a causa sua che i Celti erano stati condannati all’eterna tortura dei Deicidi. Perché fu la Sacerdotessa di Avalon a dichiarare di essere la Dea, sostituendosi di fatto a essa. Forse credendo di emulare le fanciulle in cui si incarnava la Divina Atena. Solo che Lady Viviana era il ricettacolo di una semplice anima umana. Perciò, quella a cui si aggrappava ostinatamente, era la blasfemia più grande che fu mai proferita da un mortale. Non immaginavi che questa donna fosse assetata di potere a tal punto. Al punto da decidere di condannare una bambina.
«Quella bambina era destinata a essere una Sacerdotessa. Ha rifiutato gli insegnamenti che le sono stati impartiti e ha ricevuto la sua giusta punizione». Ribatté la donna assottigliando gli occhi.
Ti tornarono in mente le parole di Valentine a proposito d Fianna “Quella ragazzina è una guerriera, è morta a dodici anni per ciò in cui credeva, ma la sua Signora se ne è accorta e l’ha fatta uccidere come punizione”. Avevi chiesto il motivo e Valentine te l’aveva rivelato con un inquietante sorriso.  Poi, ti aveva detto come l’aveva uccisa, cioè, facendola decapitare con l’accusa di blasfemia. «Quella bambina ha capito che ciò che usciva dalle vostre labbra era una bugia, ancor prima dei vostri sottoposti. Voi non siete una Dea». Replicasti, accendendo la sala. Qualcuno scattò in piedi e ti accusò, altri ti spalleggiarono e altri domandarono alla Signora se fosse vero e di cosa stessi parlando.
La donna li zittì tutti. «Ciò che dice quella bambina è una blasfemia, l’abbiamo sempre saputo tutti; non dobbiamo prestare ascolto alle malelingue. Ricordate tutti come già secoli prima cercò di annebbiare le coscienze di tutti noi? Come cercò di togliermi la Divinità che io sono da sempre? Io che rinasco in mezzo a voi per guidarvi e proteggervi, mio popolo. Vogliamo davvero dare retta a una reietta assetata di potere come Fianna? Ciò che feci ai tempi fu un sacrificio doloroso ma necessario, non avrei mai voluto inaugurare il mio regno uccidendo colei con cui crebbi e condivisi buona parte della mia vita precedente».
Battesti le palpebre stordito dall’ironia e dalla gestualità della donna. Ora capivi come mai i Celti le dessero tanto spago: era veramente abile con le parole, per quanto mediocre musicista fosse. «Signori, mio popolo, mi rimetto al vostro giudizio, vogliamo davvero permettere che una giovane torni a camminare in mezzo a noi, a officiare i riti con noi e a dividere il letto e la mensa con tutti noi, senza che non abbia espiato il suo peccato?»
Un Druido rispose che la parola della Dea era legge e che, neanche tu, che pure fosti insignito dei serpenti per la tua “magia dell’Acqua”, potevi opporti al volere della Signora. Lo fulminasti con lo sguardo. Ma si rendeva conto di ciò che diceva?
Un bardo si azzardò a dire che «Eppure, è stato proprio grazie a Fianna che il Mago dell’Acqua si è unito a noi e combatte insieme a noi; questo non va negato; come neanche che è da quando è morta che ha sempre combattuto per proteggerci».
«Fianna sta cercando di espiare le proprie colpe, ma non è ancora sufficiente». Ribatté con malcelato disprezzo nella voce, la donna che si era di nuovo assisa sul suo scranno intarsiato. Poi ti guardò e commentò: «Eppure costui sembra crederci. È un vero peccato che abbia deciso di schierarsi dalla parte sbagliata; abbiamo fatto di tutto per farvi conoscere la bellezza della nostra civiltà eppure tendete ancora a isolarvi e a non integrarvi, a preferire la compagnia di quella traditrice che la nostra». Sospirò scuotendo la testa con rammarico.
Dovevi stare attento a non ascoltarlo, la sua voce era dolce e piena di sentimento, ti ricordava il miele, in un certo senso. Ti riscuotesti dal vago incanto per rispondere: «Qui non si tratta di blasfemie e colpe, qui si parla di costringere una bambina di appena dodici anni all’esilio per un vostro capriccio. Lo capite questo, vero?»
Lo sguardo di Viviana si tinse di compassione: «Voi siete stato accolto nella nostra comunità, ma non mi aspetto che ci comprendiate».
Niente da fare, la Sovrana di Avalon era veramente spietata. Dovevi trovare in fretta un’altra strada. Mentre un bardo interloquiva per te, tu cercasti delle soluzioni. A un tratto avesti un’idea. Era rischiosa ma dovevi giocartela bene. «No, non vi comprendo, io sono nato parecchi secoli dopo di voi e non vi capirò mai. Io so solo che avete bisogno di me. E, Fianna è l’unico collegamento veramente stretto che avete. Se lei se ne va, me ne vado anch’io e potrete scordarvi il mio aiuto e l’acqua che usate per lavare le vostre ferite e nutrire le vostre coltivazioni». Li minacciasti bluffando. Fosti così convincente che l’intera sala ammutolì. Per un momento temesti di essere liquidato con un: “Non importa, ne troveremo un altro” e, allora continuasti asserendo che «É grazie a Fianna che combatto insieme a voi ed è grazie a me che voi non siete più vessati dagli Specter. Lo avete dimenticato, questo?»
«Ma anche voi siete stato vessato perché quella ragazzina ve ne ha spedito uno alle calcagna».
Commentò un principe seduto su una delle panche di legno. I cani che sonnecchiavano ai suoi piedi. Lo guardasti e rispondesti: «Era solo preoccupata per me, le avevo promesso che sarei stato via tre giorni e invece era già passata quasi una settimana; avrei fatto la stessa cosa anch’io, se fossi stato nei suoi panni. É vero che ha mandato uno Specter a cercarmi, ma il motivo per cui questo Specter mi vessava è completamente diverso e non c’entra niente con la bambina». Facesti poi, rivolto a tutta la sala.
Per Fianna, ti eri accorto e, sapevi perché, eri alla stregua di un padre e, tu ti eri affezionato a lei. La tenevi sullo stesso piano di Isaak, Hyoga e Natasha. In lei rivedevi Hyoga quando era piccolo e aveva da poco perso la madre. Anche se i primi giorni della vostra convivenza non erano stati facili a causa del lutto, quel ragazzo lo avevi cresciuto tu. Lo stesso ti sembrava di fare adesso con lei. E, visto che avevi già fatto esperienza in materia con Hyoga, adesso sapevi come trattare anche ragazzini come Fianna. Non era così difficile come poteva sembrare.
E, di questo, Viviana era gelosa e aveva frainteso tutto.         
Sapevi che se avesse potuto l’avrebbe fatta uccidere un’altra volta, pur di avere i tuoi servigi e la tua fedeltà. Però era anche vero che ti teneva in grande considerazione; al punto di chiederti di unirsi a lei nelle celebrazioni di Beltane e di partecipare con lei ai riti della Luna piena. Ma tu avevi sempre rifiutato.
Nel tempo successivo, dovesti ricorrere a tutta la tua dialettica per riuscire a convincerli che la ragazzina aveva agito in buona fede e che era solo giovane. Alla fine eri riuscito a convincerli e a evitare un linciaggio.
Alla fine Lady Viviana si era arresa e si vide costretta a porgerti le sue scuse per questo malinteso. Le parole dietro cui ogni politico si rifugiava sempre per pararsi il posteriore.
In segno di perdono ti richiesero, pertanto di rinnovare il vostro legame d’alleanza e amicizia. Ciò che avevi da sempre concesso a questi fantasmi. Non eri stato stupido, avevi capito da un pezzo che in realtà stavano cercando di controllarti. Sapevano che tu non eri facile da controllare, ti avevano visto combattere e ti temevamo. Ma se potevi sfruttare almeno un po’questo loro timore reverenziale allora lo avresti fatto. Ti eri limitato a ricordare loro che tu restavi comunque uno dei Guardiani del Cocito e che non era saggio disobbedire al tuo volere. Avevi sentito queste parole estranee alla tua stessa lingua, mentre le pronunciavi. L’importante era che ci cascassero. E, fortunatamente fu così. Avevi ancora un certo ascendente, se cancellavi dal tuo volto, quelle poche, discrete espressioni che manifestavi. Le Sacerdotesse cercarono di rimediare promettendoti che non avrebbero scacciato Fianna. Le trapassasti con lo sguardo  incrociando le braccia, prima di acconsentire, ma non avresti perso di vista la bambina neanche un istante. In cambio promettesti una buona parola per loro con Hades per rimmetterli nel ciclo delle reincarnazioni. A questa promessa le donne e gli uomini presenti sgranarono gli occhi e ti chiesero se l’avessi fatto davvero. Tu annuisti.
Avevi appena finito di conferire con le Sacerdotesse e i Druidi di Avalon. Uscisti dalla tenda più leggero. Fuori della tenda ti aspettavano Valentine, Isaac e la piccola Fianna.
«Com’è andata?» Domandò Valentine.
«Bene».
Ma l’Arpia non si lasciò ingannare «Mh, non mi fiderei troppo della tribù di Lady Niniane, quella donna è subdola. Qualcosa mi dice che ci nascondi qualcosa».
«Non davanti alla bambina». Lo ammonisti in greco. Questo non l’avevi ancora insegnato alla piccola celta. Lo Specter recepì il messaggio e si accigliò per lanciarti un’occhiata fulminante.  
In questo frangente ti fidavi più del tuo allievo che dell’altro ex guardiano del Cocito. In fondo, lui era pur sempre uno Specter. Non potevi fidarti completamente; se i suoi superiori gli ordinavano di uccidere Fianna lui non poteva esimersi dall’obbedire. 
«Isaak, portala alla tenda e falla riposare, ha avuto una giornataccia». Facesti poi al tuo allievo, il quale annuì, prese per mano Fianna. «Ma tu vieni?» Ti chiese lei, preoccupata, guardandoti.
«Sì, tra poco, adesso devo dire una cosa importante allo zio Valentine e poi veniamo».
Fianna si rilassò e si lasciò portare via dal tuo allievo, che cominciò a chiacchierare con lei in greco, attirando subito la sua attenzione. E il suo sguardo perplesso. 
Quando furono abbastanza lontani e la folla copriva le loro voci, Valentine fece per chiederti spiegazioni. Stavi per rispondere quando ti sentisti chiamare. Ti girasti e vedesti una coppia di Skeleton. Uno dei due parlò: «Aquarius, il Sommo Rhadamantys desidera vedervi al Padiglione della Caina». Riferì lo Skeleton a sinistra. 
Guardasti il tuo alleato. «Pare che mi vogliano altrove», proferisti a mo’di scuse. 
«Così sembra». Ribatté l’Arpia con un tono fintamente calmo, scoccandogli un’occhiata scocciata. Se c’era una cosa che l’Arpia detestava oltre a sentirsi dire che era secondo al suo superiore in fatto di Cosmo, era essere interrotto.
«Ne parliamo dopo», promettesti e lui annuì, prima di lasciarti solo in compagnia degli Skeleton che ti fecero strada fino al Padiglione della Viverna. Ma che cosa voleva Rhadamantys da te? Informazioni su Lady Asia e gli Azoni, forse? No, non era possibile. Allora sul Flegetonte? No, lui era stato chiamato subito dalla Sacerdotessa appena sbarcati e tutti gli Specter più i capi degli alleati e i loro generali si erano riuniti per mettere a punto la strategia.
Allora era sul Santuario. No, neanche quello. Qualcosa ti diceva che non volesse sapere questo. Proprio non riuscivi a capire cosa fosse ed eri pure stanco.
Raggiungeste la zona di Rhadamantys e gli Skeleton ti scortarono al padiglione del Giudice Infernale. Non eri mai stato in quella zona e, la sera prima non avevi certo osservato il paesaggio circostante, ma ora sì.
Si fermarono dinanzi a un’ampia tenda di quelle che si vedevano nei film ambientati nel deserto, completamente nera sulla cui sommità spiccava lo stendardo della Caina. Uno degli Skeleton sollevò un lembo della tenda per permetterti di entrare.
Sentisti la voce della Viverna parlare come se ci fosse qualcun altro. Anche se era seduto a una scrivania resolute e indossava la Surplice. Stava controllando dei documenti. Alle sue spalle c’era una mappa aggiornata degli Inferi. In piedi alla sua sinistra una velata cui passò dei documenti e che, costei ripose al sicuro in un baule.
«Volevate vedermi?» Domandasti senza troppi giri di parole.
Solo allora la Viverna si fermò e sollevò il volto per trapassarti coi suoi occhi. Non potesti fare a meno di pensare che aveva seriamente bisogno di spinzettare le sopracciglia. Faceva tutt’un altro effetto senza l’elmo della Surplice indosso. Ora che ci pensavi, era la prima volta che lo vedevi a testa scoperta. Non immaginavi che fosse biondo anche lui, non ti era mai importato. 
Il Giudice Infernale si alzò in piedi per salutarti educatamente e commentò, guardandoti: «Giusto in tempo, vieni avanti, avvicinati; stavo giusto dicendo alla nostra ospite che, chissà se due cervelli come i vostri, non riescano a produrre una soluzione utile». E tu ti accigliasti. Avresti anche pensato “Di che diavolo sta parlando?” se non avessi già sentito il rumore che ti fece girare il volto verso la terza figura sulla sedia poco oltre il tuo campo visivo. Sgranasti gli occhi a quella visione. Eri talmente sconvolto che per poco non incespicasti.
Lei stessa spalancò i suoi occhi gialli e trattenne il fiato rumorosamente. Poi si alzò in piedi e fece tre passi avanti prima di fermarsi, fissandoti incredula mentre avanzavi. Soltanto quando ti fermasti a un metro da loro, lei riuscì a richiudere la bocca.
Quella ragazza non poteva essere reale, cioè, non avvertivi in lei neanche un barlume di Cosmo.
“Quando è successo? Che scherzo è mai questo?” Pensasti. Perché non avevi avvertito anche il suo Cosmo arrivando qui? Ah, forse era uno spirito, per questo non riuscivi a percepirglielo.
Senza che ne fosti consapevole, cominciasti ad aprire e chiudere la bocca cercando di articolare un discorso, senza successo. Che buffo, sembravi il suo riflesso. 
Solo allora lo Specter della Viverna vi trasse dallo stato di trance: «Bene, immagino abbiate molte cose di cui parlare, vi lascio soli». Indossò l’elmo, vi augurò buon lavoro in tono beffardo e poi se ne andò. Lo seguiste con lo sguardo finché non uscì, solo quando fu scomparso tornaste a guardarvi, perfettamente in sincrono.
«É… come guardarsi allo specchio, in un certo senso». Le uscì. Aveva una voce delicata ma con un buffo accento straniero che spezzava un po’il suo greco. «In un certo senso», replicasti. Anche il tuo greco non era sufficiente a mascherare il tuo accento francese. Concordasti con lei, la differenza era che tu eri sul metro e ottantaquattro, mentre lei era più bassa di sette centimetri. Tuttavia lei non portava il tuo stesso taglio di capelli, né aveva le sopracciglia biforcute. In compenso ricordava un raggio di sole intrappolato nelle tenebre. Questo ti suscitò il netto distacco tra i colori chiari della sua persona e il lucido abito nero alla Morticia Addams, con tanto di maniche a pipistrello che indossava. 
Ti sembrò molto colpita e tu non capisti perché. Ma tutto era sconvolgente, non era come guardarsi allo specchio cioè, sembravate gemelli. Restaste a fissarvi mentre l’imbarazzo e la curiosità si facevano palpabili tra voi. Decise di spezzare la tensione abbozzando un sorriso e tendendo la mano per presentarsi: «Ciao, io sono Astrid, lieta di conoscerti». Tu ricambiasti, anche se con uno a labbra chiuse che non contagiò gli occhi. Stringesti la sua mano, un po’più piccola della tua ma decisamente più calda e, la scuotesti una volta: «Camus, piacere mio». La stretta si sciolse e tu facesti finta di non aver visto il suo goffo tentativo di nascondere il fatto che le avessi gelato le dita. Ancora una volta ti dispiacque del gelo che le permeava. Dopodiché tornasti a chiederti se fosse vera o se fosse un brutto scherzo dei tre Giudici Infernali. Se così fosse stato non ti saresti sorpreso. Ma la sua carne sotto le tue dita l’avevi sentita, sentivi la vita e il sangue in quelle vene. Proprio come con Lady Asia. Era vera ed era viva, non era un trucco. Ma chi era? Tua figlia? Com’era possibile? Eppure eri sempre stato molto attento, non che tu avessi avuto tutta questa grandissima esperienza e un curriculum di don Giovanni.  Non ce la facevi più, dovevi sapere: «Tu non sei… voglio dire, non siamo…» Iniziasti un po’spaventato all’idea di una paternità improvvisa. Lei intuì e suggerì, in tono incerto: «Parenti?»
«Quello».
«No, tranquillo, ci somigliamo e basta. Anche perché io sono nata nel Millenovecentonovantasette, tu in quell’anno eri già, bè…». La voce le si ruppe mentre cercava il modo adatto di dirlo senza offenderti. Adesso era come se si fossero invertiti i ruoli. Perché toccò a te suggerirle, decisamente più rilassato: «Morto?» leggermente divertito.
«Quello». Si sedette sulla sedia di pelle nera di foggia medievale e tu la imitasti, accomodandoti su quella di fronte alla sua.
Almeno questa conversazione non era imbarazzante come altre avute in passato. Però non riuscivate a smettere di guardarvi, come se i vostri sguardi si fossero incatenati. I tuoi occhi erano persi sul suo viso e nei colori luminosi delle sue iridi. Milo non ti aveva detto che avesse delle iridi tanto belle. Erano diverse da quelle di Rhadamantys. Il giallo di quelle iridi era più luminoso del suo. Proprio un’altra tonalità contornata d’oro e impreziosita da una corona d’ocra e tempestata di piccoli puntini d’ambra. Non erano occhi che passavano inosservati ed era impossibile non notarne tutti i dettagli.  Dal canto suo, lei sembrava ipnotizzata dalla distesa rossa catturata nelle tue. Ma in quel modo in cui una persona atterrita non riesce a distogliere lo sguardo dalle macchie di sangue sulla scena di un delitto. E, tu, lo sapevi di avere questo effetto alle volte. Anche Hyoga non riusciva a guardarti negli occhi per questo, da bambino, i primi tempi in Siberia.
Appianasti la tua espressione, cercando di renderla il più benevola possibile, anche se non riuscisti (e come si faceva?) a cancellare del tutto la tua curiosità. Forse parlando vi sareste cavati da questo silenzio imbarazzante per entrambi. Ti schiaristi la gola e commentasti: «É… una somiglianza molto marcata».
«Non me ne parlare, i primi tempi al Santuario mi hanno scambiato per tua figlia». Ti confidò intrecciando le mani sulle gambe e da lì in poi la conversazione proseguì senz’intoppi. 
«Vieni dal Santuario?» Domandasti allora, interessato. «Sì». A quel punto le parole che avevi cercato vennero da sole. Perché un conto era ricevere delle missive, ma un altro era essere veramente lì. Le lettere non ti bastavano per ricordarti di quel posto, di Milo, degli altri, di tutto. «Com’è laggiù? È cambiato molto da quando ero in vita? La Somma Atena è ancora viva?» Chiedesti con voce piena di nostalgia e timore. Se ti fossi lasciato andare un po’di più avresti manifestato anche il resto. Era vero che ricevevi le lettere di Milo, ma bramavi una testimonianza diretta. Lei ti accontentò, non senza risparmiarti i dettagli quando tu glielo chiedesti. Ti stupisti nel costatare quante cose ti fossi perso e, grazie al suo riassunto veloce rispose a tutte le domande che gli ponesti quasi subito. Facesti una faticaccia a non interromperla continuamente. Solo verso la fine ti guardò in un modo strano, con un luccichio nelle iridi che ravvisasti per un lampo di riconoscimento. Ma non ci desti peso più di tanto e le chiedesti della battaglia contro la Dea della Discordia. Anche lì ti accontentò, sebbene come racconto non fosse granché esaustivo, considerando tutta la trappola ordita dalla Dea. Strabuzzasti gli occhi. «Ma l’avete sconfitta?» Domandasti ostentando una preoccupazione decisamente fuori luogo, in quanto sapevi già che cosa era accaduto, sempre grazie a Milo. Ma aveva un modo di raccontare talmente trascinante che lì per lì non ci pensasti.
Si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e guardò interessata uno dei fiori sul tavolino basso alla sua destra, sembrava che stesse lottando con sé stessa. Perché? Quando ti guardò di nuovo negli occhi rispose: «Credo che sconfitta sia riduttivo, Eris è… morta». 
«Temporaneamente, non si possono uccidere gli Dèi». Le ricordasti.
«Meno male!» Sospirò di sollievo, portandosi una mano al petto come se le avessi tolto un gran peso dal cuore. «Che cosa? Perché meno male?» La rivelazione che ti fece, accrebbe ancor di più il tuo stupore, che si manifestò facendoti sgranare gli occhi. Stava scherzando? Eris era la Dea che, dopo i Titani aveva dato un mucchio di grattacapi al Santuario nell’Ottantasei? Com’era possibile che una semplice ragazzina come questa fosse riuscita dove voi tutti avevate fallito in questi decenni? Eppure non avvertivi nessun Cosmo provenire da lei! «Come hai fatto?» Le chiedesti e quest’ultima rispose chiedendoti a gesti di sorvolare: «Eh, lunga storia». 
«Sei una Saintia?» Domandasti allora, cercando d’inquadrarla all’interno della società dei Saint. Aveva un che di famigliare come persona. Troppo determinata per essere una semplice civile come poteva sembrare. Anche se non aveva lo stesso fisico allenato delle Saint. Ma lei negò dicendoti di essere solo un’ancella del Grande Tempio. «Un’ancella? Com’è possibile che un’ancella abbia sconfitto una dei nemici giurati della Dea Atena e del Santuario?»
Un luccichio accese le sue iridi quando ti rispose che: «Io non sono una semplice ancella del Tempio, sono la custode della Luce Ombrosa».
Raddrizzasti la schiena e la guardasti sospettoso: «Ne ho sentito parlare spesso ultimamente, ma nessuno mi ha mai voluto dire che cosa fosse». Mormorasti senza muovere le labbra.
La tua nuova conoscente si rabbuiò, scontenta. Le chiedesti che cosa pensasse che potesse essere e lei ti illustrò le sue teorie. Cioè che era qualcosa che avrebbe dovuto salvarvi tutti dalle Creature. E che, secondo la Viverna loro erano il motivo per cui lei era stata portata qui. Così venisti anche a sapere dello strano collegamento che c’era tra lei e le Creature. Ti confessò anche che tra le tecniche di cui disponeva per custodire questo potere, c’era anche quella di scacciarle. Proprio come un fantasma, ma voi avevate già dei fantasmi che svolgevano più che egregiamente questo compito. Allora perché darsi pena per cercare la Luce Ombrosa e chiamare la sua custode?
«Che tipo di Cosmo hai? Padroneggi le energie fredde anche tu?» T’informasti, incuriosito e, come ci restasti quando ti disse come lo chiamava. Deducesti che dovesse essere per forza affine ai lemuriani, cosmicamente parlando. Come se lei ti avesse letto nel pensiero, sembrò giungere alle tue conclusioni. Ti fece strano leggere il suo volto con sì tanta facilità, dal momento che aveva la tua stessa gamma, magari un po’ più espressiva e che, tu eri abbastanza sensibile da intuire ciò che provava.
Un sorriso comparve sulle tue labbra: «In questo sei diversa da me».   
«Sì. Mi hanno detto che tu ti intendi di fisica». Disse poi. Confermasti, avevi dovuto imparare le leggi della fisica per padroneggiare le energie fredde. Non ti saresti mai aspettato che lei ti scrutasse, anzi no, che ti analizzasse a sua volta, uscendosene con un: «Interessante, hai imparato per analogia».
«Si può dire di sì e tu?» Se fino a qui, almeno tra te e te, certi giorni ti eri vantato di essere l’unico in possesso di nozioni avanzate, dovesti ricrederti, quando lei ti raccontò che i suoi poteri erano molto simili ai tuoi. «Io studiavo astronomia, ma anche i miei sembrano essere legati alle mie conoscenze». Si guardò le mani per un secondo. Tu seguisti il suo sguardo e capisti immediatamente che per usarli, però, aveva bisogno delle mani, ma questo te lo tenesti per te. Invece, commentasti: «Un po’come le mie». 
Scosse il capo e ti corresse: «Non esattamente, tu puoi congelare le cose a distanza, io devo comunque avvicinarmi moltissimo», poi strinse le labbra e guardò di nuovo in basso.
«Davvero?»
«Purtroppo».
La osservasti un po’ prima di domandare: «Come hai scoperto di avere questo potere?»
«Anche questa è una lunga storia». E, si sentì in dovere di aggiungere fin dove si estendesse, lasciandoti confuso, molto confuso. Al punto che tu le domandassi se non era un’astrofisica e lei alzò le spalle rispondendo che non aveva mai preso la laurea. Bè, se è per questo, tu neanche avevi mai preso il diploma. «Allora cosa c’entrano la chiromanzia e l’astrologia con l’astronomia e l’astrofisica?» Domandasti, ancora confuso.
«Metà della mia famiglia è piena di astrologhi e chiromanti e l’altra metà di astronomi e astrofisici. Io sto in mezzo».
«Una scelta molto... diplomatica». Glossasti.
«Sì, si può dire così». Concordò.
«Capisco. Come ci sei arrivata al Santuario?» Le chiedesti poi. Si strinse nelle spalle, come se non amasse parlare di quest’argomento. Stavi per dirle che se non voleva era uguale ma lei parlò prima che tu potessi dirglielo. Così venisti a sapere cosa le era successo e di tutto il percorso che, fin qui aveva seguito per cercare di riprendersi. «Fisicamente parlando sono a posto. Mentalmente mi sa che non sono più la stessa per forza, da allora vivo al Santuario». Concluse parlando più a sé stessa che a te, con quest’ultima frase. Suonava come se fosse un’amara consapevolezza. 
Ti sentisti indignato per lei. «Mi dispiace». Annuì. «Come ti trovi?» Chiedesti di nuovo. Stavolta sorrise: «Molto bene, non avrei mai pensato di dirlo, ma molto bene. Mi trattano bene, anche se la metà dei Cavalieri d’Oro non mi sopporta».
«Immagino quali».
«Quali?» Domandò incuriosita inarcando le sopracciglia e tu, iniziasti a fare l’elenco, sorprendendoti delle risposte. Allora chiedesti, stupito: «No?» Scosse di nuovo la testa, sempre sorridendo: «Allora sarai sorpreso di sapere che siamo amici, anche se non lo vedo da un po’». La guardasti incuriosito. Ancora di più quando accavallò le gambe e ti fece l’elenco di quelli che non la potevano soffrire. Ti stupisti che anche alcuni dei più affabili rientrassero nella lista. Ma ora essere antipatici persino a Seiya era un record, a quel ragazzo piacevano quasi tutti. «Questo è inaspettato». Chiosasti a corto di parole. Come fu inaspettata anche l’informazione che ti dette subito dopo, ossia che Milo aveva trasformato l’Undicesima Casa in una sorta di mausoleo in tuo onore e che se ne occupava lui stesso, in assenza di Hyoga e Natasha. L’emozione sbocciò dentro di te all’altezza del cuore, che si allargò e, lo stupore, si tramutò in commozione. Non ti aspettavi di essere rimasto tanto impresso al tuo amico, anche se non vi eravate parlati moltissimo in passato, nonostante quella sensazione che vi spingeva a stare vicini. Come se, in un passato molto lontano, tu fossi stato il suo sostegno. Mentre qui era quasi il contrario. Tornasti ad ascoltare ciò che ti raccontava: «Hyoga penso che non mi perdoni questa somiglianza che c’è tra noi, Milo invece, non sopporta che qualcun altro profani Casa tua, anche se è solo per pulire, o la sua».
«Ti ha già coperta di frecciate e insulti?» Chiedesti imbarazzato.
«Oh, sì, io però ricambio. Sono quasi riuscita a rimetterlo in riga».
«Davvero? Come hai fatto?» E ti raccontò la trafila di scherzi che si erano scambiati fino a poche settimane prima. Lei li trovava divertenti, tu no. «Perché?» Domandasti con disappunto e un vago accenno di disgusto nella voce.
«Ah, allora non sono stata l’unica a beneficiare di questo trattamento. Ha cominciato lui, io mi sono solo difesa. Bè, nel suo caso, ormai siamo quasi amici o, almeno, mi piacerebbe che lo fossimo. Non è cattivo è molto impulsivo, peggio di Aiolia». Aggiunse poi. La osservasti a lungo prima di aprire bocca: «Non ho mai sentito di una persona capace di tenere testa a Milo e di farlo passare per deficiente al tempo stesso, più di quanto non faccia da solo».      
Alzò le spalle e rispose che secondo lei aveva solo bisogno di attenzioni, «Poi magari mi sbaglio. Oddio, spero che non mi si sia scagliato contro perché ti somiglio perché se no abbiamo veramente toccato il fondo». La tua espressione di risposta non le fece ben sperare. Lei ti guardò incredula. Decidesti di rompere questo silenzio di imbarazzo e consapevolezza con uno: «Speriamo. E, che mi dici degli altri? Death Mask ti tratta bene?» Era l’altra fetta di cui ti aveva parlato che ti preoccupava.
«Sì, anche se a volte mi mette paura. Ma ho più paura di Lancelot che di lui».
«Lancelot?» Chiedesti accigliandosi, accavallando le gambe. Non avevi mai sentito prima questo nome.
«Hai presente il casino di tre anni fa?»
«Quello che ha spinto persino la Viverna a mettersi in moto per aiutare Kanon?» Domandasti sforzandoti di ricordare gli avvenimenti. Tu eri tornato alla vita giusto qualche mese dopo, ti avevano raccontato il resto Hyoga e gli altri, mentre imparavi a conoscere colui che amavi come un figlio per l’adulto che era e la tua nipotina. Lei confermò e tu asseristi con il capo e la tua narratrice ti aggiornò anche a proposito di quello che era accaduto. «Credo di aver capito.» e, la sua faccia, espresse tutta la sua contrarietà. «Così sembra, anche se il termine corretto credo che sia rapito, di nuovo».
Appuntisti lo sguardo, confuso: «Di nuovo?»
«Hai presente il mio arrivo al Santuario? Anche se per salvarmi diciamo che non è stato strettamente legale». Ti lasciò il tempo di elaborare quest’informazione e di assimilarla. Cosa intendeva dire? Cioè voleva dire che Death Mask e Aphrodite… Alzasti la testa di scatto, allarmato. Provasti un gran moto di comprensione e dispiacere. Avresti voluto dirle qualcosa ma, quando riaprì bocca domandò, in tono pratico: «Quindi noi che cosa dovremmo fare?»
«Non ti hanno detto niente mentre ti portavano qui?» Le chiedesti incerto se approfondire il discorso di prima o no.
Astrid alzò le spalle: «Mi hanno solo detto che il mio aiuto sarebbe stato fondamentale per la Resistenza e che c’era una persona che dovevo incontrare per ordine di Lady Pandora». Detta così sembrava uscita da Star Wars. «Credo che vogliano che tu mi aiuti a trovare una soluzione definitiva alla piaga delle Creature». Spiegò. Aiutarla poteva rivelarsi problematico per molti motivi. In primo luogo perché eri un bersaglio e, presto o tardi,  Aiacos sarebbe tornato all’attacco. Anche se il bersaglio eri tu ti preoccupavi di Violate. Se gli girava male avrebbe potuto vendicarsi scagliandola contro Astrid a causa della vostra somiglianza. In più - la osservasti - non ti sembrava una guerriera e voi eravate in guerra. Avresti dovuto combattere al fianco dei Celti, non potevi proteggere anche Astrid. Inoltre, se era tanto preziosa, 
«Ma tu vuoi davvero aiutarli?» Le domandasti. Ci pensò un po’ e alla fine dichiarò, con un’espressione dura e determinata che avevi già visto da qualche parte: «Sì». Se non altro la determinazione non le mancava.
«Hai una qualche idea su come cominciare?» Le domandasti in tono pratico. La tua interlocutrice batté le palpebre e arrossì, spiazzata. «Oh, eh… in realtà no, non ci avevo ancora pensato. Non ho mai avuto un vero e proprio piano per questo. Mi hanno semplicemente portato qui e ordinato di risolvere il problema delle Creature e delle morti».
Qualcuno tossicchiò e voi vi giraste verso una Ninfa Stigia, la riconoscesti dai disegni sulla pelle. Da quando Shaka era diventato il capo delle schiere degli Dèi della Notte e dell’Oscurità ne avevi viste molte in giro per l’accampamento. Fino a questo momento non ti eri minimamente accorto di lei. Da quanto tempo era qui? Astrid vi presentò e, così venisti a sapere che anche le Ninfe Stigie avevano dei nomi. La Ninfa ti fece la riverenza e replicò con un cerimonioso: «Onorata di fare la vostra conoscenza».
«Il piacere è tutto mio». Ribattesti incerto. Poi, la creatura dello Stige vi rivelò il motivo della sua intromissione: «Se posso permettermi, suggerirei di visitare gli ospedali da campo, potrebbe essere un buon punto di partenza». Consigliò fingendo di sistemare altri fiori nel vaso alla sua sinistra, già pieno di tulipani gialli, in netto contrasto con i colori scuri della tenda.

Voi due soppesaste questa proposta ma alla fine non trovaste niente di meglio, per cui, tu facesti strada alle due alla tenda ospedaliera più vicina. Quando foste vicini al posto, vedesti la giovane bionda deglutire a vuoto e guardare preoccupata l’infermeria da campo. Ma non le chiedesti niente. Probabilmente era spaventata a causa dell’odore del sangue e dai vari lamenti e grida e parole che uscivano da quell’enorme tenda.
Però, stoicamente decise di entrare lo stesso. Parlaste con alcuni medici del campo e, quando seppero che Astrid poteva effettivamente fare qualcosa per salvarli, la lasciò provare. Non senza nasconderle il sospetto.
Il cerusico vi accompagnò da uno degli Specter che era deceduto a causa delle Creature. «Questo era Cube di Dullahan, la Stella Malefica della Terra Buia, apparteneva alle schiere del nobile Rhadamantys della Viverna», vi disse recuperando il nome dalla cartella medica appesa alla testiera del letto. Poi, scoprì lentamente, per non impressionarvi, il corpo dal lenzuolo. Ma anche così non bastò per prepararvi psicologicamente. Era persino peggio di quanto vi aspettaste. Nessuno di voi tre riuscì a sostenerne la vista che doveste distogliere lo sguardo. Lasciandovi sfuggire versi di sgomento e dolore tra i denti.
Il vostro anfitrione vi guardò preoccupato e  si fermò: «Lo ricopro?»
«No, no, scopritelo fino al petto, al resto penserò io». Ordinò Astrid parlando rapidamente, sforzandosi di non vomitare. Sembrava che volesse togliersi di torno quest’incombenza al più presto. «Ce ne sono altri?» Domandò poi guardando il medico, abbracciandosi il busto. 
Il dottore vi raccontò che avevano recuperato il cadavere di questo e altri, nel corso di questo anno. Ma che per quanto avessero provato, neanche Hades era riuscito a resuscitarli.
Astrid ascoltò attentamente, guardando il cadavere annerito e carbonizzato. Poi tese un dito verso di lui. La falange si illuminò di una luce viola purpurea. A quella vista sgranaste gli occhi, mentre la giovane muoveva il dito a poche spanne dal petto dello Specter e disegnava una sfera di energia del medesimo colore della luce.
Appena smise, la sfera fu inglobata dentro il cadavere e accadde il miracolo. La vita tornò nel corpo dello Specter, il quale tornò al suo colore originario e si ricostituì. Pelle, denti, capelli, muscoli, sangue, ossa, vestiti e Surplice tornarono al loro posto.
Persino il cerusico sgranò gli occhi e si lasciò sfuggire qualche esclamazione in latino. Lo Specter aprì gli occhi e annaspò riempiendosi i polmoni. Poi sollevò le braccia osservandosi le mani incredulo. Si mise seduto e, continuando a respirare, si sedette, tastandosi il torso e la testa.  
Astrid sorrise e gli domandò come si sentisse.
Solo allora lo Specter registrò la vostra presenza e vi guardò. Poi, di fronte al sorriso della sua soccorritrice, l’attaccò in un nanosecondo. Ma la Ninfa Stigia fu più veloce e appioppò un rapido e violento pugno in faccia a Cube di Dullahan, crepandogli l’elmo che copriva interamente il suo volto e rispedendolo lungo disteso sul letto, svenuto.
Poi si girò a guardare la sua signora, che aveva smesso di sorridere e faceva la spola con lo sguardo da lei a lui. Scioccata da questa prova di ingratitudine. «State bene, milady?» Domandò la Ninfa guardandola preoccupata, posandole le mani sulle spalle.
Astrid annuì, distogliendo finalmente lo sguardo da Cube: «Io… Sì, direi di sì». La Ninfa annuì. 
Solo allora il cerusico si rianimò e, con occhi pieni di gioia prese a encomiarla per il miracolo operato. Tanto era entusiasta si sporse verso di lei per toccarle una spalla: «Ma è meraviglioso! Siete riuscita a resuscitare uno Specter laddove anche il Sommo Hades aveva fallito! Allora siete veramente stata mandata dal nostro Signore per risanare le nostre armate come sosteneva il nobile Rhadamantys! Oh, eleveremo preghiere di ringraziamento al nostro Dio per ringraziarlo della sua benevolenza! Venite con me, ci sono altri Specter da resuscitare!» Fece poi, acchiappandola per un polso, ma lei si sottrasse alla sua presa ed esclamò: «No!»
Il medico la guardò stranito e Astrid mise insieme un discorso per spiegargli che purtroppo quest’operazione le consumava molte energie e che le ci sarebbe voluto un po’per rimettersi in sesto. Il medico la guardò sconcertato, ma comprese. «D’accordo, in fondo non è necessario che li resuscitiate tutti oggi e subito, quanto tempo vi occorre di solito per ricostituire le vostre energie?»
«Mezz’ora. Per favore, posso uscire? Mi manca l’aria.» Aggiunse. In effetti era sbiancata ancor di più e sembrava sul punto di svenire.
Il fantasma se ne accorse e disse: «Ma certo, ma certo, tornate pure quando vi sarete ripresa».
Lo ringraziaste e usciste. La giovane Menta sorresse la sua padrona e, quando foste fuori la faceste sedere su un masso distante una trentina di metri dalla tenda da dove, adesso si levavano anche grida di giubilo.
Astrid si prese la testa tra le mani  e si raggomitolò in posizione fetale. Menta continuò a stringerle le spalle e a mormorare qualcosa. «Stai bene?» Le chiedesti tu.
«No, non sto bene, non sto bene per niente! Ho appena visto un cadavere ritornare in vita e sono stata aggredita dallo stesso che ho resuscitato, Camus! Come faccio a stare bene?» Ti rispose lei angosciata. Poi cominciò a fare una serie di respiri cortissimi, l’espressione sofferente e si abbracciò il busto come a darsi la forza di reagire e controllarsi. Era andata nel panico. Le suggeristi di fare dei respiri profondi e, tempo una mezz’ora, la ragazza parve recuperare il controllo di sé stessa. 
Poi tornaste alla tenda e riportò in vita Myu della  Farfalla, Giganto di Cyclopys e altri tre Specter. Beccandosi vari tipi di ringraziamenti che spaziavano dagli insulti verbali più o meno velati, alle vere e proprie aggressioni cui tu e Menta la sottraeste.
«Direi che per oggi può bastare anche così». Dichiarasti alla fine, dopo averla portata via da quella tenda maledetta per la sesta volta. Le due giovani ti dettero immediatamente retta. A un tratto lo stomaco di Astrid rumoreggiò e lei si portò una mano alla pancia. A forza di fare questo andirvieni non vi eravate accorti che l’ora di pranzo era passata da un pezzo. Forse riuscivate ancora a racimolare qualcosa. Ti offristi di accompagnare le due alla mensa comune ma Menta declinò l’invito anche per la sua padrona asserendo che sapeva dove andare per trovare del cibo. E che, il Padiglione della Caina era uno più riforniti sotto quest’aspetto.
«Non cibo del Regno dei Morti, vero?» Indagasti, tu, guardingo. La Ninfa Stigia batté le palpebre e rispose, guardandoti quasi offesa: «Ovvio che no, signor Aquarius, il Sommo Rhadamantys è stato categorico su questo punto». 
«D’accordo, allora se avete bisogno di me mi trovate nel territorio celtico». Vi salutaste e vi separaste.
Come primo giorno insieme, fu abbastanza sfiancante.
La voce della resurrezione dei sei Specter si sparse velocemente e, superato il primo momento d’incredulità, l’entusiasmo e il morale generale si risollevò. Qualcuno fece anche domande su questo miracolo e, varie voci cominciarono a rincorrersi tra loro, rapide come levrieri. Fomentate anche dalla notizia della riuscita della missione di Minos. Che, non solo era riuscito a impedire il risveglio dei Primi Cavalieri ma aveva anche riportato a voi l’Azone al servizio di Hades. Te lo riferì la stessa Pandora quando ti mandò a chiamare al Padiglione della Giudecca. «Giacché l’informazione ci era stata riferita da Isaak e voi avete contribuito, ho pensato che vi avrebbe fatto piacere saperlo». Ti sorrise poi, assisa sul trono, le mani poggiate sui braccioli. Rispetto a Lady Viviana lei sì che suggeriva leggiadria e potere. Era molto più sacra la sorella terrena di Pandora della Signora di Avalon.
«Grazie, Somma Pandora». Rispondesti inchinandoti e, i capelli ti scivolarono su una spalla.
«Non avrete pensato che mi sarei dimenticata di voi, Aiacos e gli altri Specter vi hanno dato più fastidio?» Domandò poi. 
«Nossignora, al limite adesso facciamo dei tornei dove ci sfidiamo per gioco e allenamento». Era vero. Bè, anche prima si tenevano, ma adesso questi tornei avevano subito un aumento di pubblico e affluenza. La mora sorrise dolcemente: «Ne sono lieta». Dopodiché ti congedò. E, tu ci restasti ancora una volta di stucco, non credevi che quella donna fosse capace di sorridere anche in luoghi come questo. Dai toni che usò quelle poche volte che la udisti, decadi or sono, ti era parso di no.  
Ovviamente, la notizia della comparsa dell’Azone al servizio degli Inferi fomentò l’entusiasmo generale. E, potesti vederne gli effetti anche su chi ti stava attorno. Per esempio, Isaak sorrise rinfrancato, lieto di essere stato utile alla causa. Invece, dal primo giorno che conoscevi Valentine dell’Arpia, vedesti i suoi occhi accendersi d’entusiasmo. «Adesso i Black Saints non avranno più scampo!» Fianna invece alzò la sua lancia al cielo e lanciò un grido di giubilo. 

Il giorno dopo che tu ti fossi dato una ripulita in una delle sorgenti termali - alla vostra igiene ci pensavate, mica eravate dei maiali. Prima delle sorgenti vi dovevate arrangiare bollendo l’acqua, adesso vi recavate alle sorgenti, ovviamente con un drappello di soldati a montare la guardia, per sicurezza. Mentre ti lavavi, notasti che i segni blu che ti avevano fatto, sbiadirono. “Più tardi  chiederò ai Pitti di rifarmeli”. E, forse, avresti dato anche una spuntata alle tue punte, che erano un po’rovinate.
Una volta asciutto, indossasti dei vestiti puliti e andasti a cercare Astrid e Menta. Non potesti fare a meno di notare che, in mezzo a tutto quel nero, eri una delle poche persone a indossare dei colori differenti. In un certo senso ti si notava come un pugno nell’occhio. Ti venne anche da domandarti dove fosse finita la tua Surplice di Aquarius. Non che la volessi indossare, eri soltanto curioso di saperlo. 
Comunque ritracciasti Astrid concentrandoti sui Cosmi. Lì per lì ti eri dimenticato che non riuscivi a percepirla. Perciò ti concentrasti sui Cosmi di chi le stava accanto. Se non ti ricordavi male, aveva una serva. Ti concentrasti su quella e la trovasti al Padiglione della Caina.

Le raggiungesti laggiù, che tanto ti ricordavi la strada e, trovasti la Ninfa intenta a servire la colazione a una scossa Astrid.
Non ti saresti mai abituato completamente a questa somiglianza, te lo sentivi.
Menta accanto a lei, le serviva la colazione su un piccolo elegante tavolino fuori della tenda. Quel giorno tirava vento ma era abbastanza debole da non dare troppo fastidio. Ti sorprendesti nel vedere che, comunque, la giovane aveva un trattamento decisamente migliore del vostro. Persino le tazze e i cucchiai erano finemente decorati e molto più raffinati dei vostri. Eppure la giovane non sembrava abbastanza contenta, mentre sbocconcellava un panino con il miele e, la Ninfa, le serviva da bere.
Indossava ancora il vestito nero ma aveva i capelli raccolti in tre mezze code che le coprivano le orecchie per tenere fermi i capelli. Ti ci era voluto un po’per capire che, in realtà non era una treccia come sembrava.
Le due ti salutarono e, la tua nuova conoscente, ti fece cenno di accomodarti e fare colazione con loro. Declinasti l’invito dicendo che avevi già mangiato. Però ti sedesti su una delle rocce vicine: «Tutto a posto?» Le domandasti e lei emise un verso rassegnato prima di inghiottire e rispondere, ironica: «Certo, mi sento solo come se fossi finita dentro Picnic ad Hanging Rock, con la differenza che c’è il cielo tempestoso e sembra un film in bianco e in nero invece che a colori».
In effetti era proprio così. Strano a dirsi, ma gli Inferi avevano un proprio ciclo di luce e buio. Molte cose erano veramente cambiate dalla Guerra Sacra.
La differenza con il passato erano le nubi nere che oscuravano la volta celeste infera sopra la zona. Ma, se in certe zone erano punteggiate di bianco, come se la luce lottasse per bucarle e non ci riuscisse, qui erano striate di rosso.
«L’ho visto, il Monte Diogene e il suo parco, è molto bello». Buttasti lì tanto per fare conversazione, ma lei preferì concentrarsi sulla colazione. Tacesti, in effetti parlare di un parco naturale e di geografia non era questo granché appena svegli negli Inferi. «Mi riferivo al film; comunque è un dramma con tinte horror».
«Ah, quello non ho mai avuto occasione di vederlo; quindi, dici che ci somiglia?»
«Neanche più di tanto, sembra la sua versione dark, priva dell’aura di misticismo e mistero che si respira nel film». Fece prima di bere la sua tazza di tè.
Poi anche Menta si accomodò accanto a lei e si servì con ciò che restava. In realtà si erano divisi la colazione e la Ninfa si offrì di darti metà della sua razione, ma tu declinasti nuovamente. Allora la giovane si rivolse ad Astrid: «Padrona, siete sicura che volte ch’io mangi assieme a voi?»
«Sì», replicò la bionda senza guardarla, in tono leggermente scocciato, come se avesse già risposto altre volte a questa domanda. Così la Ninfa prese le posate e cominciò a mangiare, un po’titubante.
Quando ebbero finito si alzarono e la Ninfa sparecchiò e rientrò nella tenda. Mentre sistemava la giovane s’accomodò sulla roccia accanto a te e ti spiegò che, per quanto apprezzasse questo trattamento, c’era un limite. «In fondo io stessa ero un’ancella, so bene quanto sia pesante questo lavoro; mi faceva pena vederla arrabattarsi a quel modo per me, che non sono nessuno».
«Rhadamantys pare credere il contrario, dal momento che alloggi nella sua stessa tenda, o sbaglio?»
La ragazza stiracchiò le labbra prima di risucchiarle dentro la bocca. Le rilasciò e rispose, con voce piena di frustrazione: «Credimi, la cosa non mi entusiasma affatto, ma al momento non abbiamo nient’altro. Sto pensando di raccattare qualcosa e costruirmi una tepee solo per me e per Menta, magari in mezzo a tutte le altre, ma lontano, finalmente da Rhadamantys e gli altri due; lascia pure le sedie e il tavolo, per favore». Fece poi all’indirizzo di Menta, la quale aveva preso il tavolo per portarlo via. La serva si fermò, girandosi verso di lei e annuì.
«Perché proprio la tenda indiana?» Chiedesti ad Astrid, mentre Menta se ne restava in piedi accanto al tavolo.
«Perché è l’unico tipo di tenda che so costruire». Rivelò con così tanta sincerità che ti strappò un sorriso. «Non occorre che tu stia laggiù in piedi, puoi anche sederti, tanto ora ti raggiungiamo». Disse alzandosi e, la Ninfa batté le palpebre, perplessa: «Mia signora, non scendiamo come aveva ordinato il sommo Rhadamantys?»
«Più tardi, adesso non ne ho voglia». Fece lei mentre scostava una sedia e si accomodava davanti a Menta e, tu l’imitavi mettendoti a capotavola.
Non faceva così freddo, grazie alla vicinanza del Flegetonte, Astrid avrebbe potuto girare tranquillamente sbracciata.     
«Allora, che si fa?»
«Adesso cerchiamo di capire qualcosa di più sulle Creature». La ragazza vi mise a parte delle sue teorie e Menta s’alzò per tornare con penna, pergamena e calamaio e prese appunti. A volte suggeriva le parole che non venivano ad Astrid e altre poneva domande.
Mettendo insieme gli indizi avevate un mucchio di teorie che conducevano tutte alla Luce Ombrosa, all’influsso che aveva sulle Cloth e anche al disegnare con la luce. Perché sì, anche se a malincuore, vi rivelò anche questo. A quelle parole Menta smise di scrivere per guardarla sconcertata e, tu domandasti: «Disegnare con la luce, intendi forse fotografare?»
«É stata la prima cosa che ho pensato anch’io; ma non credo che sia così, non ho ancora verificato se è una cosa relativa ai miei poteri o se è qualcos’altro. Ciò che è certo è che finché resto qui non potrò scoprirlo». Aggiunse poi, distogliendo lo sguardo pensieroso e preoccupato da voi per lanciarlo sul panorama circostante.
«Ma era solo un sogno e neanche tuo, cosa ti fa credere che sia un messaggio per te?»
«Non lo so, ma non credo che sia una coincidenza che una Saint a me vicina, con poteri precognitivi molto simili ai miei divinatori, abbia fatto lo stesso sogno per notti intere. In più, i miei poteri sono legati alle stelle e alla luce, oltre che all’oscurità, non posso tralasciare nulla in questa storia. Anche se non lo fosse, potrebbe essere un suggerimento per un nuovo incantesimo o qualcosa di simile». Non potesti fare a meno di guardarla stupito per questa teoria. Pensavi che fosse ancora troppo destabilizzata per formulare un pensiero. Anche voi ad Asgard ci avevate messo dei giorni interi, prima di trovare le risposte che vi servivano. Con il senno di poi, le avevate anche sotto gli occhi, con Yggdrasil e tutto il resto. Vi eravate domandati il come e il perché, ma nessuno di voi si era chiesto chi vi avesse riportato in vita. Ma tutti, chi più chi meno, ne avevate approfittato. Tu, sicuramente. E sapevano tutti che l’avevi usata per rimediare a un torto che aveva spezzato la giovane vita della sorellina di Surt. Il tuo vecchio amico, che sicuramente, adesso festeggiava nel Valhalla. Anche se ciò aveva ferito Milo e, di riflesso anche te. Non immaginavi che nel corso degli anni, il vostro legame fosse così forte, sebbene vi foste parlati così poco.     
Improvvisamente lei si sciolse in una risata e chinò il capo divertita: «Oddei, detta così sembro una narcisista con una vena di egocentrismo!»
Non ti aspettavi che sapesse fare autoironia. In ogni caso, discuteste ancora a lungo delle Creature e dei poteri di Astrid. Dopodiché, scendeste e aiutaste la giovane a tirarsi fuori dei guai per quanto riguardava la resurrezione degli Specter che non aveva resuscitato il giorno prima.
Mentre tornavate al padiglione, foste costretti a fare una deviazione a causa di una frana e, lo Skeleton che vi accompagnava, vi fece passare da una gola vicina. A un certo punto, mentre camminavate, qualcuno vi tese un’imboscata. «Guarda chi si rivede». Esordì una voce femminile profonda in alto a destra. Alzaste la testa in quella direzione e vedeste la Specter di Behemoth appollaiata su un masso. Istintivamente ti spostasti Astrid dietro la schiena. «Non pensavo che il mio padrone vi avesse lasciato andare senza colpo ferire, sono colpita. Avevo sentito dire che volesse prendere la vostra testa, Gold Saint di Aquarius». Sorrise la bruta dal corpo coperto di cicatrici.
«Ha mandato te per completare il lavoro?» Domandasti mentre la Ninfa Stigia circondava le spalle di Astrid con un braccio tatuato e la traeva a sé con fare protettivo, allontanandosi da te.
La Specter sbuffò come un cavallo e disse, puntellando le mani indietro. La sua corazza lanciò un lieve brillio nella penombra: «Volete scherzare? Se il mio Signore non mi dà ordini io non ho nessuna ragione per torcervi un capello. Certo, non nego che non mi piaccia menare le mani, ma preferirei farlo in battaglia e davanti al mio Signore, piuttosto che in una stretta gola rocciosa e desolata come questa».
«Allora cosa sei venuta a fare qui?» Chiese Astrid assottigliando gli occhi.
«Niente di particolare, ero curiosa di conoscere la Luce Ombrosa che ha resuscitato il Re Garuda e che ha contribuito a liberarlo dal giogo di Don Avido». Ciò detto spostò gli occhi su Astrid e tu facesti altrettanto, guardandola stupito. Non vi aveva detto che la prima persona che aveva resuscitato fosse proprio uno dei Giudici Infernali.
La giovane, dal canto suo replicò, seria, staccandosi dalla Ninfa: «Suppongo che tu voglia ringraziarmi».
La mora la guardò stupefatta prima di sporgersi in avanti e scoppiare in una derisoria risata sguaiata: «Ringraziarti? Benedetta ragazzina, la tua ingenuità mi fa ridere; negli Inferi non esiste la riconoscenza. Riconoscenza è sinonimo di debolezza e tu sei debole. No, io non ti ringrazierò mai». Concluse poi assottigliando ancor più lo sguardo. Astrid sussultò e fece un passo indietro. Gli occhi sgranati. «Specter e Saint sono nemici giurati per definizione, se mai è esistito un momento in cui i contrasti tra le fazioni potevano appianarsi, ormai è impossibile, quindi devi fare una scelta».
«Dunque siete disposti ad arrivare a questo? Preferireste morire piuttosto che farvi aiutare, anche se l’ha ordinato uno dei vostri comandanti?» Chiese allibita lei.
«Certo che no, ma non accetteremo mai di farci toccare da qualcuno come te. Anche il tuo modo di guardarci è identico al loro, tu vedi solo dei mostri». Rispose la donna sorreggendosi il volto con la mano, mentre le ombre si muovevano attorno a voi. Abbassando lo sguardo Astrid sussultò e fece un passo indietro e tu la imitasti: gli spiriti uscivano dalle ombre che vi circondavano. La Ninfa strinse a sé Astrid come una madre protettiva con la propria figlia. Astrid pose le mani sulle braccia della serva e la separò leggermente da sé per domandare ancora, stavolta più determinata: «Come può essere, non c’è altro modo?»
«Spiacente, la strada è questa».
«Non ti credo!» Urlò la bionda e, per un momento, gli spiriti s’immobilizzarono come spaventati da questo grido inaspettato. La Specter invece ampliò il suo sorriso e le ombre smisero di accerchiarvi: «Fa come ti pare, alla fine la vedremo chi ha ragione». Poi si alzò in piedi e se ne andò saltando di roccia in roccia fino a scomparire alla vostra visuale.   
«Astrid, stai bene?» Le domandasti, mentre lei fissava ancora il punto dove un secondo prima stava l’ala del Garuda. «Sì, è tutto a posto». Rispose con voce monocorde abbassando lo sguardo e tu, capisti che stava mentendo, ma che era troppo orgogliosa per ribattere diversamente. Sentivi provenire da lei una rabbia bruciante a dir poco. Se fosse stata una Saint, con quella rabbia, probabilmente avrebbe distrutto il Santuario.
Non sapevi ancora come comportarti con lei senza urtare i suoi sentimenti, per questo, non visto, ti limitasti a stringere i pugni e a seguire le due.
«Dove stiamo andando?» Domandò poi Astrid.
«A parlare con l’unica persona che può aiutarci: lo Specter della Driade, che è quanto di più simile possiamo permetterci qui a un vero e proprio medico, come avevo intenzione di fare». 
«Astrid, le parole di Violate…» Iniziasti.
Lei girò il volto verso di te e rispose in tono brusco e la fronte aggrottata: «Non mi tangono e non mi fido. Non ho alcuna ragione per fidarmi di uno Specter dopo quello che mi hanno fatto da quando ho risanato il primo di loro». Per voi vi aveva rivelato quest’informazione solo per  toglierla di mezzo. Eppure, tra voi tre, fu proprio la tremante Menta a dare voce a questo pensiero. 
Nonostante ciò eccovi qui tutti e tre, mentre seguivate lo Skeleton guida sul sentiero che si snodava per gli Inferi. Neanche tu l’avevi mai visto ai tempi della Guerra Sacra. Persino Astri lo intuì da come ti guardavi attorno, spaesato quanto lei. Però non disse niente.
Solo Menta e lo Skeleton erano tranquilli e si muovevano come se conoscessero a menadito il posto. Anche se la povera Ninfa, dopo l’imboscata dell’Ala del Garuda, era quasi rimpiattata dietro la sua schiena e tremava come una foglia. A volte si staccava da Astrid e si fermava per riposare un po’, costringendo anche voialtri a fermarvi. Pur essendo una Ninfa Stigia, a parte la palude natia e il Castello della Giudecca, vi confessò di non aver mai lasciato il Palazzo da quando fu presa a servizio del Signore dell’Oltretomba. Ovviamente tu non ti fidasti neanche un po’, mentre Astrid si mostrò incerta se credere o meno alle sue parole.
Quando Menta si fu riposata abbastanza, riprendeste il cammino. 
«Sei sicura di quello che vuoi fare?» Domandasti per l’ennesima volta alla tua sosia al femminile.
«Temo che non ci sia altra scelta». Rispose con voce lugubre.
«Ti fidi a tal punto da rischiare così tanto?»
«No. Come ho già detto non mi fido di nessuno di loro,Violate di Behemoth, poi, è il braccio destro di Aiacos, uno dei miei aggressori, quindi ho un motivo in più per non fidarmi. Però, so anche che cosa mi aspetta se non andrò fino in fondo». Aggiunse con voce lugubre e tu la guardasti con due occhi così: «Che cosa?» L’avevano minacciata? Lei si strinse nelle spalle e rispose: «L’eterna prigionia qui. Rhadamantys mi ha promesso di riportarmi nel Regno dei Vivi se riuscirò a resuscitare tutti gli Specter e a fermare le Creature; voglio sperare che sia vero».
«E se non lo fosse?» Insinuasti con un fil di voce. Trattenne il fiato rumorosamente. In compenso, sul suo volto passò un’ombra.
Un’ombra che, con il passare delle ore e l’ennesima aggressione, andò oscurandosi sempre di più.
Era inutile aspettare che portassero i feriti e le vittime degli scontri direttamente al campo base. Astrid ogni giorno di più, smaniava per venire con voi sul campo di battaglia. Ma, tutto quello che riusciste a fare, fu un giro per i territori riconquistati vicini. Ossia, la Sesta Prigione, di dominio di Violate. Però non era tutto qui. Ovvio che non lo era, ormai non ci credevi neanche più che fosse tutto qui. 
Mentre stavate tornando al Padiglione della Caina, una delle creature ctonie al comando di Shaka, vi raggiunse, chiamandovi, o meglio, chiamandola: «Somma Astrid, Somma Astrid». Vi giraste entrambi e vedeste questo vampiro in armatura bluastra raggiungervi e riferirvi che un drappello di Specter era rimasto vittima delle Creature. «Sei sicuro?» Domandasti. Ti saresti aspettato che anche lei si preoccupasse, invece, scopristi, che non gliene importò. La guardasti e vedesti solo il suo sguardo gelido, mentre replicava, in tono strafottente: «E a me cosa me ne dovrebbe importare? Gli Specter sono adulti e vaccinati, non hanno certo bisogno di essere salvati da me».
«Astrid…»
«Somma Astrid?» Ripeté il vampiro battendo le palpebre sugli occhi sanguigni.
La giovane si mise le mani sui fianchi e continuò, spietata: «Che cosa vi fa credere che io voglia davvero aiutare gli Specter dopo tutto quello che ho subito a causa loro? Io servo solo a resuscitarli, il mio compito inizia e finisce lì, se mi si portano i corpi carbonizzati o le loro ceneri bene, altrimenti non me ne viene niente e non me ne può fregare di meno. Se proprio desideri ricevere un aiuto, prova a rivolgerti ai tre Giudici Infernali, potranno fare sicuramente molto più di me».
«Vi chiedo scusa, milady, spero che vogliate perdonarmi per il mio increscioso errore».
«Non sono io quella con cui ti devi scusare, vai salvare i tuoi commilitoni». Ciò detto gli volse le spalle e risalì la china. Menta la seguì, invece tu restasti lì. Anche se non potevi credere che Astrid celasse un lato così crudele, tu, eri un Saint.
«Dimmi dove si trovano».
«Come?»
«Dimmi dove si trovano, li recupererò io».
Così ti facesti guidare sul luogo, solo per finire travolto da uno stuolo di anime in fuga da un mostro che sembrava un uscito da un incubo. Ma che non apparteneva alle vostre schiere. Tu facesti del tuo meglio per impedirgli di catturare le anime che gli Specter stavano proteggendo, ma era difficile. Sentivi le tue energie molto più fievoli di prima. Che fosse colpa dello scontro con l’Astronauta? «Da dove viene questo?»
«É uno degli esseri che popola gli Inferi!» Ti rispose uno Specter che ti si affiancò.
«Perché non si è mai visto, prima?»
«Perché non c’era!»
«Sì che c’era!» Lo contraddisse uno Specter che saltò vicino a voi mentre guidavate le anime alla stregua di tanti cani pastori. «É solo che prima avevamo abbastanza forze e potere per contrastarli, mentre adesso non possiamo più. Cosa c’è, credevi che solo voi Saint aveste dei problemi nel vostro territorio? Bè i mostri sono l’equivalente dei vostri Black Saint». Fece prima di spiccare un altro balzo e portarsi dentro la mischia, da dove attaccò l’essere.       
A un tratto il mostro dalla testa bovina con tre occhi, perse la pazienza e, con un colpo di una delle sue tante mani, distrusse l’uscita provocando una frana. 

Soffiasti fino a generare un fiocco di neve, che poi, il vento che soffiava portò via. Sapevi che qualcuno avrebbe colto il tuo messaggio. Nel frattempo avreste venduto cara la pelle.
Stavate per soccombere quando improvvisamente uno stormo di grifoni scese in picchiata verso il mostro, costringendolo ad arretrare e a muoversi per scacciare via i grifoni, i quali, grazie agli ottimi riflessi, schivavano tutte le mani e i denti del mostro.

Nel mentre, alcuni si  abbassarono e atterrarono tra voi, facendo scostare le anime. Dalla groppa degli esseri scesero alcuni Skeleton e altri dell’esercito Ctonio. Un grifone atterrò a pochi metri da te e trottò fino alla tua persona per poi girarsi e mostrare il suo cavaliere, seduta alla amazzone, che ti guardava con un misto di urgenza e terrore negli occhi. «Camus!»
«Astrid!»
«Presto, monta!» Salisti sulla groppa dell’animale, che, spalancò di nuovo le ali e vi portò sulla cima della roccia, dove c’era un piccolo drappello dell’armata di Rhadamantys. I vostri rinforzi. «Che accidenti di mostro è quello? Il Minotauro sotto steroidi?» Domandò Astrid spaventata, mentre il grifone schivava la mano dell’affare. Tu non le rispondesti, però ti chinasti sul collo dell’animale a tua volta quando una mano passò troppo vicina alle vostre teste, smuovendoti i capelli e rischiando di disarcionarvi con la forza della massa d’aria che spazzò.   

Per salvare le anime, usaste il trucco di Odisseo per liberarsi di Polifemo. L’idea fu di Astrid, che ti chiese di usare il tuo Cosmo per comunicare con gli Specter, mentre voi a cavallo dei grifoni, facevate alzare le anime in volo, in un’unica colonna.
«Ma le Creature…»
«Non ci toccheranno, non finché ci siamo noi, quindi non aver paura».
«D’accordo».
E, ripetesti il piano di Astrid agli Specter, i quali obbedirono all’istante senza porsi troppe domande. Dirigeste la colonna verso il mostro e gliela faceste precipitare addosso. Nel mentre vi tuffaste dentro la folla di anime con una virata, di modo che poi foste davanti al muso gigantesco dell’essere. Lì, tu materializzasti delle picche di ghiaccio acuminate e affilate grandi abbastanza per trafiggere quei tre occhi e, gliele scagliasti.
La creatura ululò di dolore e si portò tutte le mani agli occhi, uggiolando. Sicché voialtri, poi, poteste dirigere in volo le anime, altrove. Per sicurezza l’avevi imprigionato in una Freezing coffin della sua misura, quindi non vi avrebbe dato più fastidio.

Così, tornaste all’accampamento, non prima di aver aiutato gli Specter a rimettere i dannati al loro posto. Peccato solo che anche Astrid decise di scendere dal grifone. E la sua presenza non passò inosservata.   

«E tu cosa credi di fare qui?» Sogghignò la Stella del Cielo della Sconfitta, notandola.
Astrid volse la testa verso di lui e tentò di intavolare un discorso: «Mi hanno mandato qui per risolvere il problema delle Creature» ma si fermò immediatamente di fronte all’occhiata perentoria che il gigantesco Specter del Minotauro le stava rifilando. Quello la squadrò dalla testa ai piedi e se ne uscì con una mortificante risata sguaiata. Risata che contagiò anche gli altri colleghi presenti nella gola. Prima che lei potesse fare qualcosa, un’anima la colse di sorpresa, prendendola in ostaggio e cominciando a trascinarla via. Astrid cercò di difendersi ma non riuscì a fare niente. E, neanche tu, avresti potuto ferirla e, l’anima, la stava già minacciando. 
«Cosa credevi di fare, bamboccia? Non lo sai che i Vivi non possono uccidere le anime dei morti?» Continuò la Stella Celeste mentre l’anima cercava di ucciderla.
Pensavi che sarebbe finita lì e invece no. Saresti voluto correre in suo soccorso ma la strada ti venne sbarrata da degli Specter e degli Skeleton. In breve ti ritrovasti a lottare con quest’ultimi.
Appena riusciti a essere libero urlasti: «Astrid!» Urlasti. Maledetto fosse quel Patto sciagurato che ti impediva di muoverti come desideravi… Cercasti di bloccare l’anima usando il ghiaccio ma fu tutto inutile.
«Che carino, chiama la figlia!» Ti schernì uno Specter. Ma nessuno di loro mosse un dito per aiutarla. Anzi, cominciarono a scommettere: «Per me crepa subito», «Per me no, forse tra un po’».
Li guardasti sbigottito. Non era possibile che se ne fregassero fino a questo punto!
La Stella Celeste si girò a guardarti ghignando divertito: «Che c’è, Gold Saint? Non sei abituato a vedere queste scene?» E, il suo collega; «Come, non lo sai che negli Inferi vige la legge del più forte?»
«Oh, sì e, anche che non esiste la riconoscenza?» Si aggiunse un terzo Specter ridanciano. «Come se non si sapesse che gli Inferi non sono un parco giochi», il primo scosse il capo e schioccò la lingua contro il palato: «Già, ma dove credeva di essere, quella, in gita?»
Ma tu non eri uno di loro, tu eri un Gold Saint, non potevi restartene con le mani in mano. Perciò con un balzo li superasti e ti lanciasti nel marasma di anime. Non immaginavi che potessero essere così fitte e fangose. L’anima la stava strangolando sotto ai tuoi occhi e tu eri arrivato troppo tardi. «No!» Urlasti. Astrid stava ancora cercando di liberarsene, senza successo. «Padrona!» Strillò Menta, spaventata.
Ti scagliasti verso di loro superandoli tutti con un balzo che solo un Gold Saint può compiere.
«Muori!» Sentisti urlare allo spirito e, come se il senso dell’udito ti si fosse potenziato, sentisti il sussurro spaventato di Astrid. O forse te l’eri solo immaginato. Mentre corresti la vedesti boccheggiare, riflessa nelle lastre di ghiaccio che avevi innalzato nel vano tentativo di salvarla.
«Greatest Caution!» Esclamò una voce maschile perentoria che non udivi da tempo e, una grande Viverna d’energia violacea afferrò l’anima tra le sue fauci, strappandola dal collo di Astrid.
Alzasti gli occhi e vedesti Rhadamantys abbassare l’indice. Poi, lo sguardo furioso e spiritato di Rhadamantys ti trapassò da parte a parte come le lame di una spada. «Camus di Aquarius, ti avevo ordinato di trovare una soluzione al problema delle Creature, non di mettere in pericolo la custode della Luce Ombrosa! E, tu, Ninfa, che hai da dire a tua discolpa?»
«Mi dispiace mio signore, sono desolata, ma la giovane padrona non ha voluto ascoltarmi e…»
«Taci! Quanto a voialtri due, sparite. Non voglio più vedervi sul campo di battaglia, prendi la ragazza e lasciate questo posto, adesso, prima che decida di ammazzarvi entrambi». Poi, ti lasciò raggiungere la ragazza. «Astrid! Astrid rispondi!» Chiamasti.  Ma non facesti in tempo a raggiungerla che fosti superato da Menta, la quale si gettò in ginocchio accanto a lei urlando: «Mia signora, mia signora!» Ma dalla giovane non venne risposta. L’aiutò a mettersi seduta e prese a domandarle come si sentisse e se riuscisse a muovere la testa. Poi la vedesti rilassarsi e, capisti che la giovane doveva aver risposto. Ti avvicinasti a passo più sostenuto. In breve anche tu fosti accanto a loro e, ti chinasti per osservarla. «Astrid». La chiamasti, non senza nascondere la preoccupazione per le sue ferite e il sollievo di saperla ancora viva.

«Camus… ah!» Esclamò portandosi repentinamente una mano al collo. Le togliesti le dita e vedesti che stavano fiorendo dei lividi sulla sua pelle candida. Lividi molto estesi e dolorosi. A giudicare dalla sua espressione doveva quasi essere arrivato a spezzarle il collo. Le sorreggesti la nuca con la mano mentre lo esaminavi. Si stava coprendo di lividi. Usasti il tuo Cosmo per raffreddare la ferita. «Stai bene?» Le domandasti, guardandola preoccupato mentre eseguivate l’ordine dello Specter della Viverna e levavate le tende. Ti passasti il suo braccio attorno al collo e la sorreggesti. Mentre vi allontanavate ti accorgesti che la ragazza continuava a tormentarsi il collo e glielo raffreddasti con il Cosmo. Lei emise un sospiro di sollievo.  
«Va meglio?» Dannazione, quanto ti avrebbero fatto comodo i poteri di Aiolia in questo momento. Quando foste sufficientemente lontani la facesti sedere su una roccia e le scostasti i capelli per controllare l’entità del danno. Sulla sua pelle candida stavano affiorando dei lividi violacei a forma di dita nonostante il tuo intervento. Accidenti, avresti avuto bisogno di un collare: «Forse siamo ancora in tempo per raggiungere l’accampamento e medicarti come si deve…» Iniziasti ma lei t’interruppe scuotendo il capo con una smorfia di dolore. Si portò una mano alla gola e scosse il capo. «Come no? Astrid, potrebbe aver compromesso il tuo collo e…» Non facesti in tempo a finire la frase che lei articolò: «Dark Resurrection». E la sua smorfia di dolore scomparve, sostituita dal sollievo. Tolse la mano e tu sgranasti gli occhi stupefatto nel rivedere la sua pelle di nuovo intonsa. «Ce l’avresti un po’d’acqua?» Ti chiese con voce normale, come se non fosse successo niente. «Ah, sì, aspetta». Le passasti la tua borraccia che Astrid tracannò avidamente. Poi te la restituì e bevesti anche tu. Più per un momento di raccoglimento che per effettiva sete. Richiudesti il tappo e domandasti: «Dove hai imparato quella tecnica? Fa parte dei poteri che ti servono per custodire la Luce Ombrosa?»
«Ehm no. In realtà me l’hanno insegnata», rivelò. Questa rivelazione te la fece guardare sotto una luce completamente diversa. Avevi già pensato che fosse coraggiosa, ma non che fosse capace di usare il Cosmo anche lei. «Ah, sicuramente un Saint, perché non mi hai detto subito che sai usare qualche tecnica? Mi avresti risparmiato un bel po’di fatica e di spavento». L’ammonisti.
«Io… scusami, non ci ho pensato». Fece distogliendo lo sguardo, la voce più sottile.  
La riaccompagnasti al padiglione della Caina e, stavolta, controllassi che entrasse davvero nella tenda, invece di fare finta.
Poi, tornasti alla tua tenda, dove trovasti Fianna e Isaak correrti incontro. Valentine uscì poco dopo da dietro un angolo di una tenda vicina alla tua e se ne restò in disparte mentre la tua famigliola ti salutava. Solo dopo si avvicinò e ti salutò con un cenno del capo.
L’indomani, tornasti da Astrid dopo aver pranzato e conferito con gli altri alleati a proposito del piano d’azione. Con ancora i ricordi della riunione bene in testa, la trovasti intenta a guardare il soffitto. Distesa su un lettino in stile antico romano. L’abito alla Morticia Addams ancora indosso e lievemente spiegazzato. Sembrava che non avesse riportato traumi a causa dell’aggressione. Ma forse era semplicemente molto brava a mascherarli.   
«Cosa pensi di fare adesso?» Le domandasti dopo i convenevoli. La vedesti riflettere. Si morse il labbro mentre pensava. Alla fine si mise a sedere e decretò: «Devo costruirmi un’armatura». Poi ti guardò, «se voglio sopravvivere devo come minimo procurarmi il necessario; non posso sempre stare lì a usare la Dark Resurrection». In effetti non aveva tutti i torti. Poi tacque e il suo sguardo s’incantò. «Astrid», la chiamasti e lei, sollevò lo sguardo e ti guardò con intenzione prima di dirti: «Camus, sto per farti una richiesta che ti sembrerà molto strana, ma è di vitale importanza che tu mi risponda favorevolmente e che mi aiuti a realizzarla».
«Certo, dimmi tutto, cosa posso fare per te?» Chiedesti tra il confuso e l’incuriosito. La ragazza ti lanciò un’occhiata di pura disperazione: «Per favore, aiutami ad allenarmi».
«Allenarti in che senso e a fare che cosa?»
«A combattere». Dichiarò strabiliandoti. Ma prima che tu potessi muovere qualche obiezione continuò: «Abbiamo visto tutti che ho i riflessi rallentati, sai che cosa ho passato a causa di Aiacos e degli altri due Giganti Infernali, sai che gli Specter non mi daranno tregua e io ho paura. Aiutami a non averne più! Aiutami a combattere», esclamò posandoti le mani sulle spalle e incatenando il suo sguardo al tuo. E nel suo sguardo, mutato, leggesti il terrore e la stanchezza di provare paura, ma anche la fierezza e la determinazione. Soprattutto queste ultime, piccole, ma le leggesti. «Ma io non posso, tu sei solo un’ancella, non hai un addestramento specifico mentre io…»
«Tu sei prima di tutto un Gold Saint e io non sono una persona comune. Non sono una semplice ancella e non sono solo la Custode della Luce Ombrosa. Finora te l’ho taciuto ma la verità è che sono l’Apprendista del Tredicesimo Gold Saint, Odysseus di Ophiuchus! Io sono una Saint proprio come te, anche se lo nascondo bene. Te lo chiedo da pari a pari, aiutami a non avere più paura!»  Esclamò, ma di tutto il discorso solo una parte risuonò con più prepotenza delle altre nella tua psiche: «Aspetta, tu cosa? Tu sei l’Apprendista del Gold Saint di Ophiuchus?»
«Sì, è così». Ammise e distolse lo sguardo. Anche se la sua espressione era tutto fuorché vergognosa. Glielo leggevi in faccia che aveva già deciso che se tu non gli avessi dato una mano ci avrebbe pensato da sola. «Perché non me l’hai detto subito?»
«Perché non mi fidavo. L’ultima cosa che ricordo è di aver affrontato la traditrice del Santuario e di essere finita qui. Scusami, credevo che fosse tutto un trucco di Rhadamantys». Spiegò guardandoti di nuovo e, stavolta non ti sentisti di biasimarla per questo. D’altronde, tu stesso avevi pensato la medesima cosa. «Io… d’accordo».
«Non ti secca che io sia l’Apprendista di Odysseus, vero?» Chiese guardinga. Adesso cominciavi a capire perché non si fosse sbottonata subito. 
«No, più che altro sono sorpreso» e spaventato, ma questo omettesti di dirglielo e di mostrarglielo,  «per quale Armatura sei in lizza?» Le chiedesti poi, per pura curiosità. Per fingere, un secondo, di essere di nuovo Vivo; ma lei sgonfiò subito questa tua fantasia: «Non so cosa tu voglia dire, io non sono in lizza per nessuna Armatura, il maestro non mi ha mai addestrata per questo». A quel punto la guardasti sconcertato, ma ti ricomponesti e le domandasti: «Sei davvero sicura che il tuo maestro fosse davvero il Cavaliere Maledetto?»
«Sì, non ci sono dubbi». Confermò.
«Quella che hai usato prima era la tecnica di Odysseus di Ophiuchus, vero? Come può essere che tu la possa usare se non hai neppure risvegliato il Settimo Senso?» Indagasti e lei scrollò le spalle. Quasi simultaneamente ti sovvenne che forse era come la Diamond Dust e altre tecniche che avevi insegnato a Hyoga e ad Isaak: anche un Cavaliere di Bronzo probabilmente era capace di apprenderle e usarle, anche se non con la stessa potenza di un Gold. Era risaputo che certe tecniche non erano appannaggio esclusivo solo dell’élite del Santuario.  
«Non lo so, mi ha insegnato come usarla. Forse non me lo ricordo ancora, ma è possibile che io abbia già risvegliato il Settimo Senso, oppure è la Luce Ombrosa. Ricordo solo che i primi tempi che ero qui faticavo a respirare e provavo un dolore atroce all’altezza del petto, desideravo che smettesse, perché volevo vivere. Poi è passato e non l’ho più sentito; ho pensato spesso di essere morta, ma il mio cuore batte ancora e non sono ancora capace di levitare o passare attraverso gli oggetti. Ieri ne ho avuto la conferma». Rivelò con timore.
Doveva essere la giornata o che ti eri alzato così, però ti sovvenne anche un altro punto estremamente importante: «A proposito, ma come fai a sopravvivere qui? Anche la Somma Pandora ha bisogno di un manufatto per poter restare in vita nel Regno dei Morti.» Spiegasti. Si accigliò, confusa: «In che senso?» Così tu le spiegasti tutta la faccenda dell’Ottavo Senso e lei alzò le spalle. «Non ti so dire. All’inizio avevo qualche difficoltà respiratoria, ma poi è passato». Stando alle parole precedenti, difficoltà respiratoria era un garbato eufemismo per descrivere la morte.
Questa storia aveva dell’incredibile: «Mi stai dicendo che hai risvegliato l’Ottavo Senso soltanto volendolo?»
«L’Ottavo Senso?»
«Si chiama Arayakashiki ed è il Senso che permette agli Specter di sopravvivere qui». Riassumesti brevemente. Anche perché era un Senso ancora oscuro sotto molti punti di vista perfino per voi Gold. Da che ne sapevi tu, prima del tuo allievo, dei suoi fratellastri e Shaka e gli altri sei sopravvissuti alla Battaglia delle Dodici Case, non avevi mai sentito parlare di Saint in possesso. Ma se era così questa ragazza era dotata di una grande forza di volontà e, ciò, te la fece guardare con ammirazione. «Non ricordo di averlo mai sentito nominare; ma, questo significa che sono una Specter?»
«No, no, certo che no, anche noi Gold l’abbiamo risvegliato trent’anni fa per discendere negli Inferi». Almeno per quanto riguardava coloro che rimasero vivi. Lei tirò un sospiro di sollievo.  
«E, tu pensi di riuscire a risvegliarlo qui, negli Inferi?»
«No, non il qui, ma con chi. Con te. Voglio che sia tu a svegliare il mio Settimo Senso». Specificò e i suoi occhi gialli parvero lanciare un lampo di determinazione che non avevi mai visto prima. Però cercasti di farla ragionare: «Se è come penso non ne hai bisogno, l’Ottavo Senso è già superiore al Settimo, dovresti riuscire a cavartela perfettamente anche così». Dalla sua espressione dubbiosa capisti di non averla convinta. Perciò glissasti di nuovo sull’argomento armatura e lei si lasciò catturare da questo argomento. Ti disse di aver già una vaga idea di come realizzarla, ma il problema restava. Poteva farsi tutte le armature che desiderava, se però non aveva tutte le informazioni per capire come costruirla, non era che servisse a molto. In ogni caso, la giornata procedette regolarmente. Fu alla sera che uno Specter venne a chiamarti trafelato, aggiungendo che tua figlia stava combattendo in arena. 
Immediatamente ti alzasti e corresti in direzione dell’arena dei combattimenti, con il cuore che esplodeva nel petto per la paura. Quando arrivasti vedesti Astrid in mezzo all’arena che sembrava danzare. Alle sue dita erano legati tanti fili viola purpurei cui erano appese quattro stelle di qualche Specter che giaceva ai suoi piedi.
La folla, fantasmi e Skeleton, rumoreggiava sugli spalti, chiamandola a gran voce, fischiando e applaudendo. Ma la tua attenzione era tutta focalizzata sulla giovane che osservava gli Specter ai suoi piedi ancora incredula, poi sollevò le mani e se le guardò. Poi, si allontanò dal gruppo e restituì le stelle ai loro proprietari con un movimento molto simile a un colpo di frusta e, i quattro, si svegliarono spalancando la bocca come se fossero stati tutto il tempo in apnea. I fili viola purpurei che pendevano ancora dalle dita di Astrid. Improvvisamente la folla tacque e sentisti anche tu il rumore di un applauso sarcastico. Volgeste tutti la testa in quella direzione e vedeste Aiacos di Garuda, nella sua Surplice, applaudire, guatandola. Un sorriso folle e affilato la faceva da padrone sulle labbra del nepalese. «Guarda un po’ che bella principessina abbiamo qui. Avevo sentito dire che qualcuno stesse facendo strage delle mie truppe. Io dicevo che no, non era possibile, che i miei servi non si farebbero mai mettere i piedi in testa da nessuno, che non mi avrebbero mai disonorato, ma non mi aspettavo che, fossi proprio tu. Questo cambia tutto. Camus, dovresti tenere più a bada tua figlia, non lo sa che potrebbe cacciarsi nei guai?» Fece il Garuda scrutandoti.
«Non siamo parenti!» Esclamaste all’unisono fissandolo di rimando.
Senza capire come, ti ritrovasti sbattuto al tappeto mentre Astrid fu inchiodata contro la roccia dallo Specter. Solo dopo capisti che la sua Seconda Ala aveva usato una delle sue tecniche segrete a vostra insaputa, per permettergli di divertirsi. Da dove ti trovavi faticasti un po’per vedere il Giudice Infernale sollevarla per aria, sfidarla a usare le sue tecniche su di lui, mentre le toglieva il respiro. Poi, farla franare al suolo, scocciato di fronte ai suoi tentativi di liberarsi.
La giovane si portò una mano alla gola, ansimando.
«Anche se cammini di nuovo, non sei tutto questo granché. Andiamo, Violate». Comandò alla sua Ala, che lo seguì diligentemente, con un sorriso soddisfatto dipinto in faccia, dissolvendo la tecnica e, permettendoti di rimetterti seduto. Anche Astrid era in ginocchio, il Garuda l’aveva fatta cadere a terra.
La raggiungesti e le tendesti la mano per aiutarla a rialzarsi, domandandole se stesse bene. Anche se sicuramente stava usando la Dark Resurrection. Lei ti fece cenno di sì e poi sollevò il volto e lo richiamò indietro con un adirato «Ehi, tu!» Un secondo dopo un muro di bagliori fosforescenti sbarrò loro la strada. «Non ho sentito la campana». Ti accigliasti perplesso; quale campana?
I due Specter si girarono lentamente verso di lei, l’espressione seria e gli occhi in ombra a causa del suo elmo. Un’aura di offesa e rabbia tagliente come una lama affilata emanava da lui. La Specter di Behemoth non era da meno.
Anche l’intera arena ammutolì da questo improvviso spettacolo.
Astrid si rialzò in piedi, poi curvò la bocca in un perfido sorriso affilato. I bagliori fosforescenti volteggiavano tutto attorno a voi turbinando in special modo attorno a lei che si mise in posizione di attacco. Si era bevuta il cervello? «Astrid!» L’avvisasti, ma lei non ti ascoltò.
«Mio Signore…» Iniziò la Specter della Terra della Solitudine ma il suo comandante la bloccò con un braccio, prima di asserire: «No, lascia, per sistemare quel moscerino basto io da solo». Ribatté trapassando la tua collega con lo sguardo. La quale, nel frattempo, ti spinse via.
Il Garuda si scagliò addosso a lei urlando: «Non m’importa niente se sei tu che mi hai resuscitato, io ti faccio fuori lo stesso, preparati!» E le sferrò un poderoso pugno che la giovane scansò spostandosi di lato un secondo prima. Lo Specter si riebbe subito, si girò verso di lei, che era arretrata con un balzo e cercò di attaccarla nuovamente, fallendo miseramente nell’impresa. Dalla tua posizione e a causa delle ali della Surplice non riuscisti a vedere cosa accadde, fatto sta che Aiacos fu sbalzato indietro di tre metri buoni dai bagliori, che si erano concentrati tra loro come un muro di gomma su cui era rimbalzato.
Lo Specter abbassò le braccia, posizionate a X a proteggere il volto.
Guardasti sbalordito Astrid mentre i bagliori fosforescenti si allontanavano di nuovo e lei abbassava le braccia. Lo Specter sorrise confuso e prese a ridere sguaiato e a canzonarla per la sua assurda tecnica. Peccato soltanto che non notò affatto il sottile filo di energia violetta che collegava l’indice luminoso di Astrid al suo cuore. E quando se ne accorse, la giovane aveva già tirato indietro il filo, separando un piccolo globo di luce viola purpurea con il nucleo biancastro, dallo Specter, il quale cadde a terra privo di sensi.
Poi tutto accadde rapidamente. Il silenzio cadde sulla piccola arena naturale e un secondo dopo venne squarciato dal grido della Specter: «Mio Signore!»
E, subito dopo, Astrid fu inglobata da una fiamma nera che sfumava sempre più sul bianco, divampare fino ad avvolgerla. Sulle prime credeste tutti che fosse un attacco segreto di Aiacos. Ma Astrid non stava soffrendo. Anzi. Una smorfia di bestiale compiacimento le deformava i lineamenti.  
E, con vostro enorme stupore, capiste che, quella fiamma nera, fosse il suo Cosmo. 
La giovane teneva con entrambe le mani la vita di Aiacos. Violate, dopo aver cercato di rianimarlo inutilmente le si scagliò addosso ma Astrid bruciò ancor più il suo Cosmo con un urlo e la Specter fu scagliata indietro, ma non fu sconfitta. Un sorriso di scherno curvò la sua bocca, mentre caricava il suo Cosmo per sferrarle la Brutal Real.
Astrid saltò via, in alto, più di quanto ti aspettassi, lanciò dei fili agli Specter e poi, gli strappò di nuovo le stelle. Gli Specter colpiti caddero al suolo privi di sensi. A quel punto anche sul volto della Specter vedesti passare la paura.
Lei atterrò e le usò a mo’ di frusta per tenere lontana la sua avversaria. E faceva bene a tenersi lontana perché quei fendenti erano capaci di frantumare le rocce e distruggere le Surplici, come scoprì la stessa Violate, che pure fu soltanto sfiorata. La Specter sgranò gli occhi e saltò via a propria volta, prima di lanciarsi di nuovo all’attacco. Attacchi che, Astrid, in virtù dell’adrenalina evitò, anche se non completamente, visto che vedesti del sangue d’oro tingere la sua pelle. E, se ne accorsero anche gli Specter: «Ichor!» Esclamaste sorpresi.
«Ora capisco, la Dea Atena ti ha concesso la benedizione del suo Ichor, ma non ti servirà!» Dichiarò Violate. Astrid si tenne il braccio ferito, mentre sul suo corpo cominciarono a fiorire diversi lividi. Vacillò sulle gambe e il fiato le si fece grosso e affannato. La vedesti incurvarsi sulle sue ginocchia per lo sforzo. Doveva essere finito l’effetto della Dark Resurrection e ora le ferite le si stavano riaprendo! Proprio come temevi, non era ancora capace di utilizzare bene quella tecnica. Il suo abito nero era già macchiato di Ichor rappreso e sporco di polvere scura. Anche la Specter se ne accorse e, sorrise malefica. approfittò di questo momento di vulnerabilità per lanciarsi addosso a lei per finirla. Eppure, invece di correre in suo soccorso, qualcosa ti disse di restare dov’eri. E non si trattava dei bagliori o della volontà del Fato. Era che sentivi di non dover intervenire, proprio come quando combatteva uno dei tuoi vecchi compagni. 

Nonostante questo, la giovane si accasciò e il tuo cuore perse un battito per la paura.
Facesti per scattare, ma anche volendo ormai era troppo tardi., che il pugno della donna si abbatté su di lei, aprendo una depressione nel terreno (che vibrò) e sollevando un quantitativo esagerato di polvere. 
Quando la polvere cominciò a diradarsi, vedeste la Specter, inginocchiata sul ginocchio sinistro e nocche a terra, fissare dritto davanti a sé con due occhi grandi così.
Gli Specter e gli Skeleton cominciarono a festeggiare e ad applaudire; ma tu non ti unisti a loro. Perché sentivi che c’era qualcosa che non andava? Perché non si rialzava? Di solito si rialzava sempre subito, che cosa stava aspettando?
La polvere che si diradò lasciò vedere ciò che l’aveva fermata, ossia, la punta di una falce, poggiata proprio in mezzo agli occhi. E, risalendo, il braccio insanguinato alla sua sinistra, che la teneva per il manico e, costringeva Violate in ginocchio. E, per esteso, il corpo avvolto dal Cosmo della sua padrona. 
A quel punto gli applausi e le grida di giubilo si placarono.
Astrid aveva solo finto di svenire per raccogliere la falce e ribaltare le posizioni con un trucco. E, l’elmo di Violate non le copriva proprio una delle parti più vulnerabili della testa. E la Specter lo sapeva.  
Tutta quella fatica per questo. Tirasti un sospiro di sollievo mentale; per un attimo avevi temuto il peggio. Astrid, continuando a respirare dal naso, tolse la falce dal volto della  sconfitta e arretrò.  La Specter recuperò l’equilibrio e arretrò, guardandola stupefatta come il resto dei presenti.
Dopodiché Astrid mostrò l’altra mano insanguinata, su cui galleggiava pigramente a mezz’aria, la stella del Garuda e, lanciandogliela come se fosse una cartaccia, la restituì al suo legittimo proprietario. La stella, come calamitata dal corpo del suo padrone, si fermò esattamente sopra di lui e scomparve. Solo allora il corpo dell’uomo si animò con un sussulto. Riaprì gli occhi e respirò profondamente. Gli Specter e gli Skeleton lo chiamarono e qualcuno provò ad aiutarlo a rialzarsi, ma Aiacos li scacciò tutti e si mise seduto da solo, asserendo sgarbatamente di non aver bisogno di aiuto.
La Specter si volse repentinamente verso di lui con occhi sgranati, poi, tornò a guardare la vincitrice, divisa dall’indecisione; se affrontarla nuovamente o se soccorrere il suo superiore.
Dal canto suo Astrid continuò a tenere d’occhio entrambi. Per ricordare alla sconfitta di non fare mosse avventate, mosse la testa di lato, scoccandole uno sguardo minaccioso. Per rimarcare il concetto, alzò di poco il manico della falce, che lanciò un sinistro brillio.
Solo in un secondo momento ti accorgesti che faceva fatica a respirare e che tremava.
La Behemoth fece la spola con lo sguardo tra i due, mentre il suo Signore faceva mente locale e deduceva cosa fosse successo. Il Garuda guardò la bionda ferita sbalordito: come se non credesse che quella ragazzina sudata e malconcia fosse riuscita nell’ardua impresa di sconfiggerli. I bagliori che luccicavano e volteggiavano ancora tutto intorno alla sua persona e, la fiamma nera del suo Cosmo ardeva imperterrita con tocchi di viola e porpora qui e là sui contorni. Esattamente come il colore del Cosmo degli Specter. Lasciò cadere la falce a terra e il suo Cosmo e i bagliori si dissolsero.
Avevi già capito cosa sarebbe successo, ma pregasti di sbagliarti.
Con un ultimo gemito di dolore, vedesti i suoi occhi chiudersi e poi, cadde al suolo, svenuta.
«Astrid!» Urlasti e la soccorresti. Le sollevasti il busto da terra e le battesti la mano su una guancia per svegliarla, continuando a chiamarla. Dei suoi occhi vedevi solo una striscia di sclera. Per fortuna era solo svenuta a causa dello sforzo. 
Tirasti un sospiro di sollievo e guardasti i due Specter. In caso di necessità avresti combattuto al posto suo. L’avresti protetta con le unghie e coi denti. 
Un angolo della bocca del comandante della flotta di Hades guizzò verso l’alto per un momento. La sua testa ebbe un piccolo scatto indietro, prima di tornare dritta. Poi, sulla sua faccia affiorò un sorriso smagliante da cui proruppe ben presto in uno sghignazzo di malefico divertimento.    

Astrid
Il combattimento con Violate e il suo Signore mi aveva debilitato più di quanto immaginassi. Non immaginavo che quella donna fosse tanto forte. La sua apparenza corrispondeva davvero alla sostanza. 
La risata di Aiacos mi risuonava ancora nelle orecchie, a distanza di poche ore. Perché sì, l’avevo sentita, prima che svenissi di nuovo, nonostante ti tentativi di Camus per tenermi sveglia.
Quando aprii gli occhi, la prima cosa che feci fu mugolare per il dolore martellante alla testa e a varie parti del corpo.
Il sapore del sangue la faceva da padrone nella mia bocca e, fui costretta a inghiottire più volte, domandandomi se per caso non avessi riportato delle lesioni interne. Ripensando allo scontro, però, non mi sembrava. Ma accidenti, anche se spesso mi aveva solo sfiorato, faceva male.
Mi portai una mano alla faccia e me la tastai. Fu così che scoprii di essere bendata alla testa e alle mani e, sicuramente ad altre parti del corpo.
Solo dopo mi accorsi anche del resto. Ovvero, che questo non era il Padiglione della Caina e, non somigliava neanche alla tenda ospedaliera dove mi ero svegliata la prima volta. Per fortuna non fui assalita, come allora, da un’altra crisi. Perché effettivamente sentivo freddo come se… Sollevai le coperte e guardai il mio corpo seminudo a parte la biancheria intima. Mi misi a sedere e scoprii di avere il torso e varie parti del corpo fasciate e steccate e il mio vestito piegato su un angolo del giaciglio. 

Allungai una mano per raccoglierlo e portarmelo al petto e, mi accorsi che era stato lavato e rammendato all’altezza delle ginocchia.
Mi guardai attorno e scoprii di trovarmi in un tepee indiano: «Quando ci sono finita qui?» Domandai a mezza voce, prima che una sferzata più forte delle altre, mi costringesse a piegarmi per il dolore e sibilare tra i denti. Mi  posai una mano sull’addome e, chiusi gli occhi, mormorando: «Dark Resurrection». Ma non funzionò. Perché non funzionò? Mi domandai. Solo dopo mi ricordai di non aver fatto leva sul mio Cosmo e, lo attivai. Ripetei la formula e le ferite sparirono e, con esse anche il dolore. Così, tirai un sospiro di sollievo e mi raddrizzai. Con il vestito sulle ginocchia sciolsi tutte le bende osservando il mio sangue rappreso su di esse. Il sangue d’oro aveva assunto un colorito più scuro, come se si fosse ossidato.
Poi, indossai l’abito, legandomelo su una spalla tramite le maniche e, abbottonandomelo di lato con ciò che restava dei bottoni.
Infine mi alzai, indossai di nuovo i sandali alla schiava e uscii dalla tenda, trovandomi in una sorta di veranda fatta con quattro sostegni e una tela cerata. Lì, trovai Camus intento a discorrere con una bambina dai capelli rossi, di fronte a una cartina e una ciotola di brodo caldo e fumante. Accanto a loro, in un braciere, stava un fuocherello che scoppiettava allegro. I due si accorsero della mia presenza e mi salutarono. «Buongiorno». Risposi di rimando, continuando a tenermi una mano sulla testa. «Padrona!» Esclamò la voce di Menta e mi girai verso di lei. Era seduta al lato dell’entrata, per questo non l’avevo vista subito. «Oh, ciao, Menta».
«Vi siete ripresa?» Domandò la domestica anche per i presenti e io annuii. Poi la vidi guardarmi perplessa. Le chiesi se avessi qualcosa di strano e lei rispose che il mio vestito non era lo stesso che lei aveva lavato. Quasi scoppiai a ridere: «Ma no, l’ho solo indossato in un modo diverso».  
«Non sapevo che un abito simile si potesse indossare diversamente». Ribatté Camus mentre mi sedevo a mia volta davanti a loro. Sarebbe rimasto stupito dai metodi che ci si poteva inventare per rinnovare i vestiti.
Menta si offrì subito di andarmi a prendere la colazione e la lasciai andare. «Le ferite sono già guarite?» Domandò Camus e io annuii, poi chiesi, accennando al vestito e alle fasce: «Chi mi aveva…?»
«Fianna». Rispose prontamente accennando alla bambina dai capelli rossi accomodata al suo fianco. La ringraziai con un cenno del capo e a parole. Camus tradusse tutto in francese, poi mi spiegò che non le aveva ancora insegnato il greco antico. Anche Fianna rispose nella stessa lingua e, Camus mi tradusse ancora: «Ha detto che è stato un piacere». Sorrisi, anche se non molto convinta; dallo sguardo diffidente che mi lanciava non dovevo andarle molto a genio. Potevo anche immaginare per quali motivi.
«Dove siamo?» Chiesi al mio collega e lui mi rispose che eravamo vicino alla porta est dell’accampamento. «Dunque siamo organizzati come un forte antico romano?» Chiesi e lui annuì con un cenno del capo, anche se poi, ammise, che non era altrettanto ordinato e perfetto.   
Proprio in quel momento Menta tornò recando con sé una ciotola che mi passò. Si scusò dicendo che non aveva trovato niente di meglio da darmi, così su due piedi. Camus mi disse che quando aveva saputo che ero sparita mi aveva cercato in lungo e in largo e, che, solo questa mattina mi aveva trovato e aveva insistito per restare al mio fianco. Solo a quel punto aggiunse che

«Probabilmente Rhadamantys sarà furioso  per la tua sparizione, ma non c’era altra scelta; spero che vorrai scusarmi».
«Ah, per quel che mi riguarda hai fatto benissimo, non avrei sopportato un secondo di più di sostare in quella tenda». Dissi, lanciando il mio sguardo sul promontorio su cui erano abbarbicati, semi nascosti dalle rocce, i Padiglioni della Giudecca, della Tolomea, dell’Antenora e della Caina.
Anche se ciò si poteva vedere come un: “dalle stelle alle stalle”, preferivo così che svegliarmi ogni mattina con il terrore di quell’uomo.
Distolsi lo sguardo e mi concentrai sulla ciotola che mi scaldava le mani. Presi il cucchiaio che Menta mi porgeva e annusai la brodaglia.  Ma mi rilassai quando capii che era solo latte caldo con i cereali. Non era la roba che avevo mangiato da quando ero qui, ma non ero un tipo schizzinoso. Perciò mangiai senza lamentarmi. Tanto ormai lo sapevo che Menta mi avrebbe portato solo cibo del mondo dei Vivi.         
E poi, avevo dormito più comodamente oggi che sul triclinio nero che lo stronzo della Viverna teneva nella sua tenda. Il signore preferiva dormire su una brandina io ancora mi domando come facesse a portarselo dietro e dove l’avesse trovata. L’ancella che era in me si domandò su quale accidenti di carretto se la caricasse, come faceva a lavare quelle lenzuola immacolate senza rovinarle e, soprattutto, dove avesse trovato quei mobili e come facesse a non sporcare neanche i variopinti, bellissimi, tappeti persiani che facevano da pavimentazione. 
Inizialmente non dovevo sostare al Padiglione della Caina, però insistette per avermi sotto la custodia sua e degli altri due Giudici Infernali. Per una settimana avrei dovuto fare rapporto a lui e poi agli altri due. Il fatto che poi mi avesse anche accolta nella sua tenda era un altro discorso. E, non osavo immaginare per quale motivo, a parte che mi ritenesse troppo fragile e debole. D’altronde, la mia capacità era troppo preziosa perché mi lasciasse libera. Forse temeva che sarei potuta morire da un momento all’altro, come la prima volta che fui portata al suo cospetto. Quel maledetto… Se non lo uccisi quel giorno non l’avrei ammazzato mai più.
Avevo ancora paura di lui. Avevo sperato con tutta me stessa di non rincontrarlo mai più. Non era a caso che mi ero allenata per tutti questi mesi. Non volevo più soccombere alla paura che mi incuteva e, mi ero ripromessa che, semmai l’avessi incontrato, non avrei più avuto paura. Avrei invece avuto il coraggio di guardarlo in faccia e affrontarlo, rendendogli tutto il dolore che mi aveva inflitto. Ma questo coraggio non ce l’avevo. Per questo, quando fui davanti a lui e ricollegai il suo nome al suo volto, mi prese un accidenti bello e buono che, andò a peggiorare già il dolore che provavo, diventando insostenibile. Non avevo detto tutta la verità a Camus, quando avevo parlato di crisi respiratoria. Stavo proprio soffocando, non sentivo aria nella mia gola e nel mio naso. Non sentivo proprio niente. In compenso il dolore allo stomaco e al braccio sinistro erano fortissimi e mi aveva costretto in ginocchio, sotto al suo sguardo impassibile, mentre cercavo di respirare. Le mie guance si gonfiavano e sgonfiavano come la pelle di un mantice; ma l’aria non arrivava e il mio campo visivo si restringeva sempre più.
Non avevo mai avuto così tanta paura, vero e proprio terrore allo stato puro. Perché stavo morendo. Eppure, riuscivo solo a pensare, non so come, so che qualcosa dentro di me si mosse e si ribellò al dolore e al resto. Se avessi dovuto dare delle parole a quelle sensazioni tanto intense e a quelle emozioni che mi accesero, sarebbe: “No, non deve finire così. Non finisce così!”
Non volevo tirare le cuoia davanti a questo Specter, non volevo dargli questa e nessun’altra soddisfazione. Per questo cercai di lottare con tutte le mie forze e di resistere. Io non morirò così! Fu allora che usai la Dark Resurrection e, sentii di nuovo tutto il Creato attorno a me, sentendomi di nuovo una parte di esso. Vidi proprio le immagini balenare nella mia mente e sentii di nuovo le voci delle stelle. Forte di questa sensazione, lasciai che mi passasse la sua energia, ma non bastò.
“Io non morirò così!” Esclamai dentro di me e usai la tecnica del mio maestro. Ma il mio muscolo cardiaco andò rallentando sempre più pericolosamente. Il mio corpo cadde a terra. Non era possibile che morissi così.
Per questo, invece che distaccarmi da me stessa, mi adoperai per usare, ancora e ancora, la Dark resurrection. «Io non muoio così!» Dissi ad alta voce mentre mi rituffavo nel mio corpo, rindossandolo e, cercando di rimettermi al mio posto dentro di esso.
«Mi hai sentito? Io non muoio!» Esclamai con rabbia e ricominciai la mia opera di rianimazione dall’interno. La mia energia fluì dentro il cuore, riempiendolo. Lo potevo vedere risplendere mentre il sangue dorato del mio maestro sembrava risplendere ancora di più. Non era ancora giunta la mia ora. Non volevo morire.
“Dark Resurrection!” Pensai con tutta la forza di cui ero capace e mi abbracciai il busto, affondando le dita gelide nella mia stessa carne. L’energia mandò un lampo viola purpureo che andò a unirsi all’oro.
Io continuai mettendoci ancora più forza e l’energia cominciò a ribollire e a splendere ancor di più. Anche da sotto le palpebre mi sembrò che tutto fosse diventato d’oro attorno a me. Ma non era l’ambiente, ero io a risplendere così. La luce si scurì e divenne il mio Cosmo. 
L’energia parve restare sospesa mentre il mio cuore ricominciava a pompare il sangue dentro di me, con battiti rapidissimi. Con uno spasmo involontario mi rannicchiai in posizione fetale. Il mio corpo parve riacquistare la sua sensibilità e, per un momento fui di nuovo consapevole di tutto, persino del tappeto su cui ero distesa. Poi la sensazione scomparve ma non mi detti per vinta. Continuai a insistere così per tutto il tempo e, quando la sensibilità e i battiti cardiaci tornarono stabili e forti, l’energia mi parve come sospesa. Al suo nucleo, sentii come delle scariche elettriche.   
Costrinsi anche le mie labbra fisiche a muoversi e dissi la formula a voce alta: «Dark Resurrection!» Sussurrai e, con quel sussurro, l’energia che era rimasta sospesa a caricarsi, ricadde e  
improvvisamente una scarica elettrica si propagò dal mio cuore e si diramò in tutto il corpo. Spalancai gli occhi di scatto e aprii la bocca per respirare, come se fossi rimasta in apnea tutto il tempo. Poi misi a fuoco i tappeti e i piedi dello Specter, ancora davanti a me. Respirai velocemente per calmarmi e, strinsi le palpebre, prendendomi un secondo, prima di tornare definitivamente alla realtà. Avevo la sensazione, però, che qualcosa in me fosse cambiato, anche se non sapevo bene che cosa fosse.
Rhadamantys non disse niente, né mi aiutò a rialzarmi. Non che me lo fossi aspettato, però sarebbe stato umano. Guardare quegli occhi mi rimetteva costantemente alla mente quella notte sciagurata. Anche se adesso non potevo fare a meno di pensare che fosse voluta dal destino, la trovavo, al tempo stesso una gran cazzata. Tra tutti i metodi che il destino poteva inventarsi per riportarmi al mio vero io e a casa, s’inventava questo? Che scherzo di pessimo gusto, quasi quasi era meglio prima.
Quegli occhi li ricordavo troppo bene. Non erano umani. Non avrei mai pensato di dirlo, ma persino gli occhi gialli con la pupilla di serpente del mio maestro erano più umani di questi. Questo non era un essere umano e, tutto mi gridava di stargli alla larga. Appena ripresa mi disse soltanto di lavarmi il viso che c’era una bacinella e una caraffa in un angolo vicino al letto. Come se per tutto il tempo non avessi fatto che piangere, invece di lottare per la mia sopravvivenza. Per tutto lo schifosissimo tempo e pure con un mezzo viaggio astrale cosciente! Che fortuna!
Mi misi in modo da poterlo tenere d’occhio mentre obbedivo. Meglio impiegare il mio tempo in modo più produttivo che stare a inveire con questo essere. E, poi, anche il solo mettere qualche metro di distanza tra noi, mi tranquillizzò un poco. Ma non m’impedì certo di masticare una lunghissima trafila di insulti tutti indirizzati a quel biondo monocigliato che stava seduto alla sua scrivania a osservarmi di rimando. Sempre con quel suo cipiglio minaccioso che avrebbe intimorito anche la sua estetista.
Quel trentaseienne mi inquietava. Per tutto il tempo che mi sciacquai e anche dopo, ebbi i nervi a fior di pelle, pronta a scattare. Con tutta l’adrenalina che poi avevo in circolo e il terrore non c’era da sorprendersi. Quando mi fui sistemata mi accomodai sulla sedia dall’alto schienale stile Medioevo, che mi indicò. Solo una volta seduta, lui mi chiamò per nome e mi spiegò per quale motivo mi trovavo qui. Oltre a ribadire il fatto che fossi ancora viva quando c’ero arrivata, in perfetto stile Dante, o quasi, dal momento che c’ero stata teletrasportata.
A queste parole lo guardai diffidente e con gli occhi socchiusi, come se lo stessi mettendo a fuoco. «Come sarebbe a dire teletrasportata?»
«Significa che qualcuno tra i Vivi ha aperto una via per gli Inferi e ti ha spedito qui».
«Invece tu che cosa ci facevi da quelle parti?» Chiesi, ancora più sospettosa. Lui non fece una piega a sentirsi dare del tu. Evidentemente non gli importava più di tanto il modo in cui mi rivolgessi a lui.
«Siccome ignorava il luogo dove saresti potuta comparire, il mio Signore, il Divino Hades mi aveva contattato preventivamente e mi aveva ordinato di cercarti. Sei stata molto fortunata, saresti potuta comparire sul Flegetonte e allora sì che sarebbe stato un problema recuperarti. In tutti i sensi». Aggiunse poi in tono lugubre, trapassandomi con gli occhi; come se le sue parole non fossero state sufficienti.

L’unica cosa positiva della convivenza, a parte la comodità del triclinio, era che non era quasi mai presente e, adesso, probabilmente non lo avrei rivisto mai più, né sarei più stata costretta a condividere con lui il Padiglione. E, francamente, dubitavo che qualcuno sarebbe venuto a cercarmi e a riportarmi al Padiglione.
«Comunque il tuo teatrino non è passato inosservato, molti Specter mormorano di te. Se questo era l’intento delle tue azioni di ieri sera, allora ci sei riuscita». Mi informò tranquillamente Camus prima di mangiare una cucchiaiata dei suoi cereali. Ma si capiva che il suo era solo un educato rimprovero.
«In realtà no, volevo solo allenarmi e, ci sarei anche riuscita, se poi gli Specter di Aiacos che avevo resuscitato non avessero cominciato a infastidirmi». Risposi con noncuranza. Ma le tecniche che mi ero inventata lì sul momento, le avevo riprese dalle informazioni sugli Specter che, anticamente, mi dette il mio maestro. Soprattutto da Minos del Grifone. Il capire come realizzarlo era stato un altro paio di maniche. E, anche se non lo sapeva, ero già stata ferita molto più gravemente in questi tornei, di quanto immaginasse. Sì, lo facevo di nascosto da almeno tre notti e, per la prima volta, uno Specter aveva accettato di combattere con me. O meglio, mi aveva obbligato, in quanto mi aveva aggredito. Credo che fosse lo Specter della Gorgone.  Solo che mi ero chiesta cosa sarebbe successo se non avessi ritratto il dito subito dopo aver disegnato la stella. E, fu allora che mi venne in mente che, effettivamente, io disegnavo con la luce. Mi fosse venuto in mente molto prima…
Quindi dovevo disegnare la luce dei cinque colori fondamentali? Bè, l’azzurro e il nero l’avevo già trovati e anche il giallo. Ma a cosa mi serviva?
No, non poteva essere così semplice, questa soluzione era tanto ovvia quanto piatta. Non avrei saputo in che altro modo descriverla. 
A strapparmi da queste riflessioni ci pensò Camus che se ne uscì con un: «Deduco che tu non concepisca cosa sia la pazienza».
«La pazienza la conosco fin troppo bene, solo che non mi prendo la briga di esercitarla». Ribattei senza neanche guardarlo in faccia, ma solo di sottecchi. E, poi, finora ero riuscita a sopravvivere anche grazie a una buona dose di riflessi e sveltezza di mente. Potevo anche vantare un cervello decisamente più lucido dei loro e sufficiente sangue freddo, visto che i miei allenamenti erano stati assai meno massacranti e, che ero stata allevata come una persona normale.
«Se mi avessi dato il tempo ti avrei aiutato comunque». Mi disse a questo punto, trapassandomi con un lampo gelido dei suoi occhi rossi. E lo guardai direttamente; sentendo le guance scaldarsi: «Ah, scusa, mi era parso di aver capito che non l’avresti fatto». Mormorai imbarazzata, ma l’altro si accigliò ancor di più, intensificando l’occhiata gelida. «Cosa te lo ha fatto dire?»
«La tua non risposta; quando ti ho chiesto di aiutarmi a risvegliare il Settimo Senso non mi hai risposto, mi hai chiesto, invece come facessi a sopravvivere qui e anche che tu mi hai detto che, per te l’avevo già risvegliato. Perciò ho dedotto che non t’interessasse; anche perché sono l’apprendista di un Saint Maledetto». Risposi sollevando il mento, sfidandolo a contraddirmi o a farmi la predica per questo. Che le voci, in ospedale, mi avevano comunque raggiunto.
Tuttavia, lui non fece niente di tutto ciò, invece si scusò per la figuraccia: «Davvero ho detto così? Sono desolato, non mi ricordavo».
Mi ammorbidii; in fondo con una testa che ha preso tutti quei colpi, neanch’io avrei tenuto le cose a mente. Poi avevo visto la sua Cloth e il suo elmo, quando ero andata a ripescarlo con i rinforzi (sempre contro la mia volontà, ma necessaria, mi avevano detto). «Non importa, devo averti fatto prendere un bello spavento ieri sera. Deve essere stato per quello che hai dimenticato. Quindi ora hai cambiato idea? Mi aiuterai?» La mia versione maschile più giovane di un anno confermò con un cenno del capo. Avrei dovuto sentirmi felice, ma il prezzo di questo assenso smorzava la mia felicità più di quanto desiderassi. Per fargli dire di sì, aveva dovuto aver paura per me.
Dal canto mio ero colpita, non pensavo che si sarebbe spaventato. E sì che mi era parso sempre così composto e rigido. Quando mi aveva visto sul grifone, si era limitato ad alzare un poco le sopracciglia, ma dal lato sbagliato, ossia accentuando ancor di più la sua espressione severa.

Così, quel giorno, quando avemmo finalmente un momento di libertà, la prima cosa che facemmo, fu una chiacchierata sul mio addestramento. Seduti sugli spalti dell’arena deserta. Arena, che parolone, era una buca dal diametro di ventiquattro metri e profonda una decina con scanalature naturali e massi. Probabilmente doveva essere il letto di un lago.
Restò particolarmente sorpreso nell’apprendere quanto ci fosse effettivamente andato leggero il mio maestro. Era come se non si capacitasse e, mi venne da domandarmi, quanto effettivamente fosse duro il loro addestramento. La sensazione di timore che avevo provato quando la Piattola rispose alle mie domande, tornò a farsi sentire e capii. Perciò, con delicatezza, gli posi la stessa domanda e, lui mi dette la stessa risposta. A quel punto cominciai a spaventarmi sul serio. Credo di essere impallidita, perché sentii il sangue defluire dalle mie guance. In ogni caso, quando venne a sapere delle pecche nella mia formazione di Saint, per la serie; “so fare l’operazione, ma non ti so dire la definizione”, rimediò. 
Poi, quando fu sicuro che avessi capito, cominciò a spiegarmi le varie tecniche utilizzate e, mi chiese in cosa consistessero le mie, perché stando alla leggenda dovevo saper usare anche le altre, non solo la Dark Resurrection. Suo malgrado, però, si mostrò molto incuriosito dal fatto che sapessi usare la magia. Sapevo già che i Saint facevano leva sulla forza del loro Cosmo, ma lui era il primo che mi pose domande vere e proprie su questi poteri che usavo per custodire la Luce Ombrosa e resuscitare Specter e Saint.
Fui tentata dal dirgli una mezza verità, ma aveva già visto di cosa ero capace, non aveva più molto senso nasconderglielo, per cui lo misi a parte di tutto ciò che riuscii a ricordare. Anche grazie all’aiuto di Menta, che ci aveva seguiti e aveva contribuito ad aiutarmi a rammentare con i suoi appunti. Ne saltò fuori una spiegazione così caotica e raffazzonata che mi il povero Camus mi guardò stranito. Almeno, vidi balenare un guizzo di quell’emozione sul suo volto. Non era che sfruttasse appieno tutti i suoi muscoli facciali, il ragazzo. Perché ora che lo guardavo bene, sembrava più giovane di Milo e dei Giudici Infernali.
Agli scontri fisici passammo solo in un secondo momento e, fin da subito, fu chiaro che avevo ancora molta strada da fare prima di arrivare al suo livello. A parte che mi chiedeva cose impossibili, come frantumarmi le nocche contro delle rocce, sollevare massi enormi e, un numero spropositato di esercizi fisici, era chiaro che mi servivano, anche se mi riducevo a un bagno di sudore e sputare sangue. Nel vero senso della parola.  Eppure, più si andava avanti, più cresceva in me la convinzione che non fosse questa la strada giusta. Per quanto mi impegnassi e, per quanto mi distruggessi.
Mi sembrava di prendere la strada giusta soltanto quando ero da sola e, lasciavo che le mie mani si illuminassero. Mi facevano ancora un po’specie, per quanto bellissime fossero; però, sentivo che la strada giusta la tracciavano loro.
Stavo passeggiando per l’accampamento, quella sera, approfittando del fatto che stessero già dormendo tutti. Purtroppo, non avevo trovato una sistemazione migliore del Padiglione della Caina. Perciò ero dovuta tornare da Rhadamantys con la coda tra le gambe.
Lo Specter, dal canto suo, dopo avermi scoccato un’occhiataccia sull’abito e il modo in cui lo indossavo, tornò ai suoi affari. Come tutte le altre notti, del resto.
Quella notte non riuscii a dormire, perciò mi alzai e uscii di nascosto per prendere una boccata d’aria.
Non avevo mai esplorato prima queste formazioni rocciose. Non ebbi neanche paura di mettere i piedi nel vuoto o del buio. Tanto i bagliori che evocai, furono sufficienti per illuminare il mio cammino. La loro luce non sembrava neanche così incongrua in queste lande. E, poi, non mi preoccupavo dei nemici. Queste luci non erano così forti da essere avvistate da lontano. Neanche con il binocolo ci sarebbero mai riusciti, complici anche le nebbie, i vapori e le formazioni rocciose che ci proteggevano.  
Per la prima volta, mi ritrovai, non so come, a pensare a Moonchant di Marie Bruce, dopo giorni che non sentivo più la musica come parte di me. Sgranai gli occhi, sgomenta, nel realizzare di aver trascurato anche gli esercizi di canto. Non che fosse una grandissima tragedia, però cantare mi piaceva e, un po’, anche ballare e… erano settimane che non lasciavo libero sfogo alla fantasia.
«Cosa sono diventata?» Mi domandai, non riconoscendomi più.
La cosa più strana fu, che, in quel momento, sentii il suono di un flauto. Aveva un che di ipnotico e, al tempo stesso di bello. Volsi la testa in quella direzione, sorpresa. Non credevo che qualcuno avesse il coraggio di suonare, negli Inferi. Poi si aggiunse anche un’arpa. In un certo senso mi ricordo quella della mia tata, quando lei suonava per me.
In un certo senso questa melodia mi ricordava sia la tata, sia la canzone.
Per questo, mi venne istintivo alzarmi e, fare, per prima cosa, il saluto alla Luna calante, anche se non c’era. Sapevo che tra poco sarebbe arrivato giugno, o forse era già arrivato e io non lo sapevo. Poi, abbassai le mani che, nell’oscurità, parvero quasi lasciare una scia fosforescente e, ipnotizzata e divertita, cominciai a muovere le mani, cantando questa canzone, poco sopra la melodia che i musicisti intonavano. A malapena mi accorsi che si era unito un terzo strumento a corda.
Senza che me ne accorgessi, stavo accennando dei passi di danza, con calma, lasciandomi trasportare dall’incrocio delle melodie. Era come entrare in un’altra dimensione, perché, improvvisamente mi sembrò di trovarmi di nuovo nel Mondo dei Vivi e, in un bosco, sotto la Luna.      
Mentre con le mani tracciavo queste scie luminose che sparivano dopo un po’, divenne quasi un gioco. Senza neanche capire quando, all’improvviso sentii le guance dolermi e, capii che stavo sorridendo.
Da lì in poi, sotto la mia Luna immaginaria e i bagliori, mi sembrò quasi di rinascere. Quando la musica cessò, quasi in contemporanea a quella della mia mente. Mi sentii un po’più rilassata e, anche più stanca. Solo quando tornai alla tenda spensi tutte le luci e mi addormentai, sudata e, finalmente, più tranquilla.
Il giorno dopo, avevo ancora Moonchant nella testa, ma ero decisamente più rilassata. Almeno per accettare più facilmente tutto quello che avveniva attorno a me e, anche per sopportare il fatto di essere ancora qui. E, questo ballo, mi diede anche la forza di dire a Camus che questo metodo con me non funzionava. Lui mi scoccò un’occhiata confusa, ma anche un po’offesa, prima di chiedermi spiegazioni. E io gli spiegai tutto.
«Allora cosa proponi di fare?»
«Secondo me dovresti aiutarmi a creare delle tecniche che siano legate alle stelle e al mio Cosmo».
«Ci posso provare; ma tu come pensi di fare?»
«Penso che la cosa migliore sia esplorare i miei poteri in base alle mie conoscenze». 
«La trovo una mossa un po’rischiosa, potrebbero presentarsi dei pericoli da un momento all’altro e tu non hai neanche risvegliato il Settimo Senso. Però proviamoci, d’altronde il motivo per cui sei qui non è combattere assieme a noi». No, ma era comunque combattere contro gli Specter. Non avevo mai pensato a me stessa come a una serpe in seno, prima. Già un po’mi ci comportavo al Santuario, in quanto il mio salvataggio-rapimento iniziale mi bruciava ancora. Ma anche le voci in seguito al mio ritorno con la ClothStone che volevano che io avessi orchestrato tutto. Cosa assolutamente non vera, dal momento che ero troppo pigra per pensare a un piano del genere e, poi, neanche conoscevo Aurel, prima del rapimento. Avevo anche provato a difendermi da queste voci, ma ai miei interlocutori parve che avessi soltanto la coda di paglia. Qualcuno, me lo fece anche notare, dal momento che avevo aperto bocca prima che potesse finire il suo racconto. 
Anche se mi doleva ammetterlo, in quei mesi avevo cominciato a capire cosa passasse per la testa di alcuni folli. Come la realtà apparisse distorta e, anche la spasmodica ricerca di un pensiero che permettesse di non impazzire completamente, che si adattasse bene alla nostra vera indole.
Almeno, nel mio caso e, in quello dell’incarnazione di Hades del Millesettecento, fu così. Così lessi nei diari di Tenma di Pegasus, prima che la Guerra Sacra gli impedisse di redigere altro. 
Ma io non ero folle e non ero Alone. Io avevo frequentato uno psicologo per impedire a me stessa di soccombere alle crisi che, adesso mi sforzavo di combattere e reprimere. Non avrei mai permesso alla paura e al terrore di trasformarmi in ciò che non ero.
Feci un bel respiro profondo e mi aprii con Camus, rivelandogli cosa potessi effettivamente fare con il potere delle stelle. Restò abbastanza sorpreso quando gli raccontai anche di come avevo scoperto tali facoltà. Poi, per ultimo, gli rivelai di conoscere l’arte della naginata e, materializzai il falcione di Cosmo dorato. A quest’ultima azione in particolare, lui mi osservò stupito: «Ho visto fare una cosa simile solo a un’altra persona, prima».
«Davvero? Chi?»
«Aiolos di Sagitter».
«L’ho già sentito nominare». Un po’mi dispiacque di sapere di non essere la prima Saint che usufruiva di questa tecnica. Non immaginavo che anche lui riuscisse in un’impresa simile.
«Sì, solo che lui materializzava arco e frecce di Cosmo. Gliel’ho visto fare una sola volta, ad Asgard, mentre combattevamo contro Loki». Raccontò, continuando a osservarlo finché non lo dissolsi.
«Ah» e io che pensavo che anche lui materializzasse un falcione di Cosmo. Appena i miei occhi incrociarono i suoi, però rabbrividii.  
Più andavo avanti con questa conoscenza, più cercavo di evitare lo sguardo di Camus. Non perché non mi stesse simpatico, non ero così superficiale e, non m’interessava neanche entrare nelle sue simpatie. Bensì perché mi ricordava troppo una fiamma ibernata. Prima di incontrare lui non avevo mai associato il rosso al gelo. Neanche le stelle rosse che, notoriamente, sono le stelle più fredde dell’Universo, mi trasmettevano tanto freddo come gli occhi e i capelli del mio fratello separato alla nascita. Trovavo quasi ironico e, al tempo stesso, interessante questo parallelismo. Però, un conto è parlare di un corpo celeste che brilla di luce propria per reazioni chimiche che trasformano l’idrogeno in elio all’interno del suo nucleo, un altro è parlare di una persona. E, con tutta la stima e il rispetto che potevo provare per il mio sfortunato collega, io continuavo a non guardarlo. E, non mi riferivo solo ai capelli, ammorbiditi da quelle punte azzurre un po’rovinate, bensì dai suoi occhi. A dispetto dei suoi modi gentili (segno che si ricordava come ci si comportava con le ragazze), i suoi occhi erano freddi e senza calore, cristallizzati da una patina di brina. Soltanto il loro guizzare di certe situazioni, tradiva gli ultimi slanci di vitalità e, mi ricordava che era una persona.
Anche se il suo cuore batteva - l’avevo sentito l’ultima volta che mi porse la mano per rialzarmi e io mi aggrappai al suo polso - non mi rassicurava affatto. Ed era così che ero venuta a sapere che era un’Anima Viva. Ossia, che stava facendo un Viaggio Astrale e che, il suo cuore di carne e sangue batteva da qualche parte, tenuto in vita da un macchinario. Come poi mi spiegò lui stesso forse credendo di tranquillizzarmi.
Poi Menta ci richiamò per il pranzo.
Nonostante questa scoperta, continuai lo stesso a rabbrividire e a osservarlo di sottecchi, guardinga. Il fatto che continuasse a vivere come un normale essere umano, che potessimo interagire come se fosse Vivo mi confondeva. Bè, era vivo, l’aveva detto anche lui, ma allora perché la sua pelle era così fredda? Era proprio quella a impedirmi di guardarlo come se fosse più umano. Se non avesse specificato la sua condizione avrei continuato a pensare di essere l’unica umana viva dopo gli Specter e gli abitanti del Tartaro e degli Inferi. Peccato che questa consapevolezza non mi facesse affatto rassomigliare a Dante. Io non ero così brava con le parole e le poesie come lui. Mi sentivo più Orfeo, a dirla tutta, anche per via dell’idea che, con il passare dei giorni, stava prendendo forma nella mia mente. Nella mitologia ricorreva spesso il viaggio nell’Oltretomba. Ma non avrei mai pensato, prima d’ora, che sarebbe potuto capitare a me. A volte mi svegliavo e pensavo ancora di essere al Santuario.
Misi giù le posate e puntai lo sguardo sul panorama sotto le rocce su cui ero seduta e sospirai, ruotando sulla roccia per essere completamente allineata con il mio sguardo.
Sarei mai tornata a casa? Mi chiesi mentre inghiottivo.
Lui si accorse del mio turbamento e mi chiese: «Qualcosa non va?»     

Sospirai e decisi di dire una mezza verità: «Se solo potessimo sapere di più sulla Luce Ombrosa».
«Ehm, ehm», si schiarì la gola Menta. La guardammo, «Se volete io conosco qualcuno che potrebbe aiutarci».
«E chi?»
«Rune di Barlog».
«Il secondo del Grifone?» Domandò Camus e Menta annuì, mentre prendeva i piatti vuoti e li metteva su un vassoio. Feci una faccia che passò dall’esasperazione, per la serie: “Non se ne parla neanche” al “Preferirei spararmi, piuttosto che avere a che fare con lui”. Ma tutti e due mi ignorarono palesemente. Per questo li mandai mentalmente a quel paese. Possibile che la mia volontà contasse meno di zero?
«Ma non era passato dalla parte di Don Avido?» Chiese sospettoso. Almeno su Camus potevo contare un po’ di più, cioè, non mi aveva allontanato quando aveva scoperto la mia vera identità e, sebbene fosse spaventato, continuava a collaborare con me. Lo guardai e, i sensi di colpa tornarono a farsi sentire. Forse l’avevo giudicato male quando Rhadamantys l’aveva mandato a chiamare. Sapevo di aver fatto bene a stare sulla difensiva e a non rivelare tutto quanto,
La Ninfa Stigia confermò: «É così, anche se l’ha fatto per salvare gli archivi e la conoscenza, altrimenti i Black Saint li avrebbero distrutti. Da allora fa il doppiogioco per passarci le informazioni direttamente dall’interno. Posso provare a mettervi in contatto con una delle sue Velate, potrebbe aiutarvi». Faceva impressione sapere che persino il vice procuratore di Minos fosse rimasto incastrato. E dire che te lo ricordavi bene quell’uomo canuto e pallido intransigente come pochi. «La sua brama di conoscenza può esserci utile», aggiunse convinta.
«Ma il Tribunale degli Inferi non dovrebbe essere stato riconquistato come secondo i piani?»
«Fammi capire, esiste uno Specter che è l’equivalente Infernale di Pico de Paperis? Splendido, se ha le informazioni che ci servono, ricordami di regalargli un portatile a mo’ di ringraziamento.» brontolai ironica, incrociando le braccia. I due mi guardarono un po’ perplessi. Menta domandò: «Chi?»
Liquidai la faccenda con un laconico: «Lascia stare».
«Mi affretto a organizzare l’incontro».

Non vedevo l’ora che tutta questa storia fosse finita. Stavo facendo una fatica del diavolo a mantenermi attiva quando avrei solo voluto affondare tra le lenzuola e non svegliarmi più per i prossimi mille anni. A ricordarmi dei pericoli costanti, poi, ci pensavano anche i tre Giudici Infernali. Perché, dopo Aiacos, anche Minos volle la sua parte, reclamando questo suo astruso senso di giustizia. Stavo allenandomi con Camus nei pressi dei campi delle belve ctonie, che, purtroppo, non c’erano altri posti disponibili.
«Astrid», mi avvisò.
«Io non voglio combattere contro di te».
«Ma è quello che vuoi».
Strinsi i pugni e, prima che potessi collegare il cervello alla mia bocca, sibilai: «Quello che vorrei è uccidervi tutti e tre con le mie mani».

«Credi forse di impressionarmi con quello sguardo minaccioso? Oh, tu non hai idea di quanto tu sia divertente, né di quanti, negli Inferi, mi abbiano minacciato allo stesso modo. Illusa, io non mi lascerò battere come quel pazzo di Aiacos, ti farò provare sulla tua pelle il vero dolore».
«Vai al diavolo e restaci!» Sibilai ancora.
Lui, se possibile ampliò il sorriso. 
«Con piacere, ti lascerò in pace per l’eternità». Ribatté sadico e, io vidi un brillio dorato dietro la zazzera bianca. Accidenti, con quella frangia mi era impossibile captare il suo sguardo e decifrare i momenti in cui avrebbe scagliato il colpo. Come invece succedeva un po’con tutti gli altri.
Repressi un brivido di paura. Ma non potei fare altrettanto con la rabbia. La quale esplose dentro di me con la stessa potenza di un’eruzione vulcanica. E fu un gravissimo errore. Mi scagliai addosso a lui, che parò subito il mio colpo con una mano e m’imprigionò l’altra, dalle dita illuminate di viola porpora, impedendomi di usare le mie tecniche. Lui sorrise, mentre lottavo per liberarmi da quella stretta. Ebbi di nuovo paura come quella notte, tanto che provai a divincolarmi e gridare invece di combattere. Suscitando le sue risate e, ampliando ancor di più il suo sorriso mefistofelico.
«Credevi seriamente che ti avrei lasciato prendere la mia Stella Malefica come quegli altri stolti?»
Poi mi calciò via con una pedata allo stomaco.
Rotolai nella polvere e, per poco non persi i sensi. Appena in tempo per scostarmi dal colpo che mi lanciò: «Gigantic Feathers Flap!» Urlò e io mi ritrovai sbalzata via. Il Gigante sembrava deciso a non darmi tregua e io non riuscivo a riordinare le idee per controllare la paura ed elaborare una strategia. Questa volta non ci sarebbe stata alcuna rivincita per me. Aveva capito il mio metodo di combattimento, accidenti!  Le raffiche di vento mi spostavano come se fossi solo un aquilone in balia del vento e, sentivo appena le rocce vicine frantumarsi.
Sarei volata via anch’io se Camus non avesse interposto il suo Cosmo all’attacco e Menta non mi avesse riafferrata al volo. Peccato soltanto che fui strappata da lei da una serie di fili di Cosmo che mi trassero allo Specter, vanificando i tentativi del mio collega e, bucando la sua Diamond Dust. 
«Fermati! Ci farai scoprire» Gridai, ma lui non mi sentì perché la mia voce si perse nel vento. Solo dopo realizzai che, trovandoci in una zona vulcanica, il nostro scontro poteva essere scambiato per uno dei tanti terremoti che scuotevano questa parte degli Inferi.
«Cosmic Marionation!»

Improvvisamente Menta si scagliò contro colpii la roccia e, le belve ctonie s’imbizzarrirono e, saltarono via dal recinto: «Adesso riprendili, se sei capace». Sghignazzò il Gigante Infernale, mentre mi rialzavo con qualche difficoltà per via del dolore. Riuscii appena a trovare le forze per articolare la formula della tecnica di rigenerazione che Camus fu al mio fianco, raffreddandomi le ferite ormai non più gravi come prima.
«Astrid! Astrid, stai bene?» Mi domandò aiutandomi a rialzarmi e, sostenendomi passandosi un braccio attorno al collo. Stavo per rispondere quando vidi ancora i fili cosmici appesi alle mie membra. Sgranai gli occhi con un sussulto. Tolsi il braccio dal suo collo e lo spinsi via prima che il Grifone tendesse i fili e ricominciasse il suo giochino perverso: «Balla, su, fammi vedere come balli!» Sghignazzò costui e mi sentii i piedi staccarsi da terra e sollevare in alto e girare e rigirare a suo piacimento. Dalla mia gola uscivano grida disarticolate e il mio volto era imbrattato di sangue e lacrime.
Mi sentii avviluppare nei suoi fili totalmente in balia di lui. Più fili si avvilupparono attorno alle mie membra e ai miei arti. Istintivamente provai a divincolarmi e lui rise ancor più sguaiatamente: «Sì, sì, coraggio, divincolati, divincolati!»  
Ma non potei, scoprii immediatamente, infatti, che soltanto il provare a liberarsi esigeva un prezzo troppo alto, che io non potevo permettermi.
«Non preoccupatevi milady Astrid, ci occuperemo noi delle belve ctonie!» Mi urlò Menta cercando di tranquillizzarmi e, con la vista annebbiata di lacrime, la vidi correre nella direzione presa dagli animali. Poi altre ombre umane si unirono a lei.
Ma anche loro si ritrovarono in difficoltà. Battei le palpebre più volte per liberarle dalle lacrime e vidi la mia ancella  scomparire tra le rocce.
Improvvisamente mi sentii precipitare al suolo e mi ritrovai tra le braccia di Camus. «Bastardo! Come osi interrompere il nostro scontro?»
Il mio sosia gli lanciò un’occhiata severa e carica di disprezzo, mentre i fili si dissolvevano. Poi corse via e io riuscii ad allacciare le braccia al suo collo per facilitarlo almeno un po’nella corsa.
Ma lo Specter ci fu subito alle calcagna. Anche se per poco, visto che Camus si girò e lo bloccò nella Freezing Coffin.
Poi saltò via di roccia in roccia, finché non fu sicuro che l’avessimo seminato.
Mi guardai intorno e, nella distesa, appurammo che ci trovavamo nel piccolo recinto delle anime di Myu della Farfalla. Peccato solo che una Creatura, ci avesse seguiti e, stesse programmando di farsi un bel pasto con tutto ciò che aveva dinanzi a sé. Camus mi mise giù e, poi, sentimmo dei sassi smossi e vedemmo gli Skeleton e gli Specter lanciarsi addosso alla belva per fermarla, senza grandi risultati.
Guardai Camus sgomenta, che ricambiò il mio sguardo e poi gli chiesi scusa  Non avevo smaterializzato le sue stelle. E, senza indugio alcuno, gliele presi tutte. Il mio compagno d’arme perse i sensi e io me la svignai con la sua costellazione. Con il cuore che batteva a mille, l’adrenalina in circolo, corsi in mezzo alla marmaglia e strappai stelle a chiunque mi capitava a tiro. Poi, feci rapidamente una rete di stelle e collegamenti, che lanciai tra due picchi, andando a fermare la Creatura ormai impazzita. Fu così che scoprii anche, che questo genere di Creature non era capace di oltrepassare le gabbie e le reti di stelle.
Poi, le feci cenno di andare via e, quella, obbedì. Lasciai la gabbia lì, che, sicuramente avrebbe impedito agli animali di lasciare la vallata. Ora dovevo ritrovare Menta. Reggendomi il braccio ferito e, gemendo per il dolore, mi allontanai. L’adrenalina che, rapidamente come era venuta, stava scemando. La scorsi, infine, giù per una scarpata, riversa a terra. «Menta!»  Sgranai gli occhi, sentendomi la bocca piena di sangue e la faccia imbrattata allo stesso modo. La raggiunsi cercando di non farmi troppo male e di non cadere. A volte non ci vedevo a causa della stanchezza, altri dei vapori vicini dei geyser.  
Quando le fui vicina lei alzò il capo, stanca e stordita. Mi sorrise di rimando, prima di perdere i sensi e crollare il capo al suolo.
«Menta! Menta! Resisti, Menta!» Urlai cercando di farmi strada tra le rocce affilate, ma ottenni solo di ferirmi ancor di più. Solo quando mi avvicinai scoprii che era solo un’illusione data dai fumi dei vapori del posto.
Crollai in ginocchio pesantemente, battendo le palpebre. Appoggiai le mani al suolo, respirando forte dal naso, prima di ricordarmi di tapparmelo con una mano. 
Mentre Minos se la rideva come un matto. La sua risata cresceva sempre di più a mano a mano che si avvicinava. «Sai anche lanciare illusioni?» Gli chiesi senza girarmi, gli occhi fissi, oserei dire incantati, nel punto in cui l’allucinazione era sparita.
«No, ma so approfittare delle debolezze altrui». Sentii un rumore come di fili che si tendevano e, di nuovo, le mie membra furono imprigionate nella sua tecnica mortale. Ma me ne accorsi solo troppo tardi. Non mi dette neanche il tempo di alzarmi o di portarmi una mano alla gola, che cominciò a rigirarmi e a manovrarmi come un burattino facendomi provare la sua tecnica preferita sulla mia pelle, domandandomi se mi piacesse, io urlavo per il dolore.
“No!” Pensai stringendo i denti e, qualcosa, a livello della mia gola, si formò, come una bolla d’energia. “No! Non può finire così! Io non mi lascerò battere ancora una volta! La stessa tecnica non funziona mai due volte su un Saint.” Ed io ero una Saint.
Ma questo pensiero non mi disse niente.

Fu invece la mia voglia di vivere a darmi la spinta per aggrapparmi a essa. Con la forza datami da questo sentimento, raccolsi tutta l’aria che avevo in gola. Aprii la bocca e urlai, con una potenza di polmoni che sorprese pure me. Solo che, dalle mie corde vocali uscì un grido talmente acuto che mi risuonò nella mia testa. Un grido simile al verso di un uccello rapace. Improvvisamente sentii le mie membra scaldarsi e poi aprii gli occhi e, vidi un lampo dorato davanti a me. E, per la prima volta, mi sentii strana. Per la prima volta ebbi la chiara percezione del mio Cosmo e della mia anima come un’aura che mi rivestiva e che faceva parte di me. A fior di pelle, sentii i piedi trasformarsi, senza dolore, in due zampe artigliate, da rapace e, poi, risalì le caviglie e i polpacci fino al ginocchio, dove sentii aprirsi delle fossette e delle scaglie. Sulle mie cosce e sul mio corpo sentii crescere delle piume. Piume che poi risalirono i fianchi e si infoltirono sul petto e sulle spalle, lasciando scoperte le clavicole. Sulla mia testa sentii allungarsi una corona di piume, che mi appesantì un po’la testa e, la zona della bocca e del viso si scaldò, diventando un po’più pesante, come la prima volta che mi truccai la faccia. La parte inferiore delle mie braccia s’allungò assumendo la forma di un paio d’ali da rapace. Piume che, poi, fecero il giro sulla mia schiena e, si allungarono in una punta fino al coccige, dove si aprirono in una coda con delle timoniere molto simili alla coda di un pavone, le cui estremità mi arrivavano dietro le rotule e, il resto delle piume era scalato.
Sentii il Cosmic Marionation allentarsi e, con una piccola rotazione dei polsi, chiusi le mie dita attorno ai fili cosmici di Minos e, con uno sforzo di volontà, tirai, riuscendo a strapparli.
Poi, il calore defluì dalle mie membra, la trasformazione mi abbandonò, sì come i miei sensi.
Questo scontro non fu certo privo di conseguenze.
Quando mi rinvenni, tutto attorno a me era solo fuoco e cenere e, qualcuno mi stava trasportando altrove. Non saprei dire chi fosse. So solo che tra le sue braccia mi sentii al sicuro. Non era Camus, non credo che fosse lui. Costui indossava l’Armatura. Forse era uno Specter o uno Skeleton, un uomo, a giudicare dalla forma delle mani. Avrei dovuto impaurirmi, ma ero troppo esausta per combattere o ribellarmi.
L’ultima cosa che pensai prima di cadere di nuovo all’indietro nelle tenebre dell’incoscienza, fu che mi sentivo protetta e amata, come tra le braccia di mio padre.   
i tre Giudici Infernali, invece di ringraziarmi (se, ancora ci speravo, per aver impedito che le belve ctonie di scappare e, anche alle anime) mi coprirono di improperi e insulti, decisamente più minacciosi di quelli di Kanon e degli altri. Minos addirittura mi incolpò di averlo provocato, che se non fosse stato per la mia insolenza, lui non mi avrebbe attaccato. Come se fosse stato vero: lui era venuto da me con il chiaro intento di farmi fuori fin da subito.
Non mi ero mai sentita più in pericolo prima di ora, adesso comprendevo che cosa si provasse a sentirsi bombardati su tutti i fronti, la fragilità e tutta la mia impotenza di essere umano. Di fronte a quei tre, io ero ancora la ragazzina indifesa che aggredirono e pestarono a sangue per puro divertimento. 
Decisamente più efficaci, in quanto questi tre cercavano veramente di uccidermi. E il terrore fu così forte che ebbi un’altra crisi.

Il giorno dopo, dopo aver consumato la colazione e, forte di tutto questo, abbandonai definitivamente il Padiglione della Caina. Per convincere Menta a seguirmi mi bastò solo un cenno del capo. Lei non disse niente, si limitò soltanto a seguirmi, tanto nessuna di noi aveva molte cose da portare con sé.
Scendemmo dall’altura dei Padiglioni già in fase di smantellamento e raggiungemmo la piana.
Per nostra fortuna c’era un’altra valle, appena più indietro del campo di battaglia che si erano scelti. Avremmo usufruito, però, stavolta, della protezione delle rocce della Palude Nera. Che anche quelle, in quanto a nebbia, non scherzavano. Così almeno sentii dire.
Arrivai al limitare del campo, mentre gli altri andavano nella direzione opposta, caricando carretti e smontando tende o cercando oggetti che erano spariti.
Restai a osservare il luogo dove un momento prima c’erano le prime tende dell’accampamento, quando percepii la presenza di qualcun altro attorno a me. Ma se Menta si girò, io restai a osservare la zona. Poteva essere il momento opportuno partire adesso e andare a cercare l’amica di Menta e, al tempo stesso anche mia madre.  
 «Quindi ci spostiamo». Commentai osservando il campo.
«Direi di sì». Confermò Camus, «Lo scontro non è passato così inosservato come credevamo».
«Mi sorprende che non mi sia stato fatto nient’altro».
«Non potevano, per quanto malvagi siano, sanno che non possono sprecare troppe energie e, tu sei troppo importante perché ti ammazzino così facilmente. Le nostre spie ci riferiscono che i nostri nemici credono che sia stato risvegliato un altro tipo di mostro infernale potentissimo e, ora lo stanno cercando. Hanno preferito lasciar credere che si trattasse di questo, dopo quello che abbiamo visto». Spiegò.
«Capisco. Sarò anche importante, ma ciò non significa che non si divertano a torturarmi». Accidenti, non avrei mai pensato che ci saremmo fatti scoprire a causa mia. Anche se, con il senno di poi, persino la mia danza poteva averci già fatti scoprire da un pezzo. Oh, stavo diventando paranoica.
La voce di Camus interruppe il flusso dei miei pensieri: «Ad ogni modo, non è il momento di pensarci, oggi dobbiamo andare da un’altra parte». Mi ricordò avvicinandosi e, dal clangore che sentii, come di un sacchetto di monete agitato, capii che indossava la sua Cloth. Quando mi girai a guardarlo non potei fare a meno di pensare che facesse tutto un altro effetto con quella indosso. Sembrava, se possibile, ancora più carismatico e meritevole di rispetto, oltre che affascinante.
Mi ci volle un po’per capire a cosa si stesse riferendo. Giusto, era il giorno dell’appuntamento. Perciò, raggiungemmo un grifone che, dopo due carezze e un po’di carne, ci trasportò tutti e tre alla Prima Prigione. Io ero accomodata tra Camus e Menta e, mentre volavamo, mi fu impossibile non girare la testa e lanciare lo sguardo dietro di me, oltre lo spallaccio della Gold Cloth della mia versione maschile.    
Anche se non riuscii molto nell’impresa, visto che lo spallaccio della Cloth di Aquarius impediva buona parte della visuale.
Stavo cominciando a trovare piacevoli queste trasvolate a dorso di grifone, anche se dovevo tenere gli occhi socchiusi a causa del vento di questo posto.
Fu quasi un peccato scendere. Mi sentivo che sarei potuta restare sul dorso di quest’animale per sempre. Menta ci condusse fin dentro il Tribunale passando per una porta di servizio mimetizzata nella roccia. Da lì ci inoltrammo in un corridoio illuminato da delle fiaccole che gettavano sinistre ombre attorno a noi e, allungavano le nostre come quella di Dracula nel film omonimo di Francis Ford Coppola, animandole al pari di quelle del vampiro. Non mi sarei sorpresa se poi, ci avessero anche attaccato.
Ci condusse nelle stanze private delle Velate e ci disse di attendere dietro a una colonna. Tanto le colonne che sostenevano la volta di pietra erano abbastanza imponenti per nascondere due persone, una delle quali in armatura come Camus. Il quale continuava a congelarmi una spalla e a coprirmi con il mantello, come se ciò avesse potuto celarci alla vista di qualcuno. Un gesto lodevole quanto stupido. E, poi, bianco su nero, bisognava essere degli imbecilli per non notarci, se qualcuno avesse scostato la tenda nera che ci riparava. «Potresti lasciarmi andare? Mi stai congelando». Bisbigliai imbarazzata e lui si scusò e obbedì. Non che la situazione fosse molto migliore fuori dal mantello. Questo posto era gelido persino per la mia pelle già infreddolita dalla trasvolata. Non mi sarei sorpresa se poi avrei cominciato a tossire. Mi sfregai le braccia con le mani.
«Posso farti una domanda?» Chiesi poi alla mia versione maschile tanto per ingannare il tempo.
«Solo una». Non so con che coraggio mi rispose così. Se fossi stata al suo posto avrei risposto una cosa come “dopo”, perché avrei avuto i nervi a fior di pelle e mi sarei concentrata sulle varie presenze, pronta a scattare in caso fossimo stati scoperti. Lui invece se ne stava completamente rilassato, come se neanche gli importasse. Ma era un Gold, era di un altro pianeta nel vero senso della parola. Anche se camminavo al fianco di uno di loro e li servivo e ci conversavo, erano completamente estranei, sempre venti metri avanti a me. Per quanto avessi potuto leggere loro la mano, sarebbero sempre rimasti un mistero; una parte di loro non l’avrei mai decifrata completamente. Non solo perché non eravamo confidenti. 
«Perché sei così gelido?» Gli chiesi a bruciapelo, guardandolo di sottecchi.
Lui continuò a guardare fisso davanti a sé ma rispose lo stesso: «Gelido in che senso?»
«La tua pelle». Risposi girando completamente la testa verso di lui.
«Ah, sì, già, tendo a dimenticarmene spesso». Borbottò chinando il capo per osservare una delle sue mani dalle unghie curate. Questa era una caratteristica che avevo visto su tutti i Saint di ambo i sessi, per quanto le loro mani potessero essere rovinate, le loro unghie erano sempre curatissime, come se si facessero la manicure. Persino Death Mask e Aldebaran. Persino quelle del mio maestro erano perfette. Forse solo quelle di Seiya e dei suoi fratellastri erano meno curate di queste.
«Non ne ho idea, sai? Anche Shaka, che pure è un’Anima Viva come me, è caldo come una persona normale, soltanto io sono così». Rispose poi raddrizzando il viso e riportando la mano al suo fianco. Sembrava quasi dispiaciuto e spaventato.
«Forse è per via del tuo Cosmo». Ipotizzai alzando una spalla.
Lui corrugò la fronte, dubbioso, ma decise di accodarsi alla mia ipotesi: «Forse, lo spero».  
Feci per chiedere spiegazioni quando sentimmo le voci delle due e l’eco dei loro passi sul pavimento di pietra riecheggiare mentre si avvicinavano. Entrambi concentrammo la nostra attenzione su di loro. Mi ero sempre chiesta come facessero le Velate a comunicare, dal momento che avevo capito che fossero solo persone manovrate. Avevo provato a scambiare qualche parola con una di loro, ma era come se non esistessi ai loro occhi. Ammesso che - il pensiero mi fece rabbrividire ancora una volta - li avessero ancora. Di solito erano sempre descritte come silenziose e impassibili. Non l’avrei mai detto che, in realtà non lo fossero. Come non avrei mai detto che la loro tenuta servisse ad accentuare quest’impressione.
Un momento e se fosse una trappola? Sgranai gli occhi e guardai Camus che ricambiò con un’occhiata perplessa, prima di capire e mettersi davanti a me.
Le due si fermarono. Avevo il cuore in gola ed ero pronta a usare i miei poteri.
«Ma non è solo per cortesia che sono venuta a trovarti».
«Ah, no? È raro che le tue visite abbiano un secondo fine; dimmi, di che si tratta?»
Menta andò al nocciolo della questione: «Ho bisogno che tu aiuti la mia padrona, crediamo che le informazioni che ci servono siano accessibili soltanto a te, alle tue colleghe e al tuo superiore. Normalmente farei richiesta come tutti gli altri, ma capisci che la situazione d’emergenza in cui ci troviamo non me lo permette».
«Capisco. Comunque non sbagli, al Sommo Rune non sfugge mai niente, ma dimmi, chi è la tua padrona?»
«É una giovane veramente straordinaria, credimi, ma ha bisogno del tuo aiuto, altrimenti non riuscirà mai a tornare a casa sua». Dal canto mio ero commossa che parlasse di me così in questi termini. Solo in seguito mi sovvenne che poteva anche aver detto così solo perché ero presente.
L’altra fece per dire qualcosa, ma la Ninfa la bloccò anticipandola con un rapido e imbarazzato: «Ed è qui».
«Cosa? Dove?» Chiese l’altra, d’un tratto impaurita.
«Milady, Sommo Aquarius, potete uscire».
Io e Camus obbedimmo. Il primo a uscire fu lui e poi, notando che non succedeva niente, uscii dal nascondiglio anch’io. «Clio, questi sono Camus di Aquarius e la mia padrona, la Somma Astrid di cui ti ho parlato poc’anzi, Sommi, costei è la mia amica Clio». La Velata col nome della Musa, restò zitta e immobile così a lungo che temetti fosse diventata una statua di pietra. Quando aprii bocca per chiedere a Menta se stesse bene, la donna si rianimò e andò nel panico: «No, no, ma sei pazza, Menta? Mi avevi detto che erano persone normali non dei ribelli! Perché diavolo li hai portati qui? Non ti ho indicato quella via affinché tu introducessi degli intrusi. No! Il Sommo Rune non mi perdonerà mai, no. Devo avvertire le guardie, devo fare qualcosa, devo…» sbottò la Velata indicandoci con un gesto stizzito della mano prima di avviarsi repentinamente più in là. Ma se io e Camus sgranammo gli occhi, Menta fu più rapida. Sbarrò la strada alla sua amica completamente fuori di testa e la trattenne e cercò di calmarla. La strinse a sé e continuò a mormorare parole di conforto. La Velata tra le sue braccia si acquietò e si aggrappò alle sue spalle. «Come faccio a stare calma? Ti rendi conto di quanto questa situazione sia stressante per me e sia pericolosa per tutti noi? Sei i Black Saint ci scoprissero…»
«Non succederà, senti, non c’è un altro posto dove parlare?»
La Velata ci pensò su, poi rispose: «Sì, venite con me, negli archivi non ci disturberà nessuno». 

Durante il tragitto, Menta interruppe il suo sommesso brontolare domandandole come fossero sopravvissute. «Sembra che ve la passiate bene, oserei dire anche meglio di noi, siete tornate da molto?»
Contrariamente a quello che immaginavamo, non si erano mai allontanate dal Tribunale degli Inferi e la Prima Prigione. Le Velate, su ordine di Barlog, avevano deciso di tacere ai Black Saint le informazioni, in cambio della protezione del vice procuratore del Grifone. Lo stesso Barlog era riuscito a trovare un compromesso con i Black Saint riuscendo, qualche volta a stabilire delle tregue e, altre dando loro battaglia a colpi di frusta. Questo quando i Black Saint osavano troppo secondo i suoi gusti, con azioni come assalti a sorpresa e assedi. Non per niente,  Pico de Paperis degli Specter qui, era il secondo in comando di Minos. Anche se doveva essere di poco inferiore al suo superiore, non era comunque un tipo da sottovalutare.  
Anche se lo faceva per interesse personale, eravamo comunque sorpresi che avesse deciso di proteggerle. Soprattutto Camus e sì, anch’io, che ormai avevo fatto di tutta l’erba un fascio.
Ci condusse negli archivi, che erano molto più bui, angusti e stretti delle biblioteche del Santuario. Se la parte iniziale ricordava di più la sala di ricopiatura di un’abbazia medievale, addentrandoci più in profondità, era come entrare in una chiesa romanica. Non mi sembrò una somiglianza a caso, perché spesso, nel Medioevo queste erano buie, a volte anche umide, mentre le biblioteche del Santuario erano l’esatto contrario, proprio come il gotico.
Eppure, questo posto era, a dispetto di tutto, fresco e arieggiato. E, proprio come all’esterno, anche qui filtrava luce a sufficienza per permettere lo studio e la consultazione dei testi, con la differenza che si respirava un’aria di pace e tranquillità avvolgente. Persino il luogo era pulito e non c’era un filo di polvere sui tavoli lunghi e stretti infilati quasi a forza in questi archivi altissimi e pieni di libri.
Alte colonne reggevano la volta a tutto sesto sopra di noi, dei tendaggi leggeri e biancastri scendevano dal soffitto con delicatezza. Piante notturne disposte nei vasi ornamentali a circondare i pilastri come un’aiuola e, piante vicino alle lanterne appese al muro, che mandavano dolci bagliori caldi in totale contrasto con l’ambiente, contribuendo in qualche modo a renderlo più vivace ancora.
Il centro dell’archivio era dominato da un tavolo a forma di omega, circondato dagli scaffali color ebano disposti a raggiera, equidistanti gl’uni dagli altri due metri.
Ci fece accomodare sulle sedie relativamente semplici rispetto agli scranni del Padiglione della Caina cui mi ero abituata ed entrò in modalità bibliotecaria, sospirando con aria sconfitta.
«D’accordo, aspettate qui che cerco tutti i libri che trattano dell’argomento, l’ho rimesso in ordine giusto l’altro ieri, devo solo ricordarmi dove l’ho messo…» Borbottò e partì alla ricerca del tomo.
Aspettammo che scomparisse dagli scaffali prima di rianimarci. Menta mi domandò se non fossi emozionata, in fondo, stavamo per avere le risposte a tutti i nostri interrogativi. Mi limitai a sorridere e ammettere che sì ero emozionata, ma anche un po’impaurita. Non tanto per le informazioni che avrei potuto ricevere, quanto piuttosto per eventuali imboscate. Camus si limitò a tendere la bocca in un sorriso e a posarmi una mano sulla spalla. Anche se me la gelò la coprii lo stesso con la mia, brevemente. Ricambiai il sorriso, cercando di mostrarmi meno spaventata possibile.
Poi lui ritrasse la sua e tornò a sorvegliare la porta, i sensi ben allerta. Lui era rimasto di guardia, limitandosi a restare in piedi accanto a noi, che ci eravamo sedute. Ed era bene che l’avesse fatto, almeno lui aveva probabilità in più di uscire vincitore da un possibile scontro, ammesso che l’amica di Menta non avesse chiamato le guardie. A giudicare dalle espressioni rassicuranti che si alternavano a quelle preoccupate e alle occhiate che lanciava all’ingresso alle nostre spalle, anche Menta sembrava del mio stesso parere. Io mi domandavo come avrei potuto sconfiggere dei nemici che potevano uccidermi ma che io non potevo toccare. Come potevo rendere tangibile l’intangibile? 

Fu sull’onda di questi pensieri che Clio tornò, stringendo al petto un libro grande quanto il suo mezzobusto. Libro che depose sul tavolo, a dispetto di tutto, senza bisogno di aiuto. Poi lo sfogliò e, noi cercammo di ignorare l’odore di stantio che si levò da quelle pagine. Dopodiché mi sporsi verso di lei per osservare e, scoprii, che era un libro di mitologia, scritto da una parte in greco e, l’altra in latino. Che fosse la storia del nostro Universo attraverso il punto di vista degli Specter? Chissà che segreti contenevano quelle pagine ingiallite.
La Velata giunse al centro delle pagine e a un tratto si fermò, si accorse che la stavo fissando e mi ritrassi. Ma invece di scusarmi la implorai di dirmi tutto. Ormai non stavo più nella pelle, faticavo a restare seduta, avevo il batticuore. Cominciai a tormentarmi le mani nel tentativo di stare ferma.  Sentivo che se non avesse aperto bocca, avrei potuto scavalcare il tavolo, scalzarla e leggere quelle pagine. «Parla, per favore!». Implorai incapace di trattenermi, facendo sobbalzare tutti e tre. Ma me ne infischiai e continuai a incalzarla: «Parla, per favore, che cos’è la Luce Ombrosa? A che mi servono questi poteri?» A niente valsero i tentativi di Menta di rabbonirmi, perché mi girai a guardarla e dissi che: «Non posso scusarmi; ho aspettato per troppo tempo di scoprire una cosa sulla Luce Ombrosa e ora scopro che c’è molto altro, più di quanto immaginassi e… No, non posso proprio trattenermi, devo sapere tutto, quindi, per favore, parla, non tenermi sulle spine». Ordinai, tornando a guardare Clio dritto nella reticella che celava i suoi occhi. La Velata non mi rispose, ma l’occhiataccia fulminante che mi lanciò la percepii lo stesso. «Se mi date il tempo di prendere fiato…» Annuii con convinzione e trepidazione. Tutto il fiato che voleva, purché si sbrigasse.
L’amica di Menta finalmente espose il frutto della sua ultima ricerca senza troppi giri di parole, onde evitare un’altra aggressione verbale. Effettivamente dal tono che avevo usato, più che incalzante risultavo aggressiva.
«La Luce Ombrosa non è un manufatto o un potere. Non è neanche la più alta concentrazione di Cosmo, come si tramanda. In realtà è una persona».
Strabuzzai gli occhi per lo stupore. Camus al mio fianco s’immobilizzò, sorpreso come Menta, prima che tutti e tre mi guardassero stupefatti. Io ricambiai i loro sguardi, più stupita di loro. Come… Io? La Luce Ombrosa ero io? Quindi questi poteri non mi servivano per custodire tutto ciò, ma per me? Questi poteri erano un dono?
Improvvisamente tutta la visione che mi ero fatta della cosa si ribaltò e io mi sentii come spostata di lato rispetto all’idea che mi ero fatta. E, se da un lato questo mi rassicurò, confermandomi che non ero un mostro, che il mio potere non era così spaventoso, dall’altro mi sentii più debole.  
La Velata continuò come se non fosse accaduto assolutamente niente: «Quest’individuo nasce ogniqualvolta che il Cosmo si trova in condizioni critiche. Tali avvisaglie vengono date dalla comparsa delle Lacrime di Kalì, una sorta di fantasmi neri che tutto toccano con il gelo dell’inverno e, tutto bruciano con il caldo torrido dell’estate. Salvo la Luce Ombrosa, cui esse obbediscono ciecamente, le anime dei morti e i fantasmi. Quest’ultimi in quanto stanti su un piano differente ancora ed essendo ormai privi di Cosmo. Il Cosmo qui è inteso sia come forza delle stelle e al tempo stesso come Universo, sia come linfa vitale che Titani, Dèi, Saint, Specter, Marine e i soldati degli schieramenti divini bruciano per compiere miracoli. Cambia nome nel corso del tempo, ma sempre di Cosmo si tratta. La Luce Ombrosa reca in sé i poteri della Vita e della Morte. Si riconosce perché, se addestrata, manifesta un Cosmo che somiglia a una fiamma nera che sfuma sul grigio, l’argento e il bianco, popolato da miriadi di stelle in scala ridotta. Come se in esse fosse replicato un pezzo di Cielo. Somigliano a dei bagliori fosforescenti di varia grandezza che sembrano avere vita propria.
C’era anche una leggenda a proposito di questi bagliori, che volevano avessero un’origine divina, ma gli appunti sono stati rovinati».
«Rovinati? Da chi?» Chiesi.
«Nessuno ne ha idea, si sa solo che, nel XVI secolo, il Nostro Signore distrusse buona parte dei documenti relativi alla Luce Ombrosa. Mi ricordo qualcosina di quel periodo, ma tutto ciò che rammento è la sensazione di paura che provavo, che qualcuno urlava che i Saint stavano avvicinandosi e, gli occhi spiritati del Sommo Rune mentre entrava nell’archivio. Quando ne uscì, l’archivio era distrutto».
«Perché mai Rune di Barlog avrebbe dovuto compiere un’azione simile? Per caso già allora si erano manifestate le Lacrime di Kalì?» Domandò Camus, perplesso, non senza qualche difficoltà nel ricordarsi il nome di tali Creature.
Ma la Velata scosse il capo, le braccia conserte e si alzò, ricordandomi molto una maestra elementare. «No, nelle cronache del sedicesimo secolo non successe niente di tutto questo».
«Che libri andarono distrutti?» Chiese invece Menta, anche per me, che ero momentaneamente in panne, ma che volevo comunque sapere. «Più che distrutti erano messi a soqquadro e alcuni avevano le pagine strappate e calpestate. Le scansie erano state
«Può essere che l’incarnazione di Hades di quel periodo avesse dato queste disposizioni?» Indagai, con voce incerta.
«No, il Sommo non ha mai mostrato interesse alcuno per questa zona e, per quel che ne so, fu Minos del Grifone a dare l’ordine».
«Doveva essere molto paranoico in quel periodo». Mi sforzai di dire, per evitare che la rivelazione precedente mi assorbisse completamente e mi trasportasse in un mondo tutto mio.
Camus scostò la sedia alla mia destra e si sedette, prima di rispondere: «Non credo, stando ai registri di Krest di Aquarius, gli Specter sembravano ancora creature mitologiche che entravano e uscivano dalle ombre, non aveva alcun senso che usasse una strategia così. Gli Specter si comportavano come al solito, non avevano niente di diverso dal solito».
Scrollai le spalle e ipotizzai: «Evidentemente voleva nascondere qualcosa che il Santuario non doveva trovare».
«Può essere». Concesse Camus, poi si scusò e tornò a rivolgersi a Clio, chiedendole cosa secondo lei potesse essere stato. La Velata ci mise un po’ a parlare, ma non capimmo se per via del fatto che eravamo Saint o perché effettivamente non lo sapesse, o anche perché volesse nascondercelo.  «Sospetto le mappe degli Inferi, dal momento che la zona maggiormente colpita fu quella degli atlanti geografici. Il punto era che tutta quella zona fu ridotta in cenere e non erano presenti soltanto le mappe del regno del Sommo Hades. Ad ogni modo, il Nostro Dio non ne ha mai saputo nulla, dal momento che fu sconfitto dall’Atena di quel periodo all’incirca sedici giorni dopo. Mi piacerebbe potervi dire altro ma gli appunti sono stati rovinati dal tempo».
«Ma c’erano stati altri danni considerevoli nell’archivio?» S’informò Camus.
«Sì, alla sezione mitologica, appunto, questo è l’ultimo libro che resta in cui si parla della Luce Ombrosa, si salvò perché qualcuno incollò le pagine per nascondere le notizie. Ora che ci pensò è una grande coincidenza. È da quando questo libro è stato tirato fuori dalla sua teca per essere ricopiato e, abbiamo scoperto le pagine incollate, che è cominciata tutta questa storia. Purtroppo però anche lì si riesce solo a leggere poco. Un’informazione ancora integra è che, spesso le Luci Ombrose sono ripartite in due o più schieramenti opposti».
«Schieramenti opposti? Che significa?» Chiesi io, recuperando l’uso della mascella che, mi era caduta per via dello stupore.
«Che di solito ne nasce più di una».
A quella notizia trattenni il fiato rumorosamente per l’emozione, portandomi le mani alla bocca. Non ero l’unica, questa notizia era bellissima e, al tempo stesso, sconvolgente. Era come aver percorso mille miglia nel deserto e patire la fame e la sete e imbattersi in una carovana! Battei le palpebre e lasciai cadere le mani, una sul tavolo e l’altra all’altezza del cuore e domandai, stupita: «Vuoi dire che non sono l’unica? Quanti sono? Ce ne sono altri come me? Dove sono? Siamo un intero popolo o siamo solo degli errori che nascono qui e là nel corso della Storia?»
«Non saprei, non ho potuto scoprire altro, l’unica cosa certa è che se esiste un’altra Luce Ombrosa, sei destinata a scontrarti con essa». E, questa notizia, sembrò abbacchiarla anche fisicamente, infatti, la vedesti crollare le spalle. La sua faccia mostrava un’espressione sconfitta.
«E cosa significa che devo disegnare con la luce? Perché le Lacrime di Kalì mi obbediscono se, in teoria non rientra tra i miei poteri?  Perché riesco a muovere le Armature? Che cosa mi è successo durante lo scontro con Minos? Cos’era quell’energia? Cosa devo fare per impedire il completo disfacimento della Volta Celeste?»
«Qui non lo dice». Mi rispose desolata e anche un filo scocciata.
Mi risedetti sulla sedia, dispiaciuta e, Menta disse: «Vi lascio, io devo andare e, anche voi». Prima di andare via dette istruzioni all’amica per uscire da qui senza che il corpo di guardia ci scoprisse. 
Menta la ringraziò anche a nome mio, che ero completamente annientata. In senso positivo, stavolta, ma la sensazione non era fondamentalmente diversa, dal momento che generava lo stesso un vuoto nei miei pensieri. Come se tutte queste rivelazioni fossero come delle bombe che, esplodendo, avessero cristallizzato e polverizzato ogni cosa.
Uscimmo dall’archivio, aspettammo il cambio della guardia e tornammo alla zona dove avevamo lasciato il grifone, che ci aspettava.
Solo quando lasciammo quelle terre e il vento tornò a raffreddarmi le membra, nonostante che Menta mi schermasse un poco dalle correnti della Valle del Vento Nero e Camus mi raffreddasse la schiena e si tenesse aggrappato ai miei fianchi durante la trasvolata. Non che la cosa mi desse fastidio, non era poi così differente dallo stare in motorino. La differenza era che il grifone non era sellato e che dovevamo davvero aggrapparci gli uni agli altri per evitare di cadere.
Mentre volavamo riuscii finalmente a concentrarmi sulle informazioni ricevute e articolare un:     
«Sono…» Ma non completai la frase, c’erano così tante cose da dire, che rischiavo di creare nuove parole nel tentativo di dirle tutte e, di creare frasi senza nessun senso logico. Lo guardai in cerca d’aiuto e completamente spiazzata da questo allargamento dei miei orizzonti e, i suoi occhi ghiacciati si addolcirono in uno sguardo compassionevole. Fu così che capii che aveva compreso perfettamente quanto fossi spaventata. Era come se dopo aver camminato sempre a testa bassa avessi alzato la testa e, avessi scoperto l’immensità dell’orizzonte. Avrei dovuto sentirmi importante, ma la verità era che mi sentivo impotente e assolutamente microscopica. Sentivo tutta l’insensatezza di questo paradosso. Come poteva un essere umano come me, tanto piccolo, di fronte al mondo, farsi carico della vastità dello spazio? In una sola ora era riuscita a scoprire ciò che, se aveste atteso la liberazione e la riconquista degli Inferi. «Devo… Devo farci l’abitudine, ecco.» boccheggiai alla fine, anche se avevo paura. Sapevo di essere importante, ma non immaginavo fino a questo punto.
Tornai a guardare il panorama sotto di noi che scorreva rapido come le strisce dell’autostrada; con la consapevolezza, ormai piena, del perché tutti mi cercassero e mi volessero. Accecati dal mio potere, invece che dalla mia persona. E, francamente, questa cosa, mi feriva; avrei preferito non avere alcun potere invece che averne uno che mi metteva in una posizione così pericolosa. Perché non potevo essere una Saint come tutti gli altri? Ma mi bastava essere solo una Saint oppure mi piaceva anche essere questo? Voglio dire, questi poteri erano una parte di me, in fondo. E, appena giunta a questa conclusione, mi maledii per aver pensato queste stronzate.
Raggiungemmo il resto dell’esercito in poche ore. Si erano trasferiti esattamente oltre la coltre di nebbie e vapori. Ciò che mi soprese furono le zone termali e boscose che, prima non avevo notato. Mi accigliai mentre il grifone atterrava. Non mi sembrava di aver notato niente di simile, prima.
Il grifone atterrò in uno spiazzo libero e ripiegò le ali, sicché noi potessimo scendere e, Camus mi porse la mano per aiutarmi e non rifiutai. Un gesto di gentilezza era una cosa rara qui, non me lo sarei fatto sfuggire per niente.
Ma era anche vero che non potevo permettere che continuasse a cercare di proteggermi. Dovevo cavarmela da sola. Non ero inferma da dire “ho bisogno di aiuto”, non ero una damigella in pericolo e non ero la Dea Atena. Non doveva pensare a me come una specie di ragazza fragile o da tesoro da proteggere. Per quanto apprezzassi la sua gentilezza e la sua solidarietà, non volevo che finisse nei guai a causa mia. Ecco, adesso cominciavo a capire che cosa dovesse pensare Lady Isabel quando combatteva. O cosa dovesse pensare Yoshino. Nah, Yoshino non pensava così. Non volevo neanche ricorrere troppo spesso alla Dark Resurrection.
Menta s’avviò verso le tende che gli Specter stavano rimontando ma io non mi mossi, solo dopo mi accorsi che Camus era ancora accanto a me e mi fissava. Indeciso se essere preoccupato o se attendere una mia reazione di qualche tipo. Probabilmente isterica. Eppure, sotto quel punto di vista ero tranquillissima. Gli domandai, perplessa: «Ho qualcosa in faccia?»
Lui si ricompose e rispose un frettoloso: «No, no».
«Ok, no, chiedevo perché mi era sembrato».
«Ho dato quest’impressione?» Chiese.
«Sì».
«Scusami, mi ero solo incantato». Ribatté velocemente, forse timoroso di avermi messa a disagio. O più probabilmente, che qualcosa avesse potuto approfittare del suo stato di trance per aggredirmi.  In effetti era un rischio da considerare, visto che tra le armate di Hades c’erano anche dei mostri ctoni e gli Specter erano piuttosto… aggressivi e vendicativi anche adesso. Soprattutto adesso che erano stati costretti a sloggiare a causa di Minos.
Annuii: «Ti capita spesso di incantarti?» Gli chiesi.
«No». Peccato, sarebbe stato più umano. Poi, per liberarsi dal momento di imbarazzo, se ne uscì con un: «Senti…» Ma io lo bloccai giocando d’anticipo, «No». Mi guardò perplesso, prima di farmi eco, con tono interrogativo: «No?»
«No, scusami, è stata una giornata stressante, non ho voglia di affrontare questo e altri argomenti… io, ho bisogno di schiarirmi le idee, fare qualcos’altro».
«Capisco, ti vuoi allenare?»
«No, non… devo fare qualcos’altro».
«E cosa?»
«Devo costruirmi quell’armatura».
«D’accordo, ma come pensi di fare?»
«Credo che dobbiamo tornare a vedere dei campi di battaglia».
«I campi di battaglia?»
«Sì, ammesso che ci sia rimasto qualcosa, come un frammento».
«Hai intenzione di prendere pezzi di Surplici da dei cadaveri?» Mi domandò, disgustato, cercando di tradurre le mie intenzioni a parole. Effettivamente l’idea faceva ribrezzo anche a me. «Non è che io abbia molte alternative e, te lo sogni che io mi faccia proteggere da te. Non che non mi dispiaccia», aggiunsi in tono più dolce, sentendomi scaldare le guance, «apprezzo tantissimo la tua gentilezza, credimi, è solo che devo anche essere capace di proteggermi da sola e, in questo anche una Surplice potrebbe essere già d’aiuto. Non voglio esserti di peso più di quanto già non sia». Che mi ricordavo bene quanti problemi avevo dato ai suoi compagni, prima di finire qui. Non che una corazza potesse servire a limitarmi, però era già una sicurezza in più. 
Un altro Saint probabilmente mi avrebbe guardato con gli occhi fuori dalle orbite. Avrebbe pure cercato di ricordarmi che non potevo e che ci avrebbe pensato lui, ma Camus no. Lui mi appoggiò, anche se l’idea lo faceva vomitare e, si vedeva. «Non hai tutti i torti, anzi, ti capisco». Mi trattenni dal mollargli una sberla, ma non perché la sua risposta mi dava sui nervi, bensì perché a volte il suo comportamento, era veramente irritante. Cioè, possibile che la gamma delle sue emozioni fosse tutta qui? A volte mi domandavo se fosse veramente umano. Io mi vantavo di avere una mente fluida, che si adattava alle situazioni e trovava in fretta le soluzioni, però lui sembrava averne una ancor più fluida di me, a dispetto del gelo che emanava. Sinceramente, non lo capivo proprio.
Preferimmo però pensarci l’indomani. Tanto, il giorno della battaglia era ancora lontano.

Fu strano per me svegliarmi dopo un sonno agitato e senza sogni, nell’accampamento sotto una tenda improvvisata che prevedeva anche un carro a mo’ di sostegno e, perché no, camera. Dipendeva da come si sistemavano le tende. Per nostra fortuna avevamo trovato delle cerate e altre tende bucherellate e abbandonate dagli Specter e le avevamo raccolte. Avevamo lavorato sodo per delle ore, prima di cena e, anche dopo.
Menta aveva cercato di domandarmi perché non tornassimo al Padiglione della Caina, che sicuramente il Sommo Rhadamantys era preoccupato, ma io non volli sentir ragioni. Non avrei accettato mai più di dividere lo stesso tetto con un uomo della sua risma. Mi bastò un’occhiataccia per farla tacere e sentirmi chiedere scusa.
Per dormire avevamo usato delle coperte per farci da giaciglio e tenda. Non era granché, ma il suo lavoro di ripararci lo faceva. Poi avremmo trovato anche di meglio per costruire la nostra tenda.
Gli Specter e gli Skeleton restarono abbastanza sorpresi nel vederci in fila per la razione mattutina e, i cuochi, appena ci videro, mi guardarono malissimo e mi schiaffò nella rozza ciotola di legno la brodaglia.
“Buongiorno anche a te”, pensai ironica facendo un bel respiro profondo, mentre mi ripulivo gli schizzi con la manica della mano libera. Ci mancavano solo il risentimento e la colpevolizzazione della vittima.
Poi, me ne tornai alla tenda con Menta. La quale si colpevolizzò subito per essersi svegliata tardi.
«Non importa, su, vai a prendere la colazione». Dissi accomodandomi accanto a lei.
«Mia Signora, avete controllato che sia quella che servono ai Vivi?» S’informò e io fermai il cucchiaio a mezz’aria. In effetti no. «No, in realtà no, non ci ho pensato». Mi scoccò un’occhiata riprovevole e decretò che sarebbe andata a verificare di persona.
Quando tornò aveva una ciotola in mano a sua volta e mi confermò che potevo bere, peccato soltanto, che ormai la colazione mi si fosse già raffreddata. Con un notevole sforzo di volontà, la bevvi lo stesso.
Poi, andammo a cercare Camus e lo trovammo alla sua tenda che indossava gli stivali. Fu una cosa strana per me vederlo compiere un gesto tanto umano. Menta lo salutò prima di me e lui ricambiò con un vago sorriso e un cenno del capo. I disegni blu sul suo corpo erano più nitidi di prima; probabilmente Fianna o qualcun altro glieli aveva rifatti. 
Non avevo mai ponderato l’idea di farmi un tatuaggio, però a vedere quei disegni così ben fatti e ricchi di significato mistico, mi venne voglia di farmene uno a mia volta. Magari permanente e non con l’henné come sopra. In fondo, fin da quando avevo sedici anni mi sarebbe piaciuto tatuarmi, solo che non avevo mai trovato il coraggio di farlo veramente, né la motivazione giusta. 
Camus si accorse che fissavo i serpenti blu sui suoi polsi e i suoi bicipiti e mi rinvenni: «Bei tatuaggi, mi piacciono molto». Mi complimentai, domandandomi perché non li avessi notati prima.
«Grazie, me li hanno fatti i druidi e ora ho pure una ghianda in testa, mi sento un po’ Shaka, adesso», fece sorridente scostandosi la frangia per mostrarmi la ghianda blu al centro della sua fronte, poi la lasciò ricadere al suo posto. Non pensavo che avesse un disegno anche lì, proprio come un vero bardo, «potresti chiedere anche a loro». Fece finendo di allacciarsi gli stivali e passare ad avvolgere gli avambracci nelle fasce che conoscevo a tutti i Saint. Dopodiché ci avviammo alla zona. La parola desolazione non era sufficiente per descrivere appieno quell’ex campo di battaglia. 
Ma le parole che suggeriva come decomposizione, sconforto e morte, lo erano. C’erano persino le mosche e gli avvoltoi e strani uccellini monocoli neri che osservavano tutto e becchettavano qui e là. Probabilmente la presenza degli insetti era dovuta a Veronica di Nasu. Che io sapessi, era l’unico Specter ad avere il controllo sugli insetti, le mosche in particolare. 
Fu Camus a suggerirci di guardare, prima di tutto nei dintorni e poi di ampliare il raggio d’azione. E, fu sempre lui a suggerire di darci appuntamento a un luogo comune, sì da evitare inutili scarpinate.
«Scarpinate?» Domandò Menta, confusa mentre scandagliavo la zona con i miei occhi, cercando di ignorare il tanfo e il fatto che fossero cadaveri. «Sommo Camus, non lo sapete? Noi non viviamo più al Padiglione della Caina».
Camus ammutolì. In quel momento mi inginocchiai di fronte a un cadavere. Sempre sforzandomi di rimettere, esaminai l’armatura nera con lo sguardo.
«Ah, no? Quando vi siete trasferite?»
«Ieri sera. Adesso viviamo nel bel mezzo dell’accampamento degli Specter, abbiamo costruito una tenda lì».

Trovai un pezzo che sembrava fare al caso mio e, ignorando il disgusto che provavo, glielo tolsi e, me lo adagiai sulla pelle del polso. No, non mi cingeva completamente, era troppo grande. Perciò provai ad appoggiarlo alla caviglia sinistra. Intanto anche Camus me ne passò un altro. Lo guardai per chiedergli il permesso e lui annuì, sicché disegnai la sua costellazione con i collegamenti. Restammo un momento a fissarli, dopodiché strinsi le labbra, pensierosa, quasi di riflesso a lui che, nella sua discrezione, stava preparandosi a sopportare un grande dolore. Invece, presi solo un filamento d’oro da uno dei collegamenti dell’Acquario. Lui sussultò e mi allarmai un attimo. Credevo di essere stata delicata. Gli chiesi se fosse tutto a posto e lui confermò dicendo di aver sentito un pizzicotto. «Scusa». Mormorai prima di cominciare a usare il filo per saldare insieme i due pezzi. Il filo, poi, si amalgamò e fece come da collante tra i due pezzi. Ci battei le dita e provai a raschiarlo via con un’unghia, ma il filo restò lì. 
Mi alzai e mossi qualche passo. Poi azzardai qualcosa in più, come un salto e una corsetta: «Come te la senti?» Mi chiese quando tornai. 
«Un po’ più pesante, ma credo che mi abituerò». Per il resto i pezzi mi cingevano perfettamente.  
Guardai Menta e mi parve di vederla più rassicurata. Sguardo che andò a farsi benedire quando non ce la feci più e vomitai.

Nei giorni seguenti, dopo il solito sonno agitato a causa delle rivelazioni, il «Bonjour finesse» da parte del cuoco e i soliti sguardi di disgusto di chi ci circondava, dopo una lavata veloce alle terme, tornammo a rovistare.
Ma non trovammo niente di utile, perciò provammo a un altro accampamento. Lì trovammo dei pezzi apparentemente in buone condizioni, peccato solo che quando li toccammo divennero polvere. E io non avevo poteri per riportare in vita una Surplice. Muovere le cloth è un conto, ma le Surplici no. Avevo provato a fare questo scherzetto a qualche Specter, ma non c’era stato verso.
Mannaggia.
Comunque continuammo ad andare avanti nella raccolta. La cosa si ripeté per parecchi pezzi, prima di trovare quelli che non si sgretolavano.
A un tratto Camus, i capelli raccolti per evitare che si sporcassero, buttò lì un commento tanto per spezzare il silenzio, finora interrotto dagli ululati dei refoli di vento.

«Certo dev’essere scomoda quella gonna». Facendo scivolare lo sguardo sulle pieghe del tessuto. Ma lo contraddissi dopo aver stretto le labbra un momento: «Neanche più di tanto, lo sapevi che in origine le Guardie Svizzere combattevano con questi sottanoni?»
«Davvero?» Chiese, cercando di concentrarsi sull’informazione. Sempre meglio che concentrarsi su ciò che stavamo facendo. Non lo biasimavo affatto per questo, anch’io volendo avrei preferito fare altro. 
«Sì, bè, puoi sempre considerarmi una Guardia Svizzera fuori misura». Scherzai. Non avevo neanche tutti i torti, visto che erano sul metro e novanta centimetri. Il mio sorriso si afflosciò, perché nella mia mente fece capolino l’immagine di un altro soldato che li eguagliava in altezza. Saga. Già, anche i gemelli del Tempio erano alti così.
Osservò il modo in cui mi ero legata sul fianco un lembo della tunica lacera intralciasse troppo i miei movimenti. Più volte Camus si era offerto di tagliarmi l’orlo, ma avevo sempre rifiutato. Dal canto suo non capiva come facessi a muovermi senza troppi problemi. Mesi di allenamento, presumo. Non mi sarei mai aspettata che allenarmi e correre dai miei allievi di nascosto indossando le tuniche dei servi potesse sortire quest’effetto.

«Invece potresti rispondere tu a una domanda?»
«Se posso».

«Mi stavo chiedendo, perché esiste uno Specter della Farfalla?» Lui aprì bocca per iniziare il discorso, ma non seppe come continuarlo. Finì per assumere un’espressione dubbiosa e tacere.
Avevamo raccolto alcuni pezzi che mi sembravano buoni, quando vidi splendere qualcosa. Mi avvicinai e tolsi, non senza qualche difficoltà, il cadavere da sopra la cosa che luccicava. Fu allora che rinvenni una parure a forma di orecchio di drago. Aveva due antenne come di farfalla, sovrapposte, che si incurvavano dolcemente verso l’interno, di grandezza crescente. L’orecchio era protetto dagli inserti dorati che lo cingevano superiormente e, posteriormente, si allungavano verso il basso, dopo aver sostenuto la parte di rubino che era tagliata, appunto, in tre listature come s’immaginavano che fossero le orecchie di drago. La prima delle quali, era inserita esattamente nella listatura che si allungava dietro le antenne dolcemente ricurve. La parte inferiore terminava con una punta che proteggeva il collo lateralmente. Era un po’sporca ma era molto bella e, accanto a essa, c’era un bracciale femminile che fasciava diagonalmente il polso, dello stesso materiale. Forse non era granché, ma se avessi trovato un’altra parure come questa avrei potuto ricavarne un elmo. Non che mi piacesse l’idea di indossare qualcosa che me lo ricordasse, ma era già una sorta di protezione. La punta del bracciale invece, mi proteggeva, almeno in parte il dorso della mano. Per la parure non c’era problema, mi sarei fatta fare dei nuovi buchi a un orecchio. Avevo l’impressione, infatti, che non si sostenesse da sola con l’ausilio di un buco solamente, come invece era il mio caso.

Li misi entrambi nel sacco che mi ero portata dietro (in realtà una delle coperte del nostro alloggio). Proprio allora Menta si rialzò e si spolverò le mani sulla sottana e, ci avvisò che qualcuno stava arrivando. Guardammo entrambi nella sua direzione e vedemmo uno Skeleton raggiungerci. Lo seguimmo con lo sguardo e poi, quando fu dinanzi a noi, lo salutammo. Il nuovo arrivato ricambiò, un po’sorpreso e, c’informò che ero stata invitata al Padiglione della Giudecca per mezzogiorno, che, la Somma Sacerdotessa degli Inferi, avrebbe gradito che io fossi stata ospite per pranzo. «Capisco, grazie per l’informazione».

Camus si accigliò sospettoso, nel sentire il nome di Pandora. Mentre a me, anche se cercai di nasconderlo il più possibile, il cuore mancò un battito.

Camus mi scoccò un’occhiata interrogativa ma non disse niente. Quando fu il momento di rientrare, dissi a Menta di prepararmi un panino in fretta e furia. Lei obbedì. «Non ti fidi di Pandora, vero?»
«Diciamo che fidarsi è bene, non fidarsi è meglio». Mi costrinsi a dire. Poi, conoscevo il trucco adoperato da Hades per legare agli Inferi Persefone, non volevo rischiare.
«Tutto bene? É tutta la mattina che sei strana». Chiese, avvicinandosi di un passo.
«Sì, tutto a posto, è solo la… distesa che mi scombussola», mentii. Non mi andava di dirgli che in realtà temevo di sapere già chi fosse questa Pandora. Come avrei voluto parlare con il mio maestro adesso. Ci avevo provato, ma lui non mi rispondeva. Come se il nostro contatto telepatico fosse stato interrotto.
Menta tornò trafelata con quanto richiesto e io mangiai e bevvi. Alla fine mi pulii le mani al vestito e dissi: «Bene, mi faresti strada, per piacere?» Chiesi, titubante, per farle fare qualcosa che non fosse fissarmi come un baccalà.
«Certo».
Salutammo Camus che, per tutto il tempo continuò a osservarmi con preoccupazione, ma non ci raggiunse né ci disse niente. Credo che avesse deciso di fidarsi di me, dopo le rivelazioni dei giorni scorsi. Rivelazioni che, comunque, ancora mi sconvolgevano.
Fui accolta nella sala del trono, una sala molto simile a quella del palazzo del re dei Vichinghi de Il tredicesimo guerriero. Però fui scortata a un lato della stessa, fui fatta accomodare dalle Velate e mi fu servito un pasto caldo. Pasto che, però non toccai. Chiesi quando sarebbe arrivata la mia ospite, ma nessuna di loro mi rispose. Osservandole mi si accapponò la pelle: sembravano assenti, manovrate, a differenza di quelle del Pico de Paperis infero.
Poi, dopo un’ora passata a rimuginare e rigirarsi i pollici, le Velate si accesero di nuovo e cominciarono a sparecchiare. 
«Ehi, ma, per il vassoio?» domandai indicandolo titubante.
«Non preoccupatevi, ce ne occuperemo noi». Mi garantì la voce femminile di un’altra Ninfa Stigia; probabilmente una delle tante sorelle al plurale di Menta. A differenza della sorella, però, era più fredda.
Certo, che stupida, ormai era la mia deformazione professionale. «Prego, vogliate seguirmi». M’invitò facendomi cenno di seguirla con una mano; mi alzai e mi lasciai guidare fino a una porta secondaria da cui proveniva, attutita, della musica. Questo cerimoniale mi strappò un sorriso di confusione. Non era che fosse molto grande e non che ci fosse molto da fare; bastò aprire la porta che ci trovammo in una saletta vuota. Una sala che, a giudicare dalla mobilia, era una camera da letto. Mi sarei quasi aspettata di vedere Pandora qui, per questo tirai un sospiro di sollievo.      
Poi, inciampai nell’orlo dell’abito e cascai in avanti con un tonfo.
Come temevo, il nodo ai brandelli si era sfatto. La poveraccia sembrò indecisa se scoppiare a ridere o se aiutarmi mentre mi riallacciavo il nodo. «Milady Astrid, state bene?» Mi domandò preoccupata, osservandomi mentre l’affiancavo di nuovo, davanti alla porta da cui proveniva, un po’più forte, la musica.
«Sì, credo».
«Siete sicura di non volervi fermare un po’?» “E che è ‘sto posto? La reggia di Versailles?” Perché detto così sembrava che il tragitto fosse lungo chilometri invece che qualche metro in più del Padiglione della Caina. «Assolutamente». Dopo la scalinata delle Dodici Case e tutti i sentieri che avevo battuto che vuoi che mi facesse un Padiglione? L’unica cosa che lo differenziava degli altri, oltre il legno erano le stanze e l’arredamento.
Aprì infine la porta da cui proveniva la malinconica melodia di un’arpa. Sgranai gli occhi e trattenni il fiato rumorosamente di fronte alla Somma Sacerdotessa degli Inferi. Era una donna sui quarantaquattro anni, di bell’aspetto, seduta vicino a una grande arpa. I capelli lisci e di un nero lucido, le sfioravano le ginocchia in una massa uniforme e perfetta. Il volto ovale di una donna in salute faceva da contrasto con il luogo tetro di cui era padrona. Le membra pallide e delicate suggerivano la sua stretta materna e calda, a dispetto dell’ossatura ancora delicata. A darle un tocco di colore era il fiore che portava dietro l’orecchio. Il trucco sugli occhi contribuiva solo ad accentuare la sua bellezza e l’abito viola con le decorazioni fiammeggianti la rendevano più regale che mai. Come il mala che le cingeva i fianchi, la collana e la parure a forma di serpente purpureo sulla mano.
Appena si accorse della mia presenza mi guardò e trasalì. Smise di sfiorare le corde con le belle unghie smaltate laccate. Poi prese a battere più volte le palpebre per l’incredulità. «Non è possibile!» Esclamai e lei: «Sei tu!» Poi scese dalla pedana e mi venne rapidamente incontro a braccia tese.
«Tata!» Esclamai a mia volta, incredula mentre sollevavo le mie e lei mi stringeva a sé come una madre, inondandomi le narici del suo profumo preferito e il cuore del suo immenso affetto. Non mi ero sbagliata, era veramente lei.
«Non ci credo… Non posso crederci, sei veramente tu, Astrid?» Mi domandò scrutandomi quando si discostò quel tanto che bastò per guardarmi in faccia. Adesso il mio volto era di nove centimetri più in alto del suo, ma tra le sue braccia mi sentii tornare bambina.
Le sue iridi erano accese di commozione, felicità e di sorpresa. Non avrei mai creduto che avremmo finito per ritrovarci in un posto come questo. Sembrava volermi comunicare che non mi avrebbe lasciata andare mai più. E mi ritrovai d’accordo.
«Mio Dio, mio Dio, mio Dio, quanto tempo, fatti guardare; oh, Astrid, sei cresciuta tantissimo». Mi strinse di nuovo a sé promettendomi che da adesso in poi sarebbe andato di nuovo tutto bene. Che almeno mi aveva ritrovata, che ero di nuovo con lei e io ricambiai la stretta, sorpresa mentre il suo profumo mi entrava nelle narici inondandomi gli occhi di lacrime. La strinsi più forte.
Si scostò da me per guardarmi un’altra volta e poi abbracciarmi di nuovo, commossa e tempestarmi la faccia di baci come quando ero piccola. Sentii gli occhi pizzicarmi di lacrime.
Si staccò un’altra volta, continuando però a tenermi per le spalle. Poi mi circondò il viso con le belle mani profumate, lisce e curate. «Perché non me l’hai mai detto? Allora era per questo che non sei potuta venire a trovarmi in Grecia, perché tu sei la Somma Pandora». Dissi e lei chinò il capo imbarazzata, il sorriso cancellato. La felicità offuscata. Altro che supplenza al conservatorio, non era potuta venire perché dirigeva le fila del Dio dell’Oltretomba!
Mi carezzò le spalle prima di stringerle e scusarsi: «Lo so, hai ragione ma non volevo che… che voi due finiste coinvolte, mi vergognavo».
«Zia, ma tu sei la sorella terrena del Dio Hades!» Esclamai io a occhi sgranati. La mia madrina era… «Cosa c’è da vergognarsi?» Aggiunsi poi con orgoglio che poi divenne timore, perché lei era pur sempre una nemica del Santuario. E, anche lei lo sapeva. Mi maledissi per aver parlato a sproposito. 
Ma in questo momento non era quella donna, questa era la mia seconda madre.
«É una pagina del mio passato che non volevo che scopriste, mi dispiace, desideravo soltanto proteggervi». Rispose abbassando gli occhi.
Stavolta fui io ad abbracciarla, strappandole un sussulto. «Non importa zia, non importa, ti capisco».
La sentii sorridere e rilassarsi, mentre ricambiava un’altra volta: «Oh, bambina mia, sono tanto contenta di rivederti».
Mi tenne sottobraccio e mi fece accomodare sulla poltrona del suo salottino privato, vicino all’arpa. Poi prese posto su quella di fronte a me. A separarci un tavolino da tè. La zona era rischiarata da delle candele ma era molto più accogliente che nel resto del suo palazzo e, i colori, erano più facilmente distinguibili.
«Cosa ci fai tu qui? Ti credevo al sicuro, perché non sono stata informata dai tre Giudici Infernali?»
«É una storia un po’complicata, zia. Ma cosa ci facciamo in un posto come questo? L’ultima cosa che ricordo è una svitata che mi uccideva». Dissi io.
«Qualcuno ha tentato di ucciderti? Chi diavolo è quello svitato che lo faccio a pezzi con le mie stesse mani?» Sbottò adombrandosi.
Avevo dimenticato che la tata era molto protettiva nei miei confronti. Ero ancora il suo fiorellino delicato, come mi chiamava quando ero molto piccola e quasi litigava con mia madre per passare il tempo insieme a me. Comunque le risposi e lei spalancò gli occhi, ma non avrei saputo dire se per la sorpresa o per l’orrore: «Della costellazione… Astrid, non avrai mica a che fare con il Grande Tempio?» Domandò. In effetti le uniche persone legate alle costellazioni che si potevano trovare risiedevano lì. “Eh, sai, da tutta una vita, a quanto sembra”. Pensai tra me e me, ma evitai di dirglielo; qualcosa mi diceva che non le avrebbe fatto piacere saperlo e, poi, nelle e-mail che ci eravamo scambiate, non le avevo affatto parlato del Grande Tempio. Ad ora credeva ancora che i miei nuovi amici fossero veramente dei patiti di cosplay. Ma dire a mia zia la verità poteva essere scioccante. Avevamo già perso la mamma, dirle che ero l’apprendista di Odysseus di Ophiuchus sarebbe stato un colpo ancora più grande. La solitudine della tata era sempre stata immensa, io e la mamma eravamo per lei la sua fonte di felicità. E, questo l’avevamo sempre saputo. «Eh, sì».
Lei mi lasciò andare le spalle: «Come è possibile? Mi avevi detto che ti eri trasferita ad Atene dopo che i tuoi salvatori ti avevano lasciato andare, con tanto di risarcimento». Chiese basita. Un risarcimento un po’misero secondo me. Ma decisi di soprassedere per raccontarle come era iniziata tutta la storia. Avevo appena iniziato che, al solo sentire i tre Giudici Infernali m’interruppe. «Cosa? Quando?»
«Ad aprile dell’anno scorso, quando mi hanno aggredito».

«Quei tre hanno fatto cosa? Oh, ma adesso li sistemo io! Giunchiglia!» Con una sincronia invidiabile, l’ancella infernale aprì la porta, recando con sé un vassoio con teiere, tazze e pasticcini. Si bloccò di colpo di fronte all’espressione adirata della tata e sgranò gli occhi. «Mia Signora?» Domandò mentre la domestica ci raggiungeva. La zia le strappò il vassoio di mano e ordinò, alterata: «Mandami immediatamente i tre Giudici Infernali. Ora! E, che non tardino nemmeno di un secondo!» La Ninfa sgranò gli occhi per la paura e annuì. Poi uscì rapidamente, chiudendosi le porte dietro le spalle.
Ribollente di rabbia, la tata posò il vassoio sul tavolo (mi sorpresi che non si fosse spaccato tutto, per l’impeto con cui ce lo mise) e poi tornò alla sua arpa. Io me ne restai seduta al mio posto, guardandola preoccupata. Che aveva intenzione di fare? Pochi istanti dopo la porta si aprì di nuovo e i tre fecero la loro comparsa. «Lady Pandora», salutarono rispettosamente, genuflettendosi sul ginocchio destro.
«Come avete osato?» Urlò la tata e la sua voce rimbalzò per tutta la piccola sala. Non urlava quasi mai ma quando lo faceva un gelido brivido di terrore scuoteva la schiena e stringeva le budella come fossero un cencio bagnato.
I tre alzarono il viso di scatto, confusi e spaventati mentre la loro comandante continuava: «Come avete osato? Con che coraggio avete osato toccare la mia figlioccia?»
«Signora?» Domandò Minos del Grifone, ancora confuso.
Aiacos di Garuda, timidamente, aggiunse, «Di chi state…?» Ma non riuscì a completare la frase che un altro urlo l’investì in pieno tutti e tre: «Di Astrid av Stjernene! Che cosa vi passa per la testa? Era questo quello che vi aveva ordinato di fare quella notte? Come avete osato? Vi avevo detto di opporvi al controllo mentale di Don Avido, non di assecondarlo! Siete degli emeriti incapaci; tra tutti quelli che vivono sulla Terra avete coinvolto nella Guerra la mia figlioccia!» Si accomodò rapidamente sullo sgabello vicino all’arpa e mise le mani in posizione per suonare.
Io mi accigliai, tenendo le mani sul bracciolo. Cosa voleva fare? Guardai i miei aggressori; anche loro sembravano spaventati.
«Nobile Pandora ci perdoni, noi non ne sapevamo niente». Prese a giustificarsi il moro. Non l’avevo mai visto così, privo della sua baldanza e della sua follia che lo caratterizzava. 

«Non l’abbiamo riconosciuta, sono passati anni dall’ultima volta che…» S’aggiunse Minos e, come se quelle parole avessero fatto scattare qualcosa, io mi ricordai anche degli Specter che girovagavano per villa Heinstein e che avevano combattuto contro i Driadi quando vennero a rapirmi undici anni fa.
«Tacete!» Ordinò la zia troncando il resto della frase di Minos, che risuonò quasi come un borbottio, a confronto: «Non avevamo idea che fosse la stessa av Stjernene che conoscevamo».
Cosa? Ci conoscevamo già? Bè, aveva senso, considerando che avevo vissuto a stretto contatto con la zia a lungo. Ma se di alcuni Specter mi ricordavo, perché di questi tre no?
Ma al momento mi interessava di più vedere come li avrebbe puniti.
La zia divenne totalmente impassibile, come se si fosse calmata. Poi, glissò una nota. La corda della sua arpa fu percorsa da scariche elettriche che si propagarono come un filo verso i tre malcapitati.
Io balzai in piedi e sgranai gli occhi orripilata e affascinata insieme, tenendomi le mani sulla bocca. Non temevo di diventare una persona pessima. Anzi, io stessa avevo vissuto un periodo in cui distruggevo quasi ogni cosa che toccavo per poi rendermi conto di ciò che avevo fatto e pentirmene subito dopo: si chiamava adolescenza. Ma quello che provavo era una cosa diversa ancora; era un’immensa soddisfazione. Il fatto che ci conoscessimo già non li giustificava affatto, nessuno dei tre.
«Aspetta, zia!»
La tata si fermò. «Che cosa c’è, Astrid?» Domandò con un tono che non ammetteva repliche.
I tre Specter fumiganti mi guardarono a occhi sgranati, sorpresi di trovarmi lì. Ricambiai gli sguardi.
Questi erano i tre che mi avevano pestato a sangue, quelli che mi volevano morta. Li avevo già salvati una volta dalle Creature e mi avevano detto che la riconoscenza agli Inferi non esisteva. Inoltre, adesso sapevo usare abbastanza bene i miei poteri e, se avessi gridato, le Creature sarebbero accorse subito. E, loro lo sapevano.
Mi avvicinai alla tata, che fino a quel momento mi aveva accompagnato con lo sguardo. Poi li guardai con occhi pieni di odio e di vendetta. «Niente, volevo soltanto chiederti se puoi pizzicare un po’di più le corde della tua arpa elettrica: mi piacerebbe sentirli cantare». Dissi volgendo la testa verso di loro, di modo che potessero ammirare il sorriso malefico che mi si era stampato in faccia.  Calcando bene l’accento sull’ultimo verbo.
I tre ancora inginocchiati, impallidirono di colpo. Il Garuda trasalì, riconoscendo queste parole.  
“Speravate davvero che me ne fossi scordata?” Pensai continuando a sorridere, guardandoli a braccia incrociate, intanto che con un dito che mi carezzavo le labbra. Pensavano di aver avuto tra le mani un soffice, gracile canarino, non un letale uccello rapace decisamente più grande e forte.
Mi dovevano un anno di vita perduto, mi dovevano l’amore rubato per la notte, mi dovevano la Luna e le stelle, la tranquillità che mi avevano sottratto. Le ossa che mi avevano rotto, la pelle che mi avevano ferito, il sangue che avevo perso, i muscoli che avevano maciullato e la vita che avevano cercato di togliermi. La mia famiglia, alla quale mi avevano strappato, costringendo Aphrodite e Death Mask a salvarmi. Credevano sul serio che solo perché li avevo salvati mi sarebbe importato qualcosa dopo? Non con tutto il male che mi avevano fatto. Anche se questo non avrebbe che portato all’acuirsi dell’astio già corrente tra noi, non m’importava. Non avrei mai avuto la soddisfazione di vederli in carcere. E, anche se la vendetta non era sufficiente e non mi avrebbe mai restituito niente di tutto ciò, potevo almeno esigerne una simbolica. E, la esigetti.

Mi pregustai le loro grida.

La zia soppesò la mia richiesta e, dopo qualche secondo, glissò di nuovo una corda della sua arpa e delle scariche elettriche risalirono la corda partendo dal punto in cui l’aveva sfiorata, per raggiungerli, fargli abbandonare le posizioni e strappargli delle grida di dolore. Quando si ritenne soddisfatta, li lasciò andare. «Che vi serva di lezione. E ora lasciateci!» Esclamò ponendo le mani sulle ginocchia. 
I tre chinarono di nuovo il capo, ancora un po’ronzanti e fumiganti. Dopodiché si alzarono, leggermente traballanti e obbedirono chiudendosi la porta alle spalle.
«Bene e ora prendiamo il tè». Trillò la tata recuperando il sorriso e i modi affabili che le conoscevo con una rapidità allarmante. Come se non fosse successo niente. Ammisi con me stessa che se non l’avessi conosciuta fin da quando ero piccola, mi sarei spaventata molto di più di quanto già non fossi. Ovviamente il mio spavento era mitigato dalla contentezza per aver ricevuto il mio risarcimento simbolico. E dai dubbi. Mi venne da chiedermi chi fosse veramente: la comandante degli Specter o la migliore amica di mia madre? La donna che la mamma aveva scelto come mia madrina e tutrice in caso di prematura dipartita? Dov’era che iniziava una e finiva l’altra? Che certezza avevo che non stesse cercando di ingannare anche me? Dopotutto l’avevo vista nei ricordi di Death Mask, ma finora non l’avevo collegata a lei, a causa della lontananza del suo punto d’osservazione. Come avevo fatto a essere così stupida da non riconoscerla? «Su, vieni». M’invitò, tendendomi la mano come quando ero piccola. Feci per seguirla ma inciampai nei brandelli e cascai a terra un’altra volta. «Astrid!» Esclamò preoccupata mentre mi rialzavo borbottando imprecazioni contro il sistema politico italiano. Lei mi guardò ad occhi sgranati.
«Non è niente». Dissi poi, rialzandomi in piedi e spolverandomi l’abito, oggi il nodo proprio non voleva stare al suo posto. «Scusa per il linguaggio». Aggiunsi mettendomi seduta al mio posto. Nonostante tutto non avevo ancora perso il vizio, anche se imprecavo assai di meno di quando vivevo in Italia.
Sfiorai la teiera. Era ancora calda.  
«In effetti ero sul punto di rimproverarti ma non pensavo che fossero così strane».
«Lo so, sono astruse, ma mi hai insegnato tu a portare rispetto per le Divinità, perciò, se proprio devo imprecare, ho preferito abituarmi a berciare sui politici italiani e il loro lavoro e, ti assicuro che ogni giorno ce ne è una». Spiegai. Che mi ero tenuta aggiornata anche sul mio Paese.
«D’accordo, però ti sarei grata se tu usassi un linguaggio più consono». Ribatté sedendosi al suo posto.
«Ci proverò». Promisi.
«Comunque, stai bene? Non è che sei ferita?»
«Non preoccuparti sto benissimo è che non sono abituata a muovermi con un abito così lungo. Tutti i miei vestiti mi lasciano scoperti i polpacci, l’abito più bello che ho mi arriva al massimo alle caviglie». Anche se mi avevano detto che all’inizio le Guardie Svizzere combattevano con sottane lunghe quanto questa veste.
Lei cominciò a versare il tè nelle tazze. «Come ci sei finita al Santuario di Atena, piccola mia?» Domandò preoccupata mentre mi servivo i pasticcini. Le risposi che, paradossalmente lo dovevo proprio ai tre Giudici Infernali. E le raccontai di come il loro accanimento avesse costretto i due Saint a ricorrere a misure drastiche. Avrei preferito un metodo diverso. io non avrei mai ricordato di appartenere a questo mondo. L’unica cosa che mi dispiaceva era che le regole dei civili non valevano anche qui.
«E, da allora sei rimasta laggiù? Avevo capito che eri tornata a casa e poi che è successo? Perché sei tornata in Grecia?» Le raccontai anche tutta la faccenda della mia cacciata e di Aurel e di come avessi deciso di restare. «Mi dispiace non aver risposto subito alla tue e-mail, al Santuario non c’è connessione. Perché hai ordinato a quei tre di venirmi a cercare?»
«Io non ho mai ordinato di cercarti. Fino a poco tempo fa Don Avido li usava come pedine per i suoi giochi e poi li riponeva in apposite prigioni atte a contenere le loro forze e a impedire le loro menti. Mi dispiace, non immaginavo che il nemico ti avesse già individuato e avesse riconosciuto in te…».
«Don Avido? Ne ho già sentito parlare». Mormorai pensierosa. I Black Saint del presente non me ne avevano neanche accennato. Non che io avessi chiesto qualcosa. «É il nostro avversario, è a lui che stiamo cercando di strappare gli Inferi». Spiegò rapidamente. Assottigliai gli occhi. Allora Rhadamantys aveva detto la verità quando mi aveva spiegato i motivi per cui mi aveva risparmiato e portato qui. Servivo veramente alla loro causa. «Prima stavi per dire che aveva riconosciuto in me che cosa?» Domandai accigliata.
«Niente di importante».
«Zia, sono abbastanza grande per sapere». Le ricordai incrociando le braccia. Volli apparire coraggiosa, non so neanche se ci riuscii, perché in realtà, mentre mi stringevo l’addome sotto la manica a pipistrello, mi sentivo sul punto di cadere in pezzi. «E se non me lo dirai tu troverò le risposte da sola e, sta pur certa che le troverò o che ci arriverò». Promisi. La zia mi guardò sbigottita. Sembrò quasi domandarmi con gli occhi, se ne fossi capace. Alzai le spalle: «Diciamo che ho gli indizi. La mamma lo sapeva?» Domandai poi, accennando con un dito, che sollevai, alla sua veste nera. Mi faceva uno strano effetto vederla con indosso solo abiti scuri, di solito me la ricordavo abbigliata con abiti a fantasie floreale e colorati. 
«Soltanto una parte. Lei sapeva che sono una Sacerdotessa e credeva che i tre Giudici Infernali fossero spiriti alle mie dipendenze, ma non era a conoscenza del resto». Spiegò imbarazzata.
Assentii con il capo. «Capisco». Fino a questo momento non avevo ancora realizzato che fosse passato tutto questo tempo. Lei si accorse del mio turbamento e domandò, in tono delicato cambiando discorso: «Dimmi, ti trattano bene?» Sorrisi e risposi, convinta: «Più che bene». Ed era la realtà.
«Ma allora perché ti sei ridotta a far loro da corvée?» Domandò preoccupata e quasi inorridita mentre si portava la tazza alle labbra e soffiava per raffreddarla.
Accavallai la gamba e inghiottii il pasticcino, cercando di rispolverare le lezioni di bon ton che mi aveva imposto da bambina quando giocava con me a prendere il tè, ovviamente, quando non mi allenavo con il maestro Odysseus. 
«Perché volevo tornare a casa con le mie gambe, non sfruttando un passaggio non richiesto alla stregua di un pacco postale o una principessa in pericolo. Volevo avere i soldi e i documenti necessari, che ho perso proprio la notte dell’aggressione, capisci?»
La tata mi sembrava sempre più sconvolta. Alla fine si ricompose e riuscì a dire: «Mia povera bambina, mi dispiace, non sai quanto mi dispiace. Avrei dovuto capirlo subito, oh, perché sono stata così cieca? Che cosa è mai accaduto per far sì che i nostri nemici si accanissero su di te in questo modo?» Domandò ancora, in pena e, nel dirlo, ne riconobbi la sincerità. Lo stesso sguardo con cui aveva pattugliato la sua villa quando passavo le mie estati con Odysseus. Povera donna, doveva essere stato un colpo per lei sapere che i suoi sottoposti (?) mi avevano quasi ucciso. 
«Perché ho letto la mano al Gold Saint di Cancer». Raccontai portandomi la tazza alle labbra. Presi un sorso bevvi, dopodiché le raccontai la storia. «Solo che non mi aspettavo che la ragazza che figurava nei suoi ricordi, anche se sbiadita e in lontananza, fossi proprio tu. Perché non ci avevi mai detto di essere il capo degli Specter di Hades?» Chiesi, un po’delusa. Non pensavo che la donna che mi aveva insegnato ad amare la vita, ad apprezzare i profumi e i colori e a non darli mai per scontati avesse un tale passato alle spalle. Un passato che continuava a perseguitarla, anche se mi rendevo conto anch’io che era un po’diverso rispetto a quello dei ricordi di Death.      
Lei evitò volutamente di rispondermi, per domandarmi: «Quindi tu per vivere leggi la mano?»
«Sì, cioè, non solo, anche se prima lo facevo di nascosto». Non le avevo mai raccontato del lavoro che mi aveva procurato papà. In realtà non le avevo mai neppure detto che avevo lasciato l’università per inseguire un sogno ormai sfumato.
«Oh. E, sei brava?» Domandò.
«Molto, mi ha insegnato la mamma».
«Come sta tua madre? Sono settimane che sto cercando di mettermi in contatto con lei ma è scomparsa. Tu sai cos’è successo? Sono preoccupata per lei». Mi confidò, angosciata.
Esitai. Ora come glielo dicevo? Poi la guardai negli occhi: «Zia… ma tu lo sai, vero?»
«Cosa, tesoro?»
Ok, non lo sapeva, ma ormai non potevo tornare indietro. Presi le sue mani tra le mie e cercai di girarci intorno, provando a essere più delicata possibile e prendere tempo. O forse stavo solo prendendo tempo per me stessa: «Quello che è successo alla mamma».
La zia sbarrò gli occhi orripilata e serrò la presa sulle mie: «Che cos’è successo a tua madre?» Mia madre era la cosa più importante per lei, dopo di me.
«Non… lo sai?» Chiesi esitante.
«Cosa dovrei sapere? Per favore, dimmelo, Astrid». Come avevo già sperimentato, non c’è modo di dire una brutta notizia. Se è brutta è brutta, non importa come arriva. Avrei potuto usare il tono più dolce del mondo, ma non sarebbe bastato ad alleviare l’asprezza e la gravità delle parole che mi sarebbero uscite. Le presi le mani tra le mie e gliele strinsi come a darle la mia forza. Ma forse ero io ad averne bisogno, perché il solo parlarne mi faceva sentire fragile e sottile, come un foglio di carta velina. O un cubetto di ghiaccio che si scioglie. «La mamma è morta… qualche giorno fa».
«No…»

Gli occhi della zia si riempirono di lacrime e pianse. Io feci il giro del tavolo e l’abbracciai. La tenni stretta a me finché non si fu calmata almeno un po’. «Come è successo?» Mi chiese poi con voce lamentosa: «Chi è stato?» Non la lasciai andare neanche in quel momento. Le raccontai tutto quello che mi aveva riferito Seiya. «Ha fatto tutto questo per… Oh, Aida, allora sapevi, sapevi… Perché non mi hai detto niente? Perché?»
Chiusi la bocca e non seppi cosa dirle. Mi limitai a continuare a stringerla a me. “È anche per questo che sono rimasta al Santuario e ho continuato su questa strada”. Pensai amara. Poi le strofinai la mano sul braccio, mentre lei tuffava il volto tra le mani e piangeva a dirotto. Ma alla tata non avrei detto niente di tutto questo.
Per il resto della giornata decisi di restare con lei. Alternò anche lei momenti di rabbia, momenti di sconforto ad altri di totale apatia. Quando riemergeva sembrava stare bene però appena mi vedeva precipitava di nuovo nel circolo vizioso. Non l’avevo mai vista così. La zia era una donna forte, forse una delle più forti che avessi mai conosciuto. L’avevo presa a modello, assieme a mia madre e ora mi restava soltanto lei di quello che consideravo il nucleo originario della nostra famiglia. Per quel giorno, fui io la sua ancora e il suo sostegno. Mi scusai con lei per averglielo detto, ma la zia non parve neanche udirmi. Era assente, come se ogni sua emozione si fosse spenta. Da lei emanava solo freddezza e, per la prima volta da che la conoscevo, i suoi occhi si chiusero, come se non valesse neanche la pena di guardarmi.
Fu come se avesse eretto una barriera attorno a sé. Ma così facendo aveva tagliato fuori anche me.
Cercai di scuoterla ma non ci fu verso. Alla fine le sue labbra esangui si aprirono e proferì un incolore: «Lasciami sola». Cui non ebbi altra scelta che obbedire.  
Appena uscii dal portone del Padiglione mi portai una mano alla bocca e piansi, piegandomi su me stessa. Per la prima volta da tempo risentivo il dolore del lutto e, anche il dolore della solitudine. La zia non mi aveva mai scacciato prima.  
Quando stetti un po’ meglio, scesi la montagna e trovai Camus e Menta rispettivamente seduto sul gradino e intenta a fare avanti e indietro davanti al primo. Si girarono entrambi verso di me e il mio gemello separato alla nascita si alzò in piedi. «Come è andata?» Mi domandò mentre scendevo le scale, andandogli incontro. «Bene e male… credo».
I due mi guardarono perplessi, prima di chiedermi spiegazioni. «La Signora è rimasta… abbastanza sconvolta dalle notizie che le ho riportato».
«Ah, bè, capisco, non deve essere facile per lei tenere sotto controllo gli Specter e i suoi alleati. Non dev’essere stato facile neanche per te». Commentò il rosso guardando il Padiglione della Giudecca a braccia incrociate. E io ringraziai che da qui non si potevano udire gli strazianti lamenti della zia. La quale si era appena addormentata.
«Come?» Domandai recependo a malapena l’ultima parte del discorso. Lui ripeté e io annuii con poca convinzione e tono decrescente: «Ah, sì, sì, non lo è stato».  

 

Il giorno dopo pranzo, mentre Menta e io nella tenda discutevamo su come riadattare il vestito, la tata mi convocò di nuovo per parlare a proposito della mia incursione alla Prima Prigione. Quando lo Skeleton me lo riferì sgranai gli occhi. Chi gliel’aveva detto? Guardai Menta ma lei scosse il capo, incredula tanto quanto me. Allora doveva essere stato Camus. Ma perché gliel’aveva detto?
«Oh, sei sempre stata ingovernabile, Astrid, ma credevo che tu avessi un po’più di discernimento. E se sorvolando il Flegetonte vi avessero avvistati? Ti rendi conto di cosa sarebbe potuto succedere?»
«Non abbiamo sorvolato…»

«Silenzio! Non m’interessa! Se non fosse stato per l’ancella assegnatati da Rhadamantys neanche sarei mai venuta a sapere della tua fuga e delle tue disavventure. Metterti in pericolo a questo modo e durante la Guerra, per giunta. Ti rendi conto del pericolo che hai corso? Di quale danno sarebbe stato se le truppe di Don Avido ti avessero scoperto? E tutto per cosa? Uno stupido libro di miti e leggende risalente a cinque secoli fa!»
«Menta? É stata lei?» Ma come… credevo che mi fosse amica. Che ingenua ero stata.
«Certo che è stata lei, chi credevi che fosse? Le Ninfe Stigie rispondono a me e al Signore degli Inferi, sono tenute a fare rapporto di tutto ciò che succede.» rivelò in tono stizzito.
«Allora sapevi anche che ero qui da tempo! Perché non hai fatto niente per aiutarmi? Perché non mi hai mandato a chiamare subito? Perché mi hai lasciato alla mercé di Rhadamantys e dei suoi sgherri?» Urlai a mia volta, puntando un dito verso di lei, in tono accusatorio. 
«É grazie a quel libro che ora so!»
«Sai? Cosa sai? Cosa credi di sapere? Ti serve a qualcosa sapere questo? Ti cambia qualcosa? Non mi sembra proprio, al contrario ti ha montato la testa. Sono solo delle storie, Astrid, probabilmente anche inesatte, ma il presente lo è! Oh, se non fosse che c’è una guerra in corso, ti pregherei di restare al mio fianco, ma devo chiederti di non seguirmi». 

«Tu ne sai qualcosa, vero? Lo sento, non importa nascondermelo, ormai non sono più una bambina, puoi dirmelo».
La tata mi guardò a lungo prima di sospirare e asserire con un cenno del capo: «Da quando hai messo piede al Santuario il mio Signore sta tenendoti d’occhio e svolgendo delle ricerche su di te e i tuoi poteri, aspettava solo il momento adatto per portarti qui, adesso rimpiango di essere stata così lenta, così stupida. Avrei dovuto agire più rapidamente ed evitare che tu fossi qui».
Sospirai. Dovevo immaginarmelo che c’era di mezzo un altro rapimento. “E, che diavolo! E che ho scritto in fronte? Rapitemi?” Pensai. Ma se il Signore degli Inferi era interessato a me nel bel mezzo della Guerra contro i Black Saint… In quel momento realizzai: io ero solo uno strumento. Uno strumento che era stato affidato alla sua custodia. Adesso molte cose erano chiare. Assottigliai gli occhi e chiesi, in tono più normale: «Perché qui ci sono le Creature, non è così?»
Il suo volto candido se possibile si fece ancora più bianco e mi parve che rabbrividisse dalla paura: «Sì. Ti prego, se avessi saputo che eri tu non ti avrei neanche chiesto di aiutarci, dipendesse da me ti rispedirei nel Mondo dei Vivi seduta stante e aspetterei altre vite e qualcun altro che possa risolvere questo problema».
«Ma non posso, purtroppo sono l’unica persona che può davvero fare qualcosa». Continuai centrando il punto e, al tempo stesso ricordandole che le servivo.
«Mi dispiace piccola mia, mi dispiace davvero». Confermò con rammarico.
Qualcosa dentro di me s’infranse con lo stesso rumore di una lastra di vetro. Speravo che lo dicesse solo perché mi voleva bene, ma la realtà era ben diversa.
«Non se ne parla nemmeno per sogno, tata, vi aiuterò». Decretai determinata e furiosa. Giacché era per questo che il suo Dio si era preso tanto disturbo, allora tanto valeva andare fino in fondo. Che senso ha avere un’arma se non la si usa?
«Non dire stupidaggini, come puoi chiedermi una cosa simile? Come puoi pensare che io ti mandi in campo se non puoi nemmeno difenderti? Tu sei troppo preziosa, non puoi chiedermi di mandarti in battaglia come il più miserevole degli Skeleton! Non m’importa niente se dici che puoi, io non te lo permetto, tu resti al campo base e fine della storia, sono stata chiara?» Mi sgridò con voce secca. Ci restai di sasso perché era la prima volta che si rivolgeva a me con questo tono.
«Ah, è così?»
«Non osare sfidarmi, Astrid». Mi minacciò con voce dura e carica di sottintesi, girando la testa di scatto verso di me. Gli occhi ancora chiusi, ma l’espressione non lasciava spazio a nessun’obiezione. Quella non era più la mia tata, quella era la fredda, perfida luogotenente del Dio dei Morti. E la barriera parve diventare di colpo una katana che tagliò, metaforicamente parlando, il terreno tra di noi, aprendo una gigantesca voragine tra i nostri cuori.  
«Zia…»

«Torna dagli altri». Ordinò con voce secca.
Le feci una sgarbata riverenza e salutai in tono velenoso: «Come desiderate, Sacerdotessa di Hades».

Ma lei si limitò a distogliere il volto da me.
Non sopportavo tutto questo. L’idea di essere stata mandata qui per niente mi faceva imbestialire. Soprattutto la presenza degli Specter. Era vero che tra di noi non c’erano trascorsi felici. Era vero che non mi piacevano ed era vero che non mi fidavo affatto. Ma di lei mi fidavo e forse era questa la cosa peggiore. Perché mi allontanava così? Mi doleva considerare questa possibilità, ma se poi avesse usato gli Specter per il suo tornaconto, glieli avrei estinti senza pensarci due volte. Sperai solo che la fredda comandante dell’armata infernale, non avesse niente a che vedere, con la donna che mi aveva aiutato a crescere per dieci estati della mia vita. Per la Sacerdotessa degli Specter di Hades non mi sarei mai mossa, ma per la mia tata sì. Ammesso che quella donna mi avesse mai voluto bene.
Mentre ritornavo da Menta mi maledissi. Come avevo potuto pensare di fidarmi di lei solo perché mi serviva? Non eravamo neanche colleghe, lei era la mia serva e, al tempo stesso una spia. Come avevo potuto essere così cieca? Neanche Castalia mi pugnalò mai alle spalle a questo modo. Cioè, in realtà sì, però avevo capito cosa l’avesse spinta a mandarmi via. Ma qui non c’era lo stesso intento, qui ero prigioniera e usata come arma. Un’arma di resurrezione di massa, oltretutto.
Avrei voluto parlare con il mio maestro, ma la connessione era stata interrotta.
«Ma, prima, potresti farmi un favore?»
«Sicuro, ditemi». Fece, desiderosa di aiutarmi. Mi domandai se facesse sul serio o se fosse proprio una lecchina di suo.
«Potrei avere un altro vestito? Questo è da buttare, ormai e, per favore, smettila».
«Di fare cosa?»
«Di fare la spia a Lady Pandora. Non voglio che lei sappia quello che dico».
«Signora io… sono desolata, ma non posso».
«Lo immaginavo; allora chiariamo subito una cosa, non sono quel tipo di persona che ama che le si parli alle spalle, quindi gradirei trasparenza da parte tua. Se vuoi restare con me, allora devi dirmi chiaro e tondo quando vai a riferire alla luogotenente di Hades i tuoi rapporti e riferirai solo una parte, parlando in generale e senza scendere nei dettagli; altrimenti te ne puoi anche andare e io troverò un modo per cavarmela da sola. Non m’interessa se ti paga quello stronzo della Viverna o no, queste sono le mie condizioni».
«Padrona…» Iniziò.
«Esatto, hai detto bene, padrona». Non m’importava niente di calpestare i suoi sentimenti, lei per prima aveva tradito la mia fiducia, con quel viso che invogliava a raccontarle ogni cosa. Lei non si mosse e, anche se sul suo volto capeggiava un’espressione contrariata e di disprezzo, se ne uscì con un piatto: «Io non me ne vado. Sono stata assegnata a voi e non me ne andrò finché non avrò portato a termine la mia mansione».
Certo, la custode della Luce Ombrosa, ma fatemi il piacere.
Poi tese una mano verso di me: «Ad ogni modo datemi qua, vedrò se posso fare qualcosa io, invece».
«Puoi farlo?» Chiesi cominciando a sbottonare i bottoni.
«Sono una brava sarta, vedrete che riuscirò a ricavare un abito degno di tale nome anche da uno straccio come questo». Disse, cominciando a tirare fuori dalla borsetta tutto l’occorrente per il cucito. 
E, ora eccomi qua, a provare quest’abito. Avevo dovuto aspettare solo qualche ora prima di vederlo pronto e, ora ero fuori della tenda a specchiarmi con uno specchio a figura intera che lei aveva rimediato chissà da dove.
Lisciai la gonna con le mani con un sorriso soddisfatto. Avevo sempre desiderato indossare l’abito di Madonna in Like a prayer. Menta era stata di parola. Anche se non le era importato niente e le mie parole erano cadute nel vuoto, aveva fatto un buon lavoro. Sfortunatamente le mie minacce erano ancora niente rispetto a quelle di Rhadamantys e compari.
Fortunatamente il corpetto si era salvato ed era solo dalle ginocchia in poi che la gonna era completamente inutilizzabile, il resto non era niente che non si potesse rammendare o sostituire. Le spalline le aveva ricavate dalle maniche.
«Mi spiace di non aver potuto fare di meglio». Stava scusandosi, anche se mi guardava con disprezzo. «No, invece, è perfetto». Sorrisi, ignorandola. Poi se mi avesse tirato un tiro mancino sarebbe stato un altro paio di maniche. In caso avrei chiesto qualcosa alla tata. Mi adombrai un momento. No, non dovevo più chiamarla così. 
Tornai a concentrarmi sull’abito. Mi stava veramente bene, anche se non ero Madonna e che era di un bel nero lucido e mi arrivava. Se non altro non sarei inciampata più.  

«Dove hai trovato il vestito?» Domandò l’inglese con il monociglio color limone infilato nella Surplice della Viverna, comparendo dal nulla, vicino alla porta.
«Oh, è stata Menta, ha fatto un lavoro splendido!» Mi sfuggì. Poi mi resi conto a chi l’avessi detto e cancellai il sorriso: «Cioè…»
Quello alzò le spalle e liquidò tutto con un: «Ho capito».
«Comunque questo non cambia le cose». Puntualizzai.
«Nessuno ha chiesto che cambino». Rispose con durezza, trapassandomi con i suoi freddi, occhi da rettile. Ancora una volta ebbi l’impressione che le sue pupille si affilassero come quelle dei gatti. E, ancora una volta, sentii il sangue gelarsi nelle mie vene. Mi portai istintivamente le mani alle braccia nude e sentii sotto ai miei polpastrelli la pelle accapponata. «Piuttosto, cosa ci fai qui?» Domandai guardinga incrociando definitivamente le braccia nude.
«La Signora ha ordinato ai tre Giudici Infernali di farti da scorta personale». Spiegò paziente ma si capiva che non vedeva l’ora di restituirmi pan per focaccia. «E ti pareva?» Brontolai senza preoccuparmi di essere udita. Lui mi scoccò un’ennesima occhiata minacciosa d’avvertimento. Prima avrei risolto questo casino e prima me ne sarei potuta tornare a casa. E, prima sarei scampata alle grinfie dei tre Giudici Infernali.

Mi liberai dei tre soltanto nel pomeriggio, quando finii di resuscitare parte delle loro armate. Avevano già ricominciato a combattere, dal momento che questa nuova ondata non mi sembrava di averla resuscitata in precedenza e, stavolta, che ero pronta, schivai l’attacco a sorpresa dello Specter e Menta lo finì con il pugno. Anche se la maschera era calata continuava a fare il suo lavoro totalmente impassibile. Dovevo smetterla di comportarmi così, quando avrei imparato a non appoggiarmi più a nessuno?
La guardai di sottecchi: probabilmente mai. Non ero cinica fino a questi livelli.
Comunque, questa nuova ondata significava solo una cosa, che i vecchi pezzi erano ancora laggiù sul campo di battaglia e che aspettavano solo di essere recuperati.
E, quando la mattina dopo ci vedemmo con Camus a colazione, approfittai della momentanea assenza della Ninfa, che andò a prendere da mangiare per tutti e tre, per dargli appuntamento alla Porta Ovest dell’accampamento. Camus mi guardò sbalordito strabuzzando gli occhi: «Cosa vuoi fare?»
«Voglio andare a cercare altri pezzi per l’armatura».
«E pensi di andarci da sola?»
Posai una mano sul suo avambraccio (contrassi involontariamente le dita a causa del gelo) e risposi: «Non sarò da sola se ci sarai tu». Camus mi guardò con un’espressione dubbiosa e poi gettò uno sguardo alla direzione in cui era sparita, scomparsa nella fila. Poi tornò a posare i suoi occhi freddi su di me e domandò: «E Menta?»
«Menta la lasciamo all’accampamento». Il mio gemello separato alla nascita tolse il braccio per incrociarlo con l’altro sul tavolo e sospirò, prima di sporgersi un poco verso di me e acconsentire: «D’accordo, se credi che possa tornarti utile; ma penso che sarebbe meglio sfruttare il cambio della guardia delle ventitré e ventritré».
Strabuzzai gli occhi, “Ah, già, che stupida”. Questo non l’avevo minimamente considerato. Cioè, sì, era ovvio che ci fosse, ma non mi ero mai premurata d’informarmi a proposito di cambi della guardia e simili.  Non pensavo che anche qui mi sarei ritrovata in questa situazione.
Girai il viso verso di lui e lui si discostò un po’: «Forse sarebbe meglio che tu non portassi l’Armatura, potresti attirare l’attenzione e non possiamo permetterci di bruciare Cosmo nonostante la mia presenza. Gli Specter possono percepire il Cosmo e, il tuo è piuttosto evidente». Gli ricordai.
Un lampo di consapevolezza attraversò i suoi occhi di brina rossa. Segno che non ci aveva pensato.
«Giusto, in caso potrei sempre chiamarla a me, ma non so quanto mi convenga, visto che potrebbe rilevare la posizione dell’accampamento».
«Vero, potrei aiutarti io con i bagliori, non dovrebbero dare troppo nell’occhio rispetto alla tua Armatura e potrebbero essere scambiati per fuochi fatui lì per lì, tanto sono quasi dello stesso colore, no?» Domandai, anche se non li avevo mai visti neanche da quando avevo messo piede qui.
«Sì, potrebbe essere un’idea, è rischiosa anche questa, ma già di meno dell’altra». Approvò.
Mi ero fatta carico di un fardello abbastanza rilevante. Non avevo dubbi che sapesse e potesse difendersi benissimo anche da solo, ma il fatto che avesse deciso di concedermi la sua fiducia a questo modo mi faceva sentire responsabile.
«A proposito dell’ora, non te l’ho mai  chiesto, ma qui come fate a tenere il conto dei giorni? Io stessa mi sento come se avessi cambiato emisfero e dovessi abituarmi a un nuovo ritmo di sonno veglia».
«Usiamo gli orologi». Rispose semplicemente.
«Oh, tutto qui?»
«Sì, tutto qui, perché, cosa credevi?» Domandò guardandomi perplesso. Distolsi lo sguardo imbarazzata per la figuraccia: «Niente, qualcosa un po’più epico, sai, visto il luogo e ciò che succede».
Un sorriso curvò la sua bocca, prima che si portasse il dorso di una mano sotto al mento e inclinò la testa da un lato prima di dire che: «Nell’epicità ci sono momenti di tranquillità e semplicità, anche durante i conflitti mondiali i soldati riposavano e controllavano l’orologio, non mi pare che siano così strani, dopotutto anche noi siamo umani, no?» Appoggiai gli avambracci sul tavolo e domandai, con voce fragile come il cristallo. Un riflesso del tormento interiore che celavo. «Sì, ma la definizione si estende ancora anche a me? Sono ancora un essere umano dopo tutto quello che ho fatto?» Il sorriso di Camus non si affievolì, anzi e rispose: «Certo che sì. Non vedo perché non dovrebbe».
Lo guardai confusa: «Come?»
«Sei fragile e sei debole, provi delle emozioni, ti tormenti per le tue azioni, hai paura di essere altro da te, ma sei anche giusta e gentile, non sei solo spietata e ferita. Sarai anche insignita di un potere immenso, ma tu sei prima di tutto una persona. Tu hai delle doti e delle qualità e dei difetti che sono solo tuoi e di nessun’altro, che vivi a modo tuo e non c’è niente di male in questo. Direi che queste sono prove evidenti della tua umanità».
Non ci avevo mai pensato. Le parole di Camus mi avevano aperto un mondo. Lo guardai, sembrava forte, molto più forte di me. Per certi versi mi ricordava ancora una statua, nonostante quel piccolo sorriso che aleggiava sulla sua bocca. Sembrava che niente potesse scalfirlo, mentre mi guardava quasi con dolcezza: «Tu come fai a dire di essere umano dopo tutte le imprese leggendarie cui hai partecipato?»
La sua espressione si fece malinconica, mentre raddrizzava la testa e rispondeva: «Perché tutto quello che ti ho raccontato lo provo anch’io». Rispose pacato. Poi si alzò e mi posò una mano sulla spalla per stringerla brevemente: «Adesso devo andare, è stato molto bello da parte tua confidarmi qualcosa di personale».
«Personale?» Replicai inarcando un sopracciglio per la confusione. Poi reclinai leggermente il capo indietro per guardare l’uomo dalla mano gelida dietro di me.
«Certo».
«Ma, di me sai che sono l’apprendista di Odysseus di Ophiuchus, che sono la Luce Ombrosa, quali sono le mie tecniche, i miei poteri, come combatto e cosa voglio fare. Già questo non è di per sé una cosa molto personale?» Obiettai battendo le palpebre girandomi sulla sedia per guardarlo e lui tolse la mano dalla mia spalla.
Però in quel momento mi accorsi di una cosa: i suoi capelli non mi suggerivano più quella spigolosa freddezza dei colori freddi e, i suoi occhi, non erano più coperti dalla patina di brina. La sua pelle, per un momento, mi parve più rosea. E mi fu impossibile non associare questo Gold Saint al calore. Affondò le mani nelle tasche dei pantaloni e rispose, continuando a sorridere lievemente: «Quelli sono dati che potrebbero tornarmi utili in battaglia. Non ho mai posseduto le capacità analitiche di Milo, ma “personale” è cosa ti piace e cosa non ti piace, il tuo cibo preferito, la canzone che ti fa palpitare il cuore, il film della tua vita, il tuo gusto di gelato preferito, quali sono le tue paure. Questo è qualcosa di personale, come quello che mi hai confidato poco fa e sono contento che tu me ne abbia messo a parte».
Io lo guardai allibita, come se mi avesse parlato in arabo o in una lingua morta. Riconoscevo quei concetti, come se in passato li avessi già vissuti, però avessi smesso da tempo. «Non hai pensato che magari io l’abbia fatto perché sono una persona spontanea?» Gli feci notare.
«Forse, ma non qui, altrimenti non avresti aspettato tanto per confidarti. Dimmi, Astrid, quanti sanno di questi dettagli?»
«Al Santuario lo sa…» Ma la voce mi si spezzò. Perché nessuno in realtà lo sapeva, a parte, probabilmente, il maestro, Yoshino e Milo. Con mio sommo stupore realizzai che neppure Kiki, Death Mask, Shun, Shiryu, Seiya, Mur e Aphrodite sapevano cosa mi si agitava nel cuore. Neanche mia madre aveva mai saputo tutto per davvero, nemmeno i nonni e neanche papà.
Saga forse poteva dire di conoscere una parte di tutto questo. Kanon era solo interessato alla Luce Ombrosa e, desiderava di sviscerarne i misteri. Castalia era quella che mi conosceva un po’meglio.
Come pure Georg e Juan. Strano che, facendo la conta, giusto sei persone e mezzo mi conoscessero davvero. Anzi, forse neanche sei, dal momento che il mio maestro non si era fatto vivo per dieci anni ed io non ero più una bambina e, Saga, non mi leggeva nel pensiero se non attivava il Cosmo. Sottoforma di civetta, poi, col cavolo che ci sarebbe mai riuscito. In totale solo cinque persone mi conoscevano davvero.  
Tutti gli altri, per un motivo o per un altro avevano soltanto espresso la loro solidarietà, cortesia nei miei confronti in più occasioni. Non dubitavo che Death Mask non mi volesse almeno un po’di bene a giudicare dalle reazioni che ebbe alle minacce di Carolina e alla mia pietrificazione. Però non mi conosceva davvero.
E gli altri? Ammesso che fosse vero quello che dicevano sempre i Lemuriani a proposito della lettura del pensiero. Ero io a conoscere gli altri, ma erano pochissimi a conoscermi davvero. E tutti gli altri ancora mi avevano aiutato per via del debito di riconoscenza nei miei confronti e per pietà. Abbassai lo sguardo contrita e amareggiata.
«E tu sapresti trovare un esempio per ogni voce dell’elenco che mi hai fatto?»
«Credo di sì e tu?» A questa risposta lo guardai di nuovo. Solo dopo mi resi conto che lo guardavo assetata di risposte. Risposte che non mi dette in quanto si raccomandò di tenere d’occhio gli orologi sparsi per l’accampamento e che, mi avrebbe aspettato nei pressi della porta Ovest per le undici e venti. Poi se ne andò asserendo di avere altre faccende da sbrigare.
Morale della favola, la parte di Camus ce la dividemmo io e la Ninfa.   

Avevo lasciato che Menta restasse alla tenda che dividevo con lei. Aveva voluto sapere dove andassi, però la tranquillizzai dicendo che andavo a fare una passeggiata perché non riuscivo a dormire. Aveva fatto per alzarsi asserendo che poteva accompagnarmi, però l’avevo fermata e avevo ordinato che se ne restasse a dormire.
Mi ero annodata la coperta attorno al corpo a mo’ di peplo, che, se ben drappeggiato dava l’illusione che indossassi una blusa. Ancora una volta avevo ringraziato mentalmente Lythos e i miei ex colleghi, che mi avevano insegnato a usare questi abiti. Mi ero anche sciolta i capelli sulle spalle, che ormai erano sufficientemente ricresciuti per scaldarmi le scapole. Tranne due ciocche laterali al volto, che erano rimaste all’altezza delle spalle.
Stavo aspettando da un po’. Osservai la Porta Ovest. A discapito del titolo altisonante, altro non era che una porta da calcio fatta con due bastoni verticali che ne sostenevano un terzo in orizzontale. Non mi preoccupavo che qualcuno mi vedesse, dopotutto, c’erano molte persone all’interno dell’accampamento. Per quel che potevano pensare, io ero una di quelle che stava scoprendo gli orologi, a giudicare da come fissavo l’orologio che illuminato fiocamente dalla poca luce presente, era lì vicino. All’inizio temevo che mi avrebbero scoperto, ma molti avevano pensato che avessi solo un appuntamento. Gli Skeleton invece erano assenti di loro.
Camus arrivò puntuale per il cambio della guardia e mi salutò. Per evitare che ci facessimo scoprire aveva deciso di farsi vedere fin sa subito. Si era cambiato d’abito anche lui, indossava tutta roba nera per mimetizzarsi meglio con l’ambiente e l’oscurità circostante. Ma il nero non gli stava neanche male, anche se si vedeva che era un po’ a disagio nell’indossarlo. «Dove l’hai presi?» Domandai quasi con invidia. Lui sorrise: «Dalle sarte. Nell’accampamento ci sono, non lo sapevi?» Chiese poi, accigliandosi un po’. «No». Ammisi.  
Guardò in direzione della porta di nuovo serio e poi decretò: «D’accordo, andiamo». E scattò rapidamente verso l’uscio. Non mi aspettai tutta questa rapidità. Ma lo seguii più rapida che potei.
Quello che non mi aspettai, fu il resto quando ci addentrammo nella nebbia. Superati una sessantina di metri, il terreno cominciò a scendere in una frana. Ma Camus se la fece a corsa come se fosse una discesa da niente. Io preferii farmela a zig zag e un po’più lentamente rischiando di scivolare almeno tre volte e di precipitare altrettante. Fortuna che ritrovai sempre l’equilibrio e che scivolai giù solo di pochi metri senza ruzzolare. A quel punto fui costretta a manifestare i bagliori per illuminarmi la via. E allora andò un po’ meglio e potei correre a ritmo sostenuto sul percorso che mi ero scelta. Camus non si sarebbe neanche posto problemi, io, se non altro riuscivo a trovare il percorso. Magra consolazione comunque, per gli standard dei Saint.
Mentre scendevo non potei fare a meno di considerare che Camus, al pari di Milo, sembrava ignorare i difetti della vista umana, perché più di una volta lo vidi schivare ostacoli, saltare sopra di essi come se niente fosse, mentre io dovevo stare attenta a non cadere e a non andare a sbattere, scivolare e, stare attenta. Che fossero i privilegi del Settimo Senso o fosse la sua esperienza come guerriero? Qualsiasi cosa fosse, di sicuro lo ammirai e lo invidiai al tempo stesso. Perché anche privo del Cosmo restava comunque un atleta. Se non fosse stato che per lui era normale muoversi a questo modo, avrei giurato che si stesse mettendo in mostra. Cosa totalmente avulsa dal suo modo di essere, altrimenti l’avrebbe fatto molto prima. Si accorse di avermi seminato e tornò sui suoi passi, aspettandomi perfettamente stabile e ritto in piedi, su un masso alto tre metri d’altezza. Le sue spalle si alzavano e si abbassavano velocemente: «Scusa, credevo che fossi capace di sostenere i miei ritmi».
«Mi dispiace, ho ritmi diversi dai tuoi, dammi qualche secondo per riprendermi». Ribattei sarcastica appoggiandomi al masso. Respirai dal naso, accidenti, neanche quando mi allenavo ero così distrutta. Lui non commentò, come sicuramente avrebbe fatto Death se fosse stato al suo posto e, decise di aspettarmi. Poi, adattò il suo passo al mio, decidendo che forse anche lui avrebbe visto un po’di più tra i bagliori. Per il resto, fu lui a indicarmi la zona dell’ultima battaglia, fatto evidenziato anche dagli uccelli spazzini che la sorvolavano. Mi raccontò a grandi linee anche di come si era svolta e, di come ci eravamo riconquistati finalmente questo metro. Memore delle nostre lezioni, preferii non immaginarmelo affatto. Se con me si era trattenuto, non osavo immaginare quanto potesse essere letale sul campo.
Mentre cercavamo in mezzo ai cadaveri sparsi per il campo di battaglia, a un tratto presi coraggio e gli domandai: «Perché ci tieni tanto ad avere la mia fiducia?»
«Perché siamo sulla stessa barca in fondo, siamo entrambi dei Saint, no?» Ah, non sapevo perché, ma questa risposta mi lasciò un po’ di delusione. «Non sapevo che ti piacesse avere un rapporto paritario con i colleghi».
«Forse un rapporto degno di tale nome ce l’ho solo con Milo e pochi altri». Lo guardai, sembrava sincero. Ma capivo perfettamente che cosa intendesse dire. Forse non voleva conoscermi per paura, ma solo per amicizia.
Forse lo avevo davvero giudicato male. Mi tolsi la coperta di dosso e la usai a mo’di sacco. Lui commentò che effettivamente si era chiesto a cosa mi servisse. 
«Gli altri erano Hyoga e Natasha, non è così?» Domandai in tono mite e delicato. Stando alle sue parole non doveva essere un tipo che si apriva facilmente. Nel mio caso la sua era gentilezza, era evidente. Mi avrebbe portato anche il sacco se gliel’avessi chiesto. Però
«Sì». Rispose e, nel modo in cui lo disse e si girò per cercare un pezzo che si addicesse alle mie esigenze, percepii un’eco della sua tristezza. E mi ricordai anche le sue parole, quelle piccole banalità che si dicevano per prime e che si scordavano quasi a tempo di record. In effetti erano stupidaggini, però mi sarebbe davvero piaciuto che qualcuno le sapesse queste stupidaggini. Non volevo più sentirmi come un foglio di carta. Almeno, non agli occhi di Camus, che era riuscito a capire questo. Mentre cercavo raccolsi il coraggio a quattro mani e gli dissi: «Ripensavo a quello che mi hai detto stamani, a proposito delle cose personali».    
«Mh? Ah, sì, ho capito a cosa ti riferisci e allora?» Fece dopo qualche lungo istante di smarrimento.
«Eri serio quando dicevi che potevi trovare un esempio per ogni cosa che avevi elencato?»
«Sì».
«Allora dilli, per favore».
«Bè, non me li ricordo tutti e, alcuni non li posso sapere, però mi sembri un tipo che preferisce il dolce al salato, una delle cose che adori sono le molliche di pane con il miele intinte nel latte la mattina, ho visto come ti brillavano gli occhi mentre le mangiavi. Ami muoverti, ma preferisci farlo a modo tuo anche se sei più un tipo da studio che fisico. Sulla musica ancora non sono sicuro. Il tuo colore preferito non ho idea di quale sia, ma sicuramente non è uno di quelli che puoi trovare qui». Ribatté smettendo di rovistare tra le macerie, ben lieto di distrarsi dalla visione, mentre io continuavo a tenere in mano un pezzo.
«Ci sei andato… molto vicino, devo ammetterlo». In quel momento pensai che mi sarebbe davvero piaciuto averlo come amico. Ma non potevo ricorrere alla lettura della mano, non qui, non adesso e neanche per scherzo. Avrei soltanto peggiorato la situazione e, forse avrebbe veramente cambiato opinione su di me. Ero pure felice che non l’avesse chiesta per mettermi alla prova. Fu in quel momento che mi parve di vederlo per come era veramente sotto la brina. Ossia come un tipo riservato e, poi poverino, non aveva nessuna colpa per i miei salvataggi-rapimenti. Poteva considerarsi complice perché sapeva, ma non poteva muovere obiezioni. La sua voce non aveva molta importanza qui tra gli Specter. E poi stava facendo un Viaggio Astrale negli Inferi, anche volendo non sarebbe potuto giungere in mio soccorso a causa delle peculiarità del mio Cosmo. E poi, in questo caso più che rapita, ero stata salvata in tempo. Lui non aveva niente a che vedere con questa storia, era solo stato costretto a collaborare con me e, forse gli facevo simpatia quanto pena, dal momento che avevamo gli stessi tratti somatici.  
Misi altri pezzi nella coperta.
Mi resi conto che anelavo a rapporti di vera amicizia. Che avevo pagato il prezzo anche troppe volte. Volevo essere felice e avere qualcuno su cui contare anche se ci trovavamo negli Inferi. Per la prima volta dopo molto tempo, volevo che sapesse qualcosa di me, qualcosa di veramente personale, che solo i miei amici sapevano. Anche se era una piccolezza, una stupidaggine. Però volevo che lo sapesse. Per questo quando aprii bocca proferii una sola parola: «Azzurro».
«Cosa?»
«Il mio colore preferito è l’azzurro». Spiegai a voce più alta, guardandolo speranzosa che non mi prendesse in giro. Ma lui si limitò a ricambiare il mio sguardo con un’occhiata tranquilla e ribatté:   «Come il cielo?»
«Anche, ma più come l’acqua de Le Mole Narni. E il tuo?» Chiesi, sperando che non lasciasse cadere la conversazione. Per fortuna non lo fece. «Il mio è l’azzurro dell’Egeo».
Improvvisamente sentimmo la musica di un’arpa e, prima che potessimo girarci, Camus sgranò gli occhi e con un grido di dolore, si portò le mani al cuore e cadde bocconi. Sbarrai gli occhi e mi alzai di scatto. «Camus!» Urlai e mi gettai in suo soccorso. «Cosa ti succede, Camus?»  Chiesi angosciata, dopo averlo chiamato più volte. 
«Il cuore! Mi sta… strappando il cuore!» Riuscì a rantolare, le lacrime che gli bagnavano il volto, mentre si sforzava di trattenerlo al suo posto. «É inutile che cerchi di trattenerlo, Aquarius». Lo compatì una voce maschile. Ci girammo e vedemmo un uomo esile, con i capelli a caschetto lisci con la frangetta che gli copriva la fronte, la pelle scura e un sorriso malefico stampato in volto. La sua Surplice ricordava l’abbigliamento di un Antico Egizio. Allacciata a tracolla come se fosse una chitarra, c’era la sua arpa. «Pharao!» Gemette Camus, un po’ più forte, cercando di articolare i rantoli che gli uscivano di bocca. Quasi cadde in avanti e, fu costretto a sorreggersi su una mano sola per non franare al suolo. «Che cosa vuoi? Lascialo! Lascialo subito!»
«Avevo intuito che avreste fatto qualcosa perciò vi ho seguiti. Dolce fanciulla, non avrei mai pensato che fossi una profanatrice di cadaveri. Non lo sapete che è proibito disturbare i morti nel loro eterno riposo?» Ci canzonò continuando a glissare note su note e, alle sue spalle, con un baluginio biancastro, prese forma a mano a mano una parete piena di geroglifici al cui centro risplendeva di vividi colori, la Bilancia di Osiride. Trattenni il fiato rumorosamente: l’avevo studiata alle medie e ripassata in prima liceo, sapevo come funzionava e su che credenza si reggeva. «Non puoi farlo, lui non è morto! Il suo cuore batte ancora ed è materiale! Lascialo stare! Smettila subito!» E lo sapevo perché me l’aveva rivelato quando ancora mi allenava. Dovevo anche stare attenta a non urlare troppo, altrimenti la mia voce avrebbe finito per richiamare le Lacrime di Khalì. Ma lo Specter m’ignorò, anzi, si rammaricò di non avere con sé Cerbero. «Poco importa, mi accontenterò di veder bruciato il tuo spirito tra le fiamme della giustizia divina». Camus gemeva e comprimeva il pettorale sinistro sempre più forte mentre lottava per impedire che lo Specter lo ammazzasse.  
«No! No!» Posai le mani sulle sue e provai a usare la Dark Resurrection, ma non successe niente. No, no, perché non succedeva niente? Provai ancora, ma ancora una volta non fece effetto.
Andai in panico. Cosa dovevo fare? La Dark Resurrection era inutile!
Ripresi a implorare Pharao, ma questi mi rispose che il Redivivo era già scampato una volta al suo Giudizio, non avrebbe mai lasciato che gli sfuggisse una seconda. Non avevo idea di cosa parlasse e non m’importò neanche.
A fermarlo fu il ghiaccio che gli congelò la mano e Camus buttò fuori un respiro più forte e ansimò, mentre il cuore smetteva di uscirgli dal petto. «Camus!»       
«Non puoi comunque farlo, Pharao! Io resto sempre un Gold Saint!» Ansimò Camus, ma ciò non scoraggiò il suo avversario. «Vero, ma non hai mai risvegliato l’Ottavo Senso e, stai comunque facendo un Viaggio Astrale, qui sono io ad avere potere su di te, non il contrario». Mosse la mano e il ghiaccio scivolò via dalle sue dita come la neve da un ramo scaldato dal sole. La scosse per liberarsi dalle goccioline d’acqua e riprese a suonare, fregandosi beatamente delle nostre urla. Sul suo volto dominava la soddisfazione: «Ah, è così facile con le anime che è quasi noioso, invece quelli come Aquarius danno più soddisfazione». Sorrise mentre Camus cercava di lottare per opporsi alla sua arpa e alla sua tecnica mortale. «Ma coi vivi…» Aggiunse poi guardando anche me con un sorriso divertito e si avvicinò così rapidamente che non lo vidi neanche arrivare.
Mi sollevò il mento con una mano e mi costrinse a guardarlo negli occhi scuri. Restò imbambolato per qualche secondo prima di sorridere di nuovo: «Sei così bella… Hai degli occhi affascinanti, come quelli di un gatto, luminosi come il sole e fieri come quelli di Ra. Hai ricevuto molte benedizioni dagli Dèi; chissà quali peccati pesando sul tuo cuore abbasseranno il piatto della mia bilancia?»  
Strabuzzai gli occhi. Il cervello completamente in panne a causa della paura.
«No, lei no, lasciala stare!» Rantolò Camus, che, nonostante il dolore atroce era riuscito a sentire ogni cosa.
E, qualcosa nella mia mente si accese e la mia voce dai miei ricordi prese a martellarmi nel tentativo di scacciare la paura. “Hai dimenticato tutto? Hai dimenticato che qui sopravvive il più forte? Hai dimenticato che se non uccidi verrai uccisa tu? Hai dimenticato che ti trovi negli Inferi e non tra i Vivi? Non sei più una civile, non puoi più ragionare così! Fà qualcosa! Solo tu puoi fare qualcosa! Tu sei forte e lo sai! Lo puoi battere! Non è il primo che cerca di ammazzarti! Alza e combatti! Alzati! Combatti!
Lo Specter mi lasciò andare e gli diede ragione. Arretrò di qualche metro e si fermò prima di rimettersi in posizione per suonare: «Giusto, Aquarius, non sia mai che mi dimentichi di finire prima te».
Intanto, all’interno della mia testa la mia coscienza continuava a incoraggiarmi. “Tu puoi farlo! Non ti sei fermata davanti ad Aiolia durante l’imboscata di Eris e non puoi farlo adesso! Fallo o te ne pentirai per tutta la vita! Tu hai più potere di quanto immagini! Tu non sei una persona comune! Tu non sei uno spirito!” Sussultai.
Già!
“E neanche Pharao lo è!” Risposi riducendo gli occhi in due fessure mentre l’aggressività che, finora era rimasta sopita, si ridestava in me. Con questo pensiero la paura si annichilì, sostituita dalla più fredda lucidità. Mi detersi la goccia di saliva che lo Specter aveva sputato senza accorgersene quando mi aveva costretta ad alzare lo sguardo. Poi, materializzai altri bagliori, ne presi uno e lo infilai nella schiena di Camus, proprio dove c’era il cuore, con un violento colpo.
Quel tanto che bastò per ricatturare il suo cuore e rimetterlo al suo posto grazie all’azione di compressione delle sue stesse mani. Cadde a terra annaspando. Tolsi la mano dalla sua schiena, quando fui sicura che il bagliore avesse fatto il suo lavoro, poi lo visualizzai e lo dissolsi.
Tutti gli altri bagliori si affollarono attorno a Camus, proteggendolo come un piccolo turbine di luci.
Il poveraccio si girò su un fianco in posizione fetale e, deglutendo più volte per lo sforzo, gemette il mio nome. Gli indirizzai un vago sorriso e poi tornai a guardare Pharao. Che dissolse la tecnica per lo stupore: «Cosa?»
Mi alzai in piedi e mi misi in posizione, come se avessi materializzato il mio falcione di Cosmo e, me ne uscii con un rabbioso: «Ehi, bastardo, non ho sentito la campana!» Che valse anche per il mio conoscente.
«La campana?» Ripeté confuso mentre i bagliori aumentavano tutto attorno a noi, delimitando il campo di battaglia. Avrei dovuto giocarmi bene le mie carte per riuscire ad avvicinarmi. E l’avrei fatto, oh sì che l’avrei fatto. 
Mossi le braccia e i bagliori risposero al mio comando abbattendosi su Pharao, il quale urlò. Corsi rapidamente da lui, le mani illuminate di viola porpora e gli saltai addosso, gettandolo a terra. Lui buttò fuori tutta l’aria di colpo e io sbattei contro la sua arpa e la sua Surplice, non danneggiando nessuna delle due, poi gli inchiodai il collo al suolo con una mano più forte che potei e con l’altra disegnai la sua stella.
Ma lui espanse il suo Cosmo e, mi scacciò via. La sua Stella rimase sospesa davanti a lui.
Rimbalzai sul terreno e mi rialzai senza neanche un graffio o un livido come mi aveva insegnato il maestro anni fa e mi rialzai repentinamente in piedi, facilitata dalla Dark Resurrection e dall’Anesthesia che cancellarono le ferite e il dolore. «Maledetta». Sibilò, cambiando totalmente registro. Se prima ero solo una preda, adesso mi vedeva veramente come un’avversaria che poteva fargli il culo e rispedirlo dal sarcofago da cui era uscito. Ramsete de ‘sto cazzo. Ma lui oppose ai miei bagliori il suo Cosmo e protesse la Bilancia che si ricompose. «Non ho altra scelta, mi costringi a usare il mio colpo segreto!»
«Perché, ne hai uno?»
Lui non rispose, si limitò a battere una mano sulla parte di legno dell’arpa e il terreno prese a tremare. Dovetti spostare i piedi per non cadere a terra. 
«Ti piace, ragazzina? Questo è il mio colpo segreto: Kiss in the Darkness!» Improvvisamente lo scenario fu completamente cancellato dal buio e, dal niente comparvero le bende di lino che evitai. Poi, comparvero le mummie dai miei piedi e, cominciai a prenderle a mazzate e a usare i bagliori per togliermele di mezzo. Dov’era quel maledetto? Avevo capito a che classe di attacchi corrispondessero le sue tecniche, non poteva essere lontano. Evocai comunque i bagliori che andarono a illuminare la scena, mentre le mummie si avvicinavano. Mi concentrai. Sentii i loro respiri e i loro gemiti e i passi strascicati. E, in mezzo, il rumore di un’armatura in avvicinamento. Mi concentrai soprattutto su di esso e mi chinai raccogliendo un ciottolo abbastanza grande che stesse nella mia mano. Poi, mi rialzai e schiantai il mio pugno rinforzato sul suo naso con un gran rumore di ossa rotte. Era la prima volta che spaccavo il naso di qualcuno.
«E questo è il mio: cazzotto nel muso!» Lo Specter arretrò repentinamente, stordito dal colpo e dalla sorpresa, tamponandosi il naso fratturato e pieno di sangue con una mano. «Maledetta, come hai fatto?» Gemette arrabbiato per il dolore, mentre io alzavo entrambi i pugni in una parodia di Rocky. 
«Ti ho sentito arrivare».
«Maledizione, hai percepito il mio Cosmo». Berciò con la voce deformata dal sangue, dal dolore e dalla mano che usava per tapparli. La tecnica doveva richiedere sufficientemente concentrazione e sforzo che, effettivamente, non aveva, perché si dissolse.
Allora anche gli Specter avevano un punto debole!
«No, ho sentito i tuoi passi». Ribattei mentre scacciavo quel misto tra dissennatori e mummie che fuoriuscivano dal portale alle sue spalle.
Ma prima che potesse riprendere a suonare e comandare le sue mummie, una raffica di rocce di varia grandezza che gli piovve addosso. Raffica che lo costrinse ad allontanarsi. Poi guardò in direzione della pioggia e urlò, infastidito: «Chi osa interrompermi mentre punisco dei peccatori?»
E un gruppetto di sette ragazzini saltò fuori dai massi e da dietro alcuni cadaveri per mettersi davanti a noi, tutti in posizione d’attacco.
«Sparite!» Comandò sprigionando il suo Cosmo che allontanò i nostri piccoli soccorritori. Ma Raki si oppose usando il Crystal Wall e poi sollevò altri massi con la sola forza del pensiero. Non l’avevo mai vista combattere prima d’ora. Non pensavo che fosse così forte.
Massi che poi scagliò a gruppi di tre addosso allo Specter, il quale gli schivò e, alla fine, saltò su uno di quelli già schiantati. Raki si fermò.
«Dunque sei tu la mocciosa che…!» Iniziò lo Specter. Ma quel momento di distrazione per me fu più che sufficiente. Alzai una mano che risplendeva dei colori della sua Stella Malefica e la mossi come se avessi dovuto arpionargliela e mormorai così piano che mi sentii solo io: «Cosmic Domination». Dalle radici delle mie dita si intrecciarono degli anelli di luce viola purpurea, come durante il combattimento nell’arena naturale. Istantaneamente, una serie di fili sottili come le corde di quella sua dannatissima arpa uscirono dalle mie dita e si allacciarono alla sua stella, strappandogli un gemito di dolore e sorpresa. 
Soprattutto quando cominciai a tirare verso di me.
«Astrid!» Esclamò Raki.
«Raki! Toglietevi di mezzo!» Fui così carismatica che lei e i ragazzini obbedirono, andando a soccorrere Camus, che stava rinvenendo solo in quel momento.
Pharao trasalì e sgranò gli occhi, meravigliandosi della forza che ero capace di esercitare. Quasi perse l’equilibrio: «Gioca con il mio cuore», iniziai con voce strozzata. Girai il volto verso di lui di modo che vedesse la mia espressione furiosa, poi, a voce più alta, ma sempre roca e oltretombale: «gioca ancora con il mio cuore e io ti disintegro, bastardo!» Minacciai e, sottolineai le mie parole continuando a tirare leggermente la sua Stella. Per un po’ tutto si cristallizzò e lui mi guardò spaventato. Improvvisamente le forze mi vennero meno. Il filo si dissolse e lui fu libero. La sua stella ritornò in suo possesso. 
Caddi bocconi e, mentre ansimavo come se avessi corso senza fermarmi mai, il nostro avversario si fece una gran bella risata.
Contrassi le dita sul terreno e, tra un ansito e l’altro l’avvisai di nuovo, indispettita: «Non me ne frega niente se Hades o Pandora mi hanno chiamato qui per aiutarvi, se ti azzardi a pizzicare ancora quella tua stramaledettissima arpa, io ti cancello la stella e dovranno trovarsi un nuovo Specter della Sfinge, sono stata chiara?»
«E, come, se non puoi avvicinarti?» Mi sfidò con quel sorrisetto irritante.
Sollevai la testa emulando il sorriso affilato del Garuda: «Non ho bisogno di avvicinarmi! Posso farlo anche a distanza». E, nello stesso momento in cui lo dissi, ne ebbi anche la certezza. Le mie dita splendettero di nuovo e la Cosmic Domination si materializzò di nuovo, illuminandosi e passandomi l’energia della sua Stella Malefica, andando a compensare il dispendio energetico dato dallo scontro. 
Ignaro, Pharao ridacchiò e disse di nuovo: «Proprio non ti vuoi arrendere, che stolta. E sia, Maledizione della Bilancia».
Il cuore minacciò di uscirmi dalle costole con un dolore atroce tale che mi fece scoppiare in lacrime. Però resistetti e, mentre con una mano lo bloccavo opponendogli la Dark Resurrection, con l’altra attuai la mia minaccia quel tanto che bastò perché capisse l’antifona. Dissolsi la Cosmic Domination e le mie dita risplendettero di quel bianco smorto che aveva ucciso Neera. E gli cancellai metà della Stella con un movimento dell’indice. La sua risata si trasformò in un trasalimento di sorpresa e dolore, mentre metà del suo corpo cominciò ad annerirsi e carbonizzarsi. L’arpa marcì tra le sue mani e si ruppe cadendo a terra, così come i pezzi della sua Surplice. «Cosa mi stai facendo? Che cosa…?» Poi perse metà dell’uso della faccia e del suo corpo. Che s’ingrigì fino a imbiancare e avvizzire. I capelli gli caddero dalla testa e la pelle si fece cadente, il suo occhio divenne bianco e perse tono muscolare, ritrovandosi in ginocchio, impotente. Mentre io, con un notevole sforzo di volontà, mi raddrizzavo di nuovo in piedi.   
«Astrid!» Chiamò di nuovo la mia amica e i ragazzini fecero eco.    
«Hai capito, Pharao?» Sibilai furiosa manifestando il mio Cosmo nella sua interezza e lo Specter sgranò l’unico occhio ancora funzionante e cercò di arretrare. Poi, lo feci tornare normale e lo avvisai che «Per adesso ti lascio andare, ma se ci riprovi ti uccido senza pensarci due volte. Sparisci, prima che Hades si ritrovi con uno Specter in meno per sempre». Promisi seria, i capelli che mi volteggiavano attorno alle spalle e la gonna che si sollevava leggermente al ritmo degli spostamenti delle mie fiamme. Dopo i tre Giudici Infernali non avevo mai avuto tanta voglia di uccidere qualcuno come adesso. Persino la sete di vendetta nei confronti di Eris e dei Driadi era niente a confronto. 
Lui mi dedicò una smorfia che voleva essere un sorriso, una promessa di tornare all’attacco quando meno me lo sarei aspettato. Poi arretrò fino a tornarsene nei meandri delle ombre della porta del Secondo Girone che custodiva.  
Quando mi assicurarono che se ne era andato davvero, abbandonai la posizione, azzerai il Cosmo e cascai bocconi per terra. Mi tremavano le gambe per l’adrenalina. «Astrid!» Chiamò Raki e corse a sorreggermi. «Stai bene?» Mi chiese prendendomi per le spalle mentre anche gli altri ragazzini mi si affollavano intorno. 
«Sì, sono solo stanca».
«Astrid, perché il tuo sangue è d’oro?» Mi chiese sempre lei, spaventata e io, trattenni il fiato rumorosamente. Avrei voluto dire che non era mio, le parole mi stavano già uscendo dalle labbra quando mi ricordai che in realtà era davvero il mio. La guardai intimorita.
Lei non sapeva che cosa era successo. Nessuno al Santuario sapeva che io recavo nelle mie vene l’Ichor del maestro Odysseus.
Tesi una mano verso di lei per posargliela sulla guancia ma la ragazzina si scostò istintivamente. Neji le cinse le spalle con le braccia per rassicurarla. Doveva essere molto scossa anche da questo. Ma la capivo, anch’io mi sarei spaventata al posto suo. Già dovevo abituarmi ancora al colore del mio sangue. Allora la lasciai ricadere e me uscii con un neutro: «É una lunga storia.» solo dopo mi resi conto di conoscere già questi visi. Sgranai gli occhi, stupita: «Voi vi conosco. Vi ho già visti al Santuario». Dissi guardando i ragazzi. Ne avevo anche sentito parlare. Neji, Tokaki, Saoirse, Anna, Iago confermarono. Li chiamavo bambini, ma il più grande di lui, cioè Tokaki, aveva almeno sedici anni e Neji, subito dietro, ne aveva quattordici. Mentre Saoirse e sua sorella rispettivamente otto e nove.
«Sì, siamo apprendisti Saint, tu sei quella che dava ripetizioni di matematica e fisica a Eden, Ryuho e Komachi». Rispose Tokaki assottigliando lo sguardo per inquadrarmi bene nei suoi ricordi. Confermai, poi gli domandai, preoccupata, mentre continuavo a stringere a me Raki. Le due bambine erano invece abbracciate da Neji. E, fu in quel momento che mi accorsi che erano tutti vivi. Li discostai per guardarli stupefatta: «Ma… ma voi vivete! Com’è possibile? Credevo che Myu e gli altri Specter vi avessero uccisi».
«Non lo sappiamo, lo credevamo anche noi». Rispose la piccola Anna cercando di tergersi gli occhi della sua maschera impassibile e, capii che, dietro, le lacrime scorrevano a fiumi. Questa visione, più di ogni altra, mi strinse il cuore come un cencio bagnato, facendomi sgorgare altre lacrime sulle guance. L’abbracciai più forte e lei ricambiò con una forza tale che mi parve stesse aggrappandosi alle mie costole, piangendo apertamente.
«Ma soprattutto come siete sopravvissuti? Se non si è in possesso dell’Ottavo senso si muore». S’intromise Camus con voce incolore. Incolore? Lo guardai e improvvisamente percepii da lui tutta la preoccupazione che nascondeva. La sua espressione severa mostrava angoscia.
«Ci hanno messo al collo queste». Spiegò Raki tirando fuori da sotto l’orlo della maglietta un ciondolo con una piccola pietra nera appuntita e Camus comprese. Lui mi fece un cenno come a dire, te lo spiego dopo.
«Anche noi». Asserì uno, mentre disse, angustiata: «É successo qualche settimana fa. Prima che arrivassero gli ambasciatori di Poseidone. Il nobile Kiki dell’Ariete aveva cominciato a tenerci d’occhio, ma non sapevamo per quale motivo, poi gli Specter sono venuti a reclamarci alla Palaestra e i nostri maestri non sono riusciti a impedirglielo». Raccontò rapidamente la giovane.
«Anche il maestro Kiki ha cercato di fermarli ma io…» Si aggiunse Raki e vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime. E capii. La strinsi a me. «Va tutto bene, va tutto bene, non vi preoccupate». La rassicurai. 
Poi Camus, adesso di nuovo in piedi, dopo averli ringraziati con un cenno del capo domandò: «Da quanto siete qui? Perché non vi abbiamo visti prima?»
«Non lo sappiamo, abbiamo provato a orientarci ma i nostri orologi sono fermi e sappiamo solo di essere stati portati qui e di essere stati abbandonati in una foresta inquietante». Spiegò Neji e Iago aggiunse: «C’erano le arpie, ci hanno dato la caccia e gli alberi urlavano, se provavamo a colpirli sanguinavano!» Facendomi sgranare gli occhi. Cercai istintivamente lo sguardo di Camus, che ricambiò, spaventato quanto lo ero io.  
«Astrid, ho paura». Disse Raki, riportando la nostra attenzione su di loro. Nonostante il loro coraggio e il loro sangue freddo,. Ma neanche noialtri. Guardai Camus e lui ricambiò il mio sguardo, comprendendo.
«Non c’è niente di cui aver paura». Intervenne Camus, mentre si avvicinava ai ragazzini per rassicurare anche loro. «Pharao non è un tipo coraggioso, ci lascerà in pace per un bel po’. Tutto bene?» Chiese chinandosi alla sua altezza. Raki fece la spola con lo sguardo da lui a me: «Ma siete… cioè, sembrate…»
«Sì, ma non siamo parenti». Tagliai corto io, poi li presentai. «Lui è Camus di Aquarius, il maestro di Hyoga».
«Il nonno di Natasha?» Fece la piccola lemuriana guardandolo sorpresa.
«Proprio lui». Asserii io prima di rendermi conto delle parole della mia piccola amica e girarmi a guardare il nostro accompagnatore con tanto d’occhi. Che? Aspetta un po’? Questo era…
Improvvisamente il vento si sollevò e portò con sé un odore di fiori? Annusai l’aria e scoprii che era reale, che non mi sbagliavo: «Che cos’è questo profumo?» Domandai girando la testa in quella direzione.
«Sono… mughetti».
«La Driade».
«La Driade?» Domandammo in coro guardando la bambina che aveva parlato. «Lo Specter della Driade? É qui? Sta arrivando?» Chiosò Camus, sperando di averci indovinato. 
«No, ma credevamo di esserci allontanati. Tokaki, perché sentiamo ancora il profumo di quei maledetti fiori?»  
«Non lo so, sembra che ci seguano». Sbottò nervoso e il suo nervosismo si propagò tra i ragazzini che presero a urlare esagitati e spaventati. Ma ci pensò il mio conoscente a zittirli e a calmarli. Immediatamente i sei si zittirono e lo guardarono: «Non vi preoccupate, è solo il vento, per quanto riguarda lo Specter della Driade io andrò a controllare e Astrid vi riporterà all’accampamento».
«Non se ne parla neanche, Camus. Io vengo con te». Obiettai separandomi da Raki. 
«Astrid, è pericoloso», iniziò ma non gli diedi il tempo di continuare.
«Non m’importa! Non puoi pretendere che, dopo quello che è successo io ti lasci andare così, tranquillamente, a spasso per gli Inferi». Feci a voce più bassa, cercando di fargli capire quanto fossi preoccupata. Lui mi accennò ai bambini spostando lo sguardo su di loro, che si erano tenuti dietro la mia schiena e io, non so cosa mi prese, ma risposi: «Le mie ali saranno sufficienti a proteggerli tutti». Camus mi guardò confuso ma, decise di fidarsi della mia determinazione. Perciò raccogliemmo il sacco con i pezzi, che si era salvato e ci recammo dallo Specter in questione, sotto la guida dei piccoli.  
La cosa che ci colpì, fu passare improvvisamente, dall’oscurità Infera a un luogo totalmente diverso. Io e Camus ci guardammo attorno, spaesati. Ancor di più nello scorgere una grande, bianca luna piena alta sopra di noi. I cui raggi illuminavano la foresta di betulle e altre alberi che stormivano dolcemente nel vento. Ai nostri piedi, un folto, bellissimo tappeto di mughetti bianchi e profumati. Era un luogo da sogno, sembrava di essere tornati nel Mondo dei Vivi. Posai il sacco a terra e mi chinai per toccarli e verificare che fossero veri. «Fà attenzione!» Mi ammonì Camus e rizzai la testa di scatto, ritraendo la mano. Mi dava la schiena ma si era perfettamente accorto delle mie manovre: «Questi non sono mughetti comuni, questi sono la fonte del potere di Luco della Driade, è grazie alle cure e alle misture che preparava con questi che riusciva a reclutare Skeleton e Velate. E i suoi colpi sono basati sulle piante. Albafica di Pisces ne ha riscontrati ben due e si è premurati di trascriverli nel suo rapporto, prima di morire».
Mi rialzai.
Improvvisamente un voce maschile profonda esordì parlando tutto attorno a noi: «A quanto pare la lezione non vi è bastata per inoltrarvi di nuovo nei miei territori, Gold Saint e soldatini». Fece poi.    
«Luco? Luco della Driade?» Chiamai guardandomi intorno nel tentativo di individuarlo.
«Tu devi essere la fanciulla che il Sommo Hades ha reclutato. Ho sentito molto parlare di te. Dicono che tu ti stia costruendo una corazza con i pezzi dei caduti, dico bene?» Fece lo Specter uscendo dalla vegetazione. Non avevo mai visto prima uno Specter senza Surplice. Aveva lunghi capelli scuri e mossi che gli cadevano sulle spalle e sulla schiena. Gli coprivano un occhio e la sua pelle era nivea come i fiori di cui si prendeva cura. La sua corporatura snella era evidenziata dalla lunga giacca nera che indossava. 
«É così». 
Non ne fui sicura, ma credo che sorrise. «Immagino che ti servirà un’arma».
«Un’arma?» Ripetei accigliandomi.
«Non è per questo che sei qui? Oh, non mi dire. Non sai che cosa hai raccolto, vero? Nel campo di battaglia hai trovato dei gioielli, non è così? Una volta appartenevano a una Dea». Capii immediatamente a cosa si riferiva.
«I gioielli di una Dea? E perché sono qui? Perché li ho trovati io?» Camus mi guardò senza capire e, i ragazzini si tennero all’inizio del prato, alla larga, al sicuro.
«Non perché li hai trovati tu, ma perché hanno scelto di appartenere a te, è ironico, in un certo senso, ma credo che lei avrebbe apprezzato, dopotutto li puoi considerare un trofeo». Ribatté enigmatico. Ma io non gli avevo posto domande, che cosa gli prendeva?
«Aspetta, mi stai dicendo che esiste un’altra arma legata agli Dèi qui? In questo posto?»
«Molto acuta. Albafica a suo tempo ci avrebbe messo come minimo tre giorni prima di arrivarci». Si complimentò, ma io mi lasciai scivolare il suo complimento di dosso.
«Perché me lo stai dicendo?»   
«Perché sono curioso di testare la tua forza. In fondo sono uno studioso ed è compito mio reclutare i servi del Sommo Hades. Ma non adesso, adesso andatevene, la prossima volta ne discuteremo con più calma. Sappi solo che se tornerai, dovrai sottostare alle mie prove, se perdi, sarai costretta a diventare una di noi».
«E se vinco io?»
«Ti darò l’arma mancante. Ma ti consiglio di sbrigarti, preferirei darla a te, piuttosto che consegnarla nelle mani di Don Avido».
«L’arma mancante? Stai parlando della daga deicida? Io sapevo che era già in loro possesso, che storia è questa?» Urlò Camus. Invece io, nel sentirgli pronunciare quel nome scattai in avanti verso di lui. «Don Avido? Aspetta, che cosa significa? Che cosa c’entra…» Ma non potei finire la frase un turbine di petali bianchi si sollevò da terra e lo avvolse. Quando si posò, lo Specter era scomparso, di lui erano rimasti solo i mughetti che ci sfioravano le caviglie. Abbassai il braccio che avevo alzato nel tentativo di fermarlo.
Camus e io ci guardammo attorno prima di guardarci. Il mio cuore batteva all’impazzata per la paura. Mi strinsi nelle spalle per cercare di calmarmi. In altri momenti avrei chiesto aiuto a Camus, ma lui non mi sembrava il tipo. Infatti, si stava allontanando. Eppure, capì lo stesso, perché lo sentii chiamarmi. Lo guardai da sopra una spalla e, vidi che aveva raccolto il sacco e tendeva una mano verso di me. Mi girai completamente verso di lui e presi quella mano. Il gelo che permeava quelle dita mi fece rabbrividire, eppure non mollai la presa e mi lasciai trascinare dolcemente fino all’inizio del tappeto fiorito. 
«E ora che facciamo?» Chiese Saoirse mentre lei e Anna si avvicinavano a me e mi abbracciavano.
«Potremmo andare all’accampamento dei Celti, non ci negheranno la loro ospitalità». Propose Camus, dato che io stavo ancora riflettendo sulle parole di Luco. Se era come diceva e, dalle reazioni Camus doveva essere vero, allora avrei dovuto chiedergli spiegazioni.
Gli chiesi perché a proposito dei Celti e lui rispose che, da quando erano stati messi nelle retrovie a causa dell’arrivo della Luce Ombrosa, avevano preferito distaccarsi dall’accampamento principale. Lady Pandora era riuscita a ottenere da loro che fungessero da ultimo baluardo e rifugio d’emergenza, in caso la battaglia fosse andata male. Gli chiesi quanto fosse distante. «Non molto, solo un paio d’ore di cammino; sempre che i tre Giudici Infernali non ci creino problemi». Già, dopotutto non sapeva se ero stata posta sotto la loro “protezione” o no. Anche se la tata l’avesse ordinato, io li avrei comunque rifiutati tutti e tre. Non volevo avere più niente a che vedere con quei tre. 
«Va bene». Acconsentii.
 I Celti.
Giusto! Mia madre. Lei era una estimatrice della cultura celtica! Se c’era un posto dove sicuramente avrei potuto trovarla era proprio lì! Il pensiero che avrei rivisto mia madre mi trascinò fuori dai miei pensieri e mi accese. La speranza rinacque in me, facendomi palpitare il cuore. Forse lì avrei ritrovato la mamma. Forse non tutto era perduto.
Volli sapere tutto e lui ci raccontò di essere diventato membro onorario e ambasciatore della tribù. Disse anche, in tono scherzoso (ormai stavo cominciando a cogliere le varie sfumature emotive nella sua voce) che lo consideravano il loro mago dell’acqua. E ci spiegò anche l’origine di questo soprannome.
Feci una gran fatica a non sorpassarlo e correre dritta spedita da loro. Non solo perché non volevo che mi vedesse, ma anche perché non volevo che vedesse questa mia ferita.
Appena fummo in vista si levò un suono di corni che fece sollevare in volo uno stormo di quei bai passerotti monocoli che tanto m’incuriosivano.
I Celti accolsero Camus come se fosse stato il loro eroe, non solo come il Gold Saint qual era e tutti i ruoli che per loro rivestiva. Noialtri restammo un po’in disparte attendendo che ci notassero. Quale fu la mia sorpresa quando, in mezzo alla folla comparvero uno Specter (lo riconobbi dalla Surplice) e un giovane con una brutta cicatrice a deturpargli un occhio. A giudicare da come zoppicava con il bastone, doveva essere rimasto ferito da poco. Camus scambiò qualche parola con loro e poi prese in braccio Fianna che corse da lui. Come faceva a sapere che saremmo venuti qui?  La quale cominciò a tempestarlo di domande, piangendo, forse credendo che non lo avrebbe rivisto mai più. Anche se non parlavo né il celtico né il francese, non ci voleva la scienza per capirlo. E, neanche l’otorino per sentirla, visto che stava urlando per sovrastare tutto il vociare circostante.
Camus le carezzò una guancia e poi la mise delicatamente giù. Solo allora si girò verso di noi e ci indicò presentandoci nella lingua di questa civiltà e tutta l’attenzione fu catalizzata su noi sette. 
Mentre la tribù si affollava attorno a noi, Camus ci presentò, spiegando (così mi disse in seguito) chi eravamo, perché eravamo qui e che avevamo bisogno di riposo e di ristorarci. Disse che eravamo dei guerrieri e che eravamo appena tornati da un’aspra battaglia. Pregò i suoi compagni di essere gentili e ospitali con noi, in nome della loro Divinità. Così, i Celti accolsero anche noi.
Qualche donna si fece avanti per i bambini, i quali si strinsero addosso ai più grandicelli. Camus spiegò loro che non avrebbero fatto niente di male, che erano sacerdotesse e che li avrebbero curati.
Solo allora si fidarono e si lasciarono portare via. 
Mi guardai attorno più volte attorno alla ricerca di mia madre. “Dove sei?” Pensai mentre nella mia mente s’affollavano immagini di me e di lei che ce ne andavamo da qui, vittoriose. Al diavolo l’infantilismo di quelle visioni. Al diavolo il suo credo, la legge degli Inferi, la guerra,  pure anche quella piccola vocina che cercavo di zittire; lei era pur sempre mia madre. E quale altro posto migliore avrebbe potuto cercare e trovare rifugio se non qui? Aveva sempre amato questa civiltà, era impossibile che si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione di sostare con loro. Eppure non la vedevo da nessuna parte. La mia speranza cominciò a incrinarsi. “No, per favore, no…” mentre lo Specter dell’Arpia, intanto che alcuni  qualcuno con lo sguardo. Si riscosse quando Valentine domandò, perplesso: «Lei non è la ragazza che ha resuscitato i Giudici Infernali?»
«Proprio lei».
Sorprendentemente Valentine mi prese la mano ed eseguì un pomposo baciamano tratto dal Manuale del perfetto lecchino. «Onorato di fare la vostra conoscenza, signorina». Disse cerimonioso facendomi sì arrossire, ma anche guardarlo con sospetto. «Sì, tanto piacere». Risposi senza troppa enfasi, lasciando invece, trasparire ciò che provavo. Cercai anche di sfilare la mano ma non me lo consentì.  
Durante la cena in una tenda che i Celti costruirono apposta per ospitare tutti noi, ebbi modo di conoscere la storia per bocca dell’Arpia. Il quale ci disse che, lui, Isaak e Fianna erano venuti qui su insistenza di quest’ultima. Disse che era come se lei lo sapesse che saremmo arrivati. Poi ci raccontò anche la vicenda della daga deicida.
L’aveva portata con sé la Dea durante l’ultima Guerra Sacra e, poi, il Cavaliere dei Gemelli l’aveva riportata nel mondo dei vivi al momento della resurrezione. Per poi tornare di nuovo negli Inferi e, nelle mani di Luco, per opera di Milo. Mi sorprese davvero sapere che lui fu l’ultima persona ad averla brandita, anche se, per far evolvere la sua Scorpio. Camus mi spiegò anche la faccenda delle God Gold Cloth e della loro evoluzione sancita da un oggetto che simboleggiasse il loro legame con la Dea Atena. Un medaglione a forma di punta di freccia per Aiolia, la daga per Saga e poi, il loro sangue per tutti loro, quando avevano affrontato Loki.    
Durante i primi anni della Guerra, quando ero ancora una bambina, cominciò a spargersi la voce di una daga deicida che era finita negli Inferi. Che, a quel che avevo capito, erano un po’come l’outlet della mitologia. E Pharao mi voleva punire per questo… Ironia a parte, fu così che venni a sapere che la daga cadde nelle mani di Don Avido e, che, da lì, la sfruttò come una comune spada per conquistare gli Inferi. Quando credette di non farsene più niente la chiuse nel suo tesoro. Ma il Black Saint di Ara non aveva fatto i conti con la geologia degli Inferi, infatti, con uno stratagemma, la zia riuscì ad appropriarsi del potere degli Inferi e a mandare un colpo d’avvertimento al nemico, distruggendo la camera dei suoi tesori, che franò giù dal palazzo in cui erano custoditi. Palazzo che si era fatto costruire dalle anime prigioniere.
Don Avido riuscì a recuperare tutti gli oggetti, tranne la daga. Che nel frattempo era stata requisita da uno Skeleton e portata allo Specter della Driade, uno dei primi che risorsero, grazie alla particolarità del suo Cosmo e del suo territorio, che si trovava più nel mondo dei Vivi che in quello dei Morti. I Black Saint se ne erano accorti recentemente e minacciavano Luco, il quale li sfidava a prendere la spada, ma li ostacolava con le sue tecniche. «Credevo che si fosse già arreso da un pezzo». Commentò Valentine. Prima che inghiottisse la sua cucchiaiata gli domandai che cosa intendesse con il territorio più di Là che di Qua. Fu così che ci spiegò anche che, alcuni territori degli Inferi erano più “sopraelevati” di altri per far circolare la luce all’interno di questi luoghi e l’ossigeno. E che questi luoghi talvolta erano talmente vicini al Mondo dei Vivi, da protendersi fino a intrecciarcisi, ma non a esserci veramente.   
Poi, chiesi quello che più mi premeva. «Cambiando un attimo argomento, per caso avete visto una donna dai capelli neri, mossi, con gli occhi scuri, una appassionata della cultura celtica, alta più o meno così, magra, che non porta rispetto per nessuno…»
«No, non credo, è morta?» Domandò Valentine.
«Sì».
«Come? Perché è un po’vago questo».
«Si è buttata da una torre per sfuggire ai Black Saint. Mi… hanno detto che le Creature però sono arrivate prima e… cioè, mi chiedevo se per caso, ecco la sua anima non è sopravvissuta».
«Una suicida, quindi». Mi trattenni dal fulminarlo con lo sguardo per il tono che usò e mi costrinsi a confermare. «Sai dirci qualcos’altro?» Chiese Isaak, sistemandosi meglio sulle stuoie.
Mi spostai una ciocca dietro l’orecchio: «Era una chiromante molto dotata, leggeva la mano, le carte, era un’astrologa in tutto e per tutto, aveva all’incirca la stessa età della Sacerdotessa di Hades e le era molto amica. Si chiamava Aida».
Gli occhi dello Specter dai capelli color lino mandarono un lampo di riconoscimento e mi squadrò incredulo dalla testa ai piedi. Eppure, quando aprì bocca disse di no: «Non è possibile che sia giunta qui».
«Perché no?»
«Perché per quanto il suo gesto sia stato grave, quando si cade vittime delle Creature, l’anima si annulla completamente. Non esiste più».  Rispose in tono mite e contrito. Ma solo perché ero io. Il mondo mi crollò addosso. La ciotola mi cadde di mano e le spalle mi si incurvarono, mentre il cuore, che finora aveva battuto velocissimo, adesso si era stretto in una morsa dolorosa. Chinai il capo, affranta.    
Gli occhi di tutti erano puntati su di me. «Scusate, ho bisogno di un momento.» feci alzandomi e uscii dalla tenda, accompagnata dai loro sguardi.
Camminai per una buona mezz’ora, allontanandomi dall’accampamento. Sapevo che era pericoloso, però volevo solo restare da sola. Non mi sarei allontanata troppo, non volevo incorrere nei nemici e, al tempo stesso volevo un posto riparato.
Perciò optai per un piccolo fiumiciattolo poco oltre qualche tronco d’albero. Lì detti libero sfogo al mio dolore con un acuto grido di dolore e dei pugni al suolo, facendomi male alle mani, ma non m’importò. Nessun dolore fisico sarebbe mai stato sufficiente a distrarmi da quello emotivo che mi piegava in due in quel momento: «Mamma!» Poi crollai bocconi, come se lo sforzo di gridare avesse mandato in frantumi quell’impalcatura che mi aveva sostenuto finora. Raccolsi le mie mani in grembo e poi al volto grondante di lacrime. «Non è giusto, non è giusto». Continuai a biascicare. A volte dando dei colpi alla terra con il pugno, come se quest’ultima avesse potuto restituirmela. Ma non ottenni altro che ancora più dolore e sofferenza. L’animale ferito che ero lanciava acuti e radi stridii di dolore. Le spalle e il petto scosse dal pianto disperato. Presto la mia vista fu offuscata dalle lacrime e cominciò a colarmi il naso. Ma cosa me ne importava? Nessuna lacrima mi avrebbe mai restituito mia madre! Nessuna! E non potevo neanche prendermela con Hades perché sapevo come erano andati i fatti.
Io non potevo fare niente.
Avevo sperato di riproporre quel mito sventurato. Mi dicevo che con me avrebbe avuto successo. Mi immaginavo già con la mamma che risaliva dietro di me, tenendomi saldamente per mano. Ma le mie speranze erano andate in frantumi ancor prima di cominciare ad architettare un piano vero e proprio. 
Un altro gemito più forte degli altri mi scosse il petto, tramutandosi in un grido. 
Mi ficcai un pugno in bocca per evitare a me stessa di gridare e lo morsi, lasciandomi sfuggire un altro lamento di dolore.
«Ehi, tutto bene?» Mi chiese una voce maschile alle mie spalle. Trasalii, e mi tolsi la mano dalla bocca. Visione che, a Camus non sfuggì. Lo vidi da come guardò i segni dei miei denti sulla mia pelle, prima che la nascondessi alla sua vista. Come poi feci anche con il mio viso. Mi detersi il volto con il dorso della mano, ripulendomi almeno parzialmente.
«Sì». Risposi in un singulto, senza girarmi più.
«Non direi proprio». Rilevò con tranquillità ma non si avvicinò, né invase il mio spazio personale. Ora che le mie emozioni correvano a piede libero, anche le mie difese erano abbattute. Percepii più volte i suoi tentativi di parlare, bloccati dall’indecisione. Che parlasse o meno non erano affari miei. Non avrebbe potuto ridarmi mia madre. Non me ne facevo niente delle sue parole.
Infine riuscì a formulare un discorso di senso compiuto: «É successo qualcosa?»
«No è… uno sfogo che ogni tanto… sai, lo stress». Bofonchiai gesticolando  con la mano sana. Tanto il dolore fisico che mi ero inferta stava già scomparendo. Continuai a cingermi l’addome per evitare di cadere a pezzi. «Capisco. Pensavo che avessi un attacco di panico, Milo mi ha detto che ne soffri». Aggiunse poi, in tono delicato, ma si capiva che stava girandoci intorno. Non era un imbecille.
Io sgranai gli occhi. Milo cosa gli aveva detto? Mi sentii scaldare leggermente il volto per l’imbarazzo. Non che ci fosse qualcosa di male nel soffrire così, però avrei preferito che non lo sapesse. E, non potevo neanche smentire queste parole, perché lui stesso ne aveva sentito parlare e mi aveva visto in crisi. Presi fiato e risposi dopo un respiro tremante: «Sì è vero però», tirai su col naso, «questa è un’altra cosa».
«Cosa, se posso chiedere?» Domandò, sempre con molto tatto, temendo di ferirmi se per caso avesse espresso quelle parole. Non percepii la curiosità invasiva di un pettegolo, bensì la delicatezza, la dolcezza e l’invito di una persona solidale. Di una persona che vuole sapere cosa può fare per farti stare bene. “Lasciati aiutare”. Mi aveva consigliato il mio maestro mesi fa. Che, tra le altre cose, non sentivo più da quando ero finita qui. Credevo di essere diventata più forte, invece no. Io conoscevo l’arte dell’arrangiarmi da me, mi faceva ancora un certo effetto chiedere aiuto e accettarlo senza sentirmi inadeguata nei confronti di me stessa. Non potevo tenermi tutto dentro dopo tutta la strada che aveva fatto per venirmi a riprendere.
Annuii e mi tamponai le lacrime con il palmo della mano: «Speravo di rivedere mia madre, ma non è qui. Sai, lei è morta poco tempo fa, perché stava cercando di aiutarmi. Per un attimo ho sperato di poter fare come nel mito di Orfeo ed Euridice ma…» mi sfuggì una risatina triste, poi cambiai discorso, «A volte penso che il Cosmo voglia che io e solo io debba sciogliere questo mistero, senza alcun aiuto da parte di nessuno e ora sono bloccata qui, mentre su, tra i Vivi…»
Restò in silenzio alle mie spalle per un po’. Se non fosse che percepivo ancora le sue emozioni avrei detto che se ne fosse già andato. Eppure, anche così, il resto delle parole non voleva uscire. Mi sentivo priva dei miei sostegni. Stavo cercando di rialzarmi ma non ci riuscivo.
«Purtroppo, però, è destino comune dei Saint restare da soli. Almeno tu sei stata fortunata, molti non arrivano neanche a un giorno di vita che non conoscono i propri genitori. Sono sicuro che tua madre fosse una persona molto coraggiosa, dovresti essere orgogliosa di lei, ti ha dato tutto quello che poteva per aiutarti. Non so molto dell’amore tra madre e figlio e mi rendo conto che le mie parole per te possano sembrare vuote e prive di senso». Si scusò. 
«Sì, lo so che al Santuario siete tutti orfani». Mormorai più piano di quanto mi aspettassi, perciò la frase mi uscì come se mi stessi scusando io, invece che lui. Non era colpa sua, ma non sopportavo più che mi venisse ricordato. Lui soprassedette e disse: «Quello che sto cercando di dire è che tu sei stata fortunata, ma piangere non servirà a riportarla in vita. Per quanto ci provi, lei non tornerà, però continuerà a vivere nel tuo Cosmo e nella tua memoria per l’eternità, fa che il suo sacrificio non sia stato invano». Mi abbracciai le ginocchia riflettendo sulle sue parole. Non avevo mai considerato la faccenda sotto questo punto di vista. 
Lo sentii coprire la distanza tra di noi e affiancarmi. Girai il volto verso di lui e lo vidi chinarsi leggermente e porgermi la mano. Anche se le prime cose che incontrai furono le sue dita tese verso di me in un invito a rialzarmi e a non arrendermi. Il mio sguardo fece la spola tra loro e lui. Non ero abituata agli atti di gentilezza, però non volevo neanche essere oggetto della sua compassione. Non potevo sapere quanto sarebbe durata. E, poi, non ero così malmessa da non riuscire a camminare. Per quanto apprezzassi questa premura, avrei preferito che tale aiuto mi fosse venuto per salvarmi dalle crisi. Per questo, scelsi di alzarmi da sola, facendo leva sull’altra mano. Camus ritrasse la sua, guardandomi, adesso un po’spaesato e insicuro. Mi tamponai gli occhi con un palmo un’ultima volta. «Grazie per le tue parole, Camus e perdonami per il disturbo che ti ho arrecato». Mi scusai, prima di sforzarmi di sorridere, imbarazzata.
«Non ti preoccupare, è normale piangere e disperarsi, l’importante poi è riprendersi. Ma non sei obbligata a sorridere per forza, non fa niente». Ribatté, anche se mi suonò come un “se lo sai allora perché lo fai?”
«Hai ragione, è solo che… che mi manca molto». Risposi, appianando la mia espressione.
E crollai di nuovo in ginocchio, piangendo nuove lacrime. Camus non fece niente per spronarmi a reagire. Lasciò che cadessi in pezzi, distrutta e sopraffatta dal mio dolore. Era ovvio che un dolore come il mio non sarebbe mai passato. E, per quanto avesse ragione, la sua ragione mi sembrava un’enorme stupidaggine. Lui non ne sapeva niente, non poteva sapere cosa si provava. Eppure, si sedette davanti a me e continuò a vegliare su di me, mentre piangevo fino ad addormentarmi.
Quando mi svegliai, scoprii che mi stava riportando in braccio all’accampamento e di avere la testa appoggiata alla sua spalla. Non me ne ero accorta lì per lì, non solo perché ormai mi stavo abituando ma perché le zone dove la mia pelle sfiorava la sua si erano scaldate. Lo trovai un fenomeno abbastanza curioso, però il sonno mi richiamò di nuovo a sé, prima che formulassi di nuovo un pensiero.
Sognai di trovarmi sdraiata su un prato verde. Il cielo sopra di me era azzurro e la luce filtrava da dietro le fronde del tiglio sotto cui riposavo. Sentii delle voci chiamarmi e mi misi seduta. Fu così che sognai di trovarmi nel giardino di Villa Heinstein. Il polline volteggiava tutto attorno trasportato dalla leggerissima bava di vento che spirava.
Sentii la voce di mia madre chiamarmi, accompagnata da quella della tata. Le quali erano sotto il portico di legno bianco che sistemavano la colazione sul tavolo. Mia madre indossava una corona e gioielli fatti con i fiori e orecchini di ciliegia. Quel tipo di gioiello fatto con i gambi in comune di due ciliegie. La zia era radiosa nel suo abito lillà a mezze maniche e dal taglio moderno che le risaltava gli occhi. Anche lei indossava un braccialetto di fiorellini bianchi intrecciati. «Vieni, la colazione è pronta!»         
Poi mi svegliai e mi ritrovai a fissare una cosa nera che dopo identificai come il soffitto di una tenda. E capii di essere distesa su qualcosa di morbido, un giaciglio in terra e che, qualcuno mi aveva coperto con un lenzuolo. Girai il capo e vidi Raki accanto a me. I capelli sciolti e la saliva che le colava da un angolo della bocca mentre russava. Nei lettini accanto al suo, stavano anche gli altri ragazzini che dormivano ancora, in modo più o meno disordinato. Ma di Isaak e Valentine non c’era traccia. Fianna dormiva sul lato sinistro della tenda in un giaciglio tutto suo. Fino a questo momento non sapevo che gli spiriti dormissero.
Mi misi a sedere e vidi Camus seduto sull’uscio che contemplava l’esterno, i gomiti sulle ginocchia piegate e le mani intrecciate. Sembrava non essersi accorto che mi ero svegliata. Avevo la faccia secca e la pelle tirata. Avevo bisogno di darmi una ripulita. In un angolo vidi una bacinella con un panno e una caraffa d’acqua. Mi alzai facendo attenzione a non svegliare nessuno e mi detti una ripulita. Anche se niente avrebbe potuto cancellare il gonfiore dei miei occhi. Eppure, nonostante questo, mi sentivo un po’più tranquilla e lucida. Ovvio che il dolore era ancora lì, ma oggi sembrava un po’meno violento. 
Rimisi tutto come l’avevo trovato e mi avvicinai al mio sosia al maschile, che era rimasto vicino a uno dei pali di sostegno della tenda e, osservava il panorama fuori. Mi sedetti davanti a lui e guardai fuori a mia volta.
«Dormono?» Mi chiese gettando un’occhiata alle nostre spalle. Le braccia incrociate. Si era di nuovo cambiato d’abito, in favore di vestiti colorati, stavolta, anche se non diversi come taglio. 
Asserii con un cenno del capo e lui mi disse che in un angolo, c’era il sacco con i pezzi della corazza che avevo trovato e che non si erano ancora disintegrati, neanche quando li aveva presi in mano. «Bene, perfetto».
«Come ti senti?» Mi chiese guardandomi di striscio. Non dovevo essere questo bellissimo spettacolo con i capelli arruffati e gli occhi gonfi. Ma chi se ne importava. Anche lui aveva gli occhi un po’cisposi e i capelli spettinati e annodati. 
«Un po’più tranquilla». Meglio era una parola che, per il momento non mi descriveva appieno.
«Bene».
«E, tu?» Chiesi.
«Normale».
“Ok”, pensai. Pensai che fosse finita qui, invece, lui inspirò e parlò: «Senti, stanotte ho riflettuto molto e penso che per oggi non dovresti fare niente, dovresti solo riposarti. Dopo lo sfogo di ieri sera ho capito quanto tu sia stressata e non va bene. Ovviamente questo non è un ordine è solo che, ne hai passate troppe e tutto nell’arco di pochi giorni. Il mio è un consiglio, ovviamente, ma secondo me dovresti passare la giornata a riposo, per ricalibrarti un po’. So che non dovrei neanche essere io a dirtelo, in fondo c’è una guerra, però…» Disse, preoccupato, ma a quel punto avevo già smesso di ascoltarlo. Ma avevo retto di peggio, perciò gli posai una mano sul ginocchio, per fermarlo. Lui si zittì e, finalmente mi guardò. Anche un po’spiazzato dal mio gesto. Tolsi la mano e risposi: «Ascolta, apprezzo tutte le tue premure, la tua pazienza con me e il gesto, ma va bene così. Come hai detto tu, non abbiamo tempo. Se è vero che esiste una daga deicida e che i Black Saint la vogliono, allora dobbiamo prenderla prima noi». Specificai. Camus mi guardò a lungo, con i suoi freddi occhi rossi, prima di rilevare che così comunque restavo vulnerabile.
Mi riavviai le ciocche passandoci una mano: «Allora sarà il caso di cominciare a lavorare all’armatura, ma mentre lo faccio, tu raccontami tutto, per favore». Ma, prima di tutto, facemmo colazione con quello che passava il convento, ossia con il cibo portatoci da Valentine e Isaak (che mi chiese anche lui come mi sentissi e se avessi dormito bene; Valentine si limitò solo a farmi le condoglianze in tono abbastanza spiccio).
Per prima cosa i pezzi che avevo preso erano più che altro per le braccia. Rimuginai che, prima o poi avrei dovuto farmi altri buchi per la parure. In fondo, mi piaceva considerarla proprio come un trofeo. Certo, avrei dovuto disinfettarla prima di indossarla, ma l’idea di farmi un ennesimo buco alle orecchie non mi terrorizzava.    
Dal canto suo, Camus cercò sia di darmi dei consigli su come disporre i pezzi, informandomi anche dei nomi dei vari pezzi dell’armatura, lasciandomi sorpresa perché credevo che non li conoscesse, sia di accontentarmi. Quest’ultima cercando di addolcire un po’ il suo racconto, per quanto gli fosse possibile. Restai molto sorpresa di sapere che il suo contributo alla guerra era relativamente recente; cioè sembrava che combattesse con gli Specter da molto di più.
Mentre parlava ebbi anche un micro attacco di ansia, ma mi bastò concentrarmi sulle sue parole e sentire il calore che mi circondava a ignorarlo completamente. Questi attacchi non avrebbero mai finito di stupirmi. Dopo il primo avuto in infermeria, avevo cominciato a lottare per evitare che altre crisi mi assalissero. Non ne potevo più di essere sopraffatta.
A fine lavoro, grazie anche ai filamenti dorati della sua costellazione che avevo preso a prestito, avevo realizzato un bracciale che mi cingeva l’avambraccio sinistro come una polsiera. L’oro dei filamenti aveva fatto da collante per i pezzi di Surplice. Era solo un poco più pesante, ma non era niente che mi intralciasse o mi ostacolasse. Persino Camus lo osservava incuriosito. Con i restanti ci feci un bracciale che misi a protezione del braccio destro, e, con una serie di cinghie e fasce che realizzai con i filamenti, mi aiutò a realizzare un giustacuore da allacciare sotto l’ascella destra e sulla spalla sinistra.
Mi alzai e provai. «Non sarebbe stato meglio il destro?» Mi chiese soltanto, dopo aver saggiato l’elasticità e la resistenza di queste, facendomi gonfiare il Cosmo. I pezzi, incredibilmente non si spaccarono, ma anzi, resistettero. Quindi la mia teoria funzionava.
«Tanto sono ambidestra». Però, mi sentivo già un po’più sicura. Adesso capivo perfettamente i Bronze Saint, che combattevano con quel poco o niente di cloth che si ritrovavano. Anche un piccolo pezzo di armatura faceva già una notevole differenza. Poi non era così pesante, erano più leggeri di quanto pensassi. Non ero Kiki, ma non me la cavavo poi così male. Se solo ci fosse stato un riparatore di cloth in zona… Pensai. Salvo poi scoprire, per bocca di Valentine, quando glielo chiesi, che le Surplici si rigeneravano da sole, un po’come il Bronze Cloth di Phoenix. 
«Dirò ad Isaak di portarti il resto dei pezzi». Si offrì poi, leggendo la mia espressione.    

Stavamo testando la resistenza dei pezzi con l’ausilio dello Specter dell’Arpia, che non si era certo tirato indietro, quando gli aveva chiesto aiuto e, aveva ingaggiato battaglia con me. Con mia grande sorpresa, lo Specter non solo si dimostrò più violento di quanto immaginassi, ma andò dritto al punto sferrandomi subito un colpo. Sul corpo a corpo ero perfettamente negata, per questo preferii allontanarlo e schivare, un po’ male, lo ammetto. Meno male che potevo usufruire della Dark Resurrection. «É la prima volta che incontro un avversario capace di rigenerarsi». Commentò ammirato, ampliando ancor più il suo sorriso. Ad ora non avevo mai visto gli Specter sorridere, a eccezione di Aiacos, ma quello era più il sorriso affilato di un pazzo che un vero sorriso. E, lo stesso valeva anche per Violate. La piega che prese la bocca di Valentine fu più dolce dell’espressione draconica che immaginavo impossessarsi del volto del suo superiore. Per il resto mi ricordava lui, nonostante il colore più chiaro di occhi e chioma. Lo Specter cominciò a gonfiare il proprio Cosmo Oscuro, mettendosi in posizione d’attacco.
«Valentine!» Lo richiamò Camus, «Ti ho detto che non devi usare il Cosmo, i Black Saint potrebbero percepirlo!» Già, c’era anche questo problema, in quanto i Pitti, abili nello spostarsi nelle valli nebbiose, ci avevano riferito che alcuni Black Saint al soldo di Don Avido erano stati visti aggirarsi nelle zone brumose dove avevamo combattuto con Pharao. Fortunatamente non brillavano per arguzia, altrimenti avrebbero scorto anche le impronte che c’eravamo lasciati alle spalle.
«Che lagna che sei, ho capito!» Ribatté lo Specter azzerandolo nuovamente. Poi passò alla vecchia maniera che risultò essere lo stile “rissa da strada”. Io cercai di opporre le protezioni ai suoi colpi, ritrovandomi a terra a causa dello sgambetto a tradimento che mi fece. Ma riuscivo ancora a muovere le mani. E, il bastardo, non si era tolto la Surplice, perciò non solo dovevo fare attenzione a non fratturarmi niente, ma anche a non tagliarmi. Eppure anche se non usava il Cosmo, sentivo la sua rabbia, la sua frustrazione e la voglia di rivalsa che trasmetteva.  
«Le protezioni funzionano». Decretò lo Specter sorridendo divertito, mentre torreggiava su di me, che mi rialzavo sui gomiti. Le braccia penzoloni lungo i fianchi e i pugni chiusi. Nella posa che assunse, in un certo senso mi ricordò un vessillo che sventola nel vento. Che fosse anche teatrale?
«Che hai da fissare?» Mi chiese infastidito, mentre mi mettevo seduta e, raccoglievo una manciata di terra. «Niente, mi domandavo soltanto quanto tu debba essere frustrato» lo provocai.
«Frustrato?»
«Bè, sì, costretto a seguire Camus e me, lontano dal tuo Signore».
Lui mi trapassò con lo sguardo. Camus fece un passo avanti, spaventato. E lo Specter dell’Arpia reagì, ma contrariamente a quanto mi aspettassi fece una finta e mi afferrò la mano, stritolandomi il polso, strappandomi un gemito di dolore e costringendomi ad aprire la mano. «Credevi che fossi un rissaiolo di strada e che non sapessi riconoscere i miei stessi pensieri quando li sento? Non so con che trucco mentale tu l’abbia scoperti, ma sei poco furba e sei inesperta». Lasciò andare il mio polso con uno strattone e me lo raccolsi nell’altra mano, gemendo di dolore, mentre esercitavo la Dark Resurrection. Poi ridusse gli occhi in due fessure: «Devo dirlo, avevo sentito dire che avevi messo in difficoltà buona parte di quei colleghi che ti hanno sfidato, ma non immaginavo che fossi così debole. E poi, anche tu sei tanto brava a parlare, ma ricordati che non potrai mai essere veramente la Luce Ombrosa finché non lo vorrai. Forse allora acquisirai un po’di quel carisma che ti manca».
Proprio in quel momento udimmo del trambusto tra le tende e vedemmo un giovane spirito urlare nella sua lingua natia  Girammo le teste in quella direzione e mi rialzai. «Che sta dicendo?»
«Dice che sta arrivando qualcuno». Tradusse Camus accigliandosi ancor di più. Prestò orecchio alle parole che urlava e decretò che erano Specter. Io e Valentine gli facemmo eco sorpresi. Che cosa ci facevano qui?
Andammo a vedere e ci trovammo davanti ad Isaak con un sacco in spalla. Si guardava continuamente alle spalle, come se temesse un attacco dal resto della comitiva. Era seguito a poca distanza da Menta, che indossava una lunga e fluente stola semitrasparente di un colore perlaceo azzurrino con sfumature lillà, sulle spalle e tre Specter della guarnigione di Rhadamantys: Shilfield del Basilisco, Queen di Alraune e Myu della Farfalla, seguiti a loro volta da un piccolo drappello di Skeleton armati di falce.
«Cosa ci fate voi qui?» Domandò Valentine mentre Isaak mi restituiva il sacco, facendo la spola con lo sguardo dell’unico occhio rimastogli, tra me e i figuri che l’avevano seguito.
«Ci ha mandati qui il Sommo Rhadamantys, ha detto che dobbiamo proteggere la Luce Ombrosa». Ribatté stizzito e insofferente il Basilisco in un modo che seppe tanto di “che rogna, io sono un uomo d’azione”. Pensiero condiviso dagli altri due, a giudicare dalle espressioni che passarono, per un momento, sui loro volti. Mi trattenni dal rispedirli tutti e tre a calci nel culo dalla Viverna, anche se avrei voluto.
Osservai i nuovi arrivati dopo aver ricambiato l’inchino di saluto di Menta. Tra tutti, lo Specter del Basilisco era il più alto, la sua persona imponente e dal fisico prestante mi suggeriva, in un certo senso, gli eroi della mitologia. Ero quasi pronta a scommettere che, tra i suoi compagni, lui fosse uno degli Specter più importanti. Aveva i capelli bianchi e la stessa frangetta di Minos, che lasciava intravedere degli occhi color ambra più scuri dei miei. Queen di Alraune era decisamente più basso ed talmente effeminato, facilitato in questo anche dalla sua Surplice. Infatti il suo elmo aveva la forma di un cappuccio che m’impediva di capire di che colore fossero i suoi capelli. Non che fosse così importante, ma era un elemento di disturbo, per me. Anche perché, a prima vista, somigliava all’elemento più fragile del trio. Ma qualcosa mi diceva che era meglio non sottovalutarlo. 
E poi c’era Myu. Tra i tre era quello che spiccava di più per l’eleganza e la perfezione delle sue ali colorate. Non pensavo che alla base, sotto i disegni neri, quelle ali avessero dei colori così vividi. Di giallo al centro e di verde a mano a mano che si avvicinava al bordo. Ricordandomi, un po’ per i colori della Surplice e delle sue ali, le luci arancioni, violette e verdi del Kazablanc che venivano utilizzate durante le serate. 
Ma se gli altri due mi incutevano rispetto, diffidenza e anche forza, lui mi intimoriva di più. Perché non mi suggeriva niente di tutto ciò. Sembrava anche il più giovane. Non dimostrava più di diciannove anni, aveva il fisico esile e slanciato, eppure non mi suggeriva affatto una sensazione di gracilità, ma di forza. Era alto un centimetro più di me, persino con la Surplice, che, invece di ingrossarlo, evidenziava il suo fisico scattante come quello di un ghepardo. Mi domandai persino se fosse veloce come il suddetto felino. 
Nonostante il bel volto, gli occhi perfidi facevano il loro lavoro di intimidazione. I capelli lunghi fino alle spalle erano tenuti indietro dall’elmo a maschera da cui partivano le antenne della Surplice, erano di un fucsia di poco più scuro degli occhi. Stavano ritti sulla testa come quelli di Death Mask, scompigliati, ad eccezione di quattro ciocche, due per lato, che gli ricadevano ai lati del collo e di quelle che ricadevano dietro la nuca. Eppure, fu l’unico del gruppetto, che si premurò di mostrare un minimo di cortesia nei miei confronti. Anche se Specter e cortesia affiancate stonavano. I suoi compagni sembrarono pensarla come me, limitandosi a crocifiggermi con lo sguardo. Invece Myu non ci fece caso e mi tese la mano in segno di saluto, mano che scossi una volta.  
Nello stringergliela temetti il peggio, ma lo Specter dagli inquietanti occhi fucsia privi di iridi e pupilla, non dette segno di avermi riconosciuta. e a domandarmi dove avessi trovato quella corazza. «In giro». Risposi vaga, costringendomi a non arretrare di fronte a quegli occhi e a quello sguardo per niente vuoto e fin troppo consapevole (non pensavo che le Surplici modificassero a tal punto l’aspetto del loro proprietario) e lui si accigliò, ma se la fece bastare. Dopo la presentazione ammonì i compagni reticenti, per la serie: «Suvvia, ragazzi, non siate scortesi». Che ribatterono che ero sì una donna, ma che provenivo dal Santuario. «Resta comunque una donna anche se… che cos’eri prima di venire qui?»
«Un’ancella». Risposi, grata del fatto che, effettivamente, ufficialmente ricoprissi davvero quella mansione al Santuario.
«Una Saintia, intendi?» S’informò Shilfield, guardingo.
«No, no, proprio un’ancella, una domestica». Specificai. Questo parve ammorbidire un po’gli altri due nei miei confronti che mi lanciarono sguardi di pietà e si sciolsero un po’, anche in commenti maschilisti pretendendo di essere simpatici. “Ma sparatevi, stronzi”, pensai con un sorriso a labbra chiuse più tirato di quello di una star rifatta. «Bè, pare che resteremo qui per un po’», commentò guardandosi attorno, portandosi le mani sui fianchi. Non sembrava poi così dispiaciuto. Così cominciò questa astrusa convivenza.
Non era che fossero chissà quanto interessati alla mia salvaguardia. Non mettevo in dubbio che un po’d’istinto di protezione l’avessero, ma non al punto da farmi da bodyguard. Preferivano invece, raccontarsi storie dell’Oltretomba, bere fino a ubriacarsi e giocare a dadi. Fino a questo momento ignoravo che anche gli Inferi avessero un passato. E, lo avevo scoperto, proprio perché i tre, invece di proteggermi, preferirono sfruttarmi come ancella. Fortunatamente per me, da brilli, acquisivano tutti e tre la singolare abilità di scambiarmi per un ragazzo. Gran bell’attentato alla mia femminilità eh, ma meglio così che in situazioni ancora più spiacevoli.
L’unico che, almeno un po’ mi trattava bene, restava comunque Myu. Che stimavo solo per le sue abilità di narratore, quando era sobrio. Nei tre giorni seguenti, a causa loro, mi fu impedito di andare da Luco e, anche di vedere i ragazzini. Camus in ogni caso, continuava a stare nei paraggi per sicurezza. Poi, il secondo giorno, anche lui si unì alla seduta di corvee, per darmi una mano in caso la situazione fosse precipitata. «Non pensavo che servire fosse così faticoso», ammise poi esausto quando, quella sera crollarono addormentati a causa della sbornia.    
«Non ne hai la più pallida idea…» Sbuffai passandomi le mani sui capelli per spostarli momentaneamente dalla mia faccia. Avevo smesso di legarli, ormai e, avevano bisogno di una ripulita.
Così, Camus ricevette il suo battesimo del fuoco come domestico e, imparò ben presto a lamentarsene, benché non fosse lui lo sfruttato ufficialmente. Io lo guardavo con due occhi così, perché non l’avevo mai sentito lamentarsi prima e adesso mi esplodeva così. E non risparmiava nessuno, neanche sé stesso. Una volta superato l’argine si era lamentato di tutti, da Milo in primis, a Hyoga al suo lavoro da Saint che l’aveva confinato qui, arrivando a parlarmi della depressione che poi l’aveva ucciso e della sua prima morte a causa di Hyoga. Ammise che veramente, per quanto lo amasse come un figlio, avrebbe veramente preferito che quel testone non l’avesse costretto a prendere misure tanto drastiche, prima con il corpo della madre (anche lì faticai moltissimo a non biasimarla per averlo lasciato orfano, quando poteva tranquillamente prenderlo in braccio e salire sulla scialuppa) e poi con il suo sacrificio.
Ci tenne a sottolineare che però, a queste persone, per quanto le amasse, certe volte avevano messo veramente a dura prova la sua pazienza. Mi raccontò anche del suo maestro, Mistoria, che, sotto alcuni versi era più rigido di lui. 
Io mi portai il bicchiere alle labbra cercando sostegno con gli occhi da parte dei vicini, ma tutti distolsero stoicamente i propri, decidendo, saggiamente, di ignorarci. Persino Menta non se la sentì di infierire.
Se non altro, non mosse alcuna lamentela su di me. Si limitò a dirmi che aveva troppi pochi elementi per giudicare e, che, non gli piaceva giudicare così alla prima impressione. Cosa di cui gli fui grata.
Alla fine, dopo un lungo sospiro, se ne uscì con un: «Grazie… Erano anni che non mi sfogavo così».
«Prego». Ribattei titubante. E io che mi lamentavo che non sembrava neanche umano. Più umano di così si muore. Per il resto aveva tutte le carte in regola per vivere tra i civili. Glielo feci notare e lui rispose che in tempi di pace, lui era ben integrato nella società siberiana. Insegnava fisica ai ragazzi delle medie, oltre che addestrare Hyoga e Isaak. A volte aveva portato i ragazzini a scuola con sé come auditori per evitare che s’isolassero troppo. Questo, ovviamente, prima che Isaak scomparisse e venisse arruolato da Poseidone.
Mentre passeggiavamo per l’accampamento mi raccontò qualcosa di sé. Mi disse che spesso aveva collaborato con gli scienziati accompagnandoli nelle loro spedizioni e, aiutandoli a fare i carotaggi e la raccolta dei campioni. Spiegando loro anche come orientarsi quando gli strumenti li abbandonavano a causa del campo magnetico. Mi rivelò anche di essere piaciuto a una di loro. Questa dottoressa, si era accorta di quanto valesse e gli aveva fatto, praticamente, da tramite con l’equipe, in quanto messi in soggezione dalla sua espressione e dal carisma che emanava, di gran lunga superiore agli esponenti dell’URSS, malgrado la giovane età. Lei era più vecchia di lui di quattro anni, ma aveva un cervello non indifferente. Ed era rimasta piacevolmente sorpresa quando, questo diciottenne, che non solo li guidava, ma portava loro anche i rifornimenti di vario tipo, (ai tempi) aveva dimostrato di non essere solo un bell’uomo, ma di avere anche un cervello. Alla fine la donna, rossa come un peperone, si era sistemata gli occhiali sul naso e si era complimentata con lui per la sua erudizione e, per le sue ampie conoscenze in fisica. Gliel’aveva detto un giorno che lui le stava passando una sacca di cipolle e lei, alla fine aveva asserito che avevano la dispensa piena e avanzavano delle provviste. Gliele avrebbe anche regalate tutte, non era la prima volta che lo faceva. Ma Camus aveva sentito dire che a causa di questi doni non era molto simpatica al resto dell’equipe, così aveva declinato l’offerta. Per un po’erano tornati a disquisire di fisica e non ne avevano più parlato. Era un’abile conversatrice e persino il Gold Saint di Aquarius se ne accorse e l’ammirò per il suo sapere.
Col passare del tempo lei era riuscita a tornare a essere simpatica ai compagni ricercatori. Per ringraziare Camus, gli regalò una sacca d’aglio dalla dispensa. Scusandosi di non potergli offrire qualcosa di meglio, ma il mio conoscente non se ne rammaricò, le zuppe avevano bisogno anche di questo. Dopo questo avvenimento, «Si è dichiarata, ma a me non interessava in quel senso e non potevo ricambiare in alcun modo. Anche se il suo interesse era sincero ero troppo giovane per legarmi a qualcuno a quel modo e non volevo prenderla in giro». Fece poi, tentennando un po’ da interessava in poi, come se all’ultimo avesse modificato il discorso. Intuii che avevamo toccato un argomento delicato e lasciai stare. «Poi c’era anche il rischio che saresti finito schedato nei registri della dittatura». Lui mi guardò un po’sorpreso, prima di darmi ragione e, tornare a guardare dritto davanti a sé. «Sì, c’era anche quello; anche se dubito che sarebbero stati così stupidi da mettersi contro il Santuario o cercare di catturare uno di noi. L’avevo messo in conto e, sotto questo punto di vista ho fatto del mio meglio per proteggere Hyoga e Isaak e ho insegnato loro a mantenere un basso profilo per non dare troppo nell’occhio». Almeno sotto questo punto di vista, il Santuario serviva davvero a qualcosa. Poi mi guardò di nuovo e mi chiese se anch’io avessi una storia simile alle spalle. «Bè, non proprio recente, ma… sì». Quello che provavo per il mio maestro non era neanche da considerarsi una cosa simile. Così gli raccontai della terza media e, di quando mi piaceva un mio vecchio compagno di scuola. Tutto era cominciato per una stupidaggine, veramente. Lui non mi sopportava all’inizio, ma cambiò idea quando mi vide impegnarmi per cantare un brano che la professoressa di musica insisteva particolarmente affinché massacrassimo. Appena lo dissi, Camus proruppe in una risata spontanea e io mi fermai,  sorpresa: non l’avevo mai sentito ridere. Aveva una bella risata.  
Continuai il racconto parlandogli di come piano piano mi si avvicinò e di come si fece sempre più gentile con il tempo. E della corte che mi fece, approfittando dell’aiuto che gli davo per algebra e geometria, che ero sempre stata brava coi numeri, grazie a mio nonno e a mio padre. Una cosa abbastanza tranquilla e impacciata, devo dire. Fino a che poi, durante la festa a casa di un nostro compagno di scuola dopo l’esame di terza media, mi prese da parte con la scusa di farsi insegnare i nomi di qualche costellazione. Me lo faceva apposta di sbagliarli, perché mi offendevo moltissimo, tanto c’ero fissata. Non che su quel terrazzo se ne vedessero moltissime, ma ci provai. Fu la prima volta che mi chiese come riconoscerle. Gli avevo appena indicato l’Orsa Maggiore che lo guardai e lui mi baciò. Già, il mio primo bacio lo detti sotto le stelle una notte d’estate. Di quella sera ricordavo il vestito che indossavo, che ci divertimmo tutti a ballare sulla collezione di italo disco del padre di questo ragazzo, cantare Ballerina degli Shanghai, bere, mangiare, giocare e che, lui stava molto bene con i capelli ricci scuri legati in quella codina. Gli occhi marroni sembravano splendere come stelle sull’incarnato scuro. Il Moro e la Scandinava, ci chiamavano. In tanti avevano gli occhi di quel colore, ma a nessuno splendevano così. Nel ripensare a quegli anni in generale, scoprii che erano ricordi molto luminosi, molto di più di quelli di adesso. Forse perché ero più giovane.    
«Come si chiamava questo ragazzo?»
«Francesco». Ma il suo volto ormai era quasi sbiadito nei miei ricordi.  
«Era carino?» Chiese malizioso il mio interlocutore. A me questa parte di sé sembrò particolarmente estranea, però non era male. Sapeva essere divertente e leggero all’occorrenza. «Sì». Sorrisi tra me e me, sentendomi scaldare il cuore da questo ricordo e tacqui.
«Poi che è successo?» Domandò, più calmo e incuriosito.
Alzai le spalle, intrecciando le mani dietro la schiena: «Niente, la cosa finì quell’estate perché lui si trasferì e non si fece più sentire».
«Mi dispiace».
Scrollai le spalle: «Non fa niente, sono passati tanti anni, ormai». Arrivati alla tenda, prima di entrare, ci fissammo a lungo, tanto eravamo in sintonia era un peccato finire la serata così. Per un momento ci guardammo le labbra a vicenda, me nessuno dei due osò colmare la distanza. Alla fine alzai una mano e gli carezzai una guancia, sorridendo. Lui ricambiò e poi mi lasciò entrare.
Quella sera sognai di trovarmi di nuovo in quella casa con i miei ex compagni delle medie e avere di nuovo tredici anni. Quella notte, fu anche quella che mi ricordai cosa significasse sentire il proprio cuore palpitare per un sentimento ricambiato. Fu anche la sera in cui realizzai che tra me e lui stava nascendo una bella simpatia che non mi sarebbe dispiaciuto diventasse qualcosa di più. E, fu anche la serata in cui realizzai che quello che provavo per Kiki e Odysseus, non era amore, anche se ci si avvicinava molto.   

La mattina dopo ero già più allegra.
Ancora memore delle sensazioni della sera prima, canticchiai Ballerina degli Shanghai, mentre mi lavavo i vestiti che Menta aveva portato per me. Era bello indossare altri abiti puliti. Era un vestitino dalle spalline sottili e nere, la scollatura a cuore e la gonna plissettata ma che mi fasciava assai meno le gambe. Anche su questi avevo appuntato i pezzi della Surplice.
Ci eravamo allontanati fino a raggiungere un ruscello dove i membri femminili delle tribù lavavano i panni. I quali erano poco distanti da noi e intenti nelle stesse mansioni. E, nella radura poco più indietro, i ragazzini giocavano a una strana versione di hokey sul prato misto a lacrosse.
Camus accomodato ai piedi dell’albero cui stavo stendendo i panni, mi lanciò delle occhiate divertite. Era diventato più solare, in un certo senso. A un certo punto cambiò totalmente espressione e lo vidi sbiancare. «Camus?»
«Sento dei Cosmi, una battaglia, l’accampamento! Hanno attaccato il quartier generale! Com’è possibile? Perché non mi hanno chiamato? Che cosa sta succedendo?» Esclamò sgranando gli occhi per lo stupore.
«Cosa?» Domandai con urgenza nella voce, strabuzzando gli occhi a mia volta. E mi avvicinai repentinamente. «E i tre Specter?» Ma lui non mi ascoltò più. Disse che doveva andare, ma io lo bloccai. «No. Non andare!»
«Devo, Astrid! Hanno bisogno di me!»
«No, Camus!» Ma lui non volle sentire ragioni e andò. Pregai per lui tutto il tempo che tornasse sano e salvo. A volte riuscivo a sentire i loro Cosmi a sprazzi, altre l’ansia era talmente tanta da ostacolare la connessione. Ebbi paura persino per la zia. Fu solo in quel momento che mi accorsi della presenza di Raki accanto a me. Improvvisamente, sopra di noi si librarono degli sciami di Fairy. E, poi, lo Specter della Farfalla fece la sua comparsa. Raki si strinse a me e io la spostai dietro la mia schiena per proteggerla. Ma lo Specter non sembrò interessato alla mia amica. Si limitò a lanciarci un’occhiata seria e, poi, alzare il volto al cielo nero, mentre le farfalle si dirigevano nella stessa direzione in cui era fuggito Camus. Osservava con aria seria e concentrata.  
Le braccia incrociate e le gambe divaricate.
Capii che se avessi voluto essere utile alla causa sarei dovuta correre da Luco. E lo feci, solo per trovare già due Black Saint sul posto. «Giusto in tempo». Mi salutò lo Specter della Driade con un sorriso, stavolta infilato dentro la sua Surplice. Non mi sarei mai completamente abituata all’enorme differenza che intercorreva tra loro con e senza la Surplice. I capelli completamente scostati dal volto davano l’impressione che fosse ancora più inquietante e malefico, nonché un filo più magro di quanto non fosse.
«Cosa? Ci hai fatto aspettare tutto questo tempo per quella?» Sbottò uno dei due e l’altro: «Ma per chi ci hai preso? Ci credi così debole da farci competere con le donne?»
«Misurate bene le vostre parole, perché costei è la Luce Ombrosa». Adesso i due energumeni mi guardarono sbalorditi. «Cosa? Questa fanciulla delicata? Ci prendi in giro?»
«Affatto Black Saint della Renna e Dune, Silver Saint del Cammello».
«Cosa?» Esclamai stupita, guardando il secondo, che ricambiò. «Tu eri un Silver Saint al servizio di Atena? Come mai sei qui? Perché ti sei ridotto a servire i Black Saint?»
«Potendo scegliere se spurgare cinquecento anni i propri peccati tra atroci torture e indicibili sofferenze e, liberarci definitivamente degli Specter, molti di noi hanno scelto di seguire Don Avido e il suo piano di liberazione».
«Ma… E Atena?» Domandai incredula. Mi rifiutavo di credere che un uomo asservito alla Dea della Guerra, che combatteva per la pace, si fosse ridotto così. Non volevo crederci. Un conto era avere a che fare con personaggi come Death Mask, Saga, Kanon e Aphrodite, ma l’altro era sentire un ex Silver Saint di una costellazione estinta parlare a questo modo.
«Non significa che abbiamo rinnegato il giuramento. Ci siamo alleati con i Black Saint perché hanno ragione e vogliamo ancora combattere in nome della pace e della libertà. Vogliamo impedire la prossima Guerra Sacra e, quale modo migliore se non giocare d’anticipo e dall’interno? Se Hades e i suoi Specter perdessero il dominio su questi luoghi, le Guerre Sacre cesseranno di mietere vittime. Voi, piuttosto, perché combattete dalla loro parte? Avete forse dimenticato a chi avete giurato fedeltà?» Domandò disgustato accennando allo Specter della Driade che lo trapassava con gli occhi. Allora erano questi i nostri avversari? Ora cominciavo a capire come avessero fatto a tenere testa alla zia per tutto questo tempo. 
«Io non ho giurato fedeltà proprio a nessuno e trovo che sia ingiusto! Se ciò significa perdere la bussola e schierarsi dalla parte di chi vuol annientare il ciclo delle reincarnazioni, anche se in nome della pace e della libertà. Come si può pensare che un mondo senza guerre sia giusto? Combattere è nella natura umana! É il modo che la Natura ha scelto per riequilibrarsi e tenerci sotto controllo, oltre alle malattie! Annullare completamente i conflitti significa l’annientamento del pianeta e della vita sulla Terra! E chissà quanto occorrerà prima che compaia un predatore per gli esseri umani o che la Terra muoia definitivamente a causa delle nostre attività!». Spiegai inorridita e, fui felice della mia scelta. Dune del Cammello mi scoccò un’occhiata torva. «Che state farneticando, ragazza? La Terra è sufficientemente forte per sostenerci tutti».
Possibile che quest’uomo non capisse il grande pericolo che comportasse questa scelta? Questo ideale tanto utopistico e meraviglioso era estremamente pericoloso nella sua chiarezza! Cercai di farlo ragionare: «Non è vero è…».    
«Se avete finito di chiacchierare, io vedrei di cominciare». Ci avvisò Luco, interrompendoci. 
Lo Specter mi mise alla prova e mi mostrò la daga incastonata in un albero altissimo. «La vostra prova è prenderla, che vinca il migliore».
«Le regole?» Chiesi, nella speranza di potermi aggrappare a qualcosa.
Lo Specter sorrise dolcemente: «Non ce ne sono, consideratelo uno scontro all’ultimo sangue».
«Luco, ascolta, non hai sentito quello che ha detto, prima? Non hai sentito quello che hanno intenzione di fare? Come puoi permettere che succeda… »
«Francamente non è che m’importi moltissimo delle sorti dell’umanità, li ho sempre considerati una specie molto stupida e rumorosa, li preferisco quando sono Skeleton o Velate silenziosi».
«E delle piante che tanto ami non t’importa?» Gli domandai guardandolo in volto. Non potevo credere che quest’uomo fosse tanto disgustoso.  
Lui sgranò gli occhi e mi guardò. Un lampo brillò nelle sue iridi e la sua espressione mi comunicò chiaramente che non ci aveva pensato. Poi si ricompose e mi fece notare che la daga non aspettava nessuno. «Ah, al diavolo». Sbottai e corsi anch’io all’albero, arrampicandomi passando dai rami più bassi. 
In breve tempo mi ritrovai con le membra doloranti e la pelle bagnata di sudore. Non mi arrampicavo più sugli alberi dall’infanzia. Ma dovevo farcela. Non avevo la stessa potenza e rapidità dei miei avversari, però dovevo.
Prima che riuscissi ad arrivare anche solo a metà dell’albero, sentii urlare: «Tempesta di sabbia!» Alzai gli occhi e vidi  il Saint del Cammello scagliarmi contro un potentissimo vento pieno di sabbia che mi costrinse ad aggrapparmi al ramo e a distogliere il viso e a sigillare gli occhi e la bocca. Poi, sentii un tonfo davanti a me. Sussultai e alzai il volto per trovarmi a fissare la parte inferiore del Saint, accovacciato e, a gambe aperte davanti a me. L’avambraccio appoggiato su una delle cosce protette dalla sua cloth.
L’uomo mi alzò il volto con dolcezza con due dita. Il pollice sul mio mento e l’indice ripiegato a sostenerlo. Il suo tocco era gelido come una folata d’inverno che s’insinua sotto i vestiti. I nostri sguardi si incrociarono e lo vidi contemplare silenziosamente le mie iridi, prima di scorgere il compatimento nelle sue. Poi disse, con voce più profonda e calda: «Spero che tu ti fermi qui, non voglio macchiarmi le mani con il sangue di una donna».    
Poi mi lasciò andare e saltò di nuovo su e raggiunse il compagno. In due secondi feci mente locale. Aveva sfruttato il suo colpo per darmi un avvertimento invece che di finirmi. Ma se credeva che sarebbe bastato a intimorirmi, non aveva ancora capito con chi avesse davvero a che fare. Perciò ripresi l’arrampicata.
E, presto mi arrivò un altro colpo, talmente violento che spaccò la corteccia appena sopra la mia testa. Per poco non persi l’equilibrio e non caddi giù. Distolsi repentinamente il volto per ripararlo dalla pioggia di schegge di legno che caddero sui miei capelli. Quando tornai a guardare c’era un buco appena sopra di me, con tanto di braccio del Saint affondato nella corteccia dell’albero. E, il suddetto in perfetto equilibrio che si sporgeva, serio. Dopodiché tolse la mano dal legno e caricò un altro pugno di Cosmo che, assunse la forma di un leone di sabbia dalle zanne affilate: «Furia del deserto!» Esclamò ed io cominciai ad arretrare lateralmente spaccandomi le unghie, per raggiungere un altro ramo e portarmi in salvo. Poi scagliò il colpo. Il leone di sabbia e cosmo spalancò le fauci e fece per inghiottirmi ma gonfiai repentinamente il Cosmo e questo si distrusse. La sabbia cadde al suolo proprio come polvere: «Oh, hai un Cosmo anche tu?» Commentò sorpreso inarcando le sopracciglia. «Bè, poco male, non ti aiuterà di certo contro di me».
Non risposi, ma, appena si lanciò contro di me, alzai un piede, colpendolo in pieno petto e lui perse fiato e Cosmo e cadde giù. Mi concessi tre secondi per riprendermi, poi, mi curai con la Dark Resurrection e ripresi la scalata e, stavolta crollai da sola perché afferrai un ramo troppo debole per sostenermi. Strillai e caddi giù, ma le mie dita si chiusero attorno a un altro ramo e, facendo forza, riuscii a issarmi malamente su questo.
Intanto che Dune risaliva saltando di qua e di là come un acrobata. 
Mi azzardai a guardare momentaneamente in basso e strabuzzai gli occhi. Mi era andata bene da niente. Dopo una caduta di trentadue metri d’altezza sarei potuta morire. Da sotto, anche Luco ci osservava, perplesso. Poi un refolo di vento smosse i suoi capelli, facendogli sgranare gli occhi e voltarsi. Guardai in quella direzione e vidi le Lacrime di Kalì avvicinarsi alla zona. Sperai che gli alberi degli Inferi fossero ignifughi. Ah, che nome lungo, meglio le Creature, anche se neanche questo andava bene.
Rialzai il capo, cercando di issarmi sul ramo, ma poi, vedendoli saltare di ramo in ramo, mi fermai. Era tutto inutile. Ma poi ripensai a quello che avevo detto a Luco e decisi che non mi sarei arresa. Perciò ripresi la scalata, fino ad arrivare a un ramo sufficientemente spesso e largo perché potesse sostenermi e permettermi di stare in piedi, appigliandomi ai suoi rami e a quello sopra la mia testa. Il quale a un tratto tremò e un paio di foglie caddero dal ramo. Alzai lo sguardo e vidi il Saint della costellazione estinta seduto su di esso, annoiato.
«Sei testarda quanto un mulo, allora non ti è bastata la lezione?» Chiese il Silver Saint. Ma non risposi. Lo fissai mentre il suo compare continuava l’ascesa. Poi scese sul mio ramo, le braccia incrociate.   
Solo allora ribattei: «Non me ne frega niente delle lezioni che vuoi impartimi. Non me ne faccio niente!»
«Allora perché ti ostini a combattere contro di noi, quando potresti passare dalla nostra parte?» Tese la mano verso di me: «Vieni con noi, abbandona questa gentaglia. Non devi loro niente».
«Non sono una Specter e non devo loro niente, ma se sono qui non è per prendere altre legnate, bensì per salvare la ruota della Vita e della Morte e la Natura! Ma se l’unico modo per fermarvi è diventare una Specter allora lo farò!» Risposi determinata urlandolo a squarciagola.
Ciò detto mi misi in posizione e materializzai il mio Cosmo.
Lui lasciò cadere la mano che mi aveva teso, per niente impressionato e saltò su un ramo posto a dodici metri più in alto del mio. Curvò la bocca in un sorriso, prima di guardarmi di sottecchi e ridacchiare: «Sei veramente sciocca, Luce Ombrosa». Dopodiché gonfiò il suo a sua volta con più forza di prima. Quel tanto che bastò per spazzare via, rami e fronde della parte in cui ci trovavamo, ma non abbastanza potente per attirare le Creature.  
Nessuno si era accorto che avevo usato i fili del Cosmic Domination per creare una rete sotto di sicurezza sotto di noi e, che una serie di fili li avevo legati alla vita e al ramo dietro di me. Con queste precauzioni potevo stare più tranquilla.
Mi gettai addosso a lui e ingaggiai battaglia, evocando anche il falcione di Cosmo. Non gli detti tregua alcuna e, lo buttai di sotto. Ma lui ritornò su proprio mentre stavo per riprendere l’arrampicata. Allora mi buttai di nuovo addosso a lui e lo imprigionai nella morsa delle mie braccia. Ottenendo solo di farlo sorridere: «Sei pazza, per caso? Hai intenzione di suicidarti? Non lo sai che noi fantasmi possiamo passarti attraverso?»
«Ecco perché mi sono fatta una Surplice anch’io!» Esclamai. Lui restò impassibile e, cercò di fare quanto promesso, ma si ritrovò intrappolato tra le mie braccia. Con una mano alle sue spalle, disegnai di nuovo la sua precedente costellazione e poi, lo spinsi via, lasciando fare il resto alle Creature. Che nel frattempo erano state attirate dalle mie grida, ma non avevano ancora fatto niente.
Dovevo trovare il modo di attirarle e dirigerle verso i fantasmi. Ma come?
Un momento, loro si nutrivano di Cosmo. E quello dei Saint morti era come se si fosse spento. Mi guardai le mani e poi la schiena di Dune su cui spiccavano le tracce semi sbiadite della costellazione estinta. Se le potevo cancellare e, le potevo ricreare, allora, avevo anche la forza per crearle. Ma come? Le stelle sono corpi celesti che brillano di luce propria, sono enormi e luminosi sferoidi autogravitanti di plasma che generano energia attraverso processi di fusione nucleare. E tale energia è irradiata  nello spazio sottoforma di onde elettromagnetiche e particelle elementari.
Le mie dita si illuminarono d’argento e ricostituii da lontano la costellazione del Cammello. Poi, gliela cancellai. Il fantasma trasalì e girò la testa verso di me, per guardarmi. Non aveva funzionato. Questi erano già morti.
«Julius, occupati tu della daga, della ragazza ci penso io. Ti avevo avvisato e, ora non avrò più pietà di te solo perché sei una donna! Preparati, Windstorm!» Urlò caricando il suo Cosmo e, una nuova raffica di vento piovve su di me mentre la sabbia si avvolgeva in un mulinello attorno al suo corpo mentre si gettava in picchiata per colpirmi.
Istintivamente gliela ridisegnai, presi rapidamente una delle stelle e la scostai. Ciò che ottenni, invece di farlo svenire, anche a causa del fatto che persi l’equilibrio, fu di creare una cupola di luce sulla quale il suo piede impattò. Il Saint rimbalzò sul muro di luce argentea e saltò indietro, fin quasi alla base del ramo.   
Non ero riuscita a farlo svenire, ma in compenso avevo scoperto di poter usare una nuova tecnica: la Grande Muraglia. Ossia un fenomeno astronomico noto anche come Grande Parete o Grande Muraglia CfA2, è la quarta più grande struttura conosciuta dell’Universo visibile, dopo la Grande Muraglia di Ercole, la Grande Muraglia Sloan e l’ammasso di quasar Huge-LQG. Si tratta di un gruppo di galassie posto a circa duecento milioni di anni luce di distanza dalla Via Lattea, lungo cinquecento milioni di anni luce, largo trecento milioni ma spesso “solo” quindici milioni di anni luce. Fu scoperta nell’Ottantanove del secolo scorso da Margaret Geller e John Huchra, basandosi sui dati della CfA Redshift Survey.
E, in effetti, in questo muro di luce, brillavano minuscoli brillantini statici come apparentemente erano le stelle di notte e, a tratti erano opachi.
In realtà le dimensioni riportate sono quelle stimate, non si conosce ancora l’esatta estensione reale della Grande Muraglia.  Questo significava che potevo estenderla anche più di quanto apparentemente potessi.
L'origine della Grande Muraglia è piuttosto incerta. Le teorie correnti (nate appunto per spiegare l'esistenza di questa e altre muraglie, e dei supervuoti che delimitano) ipotizzano che tali strutture si formino all'interno di filamenti di materia oscura disposti nello spazio secondo una struttura "a spugna", nella quale tali filamenti circondano ampie zone vuote o poco dense. È questa materia oscura che detta la struttura dell'Universo alle scale più grandi, attirando gravitazionalmente le masse visibili.
Filamenti di materia oscura! Ma certo! Ma non ebbi il tempo di festeggiare che sentii un sinistro scricchiolio e, prima che me ne rendessi conto, stavo precipitando. Il colpo del Saint aveva comunque spezzato il ramo.
Dissolsi la tecnica e usai la Cosmic Domination per fermare la caduta, ottenendo di sbattere contro il tronco. Gemetti di dolore per il colpo. Scossi la testa e guardai su e vidi il Saint appoggiato alla corteccia come a sorreggersi. Ma non avevo considerato l’inventiva del Saint che, pur di impedirmi la risalita scese di nuovo, fermandosi sul ramo su cui mi stavo arrampicando un’altra volta. «Non so che trucco abbia usato, strega, ma ora stai veramente cominciando a stufarmi».  
Per la prima volta bruciai il mio Cosmo e, approfittando della caduta, appioppai una violenta tallonata sulla nuca di Dune, tramortendolo. Anche se ciò non sarebbe probabilmente bastato. Poi, atterrai indenne sul tappeto di fiori. Non potei dire lo stesso del suo compare.
«Dune!» Lo chiamò il suo alleato che si era fermato.
Ma l’ex Saint del Cammello non lo ascoltò. «Tu prosegui, io devo spurgare il male».
«L’unico male che vedo qui, è dentro di te!» Ribattei. Poi, per provarglielo alzai una mano. Il dorso rivolto verso di lui e, lo spazio tra le mie dita s’illuminò di nero. Poi le aprii come Spock e, in quello spazio comparve un piccolo globo nero fatto dei filamenti che gli avevo sottratto. Poi glielo lanciai e, le Lacrime di Kalì si avvicinarono a noi. «Menzogne!» Urlò e mi si scagliò addosso bruciando il suo Cosmo. Ma le Lacrime di Kalì furono più rapide e, il Saint finì nelle loro grinfie, ustionato.    
Crollai a terra sul tappeto di mughetti bianchi, esausta, mentre Luco mi si avvicinava.
«Sei riuscita a trovare il modo di ferire un fantasma, niente male. Ma adesso riprendi la corsa».
«No, non posso restare».
«Che ti prende, Luce Ombrosa?» Domandò Luco perplesso.
«Senti, non posso restare qui. Ne arriveranno altri e altri ancora e tutto in nome di quel coltello che proteggi per conto di Hades o del tuo tornaconto personale o non lo so, ma non posso continuare così. Ho lasciato delle persone molto importanti all’accampamento, devo tornare da loro».
«Non avrai intenzione di abbandonare la sfida così! Per cosa ho protetto quella daga per tutti questi anni, se no? Per cosa ho cercato di proteggere gli Inferi se non per consegnarla alla persona che avrei giudicato più meritevole delle altre?» Domandò, incredulo.
Mi girai a guardarlo: «Non so chi ti abbia conferito un tale incarico, ma quella non sono io. É solo una daga, Luco! Le persone sono altrove e questi sono venuti per catturare anche me! Cosa è più importante? La daga o la Luce Ombrosa?» La Driade non rispose, ma mi fissò incredulo, l’indecisione ben visibile sul suo volto. Prima che potesse replicare ci pensò lo sbottare irato di Dune. «Quanto sei noiosa». Il traditore andava rialzandosi, sfregandosi la testa che avevo colpito con la tallonata. Come sospettavo: le cloth con l’elmo a tiara o a maschera, non proteggevano a sufficienza. Ma neanche la costellazione provvisoria che gli avevo fatto funzionava. Le Creature si erano solo limitate ad assorbirla, ma non a distruggerlo di nuovo! «Ma siete intelligente, non lo credevo possibile per una donna di bassa estrazione sociale come voi». 
Non ebbe il tempo di dire altro che delle radici lo trapassarono da parte a parte. Dune annaspò incredulo, prima di dissolversi. «Luco!» Esclamai stupita e spaventata. Che la prossima fossi io? Ma lui non sembrava avere intenzioni ostili verso di me. «Corri». Disse soltanto.
Lo guardai confusa: «Luco?»
«Ho detto di correre! Ne stanno arrivando altri e sono qui per te!» Mi avvisò.
Feci uno scatto indietro ma mi fermai: «Ma tu?»
«Corri, Luce Ombrosa». Urlò a squarciagola, spaventandomi a tal punto che non me lo feci ripetere altre volte.   
Dello Specter della Driade non seppi più niente. Accidenti; se solo fossi stata abbastanza forte, sarei riuscita a sostenere il fardello della Luce Ombrosa e conquistare la daga deicida. Forse con quella avrei persino potuto aiutare Camus. Ma non era servito a niente.

Sperai con tutta me stessa che Luco se la cavasse. Per tutto il tempo pregai per lui affinché ci raggiungesse sano e salvo. Ma il tempo passava e la mia angoscia aumentava. 
Mentre aspettavo di ricevere notizie, colsi un movimento sopra di me con la coda dell’occhio. Alzai lo sguardo e vidi un mazzolino di fiorellini bianchi fluttuare giù dal cielo. Tesi istintivamente le mani a coppa e, la piantina ci si posò dolcemente. Era una piantina di mughetti bianchi. L’immagine sorridente di mestizia di Luco comparve davanti al mio campo visivo.  E capii. Il cuore mi si strinse in una morsa e mi sentii invadere da un profondo sconforto. Le lacrime debordarono dai miei occhi e piovvero sulla piantina e sulle mani che mi portai al petto, scosso dai singhiozzi: «Luco».
Aveva dato la sua vita per salvarmi e salvare le piante che amava. Non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata a piangere la morte di uno Specter.
Solo quando non ebbi più lacrime da piangere, trovai la forza di scavare una buca con un ciottolo e di incidere la base della piantina con lo stesso. Poi, lo piantai nel terreno e pregai che ce la facesse a sopravvivere.
Solo allora me ne tornai all’accampamento e, scoprii che gli Specter stavano già arrivando a gruppi, scortati dagli Skeleton. Anche i velieri della flotta aerea giunsero, facendo sbarcare il grosso delle truppe e delle armate rimaste al quartier generale. Infine, all’orizzonte comparve anche il Galeone di Aiacos.      
Nel pomeriggio, quando ormai non ci speravo quasi più, Camus e gli ultimi rimasti ritornarono, scortati dalle Fairy. Lady Niniane era rimasta ferita nell’attacco e altre sacerdotesse ci avevano rimesso la vita. Mentre Lady Viviana non era spirata.
Camus e Isaak erano rimasti indietro per coprire le spalle a Lady Pandora e Rhadamantys, in fuga. Eravamo stati talmente in pena, che la prima cosa che facemmo io, Raki e i suoi compagni, fu abbracciare Camus, Isaak e Fianna, ringraziando che fossero vivi. Malconci, ma vivi. Camus mi guardò stupito per via dell’accoglienza che gli riservai. Mi strinsi a lui come a non volerlo lasciar andare mai più.
Poi lo sentii rilassarsi e ricambiare la stretta. «Va tutto bene, siamo vivi, stiamo bene».
Isaak ci raccontò cosa era successo: «I Black Saint hanno scoperto il nostro nascondiglio e ci hanno teso un’imboscata. Fortunatamente avevamo già cominciato a spostarci alla spicciolata in questo secondo accampamento, ma senza l’aiuto di Myu della Farfalla, probabilmente non saremmo andati da nessuna parte».
«Non erano così feroci l’ultima volta che li abbiamo affrontati». Costatò Camus, ancora sconvolto, la Gold Cloth impolverata, continuando a stringermi a sé di lato. «É come se si fossero inselvatichiti, molti non si sono fermati neanche quando hanno perso un braccio o una gamba».
Strinsi la bocca, capendo: dovevano essere gli effetti della daga deicida. Julius era davvero riuscito a recuperarla. Però dissi «Non lo so, ma sono davvero felice di rivedervi sani e salvi». Feci, separandomi dal mio conoscente e, solo allora, mi accorsi della zia che camminava a fianco di un insanguinato Rhadamantys sporco di sangue d’oro che riconobbi come Ichor. Ichor? Perché era sporco di sangue divino? Chi aveva ucciso?
Mi scusai con i miei amici e corsi dalla zia ma, prima che potessi avvicinarmi, Rhadamantys mi spostò di lato, strappandomi un gemito di sorpresa.  Poco prima che mi lasciasse andare ritrasse la mano di scatto, come se si fosse scottato, prendendosela nell’altra. Vedemmo dei cristalli di ghiaccio affiorare sulla carne, subitamente più bianca di prima. «Aquarius!» Ruggì la Viverna in coro con il nostro avversario. Proprio allora sopraggiunse Camus. La Viverna gli scoccò un’occhiata assassina prima di voltargli le spalle e andarsene.
«Stai bene?» Mi domandò e io annuii sconvolta, continuando a fissare le spalle dello Specter della Viverna, continuando a stringermi la mano nell’altra. Quel tocco, quella presenza, mi erano famigliari. Ma certo che mi erano famigliari. Pensai lanciandogli un’occhiata gelida. Era l’uomo che mi aveva aggredita assieme ai suoi compari.
«Rhadamantys!» Lo riprese la zia e il biondo la guardò prima di prostrarsi e scusarsi con lei, asserendo che non intendeva dare spettacolo. Poi chiese il permesso di ritirarsi. «Concesso, recati nella tenda medica e resta lì fino a nuovo ordine».
Peccato soltanto che era talmente furioso da richiedere l’evacuazione immediata della tenda medica. E, fu allora che qualcosa dentro di me scattò. “A me non farà del male”, pensai e mi mossi automaticamente. Andai a vedere cosa stava succedendo e vidi Menta e altre donne accucciate e proteggersi la testa, mentre la Viverna dava di matto. Istintivamente evocai la sua stella e ne presi l’oscurità per creare una barriera di tenebre che le protesse e creò un corridoio sicuro di modo che potessero andarsene. I pezzi della sua Surplice sparsi qui e là mentre faceva a pezzi la mobilia. Solo quando si girò di nuovo verso le Velate e le Ninfe e incontrò i miei occhi, si fermò. In uno strano slancio di preveggenza, me l’aspettavo.
Solo dopo tornai in me e mi domandai sgomenta che diavolo mi fosse preso.
Mi trapassò con lo sguardo e ringhiò: «Che c’è? Non ho bisogno del tuo aiuto, le ferite se ne andranno presto». Poi si sedette di peso sulla branda, dandomi le spalle. Con parte della Surplice distrutta sembrava più piccolo, ma non quanto avrei voluto. «Già, peccato soltanto che è per questo che mi hanno chiamato. Comunque non preoccuparti, delle tue ferite non me ne importa un fico secco». Dissi con voce tagliente. Non m’importava niente se alle sue orecchie sembravo una bambina risentita, volevo solo che percepisse tutto il mio astio.
«Bene, anche perché non ho richiesto la tua presenza».
«Tranquillo, non ti ruberò troppo tempo, voglio solo sapere perché hai dato l’ordine di sorvegliarmi a tre dei tuoi sottoposti».
«Che vorresti dire?» Domandò lo Specter della Stella del Cielo Furioso, facendo lo gnorri.
«Non offendere la mia intelligenza, dimmi soltanto perché l’hai fatto».
«Non sono affari che ti riguardano».
«Mi riguardano eccome, invece! Io non voglio niente da te, niente, hai capito? Non è stata per mia volontà che ho scelto di essere qui e ci sono lo stesso! Non ho bisogno del tuo aiuto per cavarmela da sola! Anche se te l’avesse ordinato mia zia non me ne importa un fico secco. Io da te non voglio niente. Non voglio niente dalla persona che mi ha rubato un anno della mia vita!»
Lui mi trafisse con lo sguardo ma io non mi lasciai intimorire. Non gli avrei mai più dato questa soddisfazione, mai più. «Quindi è questo quello che pensi?» Chiese in un basso ringhio d’avvertimento che ignorai. «Sì! Non posso volere niente da chi mi ha ferito così profondamente». Sibilai furiosa. Si girò completamente verso di me restando seduto. Un braccio ad angolo e la mano sulla coscia. Un tentativo forse di incutere rispetto o di sembrare più macho. A me apparve solo più stupido. 
Per un momento vidi balenare dai suoi tratti la Viverna di cui tanto fieramente portava il nome, con tanto di zanne affilate in bella vista. «Tu pensi sul serio che m’importi qualcosa di te? In tutto il mondo esistono persone che per sopravvivere calpestano i sentimenti e le persone tutti i giorni. Ci sono amici, amanti, famigliari che sono pronti a tradire per la sopravvivenza, per i soldi e per la lussuria. E sai dove finiscono tutti? Proprio qui, negli Inferi e noi non dobbiamo mostrarci indulgenti. Sai qual è la prima cosa che fa uno Specter quando acquisisce la Surplice? É uccidere chiunque gli stia attorno uomini, donne, famigliari, bambini, non importa, devono morire. Uno Specter, da solo, anche il più debole, ha la forza per conquistare il mondo, perciò puoi anche capire quanto me ne importi delle tue stupide lamentele! Tu non sei superiore a me e avere la Luce Ombrosa non ti dà una posizione di comando, tantomeno una voce. La tua voce qui non conta niente. Tu, qui, non sei nessuno. Vedi di ficcartelo bene nella testa, sciocca ragazzina, perché la prossima volta non mi limiterò a urlare e basta.» aggiunse poi, dopo un respiro, in tono più calmo e la chiostra di denti affilati che aveva snudato parve scomparire.
«E tu pensi davvero che mi importi qualcosa degli Specter?» Minacciai velatamente di rimando sollevando la testa di poco, per trapassarlo a mia volta con lo sguardo. Non gli avrei mai permesso di spaventarmi un’altra volta. Anche se tremavo di paura, anche se mi sentivo tutto fuorché al sicuro in sua presenza, dovevo combattere. E avrei combattuto. Perciò gettai il mio sguardo nel suo, cercando di comunicargli tutto l’odio rovente che mi ardeva dentro come una fiamma. Tutto il mio risentimento e tutta la sete di vendetta che covavo. La cosa che non aveva capito, era che in tutta questa storia ero io ad avere il coltello dalla parte del manico: «Ti conviene non scherzare con me, Rhadamantys. Se mi uccidi, niente fermerà le Creature dall’incenerirvi tutti».
«Ancora tiri la corda? Le tue minacce per me sono insignificanti perché tu non sei l’unico asso nella manica che abbiamo. Sei solo un fastidioso di più che il nostro Signore ci ha ordinato di preservare e di usare in battaglia. Tu non sei una persona e non sei neanche un soldato, tu sei solo uno strumento e, i fantasmi e le Fairy di Myu, come scudo e rinforzo sono più che sufficienti».
Mi aggrappai repentinamente a qualcosa pur di ribattere: «I Black Saint attuali mi hanno giurato fedeltà, questo non fa di me una persona così inutile».
«I Black Saint attuali non possono niente contro gli spiriti e negli Inferi. Nessuno di loro può fare alcunché, sono solo degli omuncoli che non possono neanche sognarsi di guadagnare la forza del più debole Bronze Saint. Seguirebbero chiunque dimostri un briciolo di forza superiore alla loro. Il loro supporto non serve a niente, tranne che a fare numero. Sono solo delle copie carbone di un sogno di gloria che non potranno mai realizzare. Ti hanno giurato fedeltà solo dei manichini di creta, niente di più e niente di meno che delle stupide, inutili bambole».
«Io posso sconfiggere uno Specter». Gli ricordai.
«Non significa niente, resti comunque una bamboccia troppo lenta e si è visto molte volte. Sei solo un intralcio, se non fosse per il tuo potere sulle Creature neanche ti avrei lasciato continuare fino a qui; non sei per niente potente e sei una piagnucolona che non sa stare al suo posto. Adesso fuori da qui e non farti più vedere!»
Quando uscii da quella tenda mi venne in mente che io non ero inutile come diceva lui. Io avevo comunque ammazzato una Dea e una semidea, io ero comunque l’apprendista del Gold Saint di Ophiuchus. Io avevo il potere delle Stelle e avevo, no, ero la Luce Ombrosa. Rammentai le tristi parole che mi aveva rivolto lo Specter dell’Arpia. “Finché non capirai di esserlo non potrai mai essere la Luce Ombrosa fino in fondo”. E, le parole di Rhadamantys, per me continuavano a non significare niente.
Sentii il rumore di uno schiocco di lingua contro il palato. Mi girai in quella direzione e vidi il Garuda. I capelli scompigliati e l’elmo sotto braccio. «Quello è sempre il solito e non cambierà mai. Da quando gli fu concesso l’Ichor del nostro Signore, oserei dire che sia addirittura peggiorato».
«Come?»
«È una voce che si racconta tra gli Specter, non farci caso». Spiegò il Garuda lanciando un’occhiata velenosa alla tenda. «Raccontala anche a me, per favore». Lui mi guardò e i suoi occhi lanciarono un lampo di maligno compiacimento. Anche il sorriso che curvò la sua bocca grondava soddisfazione, quando mi ricattò: «Soltanto se tu diventerai la mia Seconda Ala, principessa».
«Come, scusa?» Chiesi stupita, per tutto quello che gli uscì di bocca.
«Hai capito bene».
«Ma non hai già Violate?» Indagai, assottigliando lo sguardo, guardinga.
«Violate è una comandante eccellente, ma tu hai dimostrato di tenerle testa e mi hai divertito moltissimo. In più trovo che tu, in un certo senso sia il suo contrario. Non fraintendere, non intendo solo fisicamente, ma anche intellettualmente. Una forza come la tua e un cervello sopraffino così...» Si portò le dita alla bocca e lanciò un bacio: «Sarebbero il fiore all’occhiello per la mia armata».
Mi ero sempre chiesta se effettivamente questo tizio ci fosse completamente con la testa. Ma arrivare ad affermare che come Garuda fosse monco, questa era divertente. «Preferirei di no».
«Come preferisci, ma stai molto attenta, principessa, qualcosa mi dice che, da quest’oggi in poi, molte cose sono destinate a cambiare». Questa mi sapeva tanto come un avvertimento a tenere le orecchie bene aperte, ma non avevo tempo da perderci dietro. «Sarà. Ci vediamo, Aiacos». Salutai.
Lui curvò gli angoli della bocca in un sorriso e chinò la testa in cenno di saluto, prima di incrociare le braccia: «A presto, principessa».
Avevo cose più importanti cui pensare: per esempio, completare la mia armatura e, prepararsi al peggio. I Black Saint e, ora anche i Saint delle costellazioni estinte, non si sarebbero fermati alla prima vittoria. Avevamo appena perso i territori riconquistati a causa del massiccio dispiegamento di forze. La zia aveva agito male, accidenti, ce lo dovevamo immaginare che sarebbe successo.
Mi recai alla tenda dei ragazzini e lì, aprii finalmente il sacco, che avevo continuato a portarmi dietro tutto il tempo, svelando i pezzi mancanti e assemblandoli con l’aiuto di Raki, che ne saggiò la resistenza e mi dette un paio di dritte. Anche Menta volle dire la sua, soprattutto quando mi feci fare i fori necessari per indossare la parure e che, lei, tappò con degli orecchini d’oro. Sibilai leggermente per il dolore, ma passò. Dovetti anche mordermi la lingua per evitare di usare la Dark Resurrection. Mi fece rimirare in uno specchio. Non stavo mica male con questi buchi. Dopodiché, mi chiese il permesso di fare qualcos’altro. Glielo concessi e, lei sparì per tornare con una cinta d’oro e un orecchino a cerchio del medesimo materiale, che poi mi appuntò.   

Nei giorni che seguirono, ebbi modo di indossare la mia corazza, almeno per gli allenamenti. Appena Camus e gli altri mi videro sgranarono gli occhi per lo stupore. Come se non si aspettassero un simile risultato. Però accolsero di buon grado la mia richiesta. Dopotutto, vertevamo in uno stato d’emergenza e tensione molto seri. Avrebbero potuto attaccarci da un momento all’altro. E, stavolta, mi misi in posizione di saluto della naginata. Camus alzò la guardia e io, con uno scatto delle mani, materializzai il falcione di Cosmo dorato. Adesso che avevo una corazza anch’io, mi sentivo più sicura. La mia determinazione spinse anche i bambini a riprendere gli allenamenti e, così, potei venire a conoscenza dei loro attacchi. Che Tokaki preferiva tenersi a distanza, che buona parte dei suoi attacchi si basavano sulla forza e la velocità, mentre che Neji, anche se si muoveva con la stessa grazia di un ballerino, era capace di frantumare una roccia con un solo sfioramento di mano.  Persino le bambine si allenavano sollevando massi grandi quattro volte loro.
Io, invece, cominciai a perfezionare i miei riflessi con Isaak, che colse al volo l’occasione per allenarsi con me. Fu così che venni a sapere che lui era un ex Marine di Poseidone: Isaak di Kraken, Protettore della colonna dell’Oceano Artico. A volte alcuni cavalieri sirena in armatura rossa e bianca o dei semplici soldati con Scale riprendenti le creature marine, blu e nere, si univano allo spettacolo.
Con nostra grande sfortuna, venni a sapere che alcuni dei loro compagni erano stati fatti prigionieri, quando non direttamente uccisi. Raccontarono anche dell’imboscata che subirono e di come Don Avido apparisse inquietante brandendo quella daga dorata che aveva piantato nei corpi di chi si era opposto alla sua avanzata.
Il pessimismo e la paranoia la facevano da padroni in questi posti. Eppure non volevo arrendermi. Lo capirono persino il Marine di Octopus (che, come venni a sapere, era molto stimato tra i colleghi) e molti altri che non mi avevano in simpatia. Anche se eravamo protetti, non ci avrebbero messo molto per trovare questo accampamento, nonostante tutti i tentativi di depistaggio dei fuggiaschi. Adesso il numero degli Specter si era ridotto considerevolmente. Non è facile ucciderli, ma dai centootto che erano in origine, erano scesi ad appena cinquantotto, mentre i Marine, forse erano un po’di più. Le anime invece erano state tratte in salvo, almeno buona parte di loro.
Per quanto riguardò le mie crisi, anche Camus alla fine si prestò al gioco del “prendimi le mani che mi calmo”, con mio sommo imbarazzo e diniego. Anche perché le sue mani fredde non erano esattamente un toccasana in questi frangenti. Eppure, mi tornò utile, perché, lui mi spiegò secondo quale principi fermava gli atomi. Ma lo fece in un modo che riuscì a tirarmi fuori da quella situazione e a farmi interessare e riflettere.
A fronte di questa crisi e da come mi comportai, lui asserì che ero molto coraggiosa. A me sembrava di essere solo una palla al piede. Cioè, l’unica vittoria che mi sembrava di aver riportato era che, gli Specter si erano acclimatati alla mia presenza, complice anche la corazza che mi ero costruita. E che, meno anime erano state usate in questa battaglia. Ora che avevano perso tutto, sembravano tutti aspettarsi qualcosa da me. Probabilmente che venissi usata in battaglia.
Nella loro brutalità stavano contribuendo ad aiutarmi a sviluppare i miei poteri e le mie tecniche anche di combattimento. Prima d’ora non avevo mai pensato ad analizzare seriamente il mio nemico, mi limitavo a fare poco. Ma anche a tenermi a distanza, visto che i miei punti di forza erano soprattutto i miei poteri, allora non necessitavo per forza una grande vicinanza. Un po’come Camus.  Per esempio fu grazie alle imboscate a tradimento di alcuni Specter e dei bambini, soprattutto il delicato sfioramento letale di Neji, che imparai a percepire i Cosmi altrui e fare attenzione agli odori e ai rumori.
Rhadamantys e gli altri due Giganti Infernali erano quelli che ci preoccupavano di più. Anche se impossibilitati a muoversi a causa delle ferite riportate (che poi si erano rivelate pure più gravi di quanto non fossero e, non l’avrei mai detto che fossero tanto resistenti, soprattutto ripensando al Garuda) Camus per i suoi trascorsi con Aiacos e io per via di Rhadamantys. Camus non mi aveva chiesto che motivi avessi per temerlo in quel modo, ma intuiva che fosse un timore fondato in ogni caso. Perché tutti e tre (in questo frangente anche Minos) sembravano assetati di vendetta nei nostri confronti.
Camus temeva ancora un po’ per me, ma ormai mi concedeva la sua fiducia, dal momento che avevo dimostrato di non essere così sprovveduta.
Ciononostante, questo non ci scoraggiò dall’intraprendere le nostre attività, una volta che i tre a cui era stata affidata la mia custodia, furono riammessi in servizio. Potemmo finalmente festeggiare la nostra liberazione. Ci scolammo qualche bottiglia di birra (fortunatamente avevano cominciato a spostare le provviste molto prima) mentre bevevamo, io e Camus ci scambiammo parecchie occhiate divertite e complici. Poverino, credo che non fosse mai stato più contento di levarsi di dosso quelle tre zecche fastidiose. E io che credevo che fosse un pezzo di ghiaccio fatto e finito. A un tratto ci ritrovammo seduti con la schiena appoggiata a una cassa, a ridere come due idioti per via della sbronza e, quando appoggiai la testa sulla sua spalla, la sentii più calda.
Poi ci addormentammo. Mentre sognavo, sentii una voce ipnotica chiamarmi. Nel buio mi giravo e la cercavo, ma non la trovavo. Poi, davanti a me, comparve l’immagine di un tronco d’albero spoglio e dai rami mutilati.
Infine, vidi davanti a me Myu della Farfalla seduto su un trono, le belle ali della Surplice spalancate, che mi sorrideva. La gamba accavallata e le braccia posate sui braccioli dello scranno. Le fairy che svolazzavano attorno a lui formando vere e proprie colonne vorticanti.
Quando ci svegliammo, ci ritrovammo nella stessa posizione in cui ci eravamo addormentati, con un gran bel mal di testa e nausea a testa e, le membra doloranti per la scomodità. Quella mattina, avemmo finalmente occasione di darci una ripulita. Poi, dopo aver bevuto un vampiro a testa (è un pick me up, un cocktail che serve per riprendersi dalla sbronza colossale della sera prima) andammo a fare colazione. Ma la nostra colazione fu disturbata dalla scomparsa di Iago.

Camus
«Come stai?» Ti chiese Fianna seduta su una cassa. Con le gambe penzoloni che toccavano terra, scalciava l’aria. I segni blu ben evidenti sulla sua pelle di neve. Probabilmente se li era fatti ridipingere.
Posasti la cassa dentro la spelonca che gli Specter e i Celti avevano eletto a magazzino e uscisti per prenderne un’altra.
«Sconfortato, è stato un brutto colpo», ammettesti mentre spostavi quelle casse senza difficoltà.
«Anch’io penso lo stesso». Fece lei smettendo di scalciare l’aria per scendere dalla cassa che tu prendesti. «Lady Viviana si è salvata, purtroppo». Facesti tu. Eri ben lieto di ascoltare le problematiche della tua piccola amica, piuttosto che pensare alle tue in questo momento. E, Fianna ti accontentò, sapendolo. Eri conscio del fatto che i bambini erano intelligenti e che lei sapeva cosa ti agitava. Era una delle poche persone che ti era rimasta accanto, anche se era gelosa marcia di Astrid. La cosa ti faceva anche sorridere, perché Fianna era una bambina e la sua era la gelosia di una figlia. Così, appena avevi finito con Astrid, tornavi a trovarla all’accampamento celtico per passare un po’di tempo insieme a lei, a volte giocando a palla e altre ascoltandola, proprio come facevi quando eri ancora in compagnia di Hyoga e della tua nipotina. E, questo era sufficiente per smorzare la sua gelosia.
A volte ti sorprendeva la profondità del legame che univa la vostra sgangherata famiglia Oltretombale. Uniti dalla guerra. Prima d’ora non immaginavi che si potesse creare un legame affettivo tanto forte come quello tra te, Isaak, Fianna e Valentine. Sì, anche lo Specter alla fine era incluso nel pacchetto, visto che anche loro passavano il tempo in compagnia della ragazzina e ti aspettavano sempre per cenare tutti insieme. Anche se appartenevate a schieramenti diversi.  
Isaak era stato il primo a preoccuparsi per te, dopo i Celti. La tua temperatura corporea si era abbassata e, una sera ti aveva preso da parte e te l’aveva detto. Avevi minimizzato la faccenda, ma si vedeva che non era bastata a convincerlo.
«Non diciamo niente a Fianna, non voglio che si preoccupi ancor di più».
Isaak aveva assottigliato l’unico occhio che gli restava e aveva annuito: «D’accordo, maestro, ma prima o poi se ne accorgerà». Ma tu avevi deciso di risolvere anzitempo questo problema.
Quel momento non era ancora giunto, ma eri felice di vedere che la ragazzina non avesse paura dell’incremento del tuo gelo, come invece facevano i suoi compagni. Era preoccupata per te, ma l’affetto che provava era sufficiente per permetterle di sopportare le tue basse temperature. Persino più basse delle sue. 
«Sì, gli Dèi sono veramente ingiusti». Se ne uscì lei. Anche se il suo contributo era stato fondamentale, assieme a quello delle altre donne, avevano potuto fare ben poco.
Tacesti.
Ora, come se non bastasse c’era pure un altro problema. La scomparsa di Iago gettò nel panico più totale la vostra zona d’accampamento che, con l’arrivo dei restanti Specter, si era ampliata.
Ti fermasti, le mani poggiate sulle assi della cassa.
Proprio in quel momento la voce di Valentine interruppe le tue elucubrazioni in tono derisorio: «Che hai, Aquarius? Ti sei rammollito, forse?» Ti girasti verso di lui che stava sopraggiungendo. Fianna lo salutò e lo Specter ricambiò.  
«No, assolutamente, stavo solo riflettendo». Rispondesti. Eri solo distratto. Non ti aspettavi neanche tu che Iago sarebbe scomparso e non sarebbe più stato ritrovato. Quello che ti spaventava, era che gli Specter, avevano qualcosa di diverso, ma non sapevi che cosa fosse. E lo avevi ravvisato anche nell’atteggiamento baldanzoso di Valentine, oltre che nella sua Surplice tirata a lucido. Ad ogni modo, ci doveva essere un modo per salvare quei ragazzi, se solo aveste capito quale fosse. Ecco a cosa pensavi e cosa ti distraeva e ti turbava.
Non era colpa dell’atmosfera che regnava sull’accampamento. Semmai eri uno dei pochi a cercare di non farsi sopraffare dall’atmosfera generale di rabbia, sconforto, dolore, impotenza e tensione. Tensione che a volte sfociava in vere e proprie risse da saloon tra uno o più Specter.
Anche i Marine superstiti erano sconfortati e Isaak si era momentaneamente riunito a loro mentre si leccavano le ferite. Fianna era abbastanza scossa da tutto ciò, ma non sembrava niente che non potesse superare.     
Purtroppo quest’imprevisto aveva bloccato tutta la routine all’interno dell’accampamento e, adesso, stavi contribuendo a costruire delle palizzate tramite il tuo Cosmo, creando acuminate stalagmiti dal terreno, sfruttando il potere del Cocito. Anche il tuo aiuto era stato fondamentale, in quanto “mago dell’acqua”, avevi contribuito a creare delle riserve d’acqua per i feriti congelando gli atomi quel tanto che bastava perché a contatto di mani altrui si sciogliessero e diventasse acqua. Almeno sotto quel punto di vista eravate salvi.
Ecco cosa pensavi mentre finivi di spostare le ultime casse con i rifornimenti provenienti dal mondo dei Vivi che gli Skeleton vi portavano, passando per strade sconosciute persino ai Black Saint e ai loro alleati. Anche tra loro, possibile che non ce ne fosse neanche uno che si fosse alleato con voi? Che non capissero la gravità della situazione? Che i loro cuori fossero avvelenati dall’odio a tal punto da impedirgli di vedere la realtà? Non avresti mai pensato di dirlo, ma non pensavi di aver mai avuto tanta paura in vita tua. Temevi anche tra loro ci fosse il tuo vecchio maestro. Se così fosse stato, non l’avresti sopportato.
Anche se in teoria ti eri addestrato ad Asgard assieme a Surt. Quindi in teoria l’Asgardiano doveva trovarsi nel Valhalla. E, questo pensiero ti tranquillizzò. Ma era anche vero che esistevano Mistoria, Krest e Degel di Aquarius. Combattere contro di loro non ti avrebbe reso affatto felice, sarebbe stato come demolire con le tue stesse mani l’Undicesima Casa e la stirpe da cui discendevi. Sì, consideravi i tuoi predecessori come la tua famiglia d’origine. In quanto tu eri il loro erede. Ogni gesto che facevi, ogni respiro che emettevi serviva a rendere lustro al nome di Aquarius, ma se erano loro a disonorarlo, allora che senso aveva tutto questo?
Ma tu avevi sufficientemente potere per purificare i loro cuori. Almeno lo speravi che ci riuscisse.
Posasti giù la cassa e ti guardasti le mani, preoccupato. Eri arrivato a un punto in cui neanche la brina si scioglieva più a contatto con la tua epidermide, tanto era fredda. A te non sembrava di esserlo, ma agli altri sì. Persino Astrid cercava di toccarti il meno possibile, per evitare di scottarsi. E te ne eri accorto anche te, questa era la ragione per cui te ne restavi sulla soglia della tenda, invece che dormire assieme a loro. La tua presenza li avrebbe congelati.
Questo era un guaio. Che tu stessi diventando davvero un tutt’uno con quel fiume? «Che ti prende?» Ti chiese la voce infastidita dello Specter dell’Arpia. Lo guardasti e lasciasti ricadere la mano lungo il fianco. Essendo l’altro guardiano del Cocito lui al gelo era abituato e, la tua freddezza non gli faceva né caldo né freddo.
«Nulla».
«Non dire cavolate, se c’è una cosa di te che non sopporto è proprio questa, Aquarius: quando hai dei pensieri tendi a chiuderti ancor più in te stesso e fai male. Non che mi freghi, ma se non hai notato, vertiamo in una situazione un attimo più grave dei tuoi problemi personali o qualsiasi cosa ti passi per la testa». Ti rimbrottò adirato.
«Non ho niente».
«Non prendermi in giro. Sono stato preso per i fondelli per secoli, nella penultima Guerra Sacra contro di voi sono stato ammazzato dal mio stesso padrone! Ne ho le tasche piene di essere considerato ancora come un servo! Non sono rinato in una famiglia libera per essere trattato così un’altra volta da qualcuno che non sia il Dio che servo! Quindi adesso sputa il rospo!»
Non eri mai stato bravo a reggere questo tipo di pressioni, perciò ti nascondesti dietro la tua espressione severa e ti limitasti a trapassarlo con gli occhi. «Non ho niente».
«Ah, no?» Poi, ti mollò un pugno che tu prendesti in pieno e crollasti a terra, dolorante. Quando c’era riuscito?  Ti portasti una mano alla guancia mentre ti rialzavi. L’avevi capito che non aveva avuto intenzione malevole nei tuoi confronti, altrimenti avrebbe colpito direttamente il naso, invece dello zigomo.
«Camus!» Vociò Fianna e corse ad aiutarti, ma tu la tranquillizzasti dicendole che stavi bene e che c’eri abituato. Le facesti cenno di andarsene e lei, dapprima non si mosse, ma poi obbedì quando promettesti che l’avresti raggiunta.
Solo allora obbedì.
Ma il gemito di dolore che ti uscì dalla bocca lo sentisti emettere anche a lui. Lo guardasti mentre si massaggiava la mano. Valentine ti guardò a occhi sgranati e, in quelle iridi di solito feroci e diffidenti leggesti il timore: «La tua pelle…» Mormorò osservandoti mentre ti rialzavi e ti spolveravi i vestiti. La guancia avrebbe smesso di fare male di lì a poco, tanto eri freddo, probabilmente non sarebbe saltato fuori neanche il livido. «Già prima eri freddo, ma queste temperature non sono normali neanche per un’Anima Viva, che cosa ti sta succedendo? Ti sei fatto vedere dai medici?» Domandò accigliandosi.
«No, non l’ho fatto».
«Perché no? Hai forse paura dei dottori?» Insinuò. Con tutte le volte in cui in vita vi avevano salvati per miracolo, ormai avevi una fiducia assoluta nei medici.
«Perché qualsiasi cosa sia non potranno aiutarmi!» Esclamasti spaventato. Poi sospirasti e distogliesti il volto, mentre, pugni contratti, gli raccontasti della tua scoperta. Ossia che, da quando avevi combattuto a fianco dell’Azona, da quando avevi chiamato a te il Cocito, la tua pelle si era raggelata ancor di più, degli incubi che agitavano i tuoi sogni, dove diventavi una statua di ghiaccio, dove il tuo Cosmo ti sopraffaceva e portavi una nuova Glaciazione. Dove congelavi tutto a ogni tuo passo. Ti sentisti un cretino nel raccontargli tutto questo.  Avevi sempre sentito che le fiamme consumano, ma non avresti mai pensato che anche il ghiaccio potesse essere altrettanto logorante. «E, il peggio è che ogni giorno mi sento sempre più gelido, come se il sangue dentro di me stesse raffreddandosi. Come se il Cocito mi stesse mangiando dall’interno e non so come fermarlo».  
«Non so neanch’io che cosa sia, non avevo mai sentito prima nulla del genere». Mormorò spaventato. Poteva immaginare che tu fossi forte, ma non immaginavi che lo fossi a tal punto. Tu sapevi che la cosa più giusta da fare per fermarti sarebbe stato morire un’altra volta. Ma adesso ti rifiutavi di credere che fosse l’unica opzione. Non poteva essere, ci doveva essere qualcos’altro.
«Il fuoco». Se ne uscì a un tratto lo Specter che, ritto in piedi davanti a te, aveva continuato a osservarti.
«Cosa?»
«Dentro di te manca il fuoco, il tuo principio di caldo e secco è scomparso, devi riattivarlo». Suggerì indicandoti con una mano. Non l’avevi mai sentito parlare così. Quello roteò gli occhi e te lo spiegò secondo le filosofie orientali. Non pensavi che Valentine nascondesse un bagaglio culturale di un certo spessore. Né che prima di diventare uno Specter studiasse. Non era solo per via della sua forza che era diventato uno dei Guardiani del Cocito più forti, allora. Tu ti vantavi di essere sapiente, ma questo ti batteva. O forse era solo perché parlava con i suoi colleghi durante le pause, che, qualcuno che proveniva dall’oriente c’era.
«Come?»
«Hai bisogno di fuoco, dovresti bere l’acqua del Flegetonte».
«Il fiume delle fiamme? Ma non rischio di bruciarmi gli organi interni e di restare imprigionato qui per sempre, se lo faccio?» Domandasti orripilato. Un conto era la lava del mondo dei Vivi alla quale tutti potevano sopravvivere se si bruciava il Cosmo, come ai suoi tempi fece Defteros di Gemini. 
«No, a quel fiume si sono abbeverati Enea, Orfeo e tutti coloro che per un motivo o per un altro sono scesi negli Inferi, è l’unica cosa commestibile che non comporti la segregazione eterna in queste Prigioni. Noi Specter non sottostiamo a questa legge grazie alla nostra Stella Malefica, ma tu sì». Spiegò in tono duro, contrastante con lo sguardo preoccupato che avevi imparato a riconoscere.
Ti sedesti su una cassa lì vicino. Una delle poche che non avevi ancora portato in magazzino: «Credi che possa essere possibile?» Gli chiedesti.
«Dovrebbe funzionare».  
«Ma il Flegetonte è presidiato dai nemici». Rilevasti.
«E tu ti arrendi per una quisquilia come questa? Questa è bella, Camus di Aquarius, l’uomo dello zero assoluto, il guardiano del Cocito, colui che padroneggia il Settimo Senso e la potenza dei ghiacci, annientato dalla paura». Ti schernì incrociando le braccia. Poi distolse lo sguardo, forse per nascondere la sua espressione e la sua voce ti arrivò un po’più mite e seria, quando ti presentò le due alternative: «Ad ogni modo o così o lasciati diventare un tutt’uno con il ghiaccio».
Il tuo cuore si strinse in una morsa dolorosa per la paura. Dunque il problema si era già aggravato a tal punto?
Lo Specter dell’Arpia se ne andò lasciandoti solo.
Valentine aveva ragione, anche se era una pazzia, dovevi tentare. Ma l’avresti fatto da solo, senza mettere in pericolo nessuno.
Così, quella notte, quando fosti sicuro che tutti dormissero, ti avvolgesti in un mantello nero e uscisti dall’accampamento, eludendo le sentinelle. Però passasti dalle montagne per evitare di lasciare delle orme nella polvere della zona dei Geyser, che avrebbero vanificato i tuoi sforzi e segnalato la posizione del nuovo accampamento. Benché adesso vi aspettaste un assedio degno di tale nome. Dopotutto quanto tempo ci avrebbero messo per scoprirvi?   
Scendesti dalla montagna senza farti scoprire. I sensi all’erta e il cuore che ti batteva fortissimo tra le costole.
Quando arrivasti sulla piana mettesti un piede in fallo e inciampasti. Mentre ti rialzavi ti sentisti apostrofare da una voce. Sussultasti e alzasti la testa di scatto. Dei Black Saint minori ti avevano visto! «Chi sei tu? Che ci fai qui?», «Presto, catturiamolo!»
Ma prima che ci riuscissero una patina semi trasparente cadde attorno a te come una tenda e i tuoi aggressori si pietrificarono. Battesti le palpebre sorpreso e ti rialzasti. Poi, tendesti una mano verso quella barriera che s’increspò, rivelandosi fatta di sottilissime squame romboidali biancastre, piccole come le tessere di un mosaico. Quella di Lady Asia aveva una base tipo cerchio magico verde, ma questa cupola era completamente diversa ancora. «Una tasca temporale». Mormorasti riconoscendola e, ritraesti la mano, confuso.
«Esatto. Non temere, non ti faranno alcunché, l’ho creata apposta per evitare che ti disturbino, ma questo sembra che tu lo sappia già». Ti rassicurò una voce maschile, in tono vellutato, proveniente in alto a destra. Girasti il capo in quella direzione e vedesti il nuovo arrivato.
«Sì, ho già avuto a che fare con una tecnica simile». Rispondesti facendo viaggiare lo sguardo attorno a te per qualche momento.
Il tuo interlocutore continuò a rimirarti, incuriosito. «Tu devi essere il Cavaliere di Aquarius». Costatò. Gli occhi brillanti e, a causa della lontananza era tutto ciò che riuscivi a intravedere di lui. Non dimostrava che una trentina d’anni ed era alto e snello, ma, a vedersi, non sembrava per niente un soldato. La camicia candida e pulita infilata per metà nei pantaloni neri di jeans, lo rendeva incongruo con il paesaggio e il contesto. Avresti pure pensato che fosse un visitatore di un museo, se non fosse per lo scettro dal manico nero che brandiva. Unica arma che aveva con sé, ammesso che fosse un’arma e non un mero oggetto decorativo come sembrava. Non riuscivi a capire che cosa dovesse simboleggiare quella Җ dorata sulla sua sommità.
Tuttavia smettesti di porti domande. Avevi già appurato che gli Azoni non avevano tutto questo bisogno di combattere e spostarsi con indosso la loro Wing, anche se tu non l’avevi mai vista. Perciò non ti scandalizzasti.
La sua pelle scura contrastava con la sua chioma bianca e liscia dalla frangia irregolare che gli cadeva a ciocche sugli occhi, mentre le laterali, gli nascondevano le orecchie. Al collo sottile indossava vari giri di collana d’argento, con gemme d’ambra, ametiste e perle, soprattutto perle tagliate a goccia. Come i suoi orecchini d’ametista più sottili rispetto a quelli di Lady Asia e più stretti.
Poi scese dalla roccia con un tintinnio di gioielli e, tu potesti appurare che il resto dei suoi capelli lunghi fino alla vita, sollevati dal movimento, erano legati in una coda bassa con un laccetto. Ti si fermò davanti, senza violare il tuo spazio vitale e, tu potesti costatare che era alto quanto Saga. La sacralità che l’avvolgeva era talmente forte da farti cadere in ginocchio.
Quando incrociasti i suoi occhi parzialmente eterocromi, avesti la sensazione di essere osservato da una creatura antichissima. Per non dire dal mondo intero, o meglio, era come se avesse il mondo nei suoi occhi. Non avevi mai provato niente di simile prima d’ora. Neanche con Lady Asia, i vostri contatti visivi non erano stati così ravvicinati come con Costui. Eppure, non ti guardò con disprezzo. La sua postura quasi regale, lo scettro che brandiva, la sua sacralità sopraccitata e il modo in cui ti guardava, ti fecero capire chiaramente che costui non era una minaccia. Ma non era neanche umano, non completamente, proprio come Lady Isabel e Lady Asia.
«Non mi aspettavo che avresti davvero seguito il consiglio di Valentine dell’Arpia». Commentò. «Voi chi siete?» Chiedesti quando ti riavesti dalla meraviglia.
«Io sono l’Azone al servizio di Hades, mi chiamo Island Sagide». Si presentò pacato portandosi una mano al petto e inchinandosi leggermente e tu sgranasti gli occhi. Ecco perché ti ricordava molto Lady Asia. E… aspetta, Sagide? Che c’entrava Saga adesso? Era suo figlio? No, non era possibile, secondo la leggenda gli Azoni sono Dèi e Saga non aveva avuto figli quando era in vita. E poi, questo non te lo ricordava né nell’aspetto né nei modi, né in niente. No, doveva essere un caso di omonimia, almeno lo sperasti. Lui parve intuire il tuo disagio e ti sorrise, rivelando due canini affilati: «Non temete, non ho niente a che vedere con il Santuario, sono figlio della Dea Saga, della Storia e della Poesia». 
«Non immaginavo che esistesse una Dea con questo nome, scusatemi, Signore, ma credevo che Lady Asia fosse l’unica Azona». L’Azone ti lanciò uno sguardo compassionevole. Salvo poi ricordarti che spesso lei stessa aveva parlato del suo ordine al plurale. Ma questo ci arrivasti molto tempo dopo.
«Oh, Asia non è l’unica Azona in circolazione, è solo la più famosa di noi». Rilevò con tranquillità poi spostò gli occhi sulle tue mani e ti domandò come avessi intenzione di abbeverarti. «A mani nude? Ma così non riuscirai mai a prelevare l’acqua degli Inferi, usa questa». Fece porgendoti un calice di platino che materializzò dal nulla e ti porse. «É fatto di una lega speciale che non si scioglierà a contatto con le acque del Fiume dei Matricidi e dei Parricidi». Illustrò mentre tu lo prendevi.  Lo osservasti e poi guardasti lui. «Perché mi aiutate?» Chiedesti diffidente, in una passabile imitazione di Valentine. Alla fine lo Specter ti aveva passato qualcosa. 
«Di norma non dovrei impicciarmi con il lavoro di mia sorella, tu appartieni alla Sua Storia, non alla Mia, anche se spesso i nostri destini si sono intrecciati. Ma tu, Aquarius del XX secolo, per un certo periodo di tempo sei stato uno Specter, hai vestito la Surplice dell’Acquario e, per quelle dodici ore ho sorvegliato anche te. É per via di quel ricordo che mi sono persuaso a intervenire, considerandoti come uno Specter, invece che come un Gold Saint. Inconsciamente sai di essere ancora legato a questo posto, anche se lo temi. Non devi avere paura, sei tra quei pochi che hanno danzato sul confine, senza tuttavia perdere sé stessi; questo atteggiamento ti ha permesso di conquistarti la fiducia del Fiume dei Deicidi. Ciò ti fa onore e non fa che accrescere la tua importanza e la mia ammirazione. Ma voglio che tu sappia una cosa: sei più importante di quanto pensi, solo che non te ne sei mai accorto. Chissà, forse così aprirai finalmente gli occhi e prenderai coscienza del tuo posto nella Storia». Rivelò con un sorriso paterno.  
T’inchinasti, incerto e lo ringraziasti.
«Su, andiamo, questa tasca temporale ti proteggerà».
Ti accompagnò fino alle rive del Flegetonte e tu quasi ti sentisti sciogliere a contatto con questo calore. Anche se fu solo un secondo che la tua temperatura corporea si abbassò di nuovo e, anche così riuscisti a emettere fiato condensato dalla bocca socchiusa. Era la prima volta che osservavi questo fiume e, tutto ti saresti aspettato, fuorché la lava. Il Flegetonte era un fiume di lava. Non l’avevi visto bene prima perché non ti era interessato e, non ti eri neanche sporto dal galeone per osservarlo. Avevi visto che era denso, ma non immaginavi che fosse per questo. 
Immergesti il calice nella lava, stando attento a non toccarla e poi, prendendo coraggio, bevesti.
Subito la tua lingua e la tua gola si scottarono e furono pervase da una sensazione di salato come non ne avevi mai sentiti prima. Talmente salato che cancellò ogni altro sapore dalla tua bocca. Mentre i reni andavano a fuoco come sterpaglia, costringendoti a piegarti su te stesso e gemere di dolore con gli occhi lacrimanti. I capelli ben fermi dietro il mantello.
Ma fu solo per poco che passò, lasciandoti boccheggiante come se tu avessi dovuto sopportare la tortura più dolorosa della tua vita, mentre il ghiaccio dentro di te si scioglieva. «Non preoccuparti, è sempre così. Ogni due settimane però dovrai tornare qui ed io sarò qui ad aspettarti finché il pericolo non sarà cessato». Ti promise. Poi ti riaccompagnò all’accampamento e svanì poco prima che tu entrassi.
Anche se il problema era leggermente migliorato, il freddo non se ne era andato del tutto. Come appurasti il giorno seguente quando ti svegliasti e ti recasti dai cuochi per la tua razione. Il tuo problema non era soltanto a livello fisico come credevi. A un tratto avesti un’idea: e se il problema fosse nel tuo Cosmo? C’era ancora una persona che non avevi consultato. E l’andasti a cercare. La trovasti che stava mangiando la sua zuppa in compagnia di Menta e dei ragazzini superstiti. Appena li vedesti lì per lì avesti i sensi di colpa. Con tutti i guai che erano successi non avevi più pensato a loro.
Le parlasti del tuo problema in privato. Lei ti ascoltò attentamente prima di proferire: «Bè, secondo me può dipendere da un altro fattore».
«Ossia?»
«La tua costellazione».
«Stai dicendo che potrebbe essere un problema legato al Cosmo?» Chiedesti sorpreso inarcando un sopracciglio biforcuto. Non aveva tutti i torti, visto che disponevi di tutto un arsenale di tecniche cosmiche legate al ghiaccio.
«Potrebbe. L’Aquario è sì una costellazione raffigurante Ganimede nell’atto di versare acqua e un segno legato a questo elemento, ma tu padroneggi il ghiaccio, perché nello spazio non c’è abbastanza caldo per permettere all’acqua di essere tale. Tutto congela nello spazio. Poi ho anche avuto una vaga idea riguardo ai tuoi capelli».
Ti accigliasti: «Che hanno i miei capelli?» Eppure eri stato molto attento sulle rive del Flegetonte.
«Niente, ma sono rossi». Rilevò, facendoti inarcare un sopracciglio come a dire: “embè?” «E allora? C’è qualche problema?» Domandasti, memore di tutte le volte che eri stato evitato a causa del colore della tua chioma, per via della superstizione popolare. «No, è che mi ricorda il contrasto tra certi tipi di stelle e la loro temperatura. Mi sono ricordata delle stelle rosse, tu padroneggi il ghiaccio, perché le stelle rosse sono tra le più fredde che puoi trovare nello spazio».
Questa non la sapevi, ma l’idea ti divideva tra il “che cosa diavolo stai a dire” e il “e se ci fosse qualcosa di vero?” «Vuoi dire che io sarei come una stella rossa?»
«Precisamente». Sorrise. “Ammettiamo per un secondo che lo stia diventando” «come posso fare per evitare di diventarlo completamente?»
Il suo sorriso si afflosciò e tornò seria: «Questo temo che lo possa sapere soltanto tu».
«D’accordo e, mi spiegheresti che cosa significava quel discorso strano sul mio aspetto e la mia costellazione?»
«Oh, una teoria che ho sviluppato qualche settimana fa, credo che fossero settimane…» E te la raccontò, lasciandoti di sasso. Non avevi mai interpretato le Dodici Case a questo modo, né, avevi mai visto te stesso come una metafora di qualcos’altro. Né che la tua Casa fosse interpretabile astrologicamente, in realtà. Quel discorso era inquietante e affascinante insieme, poiché stava a significare che in un certo senso il Santuario era più facile da interpretare di quanto sembrasse e che voi non eravate reali. Eppure eri fatto di carne e sangue, tu respiravi, tu pensavi: cogito ergo sum, penso dunque sono. I personaggi di un libro non formuleranno mai pensieri diversi rispetto a quelli che l’autore fornisce loro. Mentre voi sì. Voi pensavate, voi eravate.
«Non dico che non siete, o meglio non siamo reali, lo siamo eccome, altrimenti tu non esisteresti, ma penso che sia una storia che qualcuno racconta a qualcun altro e noi siamo al tempo stesso, personaggi di quella storia ed emanazioni della realtà che ci circonda. Non l’avrei mai pensato, in realtà, se non fossi mai diventata pagana».
«Pagana? Pensavo che fosse per via di quello che mi hai raccontato».
«Anche, ma credo che sia cominciato tutto quando ho scelto di credere a qualcosa di diverso». Ti rivelò dopo aver inghiottito l’ultima cucchiaiata. «In ogni caso, credo che ci sia ancora qualcosa che mi sfugge».
«A proposito di che?»
«A proposito dei cinque sensi e a proposito delle battaglie e di tutto quello che sta succedendo».    
«Per esempio?»
«Perché le Surplici degli Specter hanno queste forme? E, soprattutto, perché esiste uno Specter della Farfalla?» Chiese lei.
«Ah, ma è facile, perché…» Facesti per continuare ma ti rendesti conto di non avere risposte da darle. In realtà non ce le avevi proprio, per te era una cosa normale, ormai, come il fatto che avevi gli occhi rossi. Ma veramente, non avevi mai pensato al perché esistesse uno Specter della Farfalla.
«Tu credi che anche lui abbia qualcosa a che vedere con questa storia?»
«Perché lo pensi?» Chiese lei battendo le palpebre un momento.
«Mi era sembrato che stessi per dirlo».
«No, in realtà è una cosa che mi sta arrovellando il cervello da un po’».
«Non so quanto ti convenga pensarlo, potrebbe essere una pista a vuoto, anche se ammetto che sono interrogativi interessati. Io, per esempio, non ci avevo mai pensato prima, grazie per la chiacchierata, Astrid». Poi, facendo leva su una mano ti alzasti e lei ti seguì con lo sguardo.
«Vai già via?»
«Sì, devo andare a conferire con i Celti, dobbiamo studiare un piano d’attacco». Lei si rattristò, le piaceva chiacchierare con te. Anche tu eri dispiaciuto di lasciarla, ma il tuo dovere ti chiamava. Era un peccato che non avesse completato l’addestramento, se no avrebbe potuto fare molto di più.
«Tornerò a trovarti più tardi alla tenda dei ragazzini, chissà, magari così continueremo la discussione».
«Sarebbe fantastico». Se ne uscì.  Poi la salutasti e, dopo aver messo la tua ciotola nella tinozza degli Skeleton che si occupavano della manutenzione e delle pulizie, raggiungesti i Celti.  La riunione durò per tutto il pomeriggio e, potesti liberarti solo per cena. E, allora, tornasti alla tenda dove ti aspettava la tua famiglia allargata. Cena che consumaste tra una chiacchierata e l’altra. Isaak trovò affascinanti le teorie di Astrid, mentre lo Specter, se dapprima ridacchiò, poi s’interessò, soprattutto quando manifestò curiosità sulla Stella Malefica e le Surplici. E, i suoi occhi lanciarono uno sguardo di cupidigia alla ragazza, che se ne accorse. Ma voialtri rimetteste in riga l’ambizioso Specter.
Subito dopo cena, uno Skeleton fu mandato a chiamarti. Lady Pandora desiderava vederti. Anche se un po’perplesso ti alzasti dalle stuoie, accompagnato dagli sguardi di Astrid, Isaak, Fianna e i ragazzini e andasti. Mentre camminavi per l’accampamento illuminato dai focolai e animato dal vociare dei soldati e dei civili che cercavano di smorzare la tensione come potevano, ti accorgesti che c’era qualcosa che non ti tornava.
Poi, nei pressi del nuovo Padiglione della Giudecca ci arrivasti: al nome di Pandora, ti era parso che Astrid si fosse rabbuiata. Bè, era naturale, era la migliore amica della sua defunta madre. Non sapevi quanto fosse stato profondo il loro rapporto prima del lutto, ma non doveva essere facile. In realtà non ti scandalizzavi neanche troppo per le parentele di Astrid, non era certo la prima Saint famosa per essere il discendete di uno Specter; anche Tenma di Pegasus era figlio di uno della schiera di Hades. E, in un certo senso aveva un legame con la Pandora del Millesettecento.
Non era importante l’origine, ma ciò che si sceglieva di essere, Astrid aveva scelto di essere una Saint e tanto ti bastava.  
Una volta dentro la tenda della Giudecca, t’inginocchiasti al cospetto della sorella terrena di Hades.
«Mi avete fatto chiamare, milady?» Domandasti rispettoso, cercando di non fare caso a quanto anche lei fosse sconfortata. Come se avesse potuto esprimersi tramite il vestiario, notasti che erano più chiari di quelli che ricordavi. Sicuramente si era fatta prestare una tunica da una delle Sacerdotesse di Lady Niniane, perché l’azzurro polvere non le stava molto bene. La faceva solo sembrare più smorta.
Era semisdraiata sul tavolo di legno al Padiglione della Giudecca, decisamente più piccolo, disadorno e spartano del precedente, intrecciato con delle canne. I Celti avevano fornito nuova mobilia e abiti, oltre che cure, ai feriti e al resto dell’esercito che si era salvato Come se si fosse addormentata sulle assi, o stesse piangendo. I gomiti sul tavolo, le braccia incrociate e, probabilmente, fino a pochi minuti fa, anche la testa era poggiata sulle medesime. Quando alzò la testa per guardarti restasti sorpreso dai suoi occhi rossi di pianto e dalle borse sotto gli occhi. Davanti a te non c’era la luogotenente di Hades, ma una donna distrutta e sopraffatta dal fallimento. Per la prima volta la vedevi così e ne restasti abbastanza turbato. Nonostante tutte le premure del popolo che ti aveva accolto, per quella faccia sofferente non c’era cura. Persino i Giudici Infernali si erano dovuti adattare, però, per quanto gli bruciasse, non se ne lamentavano. Aiacos preferiva restare sul suo galeone, che era riuscito a salvare. Adesso lo stava riparando aiutato dai suoi sottoposti. Ma si notava che era amareggiato. Tra tutti gli smacchi subiti durante le Guerre Sacre, questo doveva essere di gran lunga il peggiore.
Per la prima volta fosti consapevole di tutti i suoi fallimenti e il peso della sconfitta sulle sue spalle. L’ennesima dopo tutte le Guerre Sacre perse nel corso dei secoli. Se c’era qualcuno che conosceva bene il peso della sconfitta, quella era proprio lei. La cosa sorprendente era che però fosse ancora in piedi e pronta a combattere ancora e ancora e a perdere ancora una volta. Per la prima volta, anche tu ti trovavi dalla parte dei perdenti, per tua scelta. Non era una bella sensazione, vero?
Se ripensavi a quel giorno provavi ancora paura. Non solo perché era ancora relativamente vicino, ma perché non avevi mai visto tanta ferocia, neanche nelle Guerre Sacre. Persino tu avevi tremato di fronte ai fantasmi e alle anime dei Black Saint del passato e dei Saint delle costellazioni estinte loro alleati, assieme a parte dei nemici del Santuario e altre anime avide di potere, anche civili.
Attorno a lei c’erano delle Velate pronte a servirla e degli Skeleton, pronti a difenderla. Ma sembrava che la sua luce si fosse smorzata a causa dell’attacco a sorpresa. Per un momento ti fece pena. Però non riuscivi a impedirti di comprenderla. Tutti i suoi sforzi erano andati in fumo e lei non ne faceva mistero. Come se per troppo tempo avesse portato quella maschera e ora si fosse resa conto che non era servito a niente. Adesso che anche tu eri a conoscenza del suo lato umano, che sapevi per cosa combatteva, non potevi che sentirti solidale e di provare una certa familiarità con lei. Ovvio che avevi fatto due più due e avevi capito, dalle parole di Astrid e da quelle della Sacerdotessa, che c’era un legame. Ovvio anche che, per quanto le due tentassero di nasconderlo, c’era un legame tra loro. Un legame che si era però allentato a causa della morte di Aida. E, ti dispiaceva moltissimo. Ma non potevi fare niente per lenire questa sofferenza; erano affari loro e tu non ti sentivi di doverci mettere becco.
Certo che lì per lì ti eri sorpreso che ti fosse stata affidata la collaborazione della nipote della luogotenente di Hades, però Astrid era talmente diversa che era stato facile scenderci a patti e scordarsene. Anche il fatto che fosse un’apprendista Saint aveva aiutato molto.  
La donna ti fece cenno di sederti davanti a lei: «Sì, prego, accomodatevi, Aquarius, prendete un cuscino e sedete con me, mi dispiace non potervi offrire niente di meglio».
«Non fa niente». Rispondesti mentre ti mettevi seduto a gambe incrociate sul cuscino davanti al tavolo. «Qualcosa da bere?» Ti chiese cortese e tu decidesti di accettare un po’di tè. Almeno i rifornimenti dal Regno dei Vivi vi arrivavano di nuovo, anche se avevate dovuto attendere tre giorni prima di poter mangiare di nuovo, avevi aiutato a sistemarli tu. Nel frattempo vi eravate dovuti razionare quello che avevate già portato qui. 
«Una tazza di tè andrà benissimo». Ribattesti, sia per cortesia, sia per alleviare in qualche modo la sua pena. Cominciavi a pensare che fosse colpa di qualcosa che avevi in faccia, perché ogni volta che c’era qualcosa di grave lei volesse vedere te invece dei suoi sottoposti. Dato che anche i suoi Giganti Infernali erano soldati.
«Ci volete anche qualcos’altro, un po’di miele, zucchero, zenzero, un velo di latte?» S’informò e tu accettasti di aggiungerci un velo di latte. La Sacerdotessa dette le disposizioni alle Velate, che si prepararono a eseguire e vi servirono. Poi lei ordinò loro di ritirarsi con un cenno delicato quanto elegante. Si vedeva che discendeva da una famiglia nobile: «Mi dispiace non potervi offrire anche dei dolcetti». Si scusò lei, in tono gentile, mentre vi servivate.
«Non importa».
La donna si portò la tazza alle labbra e soffiò per raffreddarla. Poi ti disse per quale motivo ti avesse convocato: «Vi ho chiamato qui per parlare di un argomento che mi preme molto e vorrei il vostro sincero parere sulla faccenda».
«Ditemi pure». Dicesti, sperando che non si trattasse di Astrid. In quel caso avresti declinato.
«Vorrei che mi parlaste della Battaglia delle Dodici Case e di come si è svolta».
Quella richiesta fu talmente inaspettata che rischiasti di strozzarti con il tè: «Scusatemi?» Domandasti, sperando di aver capito male.
«Oh, non fingete di non aver capito, sapete bene quanto me a cosa mi riferisco, vorrei che me ne parlaste».
«Ma mia Signora, io non posso, questi sono segreti del mio Santuario che non posso assolutamente condividere con chicchessia, né mi sognerei mai di chiedervi di rivelarmi i segreti dell’Oltretomba che voi certamente costudite».   
«D’accordo, allora sarò più chiara, non voglio sapere come si è svolta, voglio sapere che cosa ha portato allo scontro tra Atena e l’Usurpatore, non vi preoccupate di come lo so, lo so e basta che è successo qualcosa, ma vorrei sapere cosa».
Così tu le raccontasti della lettera che era giunta al Santuario, direttamente dal Giappone, mandata da colei che credevate fosse la falsa Atena e, delle vostre convocazioni. La luogotenente di Hades assottigliò gli occhi e commentò: «Quindi è partito tutto da una lettera». Confermasti e lei parve rianimarsi, ti ringraziò. «Dovrei parlare più spesso con voi, mi date delle buone idee, finite il vostro tè e poi tornate alle vostre mansioni». Ordinò poi e tu, perplesso, obbedisti, portandoti la tazza alle labbra.
Ma cosa aveva intenzione di fare? Con questi interrogativi tornasti alla tua tenda. Ma il momento di parlare era finito. A parte il messaggio che ti riferì Valentine per cui tu avresti dovuto partecipare alla riunione degli Specter di domani. L’atmosfera non si ricostruiva neanche a pagarla, perciò alla fine, vi addormentaste. Che tanto l’indomani avresti avuto da fare.

Quella notte sognasti di nuovo la scalata dei Bronze alle Dodici Case e ti svegliasti quando Hyoga sferrò l’Aurora Execution. Ti ci volle un po’per realizzare che era solo un incubo. Ti guardasti attorno e vedesti Astrid riprendere a pettinarsi i capelli con un pettine d’osso. I suoi occhi gialli ti guardavano spaventati: «Tutto a posto?» Ti chiese mettendo giù il pettine, per cominciare a indossare i pezzi della Surplice che si era costruita.
«Sì, va tutto bene».
«Bene».
«Cosa stai facendo?» Le chiedesti notando che stava appuntandosi anche un pugnale alla cintura d’oro che le cingeva la vita. Cinta e pugnale che, francamente non avevi mai visto. Poi lasciò ricadere il tessuto nero del suo vestito sulle gambe, nascondendo la coscia sinistra scoperta e la destra protetta quasi fino alle anche dall’armatura. Le caviglie erano fasciate dalle cavigliere, i cui pezzi risalivano in modo scomposto fino a metà polpaccio. Le ginocchia protette da ginocchiere romboidali. Al braccio sinistro indossava il bracciale di Eris e l’avambraccio era protetto dal bracciale e dalla fascia di Surplice che le copriva fino al gomito. La differenza era che indossava anche un braccialetto sul bicipite. Al collo un collare ricavato da un’altra Surplice e la parure a orecchio di drago proteggeva la destra del suo capo. Alla fine si era fatta fare i buchi mancanti alle orecchie. A giudicare da come si muoveva sembrava più leggera di quanto ti aspettassi. Mentre al sinistro un sottile orecchino d’oro a cerchio, come a controbilanciare la parure. Ovvio che aveva ripulito e disinfettato tutto per arrivare a questi risultati. Ma ancora una volta ti domandasti dove li avesse trovati.  
«Che stai facendo?» Domandasti ad Astrid, notando che stava aggiustandosi il cosciale destro.
«Vengo anch’io».
«Ad allenarti?»
«No, a conferire con i Giudici Infernali, Violate è passata poco fa e mi ha detto che vogliono vedere anche me alla riunione di stamani». Spiegò alzandosi, poi uscì dalla tenda dopo averti detto che ti aspettava a mensa.
Stava scherzando? No, perché era impossibile. E se era uno scherzo era veramente di pessimo gusto.
Dopo colazione vi presentaste al Padiglione della Viverna. Non eri l’unico a essere stato convocato. Assieme ai tre Giudici Infernali erano presenti anche gli altri Guardiani dei Fiumi degli Inferi, tra cui una rappresentante dello Stige. Una Ninfa alta dalla chioma bionda, lunghissima e liscia, con gli occhi verdi. Li avevi visti qualche volta, ma non ci avevi mai parlato prima. Neanche con le loro controparti. Per esempio, il Guardiano del Lete sembrava una fotografia sbiadita ai tuoi occhi, non riuscivi neanche a capire se fosse uomo o donna. Mentre il Guardiano del Flegetonte era uno Spirito del Fuoco, lo capivi dalle basse lingue di fuoco che danzavano sul suo corpo arrossato.
Ma le reazioni quando registrarono la presenza di Astrid furono impagabili.
«Che ci fa lei qui?» Domandò Minos, in tono più pacato del ruggito che uscì dalla gola della Viverna, subito seguito dal rumore dei suoi palmi che si abbatterono sul tavolo. Aiacos sorrise divertito e buttò giù le gambe accavallate dal tavolo per spiegare che mi aveva invitato lui stesso. «Sei impazzito, Aiacos?» Domandò Rhadamantys, fulminandolo con gli occhi.
«Al contrario, non sono mai stato più serio di così, la signorina av Stjernene può esserci utile, adesso non è più uno scontro pari, dobbiamo recuperare il terreno perduto e, dobbiamo tentare il tutto e per tutto, mi sembra giusto che lei scenda in campo insieme a noi». Rispose serafico.
«Tu sei folle! La Somma Pandora ha ordinato che dovesse restare al sicuro all’accampamento!»
Sbraitò Rhadamantys e il colorito della sua faccia virò sul rosso.
Lo Specter di Caronte borbottò che per lui la mia presenza era indifferente, il suo lavoro era più importante, ma nessuno lo ascoltò.
«Ehi, calma, calma, non c’è bisogno di scannarsi adesso, risparmiatevi per il campo di battaglia!» Li bloccò Minos, frapponendosi tra i due e cercando di separarli puntando una mano sul petto di ciascuno e spingendoli indietro. Riuscendoci a malapena. Mentre lo faceva continuò a parlare: «La sua presenza non piace neanche a me, ma se Aiacos ritiene che anche lei sia necessaria, allora dobbiamo accettarla, anche se non ne capisco il motivo».
«É molto semplice signori, voglio che costei combatta, ha il potere e le carte in regola per battere quei miserabili in un colpo solo. Ma non può farlo se non la coinvolgiamo. Inoltre ho già avuto modo di misurarmi con lei e ritengo che possa essere molto utile, se la useremo bene».
«Cosa?» Sbraitasti a tua volta, in coro con Rhadamantys, mentre non ti fu dato di vedere gli occhi di Minos, perché nascosti dalla folta zazzera canuta. La Viverna sbraitò: «Ti ha dato di volta il cervello? Quella non è una guerriera, è solo una scansafatiche piantagrane! Ci sarà solo d’intralcio in battaglia!»
E la sua voce venne sovrastata da quella di Astrid, furibonda: «Ehi, intanto sono una persona e poi chi ti ha detto che io voglia accettare la tua proposta?» Incrociò le braccia con aria indispettita. «Nessuno ha chiesto il tuo parere!» Sbraitò Rhadamantys girando la testa di scatto verso di lei, che socchiuse la bocca e assottigliò gli occhi come a dire: “come osi?”
«Ehi, calmatevi, calmatevi tutti!» Si aggiunse la Ninfa Stigia che rappresentava il suo Fiume e tutti e tre tacquero istantaneamente, guardandola con un vago timore reverenziale misto all’ira.
«Sentite, sono venuta qui per partecipare a un convegno molto importante, non per assistere a una rissa da bar perché non vi sopportate. Non so se ve ne siete accorti, ma rischiamo tutti di essere ammazzati da un momento all’altro e io non vorrei essere tra i morti se quel momento dovesse arrivare. Per cui vediamo di cominciare a parlare di affari, altrimenti potete sognarvi il sostegno dello Stige e degli altri Guardiani dei Fiumi Infernali». I due Guardiani del fiume Lete e del Flegetonte annuirono, sottolineando così le parole della Ninfa. Gli unici che si discostavano da questo pensiero eravate tu, Valentine, lo Specter di Caronte e Flegiàs del Licaone. Comunque troppo pochi per fare qualcosa in concreto. E, in questi tempi avevate bisogno di tutti, nessuno escluso. Compresa la Luce Ombrosa.
«Osereste voltare le spalle ad Hades?»
«Ad Hades no, ma possiamo non combattere e lasciare che moriate tutti, tanto, la forza dei Fiumi da sola sarebbe sufficiente per soverchiare l’egemonia dell’usurpatore, se tutto andasse male». Sorrise la Ninfa con l’aria di chi ha il coltello dalla parte del manico. Dalla faccia che fece Rhadamantys capiste quanto fossero fragili queste alleanze.
«Aliena ha ragione». Interloquì il Guardiano del Flegetonte muovendosi leggermente in avanti.
«E se questa riunione non ci sarà, non v’è alcuna ragione per continuare a sostenere gli Inferi». Si aggiunse la voce eterea ma imperiosa del Guardiano del Lete.
I tre Specter si dettero una calmata e si scusarono con gli altri.  
Durante la riunione preparaste le truppe e i piani d’attacco. Ma, vi rendeste presto conto che nessuno di questi piani prevedeva l’aiuto di Astrid, la quale, adesso cominciava a chiedersi cosa c’entrasse. Lo vedevi dalla sua espressione confusa. A fine riunione lei cercò di prendere parola e ricordò ai tre - che sembravano essersi scordati di lei - di averla chiamata. «Perché devo sapere queste cose se non servo?» Chiese ritraendo la mano che aveva teso verso le cartine, ma un luccichio del suo sguardo t’informò che immaginava già che cosa stessero per dirle. Minos smise di arrotolare le cartine e volse il volto verso Rhadamantys. Aiacos aveva il volto contratto in una smorfia di rabbia.
«Devi scusare Aiacos, ha agito di testa sua, noi abbiamo detto fin da subito che la tua presenza non era né gradita né richiesta, abbiamo perfino indetto una votazione prima di cominciare questa riunione». Le rispose Rhadamantys in tono gelido, beccandosi un’occhiataccia persino da Valentine dell’Arpia.
Astrid guardò Aiacos che fumava di rabbia, ancora assiso sul suo seggio. «Cioè mi avete chiamato per niente?»
«Noi ti abbiamo anche scacciato più volte durante il corso della riunione, ma a quanto pare hai bisogno di sentirti dire le cose in faccia perché tu le intenda chiaramente. Se proprio desideri, possiamo ripetere la stessa votazione con tutti i Guardiani. Quanti a favore dell’entrata della signorina av Stjernene nelle nostre guerre, alzino la mano». Ribatté Minos senza alcuna misericordia, mentre Rhadamantys continuò a tenere le labbra serrate. Aliena e gli altri Guardiani la guardarono con un misto di curiosità, confusione e sorpresa, come se avessero registrato solo in quel momento la sua presenza. Solo Aiacos alzò la mano. Astrid ti guardò come a implorarti, ma tu distogliesti lo sguardo. Chiederti di votare favorevolmente era troppo anche per te, non solo per la marea di problemi che già stava affrontando. «Quanti a favore dell’esclusione della signorina av Stjernene nella lotta, alzino la mano». E, a questo punto, persino tu, alzasti la mano. 
Le mani poi si abbassarono.
«Mi sembra che la decisione sia già stata presa, è tutto signori, siete congedati». Concluse Rhadamantys.
«Bene, è stata una totale perdita di tempo a quanto pare, i miei ossequi». Fece Astrid con una riverenza derisoria, prima di andarsene. A quel punto te ne andasti anche tu insieme agli altri Guardiani, lasciando da soli i tre Giudici Infernali.
Quel pomeriggio dopo pranzo, andasti a cercare Astrid. Avevi ancora i sensi di colpa per non averla supportata, ma doveva capire che questa era una guerra. Non un gioco. Tu avevi agito anche nel suo interesse. Quello che ti preoccupava davvero era che non arrivasse a capirlo.
Gira che ti gira, arrivasti all’albero dove le lavandaie appendevano i vestiti e, lì, vedesti Aiacos congedarsi da Astrid.
La raggiungesti mentre lo Specter si allontanava, incurante della tua presenza: «Camus». Ti salutò sorpresa lei, ancora appoggiata al tronco dell’albero, le braccia ancora conserte e un piede appoggiato alla corteccia. Le chiedesti dove fosse stata, che l’avevi cercata dappertutto e lei ti rispose con un’alzata di spalle e un’occhiata confusa, che era sempre stata qui. A prendersi cura del mughetto bianco che aveva messo radici. Ti indicò i germogli asserendo che fino a poco tempo prima non c’erano. Non capisti a cosa ti servisse quest’informazione, anche se un angolo della tua mente parve riconoscerli: “Io ho già visto quei fiori, ma non ricordo dove”.  «A volte cerco dei posti vicini all’acqua per scaricarmi, mi rilassa, è come se lo scorrere dell’acqua portasse via anche i miei pensieri». Ti rivelò, tornando a rivolgere lo sguardo al ruscello, poi ti guardò di nuovo e ti chiese perché la stessi cercando. 
«Volevo scusarmi con te e spiegarti le ragioni per cui ritengo che tu non debba partecipare a questa guerra».
«E, magari, sperare di farmi ragionare in caso di ottusità come sicuramente ti aspetti. É tutto a posto Camus, posso anche capirlo e, non ho intenzione di dare di matto solo perché non vogliono che combatta. A dir la verità ne sarei entusiasta, però sento di non poter lasciare che finisca così. Sono l’unica cosa che tiene a bada le Creature e quelli neanche l’hanno capito. Questa ormai non è più solo la loro Guerra, è anche la mia, io so di avere il potere, tutto per sconfiggere quei balordi, ma non posso usarlo né provarlo se continuano a tenermi intrappolata qui». Fece poi, sempre più irritata, sciogliendo la stretta delle sue braccia di scatto. La voce sempre più simile a un ringhio di rabbia.
«Che cosa ti ha detto Aiacos?» Chiedesti.
«Mi ha offerto una scappatoia al veto di Rhadamantys e Minos, mi ha proposto di diventare la sua Seconda Ala». Rispose lei con aria scocciata. I pugni contratti. Tu strabuzzasti gli occhi orripilato.
«Ma non puoi, tu sei una Saint». Protestasti.
Lei non rispose e tu lo prendesti come un assenso. «Ma se fosse l’unica occasione che ho per rendermi veramente utile?» Mormorò guardando il ruscello che scorreva davanti ai suoi piedi.
«Non sarà l’unica, ce ne saranno sicuramente altre, vedrai».  La rassicurasti posandole una mano sulla spalla.
«Sì forse hai ragione».
«Su, ora torniamo dagli altri».
«Vai prima tu, io voglio restare un po’da sola». Scostasti la tua mano dalla sua spalla e mormorasti un mite: «D’accordo». Forse non era il caso di continuare a girare il coltello nella piaga, anche se non era la tua intenzione. Probabilmente lei la vedeva così.  
 
La mattina dopo ti alzasti di buon’ora e cominciasti a prepararti assieme al resto dell’esercito. Ti dispiaceva ancora per Astrid. Non aveva spiccicato parola per il resto della cena, quando era tornata.
Ti sarebbe anche piaciuto salutarla ma lei era ancora girata su un fianco e dormiva profondamente. Oggi sarebbe stato il giorno del vostro contrattacco. Subito dopo mangiato raggiungesti il luogo di ritrovo delle truppe, dove Aiacos stava tenendo un discorso sul coraggio e sulla vendetta, mentre Pandora, scettro di Hades in pugno, osservava con aria grave e solenne le truppe.
I tamburi rullanti facevano da sottofondo alle parole del carismatico Garuda. 
Poi, anche tu, come molti altri, salisti sul Galeone dell’Ammiraglio degli Inferi. «Molliamo gli ormeggi?» Chiese Violate al suo superiore.
«Non ancora».
«Signore?»
«Ancora cinque minuti». Ribatté appoggiato al timone, lanciando lo sguardo sulle rive del letto asciutto sottostante. Ti accigliasti. Cosa stava aspettando? Di sicuro non Lady Pandora, lei era già a bordo e assisa sullo scranno del ponte di comando.
Tu osservasti lo Specter perplesso. Anche Fianna al tuo fianco manifestò la stessa perplessità. Ti chiese addirittura spiegazioni, ma tu non sapesti come meglio replicare se non scrollando le spalle.
Guardasti il Garuda e, improvvisamente lo vedesti bloccarsi un momento, per poi guardare dritto davanti a sé. Un sorriso compiaciuto prese forma su quella faccia. «Lo sapevo che sarebbe arrivata». Commentò mentre Violate seguiva il suo sguardo, accigliandosi sempre più, se possibile.
Allora anche voi seguiste il loro sguardo e la vedeste.
Astrid si stava facendo largo tra la folla di Specter, Marine e altri alleati. Tutti la guardavano smettendo per un momento di fare ciò che facevano. Lanciandole occhiate sicuramente perplesse.
Dietro di lei, Menta la seguiva con un’espressione preoccupata. Due Specter vicini a una delle rocce del molo naturale dove eravate ormeggiati, smisero di conversare e la guardarono.
«Non avrai davvero intenzione di combattere». Domandò Valentine, indovinando, mentre se ne stava comodamente appoggiato con la schiena a un masso. La tua versione bionda li guardò con astio, lui e Shilfield del Basilisco. «Per di più con quel coltello, ma lo sai almeno usare?» Domandò quest’ultimo con un sorrisetto di scherno. Invece di replicare li fulminò entrambi con un’occhiataccia e riprese la sua strada, avvicinandosi sempre più al galeone del Garuda. L’unico abbastanza folle da prenderla in considerazione come guerriera. Anche se a te l’idea ripugnava moltissimo, non ci potevi fare niente. Se lei custodiva un potere tanto grande, allora era arrivato il momento di usarlo e, questo, lo capivi persino tu. 
Violate volse il volto verso il suo padrone e lo scoprì ghignare divertito. «Lo sapevo che sarebbe venuta». Ti sembrò che dicesse, mentre Astrid e Menta risalivano la passerella e montavano a bordo. «Ben arrivata, Astrid». La salutò lo Specter al timone, vociando così forte che ti parve urlasse. «Devo dedurre che hai preso in considerazione la mia proposta». Continuò poi, mentre Pandora osservava sgomenta la nipote. 
«Qualcosa del genere».
«Benissimo, adesso sì che ci divertiamo». Peccato che fosse troppo arrogante per accorgersi dell’espressione sarcastica della ragazza. Un’espressione che comunicava che non si sarebbe lasciata mettere i piedi in testa.
La quale raggiunse una delle balaustre vicino alla prua e restò lì, in compagnia di Menta. Anche tu e Fianna la raggiungeste e, quando fosti vicino, vedesti che era spaventata. Come se stesse rendendosi effettivamente conto di ciò che stava per fare. Mentre Menta, al suo fianco, le cingeva le spalle con un braccio per supportarla.
«Speravo che saresti rimasta all’accampamento».
«Non ho mai detto che l’avrei fatto, la decisione finale dipendeva da me, è vero, però ho paura, tanta paura». Ammise e ti guardò con occhi talmente spaventati che faticasti per non stringerla a te.
In questo momento non aveva bisogno di sentirsi fare una ramanzina, aveva bisogno di sentirsi una Saint. «Tutti hanno paura alla vigilia della loro prima battaglia. Ma non devi, è la paura che ti permette di essere più reattiva, se non la lasci dominarti. Non devi per forza combattere in prima linea, puoi anche restare sul Galeone se lo vuoi. Non devi dimostrare niente a nessuno e vedrai, andrà tutto bene. Ho fiducia in te, so che riuscirai a fare l’impossibile». Cercasti d’incoraggiarla. Ma forse non avevi neanche capito in che senso avesse paura. Lei ti fece un sorriso speranzoso: 
«Grazie, Camus».
E insieme, voi quattro, restaste in vista dell’accampamento dei Black Saint. Restaste molto sorpresi nel vedere i bastioni neri e le armi che si portavano appresso. Non avevate mai tentato un attacco di questo tipo prima. Né avevi idea di come don Avido fosse riuscito ad ammassare tutti questi materiali per costruirsi quelle torri d’assedio di legno. Ammesso che fossero torri d’assedio. 
«Uomini! All’attacco!» Urlò Aiacos e Violate con un balzo aprì le danze, cogliendo di sorpresa i nemici. I quali non erano preparati a un attacco a sorpresa come questo. Non deste loro tregua neanche per un momento, mettendoli in seria difficoltà. Senza più paura del tocco delle Lacrime di Khalì.  
Anche tu poi, a un tratto balzasti giù dalla nave per guidare i Celti, lasciando Astrid e Menta da sole.
In breve perdesti la cognizione del tempo, lasciando che il Cocito ti prendesse come tuo tramite per uccidere quanti più nemici possibili. Sentivi la sua solenne voce dentro la testa, la tua bocca parlava per esso, come accadeva agli altri Guardiani: «Avete profanato questi sacri lidi, non vi permetto di passare oltre, Cocito Execution». Urlasti reclinando il capo indietro, liberando buona parte dell’immensa potenza del fiume dei Deicidi, che spazzò via buona parte dei nemici che ti si pararono davanti.  
Improvvisamente sentisti un grido belluino ti girasti per vedere un Saint del passato saltarti addosso, cogliendoti alla sprovvista, ma un getto di fiamme lo respinse. Ti girasti e vedesti il Guardiano del Flegetonte affiancarti mentre abbassava il braccio.
«Uniamo le forze!» Propose e tu annuisti. 
«Urlo di Fuoco!», «Cocito Execution!»Urlaste all’unisono e, insieme, sprigionaste il potere dei vostri Fiumi, mentre Valentine e il secondo guardiano del fiume delle Fiamme correvano sull’onda da voi liberata, per sferrare congiuntamente il Greed the Live e un attacco che prese l’aspetto di serpenti di fuoco.
E, questo abbatté una delle torri di legno nero.
Improvvisamente ti ritrovasti immobilizzato abbassasti lo sguardo e sgranasti gli occhi, sorpreso: «Il koliso?» Chiedesti tu mentre gli anelli di brina bianca volteggiavano attorno al tuo corpo. E anche molto potente a giudicare dal fatto che non riuscivi a liberartene.
«Proprio così».  
«Perché combattete contro di noi? Contro i vostri fratelli e sorelle?» Domandò l’ex maestro di Degel di Aquarius, Krest, comparendo davanti a te. Cercasti di liberarti: «Perché i Black Saint sono nostri nemici!»
«Ma potendo scegliere, sono il male minore, niente che non potremmo controllare». Ribatté il tuo predecessore del Millecinquecento, anche se dimostrava appena dodici anni era come Fianna, assolutamente da non sottovalutare.
Neanche tu l’avessi nominata, la ragazzina dai capelli rossi fece la sua comparsa e, con un colpo di lancia, spezzò il koliso, liberandoti, parzialmente. «Fianna!» Esclamasti tu, riconoscendola mentre si parava davanti a te. Purtroppo il colpo non era stato sufficientemente forte per spezzarlo. Aveva invece spezzato la sua lancia, tanto era resistente: «Notevole, conquistarsi la fiducia di un fantasma, il popolo delle nebbie, non sapevo che eri stato accolto tra di loro». Commentò Krest, restando impassibile.  
«Sta lontano da Mago dei Ghiacci». Lo minacciò la giovane estraendo un pugnale dalla cintura.
«Oh, ma io non ho bisogno di avvicinarmi, voglio solo parlare con lui e fargli capire il mio punto di vista». Rispose l’uomo, ma la ragazzina non capì. «No, tu pericoloso, tu stare lontano!» Ribatté ancora in francese e, Krest passò alla stessa lingua, ignorando i richiami che lanciavi alla piccola celta. 
Ma a quel punto anche tu urlasti: «Sommo Krest, non è da voi questo ragionamento! Che ne è stato della fedeltà ad Atena? Il giuramento di non usare mai la cloth per scopi personali? Se i Black Saint l’avranno vinta non ci sarà scampo per nessuno! Torni in sé, Venerabile!» Lo implorasti tu. Non potevi credere che un uomo tanto retto potesse cadere così in basso.
L’uomo scomparve per riapparire dietro la schiena di Fianna, che non aveva neanche percepito il suo spostamento. Con una mano la bloccò, mentre con l’altra prese il tuo mento tra pollice e indice e ti squadrò malinconico: «Mi ricordi molto il mio caro allievo Degel, anche lui un tempo mi supplicò allo stesso modo». Costatò, con malinconia nell’unico occhio scoperto dalla frangia. Poi, il suo sguardo si congelò e si allontanò. «Potrei risparmiarti la vita, ragazzo, se tu ti unirai a noi, lascia perdere le nere schiere, torna con noi, combatti sotto lo stemma di Atena ancora una volta, rendi lustro alla casa di Aquarius. Non voglio farti del male, non sopporterei di combattere contro di te, che sei il mio erede».  
«No, Camus, no! Non ascoltare lui!» Urlò Fianna.
Per quanto quelle parole dette in tono paterno fossero invitanti, la voce di Fianna «No, mi dispiace, non posso farlo, ho già combattuto in nome di un usurpatore, non lo farò una seconda volta».
«Peccato, è stato un piacere conoscerti, erede della mia cloth».  Poi congiunse le mani a pugno e le alzò sopra la sua testa caricando il Cosmo. Ma prima che potesse sferrare il colpo, una serie di luci rosse lo colpirono facendogli sgranare gli occhi e accasciare a terra, urlando per il dolore.
«Non mi sono mai stati simpatici questi piantagrane». Commentò una voce maschile e ti ritrovasti a guardare un altro uomo, con la chioma scura e lo sguardo strafottente. La cosa che ti sorprendeva era di come tu riuscissi a udire bene ogni cosa, nonostante il fragore della guerra e della battaglia che imperversava attorno a voi.
Il koliso che ti imprigionava si dissolse.
«Ma cosa fai, Zaphiri? Sei forse impazzito?» Chiese Krest, rialzandosi a fatica per via del dolore.
«Zaphiri di Scorpio il traditore? Il predecessore di Kardia e di Écarlate di Scorpio?» Chiedesti tu, sgranando gli occhi.
«In persona, adesso andiamo, vi farò strada io». Si presentò costui.  
«Cosa stai facendo, Zaphiri?»
«La cosa giusta che tanto mi avete rimproverato di non aver mai fatto!» Ribatté lui, prima di scagliargli l’Antares Katakaio e spronarvi a correre. «Seguitemi, abbiamo del lavoro da fare!» Urlò poi, al vostro indirizzo. Nei pressi della torre ti istruì: «Io trattengo i miei simili, tu chiama a te il potere del tuo fiume e distruggili!»
Obbedisti e riducesti a brandelli ogni cosa davanti a te. «Bel colpo!» Si complimentò il Cavaliere di Scorpio prima di spronarti a seguirlo ancora.
«Perché lo fai?»
«Perché sono un Saint e ora so dove punta la bussola e, non è nella direzione di Don Avido! Io non sono mai stato un traditore, non per il Santuario, ho del fango da togliere dalla casa di Scorpio, questa è la mia seconda occasiona e non posso lasciarmela sfuggire. Adesso andiamo!» Esclamò l’uomo, determinato.
Collaborando con te e i Guardiani, riusciste a distruggere il loro arsenale. Avevi appena distrutto l’ultima macchina quando ti girasti verso Zaphiri che ti sorrideva. Ma poi il suo sorriso mutò in una smorfia di dolore e sorpresa quando una lama insanguinata gli bucò il petto. «No, Zaphiri!» Urlasti e corresti a soccorrerlo.
Il suo aggressore ritrasse il coltello e lo lasciò cadere a terra, sicché tu vedessi don Avido ripulire la daga deicida con un lembo nero del suo mantello. Ti gettasti in ginocchio accanto al corpo di Zaphiri che cercava di tamponarsi la ferita come meglio poteva. «Te l’avevo detto, Zaphiri, di non tirare troppo la corda, io non sopporto i fallimenti». Lo rimbrottò don Avido con voce incolore mentre tu raccoglievi da terra il corpo del predecessore di Milo e lo supplicavi mentalmente di non morire, di resistere che l’avreste curato. Il quale le labbra insanguinate, ti sorrise: «Mi dispiace»,
«Non parlare o peggiorerai la tua condizione…»
«Lo so, ma, mi dispiace, non sono riuscito a togliere il fango dal nome della mia Casa e dal mio».
«No, no! Non è vero che è infangato, con le tue ultime gesta l’hai già fatto, hai fatto la cosa giusta, tu sei un Gold Saint, il più coraggioso che io abbia mai conosciuto. Vieni con me, per favore, puoi riabilitare il tuo nome, devi parlare con gli archivisti…»
Ma lui ti sorrise, ancora, prendendo la tua mano nella sua: «Grazie, Camus e, scusami, avrei dovuto fare più attenzione, sarei tanto voluto venire con voi», prima di spirare e dissolversi come polvere tra le tue braccia, cloth dorata compresa.
«No, Zaphiri! Zaphiri!» Urlasti, ma lui non c’era più e le tue braccia sostenevano solo il nulla.  
«Patetico». Commentò sprezzante il Black Saint di Ara.
«Non è patetico».
«Come hai detto, scusa?»
«Ho detto che non è patetico». Ripetesti alzando la testa per guardarlo, per trafiggerlo con lo sguardo furioso dei tuoi occhi sanguigni. Ti rialzasti: «Tu sei patetico, la tua campagna è patetica, ma nessun caduto è patetico, se è caduto per fermare te!»
«Stai forse sfidandomi, Aquarius?»
«Sì! Fianna, vai ad aiutare gli altri, a questo qui ci penso io». Ordinasti e la bambina obbedì.
«E sia!» Poi vi scagliaste l’uno contro l’altro.
Stavate combattendo quando lui riuscì a liberarsi di te, mandandoti qualche metro più in là. Ma tu con un salto mortale riusciti a fermarti e rimetterti in posizione. Adesso non ghignava più e ne eri felice.  A te questa lotta non diceva niente, tu eri addestrato per sopportare le Guerre dei Mille Giorni. Don Avido, anche se era un Black Saint aveva la stessa potenza dei Silver anche da morto. Neanche volendo avrebbe mai potuto contrastarti efficacemente.
Stavate per scontrarvi ancora, ma improvvisamente comparvero dei bagliori fosforescenti tutto attorno a voi. “Ci siamo!” Pensasti riconoscendoli. Ma quando ti girasti in direzione di Astrid stentasti a riconoscerla. Aveva un’espressione bestiale dipinta in volto e la stola di una Ninfa Stigia avvolta attorno a un pugno.
Il Cosmo che le vorticava attorno con una forza che non le avevi mai visto prima. «E quella chi è?» Chiese don Avido indispettito.
Per tutta risposta Astrid mosse le braccia lateralmente come se spalancasse una porta e i bagliori si mossero spostando tutti di lato, facendo crollare a terra alleati e nemici con un clangore di metallo e armi che cadono. Accompagnati da urla di sorpresa e gemiti di dolore. Poi, dal cielo, le Lacrime di Khalì fluttuarono verso il basso, verso di voi.
Ma non se ne curò.
«Quella è la Luce Ombrosa!» Esclamasti tu prima di lanciargli il Diamond Dust che lo colpì alla spalla. Ma anche così non mollò la presa sulla daga.
Gli Specter ricevettero una bella sorpresa. E tu, che lo sapevi, che sapevi quanto fosse potente Se quello stolto di Aiacos credeva di averla in pugno, si sbagliava. E, nel mostrarlo, sbalordì persino te, alzando le braccia al cielo chiamando a sé le Lacrime di Khalì, le quali erano già attirate dalla battaglia. Non le avevi mai viste volteggiare a quel modo. Adesso era il momento di dimostrare quanto valessi e non importava lanciarsi subito nella mischia, potevo anche farlo tranquillamente da lì.
Don Avido arretrò tenendosi il braccio ferito con l’altro, guardando sbigottito lo spettacolo: «La Luce Ombrosa? No! È impossibile!»
«Cosa hai intenzione di fare?» Domandasti  invece tu, preoccupato mentre i bagliori scomparivano e lei si bloccava, continuando a tenere le braccia alzate, i palmi rivolti verso l’alto. Continuò a fissare il campo come se aspettasse qualcosa. Le Lacrime nere le volteggiarono attorno un momento prima di lanciarsi nella direzione da lei indicata e mettere in fuga tutti. I quali ignorarono le direttive di don Avido, quando vi rendeste conto che lei poteva intaccare i morti.
Solo che quest’azione costrinse anche te ad arretrare proteggendoti la testa con le braccia. Urlasti il suo nome ma lei non ti sentì. Volse la testa a destra e a sinistra per guardare le Lacrime, la battaglia ridotta a un’eco lontana per lei. Affondò le mani nelle tasche della giacca mentre loro le volteggiavano attorno come un turbine di spettri neri, scaldandola e smuovendo dolcemente la sua chioma.
Un Black Saint si parò davanti a lei urlando: «Cosa credi di fare, pulzella combattiva? Noi siamo spiriti, non puoi fare niente». Per tutta risposta sollevò i polsi incrociati e le sue dita si illuminarono di una luce nera ben diversa da quelle che finora aveva palesato. Aprì le mani a ventaglio e poi gliele scagliai tutte addosso, colpendoli tutti e le Lacrime si mossero quasi in sincrono avventandosi su di loro come squali affamati, disintegrando le luci nere e ustionando pericolosamente questi spiriti.
Poi mosse di nuovo le braccia e le Lacrime di Khalì si alzarono di quota per poi abbassarsi di nuovo e tuffarsi nel terreno seguendo il suo movimento da inginocchiata. Per poi riapparire attraverso la Kagenui che Violate stava usando per mettere in fuga alcuni Black Saint.
Anche lei si spaventò abbastanza quando dall’ombra uscirono invece le Lacrime di Khalì, incendiando ogni cosa e aggredendo i suoi avversari. Altre Creature continuavano a volteggiare attorno alla tua compagna d’arme proteggendola. Poi, ripeté la stessa operazione con il resto degli avversari davanti a sé, che, finora avevano dato tanto filo da torcere.   
Anche don Avido fu costretto alla fuga. Poi, quando la battaglia finì, mandò via le Lacrime.
Alla fine guardò i tre Giudici Infernali, che osservavano la scena da lontano. Avevano cercato di catturare un uccellino, credendo che fosse un innocuo canarino e, si erano ritrovati ad avere a che fare con un uccello rapace dal becco e gli artigli affilati.  
Adesso nessuno rideva più. Se le tribù Celte e Pitte s’inchinarono rispettose al suo passaggio, gli Specter le lanciarono sguardi spaventati e sospettosi. Cominciavi a capire perché finora, non aveva combattuto nel pieno dei suoi poteri.
Si avvicinò allo Specter di Garuda e gli disse qualcosa. Aiacos annuì con un cenno meccanico del capo, la bocca socchiusa. La stessa espressione di muto sconcerto che mostrava anche Violate al suo fianco. Poi se ne andò.
«Perché non hai detto che potevi farlo?» Domandò uno degli Specter più audaci, trovando il coraggio di parlare solo in quel momento. Lei si girò e il vento ti portò le sue parole: «Perché non mi interessava farvelo sapere». Poi trapassò Rhadamantys con un’occhiataccia, accorgendosi che l’uomo la fissava, ritto in piedi  su una rupe poco distante. Anche se ogni sguardo era catalizzato sulla sua persona, lei non se ne curò. Continuò a guardare Rhadamantys finché la Viverna non le dette le spalle e se ne andò via con un balzo. 
La Sacerdotessa degli Inferi rimase lì, invece, a guardarla con un misto di terrore e stupore, una mano che tentennava a raggiungere la bocca, come se fosse indecisa se tapparsela o no. Con l’altra si aggrappava saldamente al tridente. Sembrava quasi che non la riconoscesse. Solo quando anche la nipote la guardò, la sua espressione mutò in una di dispiacere. Poi, chinò il capo e la frangia nascose i suoi occhi, prima di andarsene a sua volta.
Ma non fece che pochi passi che si chinò e aiutò a rialzarsi una malconcia e ferita Menta. Strabuzzasti gli occhi e trattenesti il fiato rumorosamente. Allora era per questo che si era messa in moto e che sembrava tanto feroce. Si passò il braccio della Ninfa Stigia sulle spalle ma la sua serva ricadde pesantemente a terra, priva di sensi. A quel punto Astrid si spaventò e altre Ninfe e qualche Specter si affollarono attorno alle due. Anche tu cercasti di raggiungerle ma Fianna ti bloccò prendendoti una mano e scuotendo il capo.
Purtroppo non potesti che raggiungerle solo dopo e, la trovasti fuori della tenda medica, seduta per terra, con la testa affondata sulle ginocchia.«Astrid». La chiamasti e lei sollevò la faccia per accompagnarti con lo sguardo mentre la raggiungevi e ti accovacciavi accanto a sé, rivelando due occhi ricolmi di preoccupazione. 
«Che cosa è successo?» Domandasti vedendo il suo volto rigato di lacrime e le sclere arrossate.
«Niente, sono solo felice».
«Felice?»
«Sì, sono felice, perché ora non ho più paura. Io ho sconfitto la mia paura».
«Come sta?» Chiese al medico che se ne era occupato, alzandosi in piedi. Tu la imitasti. Il cerusico rispose: «É fuori pericolo, la sua ferita era grave, ma ora si riprenderà. ».
«Posso vederla?» Chiese Astrid in tono mite e preoccupato.
«Prego, ma non fatele fare sforzi eccessivi». Si raccomandò gettandole un’altra occhiata sprezzante.
«Milady?» Articolò Menta, guardandola perplessa. Forse credeva ancora di stare sognando. 
«Ehi.» le sorrise. Non era mai stata più felice di vederla. 
«Cosa… cosa è successo? State… state bene?» Domandò angosciandosi ma la zittì e le raccontò che stava bene e che la battaglia era vinta e le fece le sue scuse, se non fosse stato per la sua disattenzione, probabilmente lei non sarebbe rimasta ferita. «No, Milady, non è colpa vostra». Cominciò la Ninfa ferita e, tu ti sentisti di troppo, con una scusa ti defilasti, augurando buona guarigione alla domestica di Astrid. Poi le lasciasti sole, che si vedeva che avevano bisogno di chiarirsi.

Ovviamente l’impresa non passò affatto inosservata da nessuno degli schieramenti. Se da un lato i Black Saint e gli spiriti loro sostenitori e schiavi si ritirarono, nonostante gli sforzi di Myu, scomparendo come se non fossero mai esistiti, dall’altro, gli Specter e i vostri alleati adesso, guardavano la tua compagna d’arme con timore reverenziale e rispetto per l’impresa della Battaglia dei Geyser. Aiacos di Garuda la prese ancor più in simpatia. Più passava il tempo, più era palese che lui l’avesse scelta come sua Seconda Ala; assieme a Violate avrebbe rappresentato al meglio la forza della sua armata. E, questa prospettiva ti riempiva di orrore. Avevi già prestato servizio come Saint rinato sotto le loro dipendenze e non era stato per niente piacevole. 
Minos e Rhadamantys invece se ne stettero ancor più alla larga.
Quest’impresa parve risvegliare anche la luogotenente di Hades, che, per la prima volta da tempo, la convocò di nuovo.
E, stavolta, Astrid si presentò a lei senza timore, con indosso le protezioni alle gambe e alle braccia, al cuore e le spalle che si era creata. Il coltello appeso alla sottile cintura d’oro con il pendente, faceva il paio con il bracciale, la parure e gli inserti dorati. Sulle spalle aveva drappeggiato il velo di Menta alla maniera dei lemuriani, in onore della sua ancella ricoverata. 
Tutto questo, sembrava darle la forza per non inginocchiarsi al suo cospetto, ma di restare dritta in piedi e di incrociare le braccia.
A differenza tua che ti prostrasti in segno di rispetto.
«Mi riesce ancora difficile conciliare l’immagine che ho di te con quella della comandante degli Specter». Esordì quando foste al cospetto della zia, accanto alla sua arpa. Lei la guardò come se non la riconoscesse. In effetti gliene dovevi rendere atto. «Astrid…» Iniziò ma la nipote l’anticipò, tenendo lo sguardo basso per parlare con una calma contrastante il ribollire del suo Cosmo. Sebbene non fosse neanche manifestato, increspava l’aria come il vapore in certe giornate particolarmente afose. Ed entrambi ve ne eravate accorti.
«Non dire niente». In questo momento non era sua zia, in questo momento si rivolgeva a lei come la Sacerdotessa di Hades sui libri al Santuario. E non era una buona fama quella che l’accompagnava. Era una manipolatrice, non sapeva ancora di quanto fosse superiore a Kanon, ma era della sua stessa risma. Almeno la Storia la dipingeva così e la tua amica, adesso, che era stata messa dinanzi anche a questo suo lato, non sapeva se fosse il caso di fidarsi. Chi le avrebbe garantito che non avrebbe mandato Wimber del Pipistrello o Cube di Durahan ad ammazzarla come cercò di fare con Tenma di Pegasus nella vita precedente? Il suo amore poteva essere una sufficiente garanzia di protezione?
Conciliare questo suo aspetto con i ricordi e l’idea che aveva di lei era molto difficile.
«Per favore, Gold Saint di Aquarius, lasciateci».
Obbedisti, anche se a malincuore. Ti accompagnarono entrambe con lo sguardo finché non scomparisti oltre il lembo della tenda.
Astrid uscì da quella tenda un paio d’ore dopo e ti raccontò tutto quello che era successo da quando te ne eri andato. Ti riferì che solo quando avevi abbandonato il nuovo Padiglione della Giudecca, la zia si era rilassata e si era lasciata andare in un sospiro. Poi aveva detto che non sarebbe dovuta andare così, non sarebbe dovuta andare così. E che sperava che allontanarla dalle battaglie potesse essere sufficiente, invece avrebbe dovuto immaginare che la tua versione femminile non l’avrebbe ascoltata.
«Allora io le ho chiesto, perché avrei dovuto? Come faccio a restare impassibile e a subire passivamente quando tu scendi in campo? Le ho detto che non sono un tesoro di monete e gioielli, zia, io sono una persona, credi di aver perso qualcuno di caro soltanto tu? Le ho chiesto se pensava che fosse sufficiente allontanarmi da lei per reputarmi al sicuro dalla sua maledizione. A quel punto le ho detto che sapevo che cosa succedeva ogni vita alla sua famiglia, ogni volta che il Sommo Hades rinasce. Posso solo provare a immaginare il dolore che tu debba aver provato e, anche in quel caso, non sono sicura di riuscirci appieno. Ma lei mi ha domandato: Cosa c’entra adesso?» E tu annuisti, che questo sbotto l’avevi udito anche tu. Non ricordavi che avesse urlato neanche quando le tendeste la trappola allo scadere delle vostre dodici ore di servizio. 
Astrid s’immobilizzò e la guardò. Poi troncò lì il discorso asserendo che erano cose molto personali e che non si sentiva di riferirtele. Doveva andare a trovare una persona. E, tu dovevi tornare dai Celti e dai Pitti. Anche loro avevano subito molte perdite.    
«Ti vedo più serena». Costatasti sedendoti vicino a lei, quando finì di parlare. Lei si scostò un po’per farti posto e sorrise.
«Lo sono; stai tranquillo, non ti mangerò se mi vieni vicino. Avevo bisogno di sfogarmi, non ce la facevo più a tenermi tutto dentro». Ti guardò, sorridendoti con convinzione. Aveva veramente una faccia sollevata, come se si fosse liberata di un gran peso. Immaginavi che fosse grande, ma non così. Però, era anche vero, che voi Gold potevate fare molto di più così.
Insieme guardaste verso le montagne, dove vi attendeva la vostra prossima battaglia. Una battaglia più mistica di questa ancora.

Shaka
La notizia della sconfitta di Pandora arrivò presto anche a te. E, la scopristi origliando la conversazione di Lady Asia al telefono. Eravate ancora a Trento, seduti al tavolino esterno di un bar quando era squillato e lei l’aveva estratto da una tasca temporale, stile prestigiatore.  Poi si era scusata con te e si era allontanata per rispondere. Peccato solo che potevi sentire molto bene, visto che sapevi ascoltare tramite il Cosmo.
«Cosa? Non è possibile… No, certo che no, accidenti, avrei dovuto prevederlo, no, no, non è colpa tua Enola, lo sappiamo tutti che più sono forti più sono difficili da prevedere. Che cosa c’entra, adesso? Ho capito, ma io sono un’Azona, non un Guardiano. Enola, non farmi incazzare, non sono dell’umore giusto. Lo so che questo è il mio modo di agire e anche l’unico che conosco per vivere. No, non ancora, ma mi sa che ormai non ce ne è uno diverso. Sì, sì, controllate negli archivi, guardate se possiamo ancora fare qualcosa per evitare lo squilibrio, considerate tutte le variabili. Sì, sì, no, non credo che ci sia il Suo zampino dietro, a lui interessa distruggere me, la Storia è solo un di più».

«Spero che la conversazione sia stata abbastanza stimolante per le tue orecchie». Fece lei comparendo davanti a te di botto, con una rapidità tale che credesti che si fosse teletrasportata. Le braccia incrociate e lo sguardo severo. Lo sguardo di chi sa e che non ti lascia scampo. Tu non ti lasciasti impressionare, non avevi niente da nascondere, ma ci tenesti lo stesso a dire la tua: «Non è mia abitudine origliare, vi ho soltanto sentita rispondere».
«E ora vorresti sapere cosa è successo?»
«Se fosse possibile, sì», avevi un brutto presentimento, sentivi gli spiriti inquieti e, i fuochi fatui non erano da meno. Doveva essere successo qualcosa negli Inferi, solo che non capivi che cosa. Ed era questa la cosa che ti angustiava di più. E lei ti accontentò. Tu strabuzzasti gli occhi; era seria? No, non era possibile, gli Inferi non potevano… «Che ne è stato di Camus?» Chiedesti ansioso.
«É vivo, ed è al sicuro, tranquillo».
«Bene».     

«Toglimi una curiosità, tu cosa credi di poter fare tornando negli Inferi? Ti rendi conto che il Rikudō Rinne è totalmente inutile in questi casi? Dove pensi di spedire quegli esseri una volta catturati, spiegamelo». Fece lei, assottigliando gli occhi.
Stavi per ribattere, ma ti fermasti in tempo: le Sei Vie della Trasmigrazione erano fortemente legate all’Aldilà, senza di quello i tuoi colpi non avevano quasi ragione di esistere. Erano un po’ come il Rozan Koryuha di Shiryu di Libra e ti sorprendeva che qualcun altro fosse a conoscenza di questo segreto.   

«Ma devo comunque fare qualcosa». Ribadisti.
«Allora vai e falla». Fece lei, incrociando le braccia, affondando le dita nel tessuto della camicia verde cinabro, in un gesto che tradì tutta la sua preoccupazione. La guardasti sorpreso; ti saresti aspettato qualche cosa in stile Lady Atena, ma non era così. Anzi, ti guardava come a chiederti: “Che aspetti? Vai”. Un po’confusa, a dir la verità, in quanto tu non accennavi a muoverti. Ma a colpirti non era questo era la sua impassibilità. Ti aveva appena riferito una cosa tremenda e non era neanche preoccupata. «C’è qualcosa che vorresti dirmi?» Chiese, cercando di smuoverti.
«Non dite niente?»
«Cosa dovrei dire?»
«Non lo so».
«Siete abituati alla Vostra Dea, lo so, so anche di somigliarle, ma non sono lei, non ti dirò mai torna da me o ritorna vivo, al limite fa attenzione. Se vuoi andare vai pure, io non ti trattengo».  
«Non capisco».
«Cosa non capisci? É semplice». Fece lei, rimettendosi a sedere sulla seggiola bianca e ordinare da bere al barista che si avvicinò.
«Come potete restare impassibile?» Le chiedesti, ma lei ti rispose solo quando il ragazzo se ne fu andato con l’ordinazione. Solo allora lei ti fece cenno di sederti di nuovo e tu, obbedisti in automatico. Solo allora ti domandò: «Ma nei confronti di cosa?»
«Di tutto».
Lei scrollò le spalle: «Non vedo dove sia il problema».

«Ma non v’importa niente del Santuario?» Sbottasti, più umanamente di quanto ti aspettasti.
Lady Asia alzò di nuovo lo sguardo e ti trapassò con gli occhi. L’occhiata gelida che ti lanciò era talmente agghiacciante che non sapevi per quale miracolo non ti tremassero le ginocchia. «Ascoltami bene, Shaka, perché te lo dico adesso e non te lo dico più: io sono un’Azona e sono l’unica cosa che protegge la Dea e il Santuario da minacce molto più grandi di quelle che voi possiate affrontare, minacce come i Guardiani e non ti credere. Quelli che abbiamo incontrato non stavano combattendo alla loro vera potenza, altrimenti puoi star certo che del mondo non sarebbe rimasto neanche il pulviscolo. Vi attacca Poseidone? Bene, non è affar mio, vi attacca Hades? Bene, non è affar mio. C’è una Guerra negli Inferi? Bene, non è affar mio, ma - non ti azzardare a interrompermi - perché lì non ci sono Saint da proteggere da minacce che non possono affrontare e, poi, io custodisco la Storia del Santuario e lo preservo dai pericoli del Mondo Celeste, non c’è alcun bisogno di me nella Guerra, c’è già Island che sta monitorando la situazione laggiù».
«Quindi non volete intervenire perché c’è già un vostro confratello?»
«Io sono già intervenuta Shaka». Ti fece notare, pacatamente.
«Ma laggiù ci sono dei Saint, c’è Camus, come potete restarvene qui?»
«Perché quella non è la mia battaglia, io ne sto combattendo un’altra ancora più grande, perché è questo il mio compito, il mio vero compito. La Cerca è ancora più importante, perché se gli Inferi cadono tutte le anime saranno in pericolo. Ma se la Cerca e la riunione dei Guardiani delle Case degli Astri non viene portata a termine, non ci sarà veramente più nulla da salvare. Neanche le anime. Lo capisci questo?» Domandò retorica e, per la prima volta, vedesti balenare un guizzo di terrore in quelle iridi scure. Molte volte l’aveva provato, ne eri sicuro, ma era la prima volta che te lo mostrava. E, per l’ennesima volta, ti ritrovasti a pensare che sì, in effetti aveva ragione, ma anche che avresti voluto fare qualcosa per aiutarla davvero. Per la prima volta ti ritrovavi a pensare se effettivamente la tua forza potesse essere sufficiente contro questi pericoli che paventava. Perché in fondo (ommieidèi sono commossa, lo sta ammettendo!) tu eri comunque umano. Mentre lei no. «Il vostro screzio con l’Oltretomba è solo una mano che vi ho concesso perché, per caso, mi trovavo sullo stesso cammino. Se mi volete ripagare fate qualcosa per me in cambio, basta anche un semplice grazie, ma non cercare neanche per un secondo di manipolarmi con queste scuse, perché non funziona. È vero che vi serviamo, ma non è vero che potete comandarci».
«Ma voi siete una Dea…».
«Non sono la Vostra Dea». Ti ricordò in tono brusco, sbattendoti in faccia la verità. Anche se lei lo intendeva in una maniera diversa dalla tua, ti ferì lo stesso sentirglielo dire. «Avete già una Dea da venerare e quella non sono io, non posso prendere il posto della mia parente e non voglio, io ho già il mio posto». 
La guardasti rammaricato. Ti dispiaceva sentirla parlare così. Per quanto veritiere fossero le sue parole, non era comunque giusto. Né vero, almeno per te, mio sofistico, relativista Buddha incarnato. Perché il tuo cuore era sufficientemente grande per venerare due Divinità. Mentre camminavate, a un certo punto vedesti dei fiori di gardenie e ti tornò in mente quel ricordo che ti aveva permesso di cacciare i Titani. Indossava dei fiori di gardenie bianchi tra i capelli. Tu del linguaggio segreto dei fiori non sapevi niente, probabilmente l’esperto in materia era Aphrodite, ma non ne eri sicuro. Però, appena li vedesti, avesti voglia di fare qualcosa per lei, per risollevarle un po’il morale. Per questo, ti avvicinasti all’albero, che ti superava in altezza e tendesti la mano per coglierne un paio. Poi la raggiungesti e le dicesti, in tono mite: «Ma questo non significa che non si possa venerare anche qualcun altro». Porgendole i due boccioli bianchi. Lady Asia girò lentamente il capo verso di te e ti guardò con aria sorpresa.
Poi, accettò titubante i tuoi fiori e li guardò ancora, smarrita. Avresti osato dire, imbarazzata. Anche tu un po’ti ci sentivi, ma ti sforzasti di non darglielo a vedere, per orgoglio tuo, più che altro: «Io nasco come buddhista e sono al servizio di una Dea, che venero e servo nell’unico modo che conosco e, ho deciso di accompagnarne un’altra, non vedo perché non possa farlo, anche se non siete la Divina Atena non importa, trovo che dopo tutto quello che voi sicuramente abbiate fatto per il Santuario, non sarebbe male chiedere aiuto; noi Saint esistiamo per servire la Divina Atena».
«Ma allora perché vuoi aiutare proprio me? Hai visto anche tu quali sono i pericoli cui andiamo incontro, hai toccato con mano queste sofferenze, perché ti vuoi immischiare in una cosa più grande di te?»
La guardasti a lungo e milioni di idee ti balenarono nella mente. Ognuna riconducibile a un’unica frase, che le riferisti: «Non c’è un perché, è soltanto quello che mi sento di fare, anche se so che posso fare molto poco». E per te questo era quanto di più simile a una dichiarazione d’amore, rendiamoci conto. D’altronde, come potevi restare indifferente a quella bellissima creatura? «Ma non posso farlo se non mi spiegate ogni cosa».

«Allora temo di dover partire dalla mia spada, se no non ci capirai niente».

E, dopo aver creato una tasca temporale la sfoderò e te la passò, adagiandola di piatto sulle tue mani, senza tuttavia mollare la presa dall’elsa. Era sottile, molto semplice ma elegante, anche ben bilanciata. Una versione più allungata di una daga, senza guardiamano. Uno smeraldo ovale faceva da pomolo ed era fissato al manico con dei fili d’oro bianco. Mentre un altro smeraldo tagliato a forma di goccia, circondato da una cornice d’oro, collegava l’elsa alla lama che si allargava a forma di T e formava le altre lettere: «Tamerlane?» Leggesti un po’ a fatica, non eri molto bravo con le altre lingue, era già tanto se ne avevi imparate alcune, ma le morte non le avevi neanche mai prese in considerazione. Era una pecca per te, Shaka, te ne rendevi conto?  
«É il nome della spada». Confermò lei, lo sguardo basso. Un po’ come le spade dei Gladiatori, anche tu ne sapevi qualcosa. «Non è anche il nome di un condottiero?» Domandasti ripescando delle vecchie nozioni di storia che avevi ricevuto dai sei anni in poi, quando tornavi al Santuario. Perché, in effetti, non ti suonava nuovo.
«Sì, questa è la sua spada». Adesso la guardasti sbalordito: la sua spada? E che ci faceva nelle mani di una Dea? «Però non è una spada sacra». Obiettasti. Separata da lei non avvertivi alcuna sacralità.
«Non nel senso che intendi tu. Ma sappi che per rientrarne in possesso ho dovuto rubarla dal museo in cui era esposta».
«Perché avete dovuto fare una cosa simile?» Chiedesti orripilato dall’idea di viaggiare con un tale soggetto. Non ce la facevi cleptomane. Ma lei alzò le spalle e rispose: «Mi sono presa ciò che mi spetta di diritto. In punto di morte Tamerlane scelse me come sua erede, questa spada mi aveva chiamato da sempre, ma non c’era mai stata occasione per trovarci. Sai, credo di aver incontrato un tuo compagno, in Indonesia».
«Davvero?»
«Sì, era stato mandato a cercare dei ladri di gioielli e ha finito per incrociare la sua strada con la mia. Se non fosse stato per entrambi saremmo stati massacrati da una setta di divoratori di cuori. Ma è stato utile, grazie a lui ho potuto trovare la Gazza Ladra».
Quest’ultimo nome ti fece riflettere: «Gazza Ladra, Drago Rosso, Colomba Astrale, ve li ho già sentiti nominare prima, sono i nomi dei Guardiani delle Case degli Astri?»    
«I titoli, i nomi sono segreti, solo i Guardiani ne sono a conoscenza e, in ogni caso, non lo confideranno mai a nessuno, per evitare di essere controllati. Nel caso degli Dèi, devi essere folle se pensi di poter ordinare qualcosa a una Divinità».
«Quali sono gli altri?»
«Il Matto e l’Astronauta li abbiamo già incontrati, la Freccia Preziosa, il Mutevole e l’Etereo, il Leone Rampante e il Navigatore. Rappresentano rispettivamente i pianeti Mercurio e Urano, Venere, la Terra e la Luna, il Drago Rosso è il Guardiano della Casa di Marte, il Leone Rampante sta per Giove, la Gazza Ladra per Saturno, il Navigatore per Nettuno, infine la Colomba Astrale per Plutone. Il mio compito è riunire tutti i Guardiani, richiamarli al loro sacro dovere, sì da riuscire a preparare il terreno».
«Preparare il terreno per cosa?»
«Come te lo spiego? Hai mai visto una macchina?»
«Sì, certo».
«Allora pensa all’Universo come una specie di scenografia per le imprese di tutti. Ora, tu sai che dietro il fondale ci sono i motori, le quinte, le impalcature, i camerini, come se fosse un teatro. A volte capita che bisogna fare delle ristrutturazioni e, per farlo, alcuni pezzi vanno sostituiti o ricomprati proprio». A questo punto ti saresti aspettato di sentire che fossero quelli che sostituivano i pezzi e invece, «I Guardiani delle Case degli Astri sono quelli che forniscono i pezzi, capisci?»
La guardasti sconcertato. In realtà il concetto arrivavi a intuirlo, ma non sapevi tradurlo in pensiero. Non così su due piedi e non con lei così vicina. «Provo a rispiegartela?» Domandò lei fraintendendo la tua espressione.
«No, non c’è bisogno, credo di esserci vicino».

Kiki
«Ti prego, Divina». Pregasti, con le mani giunte davanti all’effigie della Dea, che, quella notte avevi raggiunto. «Per favore, dammi un segno che lei non è scomparsa completamente». Supplicasti, sentendoti più in colpa che mai, perché il dolore della perdita di Astrid superava, anche se di poco, quello della perdita della tua allieva.
Saresti potuto andare dalla Dea stessa e supplicarla a questo modo. Il punto è che quando la tua Dea cammina accanto a te, è difficile venerarla come quando non c’è. É difficile inginocchiarsi al cospetto della sua effigie o di una sua statua, sapendo che lei è solo poche Case distante rispetto alla tua. E in questi momenti devi anche reprimere la delusione e guardare al di là.
«Kiki». Ti chiamò costei.
Ti girasti e vedesti la Divina ritta in piedi dietro di te, guardarti con apprensione. Il bel chitone candido dolcemente smosso dalla brezza. Lei ti guardò dispiaciuta. Poi, tese le braccia verso di te, guardandoti con un’espressione materna talmente dolce che tu non resistesti a quell’invito. Ti alzasti e ti gettasti in ginocchio ai suoi piedi. Lei si abbassò alla tua altezza per stringerti a sé a sua volta. Solo allora piangesti tra le sue braccia, ricambiando l’abbraccio. «Mi dispiace, mi dispiace veramente. Non ho saputo proteggere Astrid. Credevo che sarebbe stata al sicuro tra noi e invece… Oh, Kiki, perdonami». Si scusò. Anche se teneva il suo sublime Cosmo azzerato, niente toglieva alla sua reale essenza e alla sua persona. Quella era la Dea che ti aiutò a crescere e che giocò con te quando avevi sette anni. Quella era la donna che consideravi alla stregua di una madre, non solo la tua Dea. E, nel suo abbraccio, ritrovasti la serenità: «Perdonatemi, perdonatemi voi per l’affronto che vi ho arrecato. Non dovrei pregare la vostra effigie quando voi… voi siete qui in… carne e ossa». Ti scusasti quando avesti recuperato un po’di calma. 
«Non ti scusare, immagino di capire i motivi per cui non sei venuto a confidarti con me e credimi, non faccio che pensarci e pensarci. Astrid era una persona bellissima, posso capire quanto per te sia difficile guardarmi in faccia, sapendo che non io non sia riuscita a proteggere anche lei».
«Non è colpa vostra, milady, la colpa è mia. Ero io che dovevo proteggerla. Dovevo proteggerle entrambe». 

Ma non avevate solo questo. Astrid e le tecniche che poteva usare sopravvivevano nelle vostre. Te ne rendesti conto quando, in arena vedesti comparire il Bronze Saint di Serpens. Non ci avevi mai parlato molto con questa recluta. Ti accigliasti. Il cavaliere dei Serpenti? Serpenti come… Odysseus. Il suo volto comparve per un momento davanti a te. Ma anche come Astrid e, l’immagine scomparve sostituita da quella della giovane, sorridente e circonfusa di luce. Astrid effettivamente era la sua allieva, non sarebbe stato poi così strano se avesse potuto parlare coi serpenti.

Kardia di Scorpio, nei suoi resoconti, scrisse di aver incontrato l’ultima discendente del serpente piumato in Messico. Serpenti e piume. Rettili con le piume. Tirasti fuori il telefono e ti connettesti a internet, digitando queste due parole. Ti saltarono fuori delle schermate sugli Archaeopteryx. Poi serpenti e piume e ti saltò fuori il Sagittarius Serpentarius. Restasti sbalordito nel costatare che, nella savana esistesse un animale come questo.
Improvvisamente qualcosa dentro la tua mente si accese. Non avresti saputo se definirla una visione mistica o fantasia, fatto sta che, improvvisamente prendesti carta e penna e cominciasti a disegnare.

«Che stai facendo, Kiki?» Ti chiese il Venerabile Shion sentendoti picchiettare la matita contro gli incisivi.
«Niente di particolare».
«Stai disegnando?» Domandò incuriosito entrando nel tuo studio. Anche se le protesi bioniche agli occhi erano disattivate, i suoi sensi funzionavano ancora egregiamente. Riusciva perfettamente a sentire l’odore della carta e della grafite che, finora avevi passato e ripassato sul foglio.  
«Qualcosa del genere». L’uomo ti pose una mano sulla spalla e te la strinse con fare paterno.
«Non te l’ho detto prima, ma mi dispiace per Astrid». Copristi la sua mano bionica con la tua, di carne e sangue. «Grazie, maestro». Dicesti, facendo il primo passo verso la fase successiva del lutto. «Stavo disegnando una spilla».
«Interessante, non sapevo che sapessi disegnare, mi ricordavo che Mu ti avesse insegnato a riparare le Armature e ti avesse mostrato le riproduzioni degli schemi originali, che ti avesse insegnato a dare sempre un occhio alle mode per adattarle ai tempi, ma non sapevo che tu fossi anche un progettista».
«Mi ha insegnato Donato della cloth di Sculptor». Rispondesti senza staccare gli occhi dal tuo lavoro. Sfiorasti il foglio con lo sguardo e osservasti l’intreccio di linee, di rette, di cerchi e semirette che formavano un uccello rapace stilizzato. Non come quello dello scettro di Nike, ma uno che formava il rapace che riuniva in sé i segni zodiacali di Astrid.  
Il tuo omaggio personale per lei, per non dimenticarti mai della ragazza che trascendeva i limiti e smentiva ogni possibilità e statistica. Per la giovane che, implacabile, aveva affrontato una traditrice e vi aveva salvati. Sotto al suo emblema tu avresti combattuto contro Odysseus e, per Atena, lo avresti ricacciato negli Inferi dove doveva stare.

«Che cos’è quello?» Domandò il gran Sacerdote quando vide il disegno in oro che capeggiava sulla tua sciarpa candida.
«Niente di che, l’ho disegnato ieri sera e l’ho fatto stampigliare, vi piace?» Rispondesti con nonchalance.
«É molto bello, che cosa rappresenta?»
«Sono uccelli segretari, signore». Rispondesti.  “E sono ciò che ci aiuterà a scacciare Odysseus di Ophiuchus una volta per tutte”.


Death Mask
La caduta degli Inferi non era stata prevista. Persino il Drago Rosso si era mostrato spaventato nel vedere Don Avido brandire la daga deicida. Eppure non aveva esitato a combattere neanche una volta, anche se, alla fine aveva urlato la ritirata. A malincuore l’avevi seguito e, ancor più a malincuore, da allora eravate nascosti.
Quella notte facesti un sogno. Astrid era morta e tu ti disperavi. Voi non eravate stati in grado di salvarla o di riportarla in vita. Ma non era morta da sola. Prima Avresti dovuto aspettartelo dalla falsa Neera. Era troppo strana e ce l’aveva avuta con Astrid proprio perché lei poteva smascherarla. Perché non ci eravate arrivati subito?
Nell’esplosione però non era rimasto niente.  
Ancora una volta il Fato era stato crudele con te. Non occorreva Shaka per capire che ti stava portando via tutte le persone più importanti per te, a mo’ di pagamento per tutte le vite che avevi strappato. Aveva ragione Astrid, per ogni Arte, anche quella dell’assassino, c’è un Prezzo da pagare. E, il Prezzo prima o poi va pagato.
 “Perché non l’hai salvata?” Pensasti. “Perché? Perché non l’hai salvata? Perché l’hai lasciata morire?”
Quella sera ti eri recato alla sua spiaggia preferita. Non eri un tipo sentimentale, ma non riuscivi proprio a darti pace. Perché ogni cosa bella ti doveva essere strappata sul nascere?
Non eri neppure riuscito a trovarla nello Yomotsu Hirasaka. Forse era stata già inghiottita da tempo. Allora sì che tu non avevi potere oltre il tuo campogiochi.
«Merda». Sibilasti guardando le onde del mare in tempesta che sembravano innalzarsi minacciose per dichiararti guerra e poi abbassarsi rapidamente per cercare di raggiungerti più rapide che mai per inghiottirti. Estinguendosi però molto prima, per l’esaurimento della forza che le aveva costrette alla ritirata. Anche il mare mosso ti ricordava lei. La prima volta che l’avevi vista fare il bagno a maggio, ti era quasi parso che le onde arretrassero come se fosse lei a spingerle indietro e non per semplice moto ondoso. Ma ora non ti davano più quest’impressione. Le onde erano solo acqua.  
Poi, dal niente, avevi sentito il tuo Cosmo cominciare a ribollire. Ne eri rimasto sorpreso, anche perché avevi un buon controllo su di esso. Ma adesso, era come una fiamma viva, dorata e luminosa che si espandeva da te al ritmo di una voce che ti nasceva da dentro. La voce di Astrid che cantava;
«Spazzerò via il sonno raccolto nei tuoi occhi …»
Cosa? Ti guardasti attorno. Doveva essere la tua immaginazione scatenata dal dolore. Ecco, sta a vedere che ti eri beccato il crollo nervoso. Come faceva il tuo Cosmo ad aver immagazzinato la sua voce? Non era mai successo prima con nessuno. Che ti stesse facendo da tramite per il Regno del Morti? O che avesse ragione quello scriteriato di Milo? «I morti cantano?» Ti aveva chiesto qualche anno fa. Forse pensando che Camus là sotto, intrappolato nei ghiacci del Cocito, si sarebbe dato all’opera lirica. 
Ti ricordi cosa gli avevi detto? Oh, sì, ma certo che te lo ricordavi. Gli avevi risposto con una bugia, una penosa bugia che però l’aveva fatto stare meglio. Quindi, riproviamoci di nuovo, Death Mask: i morti cantano? La risposta la conoscevi anche da solo, perciò se la sentivi cantare, forse c’era la possibilità che non solo il tuo Cosmo ti stesse facendo effettivamente da tramite, ma che lei fosse ancora viva.  
Sì, doveva essere così.
«Astrid?» Domandasti incerto mentre la speranza rinasceva in te, sgorgando come una pozza d’acqua nel deserto del tuo dolore.
La voce continuò a cantare acquisendo sempre più forza e vitalità.
Non c’erano dubbi, era proprio lei.
«Astrid!» Urlasti balzando in piedi.
E, la sua voce, più allegra e sorridente, oltre che viva e vicina più che mai. Come se ti avesse sentito a tua volta. Poi la vedesti tramite il tuo Cosmo. Era ad occhi chiusi e cantava. Sorrideva, come se ti avesse sentito o come se stesse dicendoti che andava tutto bene. Le mani giunte come in preghiera all’altezza del petto. Indossava un vestito nero e, accanto a lei, seduta vicino alla sua arpa che suonava, c’era Pandora. Quella strega! Ancora lei! Cosa voleva? Che l’avesse rapita?
L’immagine si allargò e vedesti il muro di pietra del palazzo degli Inferi, la Giudecca. Trasalisti.
«Astrid! Non temere, verremo da te, mi hai sentito? Verremo a riprenderti presto!»   
Lei cantò l’ultima strofa della canzone: «É ora il momento che sarai mio». Aprì gli occhi, incrociando finalmente il tuo sguardo e ti sorrise.
L’immagine si dissolse, lasciandoti solo sulla spiaggia. Ma quella dei suoi occhi vivaci restò impresso nella tua retina. 
Corresti immediatamente alle Dodici Case come se avessi le ali ai piedi. Animato da quella benzina che era la speranza che, la tua amica aveva riacceso. Lei era viva! Ti stava dicendo che stava bene, che quello non era un addio e non lo sarebbe mai stato. Lei era ancora viva! Ed era in pericolo. E, dovevi dirlo agli altri. Dovevate andare a riprenderla. Perché tu lo sapevi, che era viva. Perché tu sapevi che no, i morti non cantano.   

Solo allora ti svegliasti, scosso e confuso, con la vaga consapevolezza che fosse successo qualcosa, ma non sapevi bene cosa.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: Diana LaFenice