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Autore: Sarane    01/05/2019    1 recensioni
"Ho pensato che, forse, riguardare il resoconto degli ultimi dieci anni della mia vita - le impressioni più oneste gettate su carta senza uno scopo, le riflessioni, le sciocchezze infantili - potrebbe aiutarmi a tirare le fila del mio essere momentaneo.
Riguardare ogni mio appunto per ritrovare un senso.
Magari, ritrovare anche un dialogo in queste sedute di nulla, dove mi smarrisco in intrecci di linee nere e mi disegno le mani, come i bambini, inseguendo pensieri che a voce non so esprimere."
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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23-07-2017

Il nonno è morto.

L’ho amato teneramente, e adesso è morto.

La morte è facile in realtà, è incredibilmente veloce. È incredibilmente facile prepararsi alla perdita. Ricordo di aver letto che no, ogni volta che un dolore ci colpisce, dobbiamo ricominciare a ricostruirci da capo, non saremo mai preparati.

Ma era una bugia.

Siamo fatti per accumulare dolori e metterli da parte e quando lo conosciamo, impariamo anche a gestirlo. È stato così imprevisto che, ammetto, per un attimo sono stata presa in contropiede. La verità è che ancora non so bene come devo parlarne, so solo che è successo, che è la vita, ed aspettavo questo momento da tempo. In fondo, già il terzo infarto avrebbe dovuto portarlo via, invece ha fallito anche il quarto, e l’Alzheimer procedeva, avevo tutti i presupposti.

Ogni giorno lo baciavo in fronte e gli dicevo che lo amavo come fosse l’ultima volta.

Però ho pianto lo stesso.

Mi sono sentita soffocare di un panico che non conoscevo, mi sono sentita come se non ci fosse nulla a cui aggrapparsi. Per una persona patetica come me, vuota come me, lui era troppo. Per qualcuno che ha passato la vita a collezionare frammenti di figure paterne da nonni e zii, lui era troppo.

Era stato il nonno a trovarmi nel sottoscala, tanto di quel tempo fa che quasi il ricordo e slabbrato e stinto. Era stato lui l’unico a cui avevo confessato la più avvilente delle mie verità.

Un figlio non dovrebbe mai vedere una madre umiliata dal proprio padre.

Un figlio non dovrebbe mai assistere a certe forme di violenza.

Ma il nonno era grande e grosso, un burbero, uno scudo dal mondo. Confessare a lui che papà picchiava la mamma forse era più facile, forse ero solo ingenua. Alla fine, il nonno non era stato diverso con la nonna, la nostra famiglia è sempre stata una spirale di violenza e discutibili legami umani.

Ma, quando ero piccola, cosa potevo saperne?

È stato il nonno a darmi una delle consapevolezze più nitide della mia vita, uno dei miei mantra. Forse, uno dei momenti in cui il cuore me lo hanno spezzato davvero.

Sei una bastarda come tuo padre.

Succede, ai figli non troppo desiderati. A conti fatti, mio padre è stato l’essere vivente che mi ha voluto di più, è per un suo desiderio che sono nata, ha un senso che io abbia ereditato da lui.

Non ti ho mai odiato nonno, ho pianto un poco, ma non ti ho mai odiato. Anche se sono una bastarda come mio padre. Perché anche così, mi hai amata. Sedevi al tavolo con me, e ti guardavo mentre sbucciavi le mele e le tagliavi a spicchi, uno a te e uno a me.

Le mele le mangiavo solo con te.

Sacchetti interi di mele, solo per guardarti compiere gli stessi gesti ancora e ancora.

Li compivi per me.

La buccia cadeva sempre in un unico serpente ininterrotto, non sbagliavi mai, anche se avevi le mani grandi da contadino, mani fatte più per ammazzare un animale con un colpo secco che per essere tenere. Non lo eri tanto, quando ero piccola, la tua era una dolcezza brusca, un poco severa, spesso rude.

Perché mio fratello mangiava più di me e ti dava soddisfazione, ed io ero piccola e non sopportavo l’aceto, e allora le tue labbra si strizzavano in una linea di disappunto e ti inasprivi. Ho imparato ad immergerci la frittata, nell’aceto, per mangiarla come volevi tu, perché così, simili in qualcosa, ti saresti inorgoglito. Ti inorgoglivi per queste cose, ci ho messo anni a capire che, nella tua durezza, cucinare per me era il tuo solo modo di passarmi l’affetto, e quando rifiutavo ti sentivi respinto.

Ci ho messo qualche anno, ma poi l’ho capito.

L’ho capito quando, dopo un cartone animato, ti dissi che volevo una torta, in un giorno di festa in cui i negozi erano chiusi, e tu mi caricasti in macchina insieme a mia cugina e girasti per ore ogni piccolo market di ogni paesino della zona, per trovarne una come la volevamo noi.

 Ci si prepara sempre, sono preparata ora.

Sei morto da poche ore, ma già mi sembra trascorso un giorno.

Sono entrata con mia zia, nella piccola stanza dove un inutile medico di base ci ha raccontato, molto pragmaticamente, che hai avuto un arresto cardiaco, che hanno cercato di rianimarti per venti minuti. Che avremmo dovuto aspettare un poco, perché eri ricoperto di vomito e dovevano ricomporti.

Si muore così.

Non è niente di tragico in realtà.

Però ti ho guardato, e ho pianto.

Come da bambina, nel sottoscala. Ho smesso di piangere in quel modo, rumoroso e soffocante e fuori luogo, da tanto di quel tempo che mi sembra quasi non sia mai accaduto. Ricordo solo di essere stata piccola, molto piccola. Ricordo che piangevo in quel modo lì, senza fiato e senza forze, quando avevo paura di essere abbandonata.

Non piangevo davanti a qualcuno da troppo tempo, per non provare umiliazione.

Ma è stato tutto lì, raccolto in un unico pianto.

Lo psicologo mi ha chiesto di parlarne, l’ho fatto, gli ho detto tutto.

La sua espressione disperata mi ha sconfortato. Mi ha chiesto se mi è utile, mi ha detto che sono un’anguilla, che non riesce ad afferrarmi.

Mi è venuto da ridere.

La solitudine è quando non riesci più a raccontarti, e forse non so più farlo. Gliel’ho letto negli occhi, l’ho fatto sentire inetto. Sono brava a leggere le persone, quello almeno, ma non sono empatica. Però l’ho capito. Solo, non ho capito cosa dovevo dire, cosa c’era che non andava.

Mi sono sfogata, non è vero che mi sono tenuta tutto dentro.

Mi sono separata da te, sono andata in bagno e ho pianto. Tanto, non pensavo di saper piangere tanto. Sono stata così patetica, che ti avrei creato disappunto. Prostrata a terra, rannicchiata in un angolo, aggrappata ad una parete di piastrelle di uno schifoso bagno di un ospedale pubblico.

Una scena ridicola che rientra negli annali delle sceneggiate peggiori di sempre.

L’unico conforto è che sono l’unica persona con cui quella scena di ridicola inutilità è stata spartita. E forse un poco è servita, forse mi serve piangere, ogni tanto. Il vero dolore lo lascio agli altri, io non ci sono tagliata per queste cose, lo sai.

Se ci si sente mortificati bisogna diventare più forti

Io non posso distruggermi, lo sai che sono l’unica che può tenermi insieme, lo sai che la nostra è una famiglia di bestie emotive che si nutrono del proprio dolore. Ci siamo coccolati tra di noi, quando ti baciavo e ridendo ti dicevo di ignorare quell’idiota di tuo figlio, con i suoi complessi paterni freudiani che ti invitava a tirare le cuoia un giorno sì e l’altro pure.

Chissà nella sua testa quale atroce senso di colpa c’è, ora che morto lo sei davvero.

Ti proteggevo dal rancore radicato della nonna, quando negli ultimi anni eri diventato un bambino dallo sguardo furbo e ti eri addolcito, e mi abbracciavi e mi dicevi che ero la tua nipote preferita. Quando ti correvo incontro per baciarti e non importava chi ci fosse lì con te, dicevi sempre la stessa cosa

È la mia nipotina. Lei mi vuole bene

Non ti volevo bene.

Ti amo.

Anche se amo male.

Mia madre questa volta è stata leggera, mi ha solo detto che non tutti hanno la mia razionalità. Vedermi cedere forse l’ha convinta che non sono del tutto un animale, ma dopo anni di abitudine a sentirmi ripetere sempre che sono una bestia e non sento nulla, questa sua uscita mi ha fatto un poco ridere. Dovrei annoverarla nei progressi del nostro rapporto, questa concessione umana che mi ha fatto. Per ora ci evitiamo, lei è emotiva e io la ferisco.

Così sono a casa della nonna, e dormo accanto a lei, nel tuo posto, nella conca che hai lasciato nel materasso. Ci sprofondo dentro.

Nell’insieme, sono quella che l’ha gestita meglio, qualcuno che resti saldo ci vuole. Qualcuno che faccia le commissioni, che passi dal comune alla camera mortuaria alle pompe funebri. Che faccia mangiare anche la nonna e che butti un occhio al mio fratellino più grande.

Mia madre dice che non sento, ma non serve sentire, quando si conosce, e io conosco mio fratello. Il giorno in cui sei morto tu, ho rischiato di perdere anche lui.

L’ho saputo immediatamente, una realizzazione fulminea, ma la mamma non era lucida, ci ho messo un po’ per farle capire che doveva tornare subito a casa da lui e al diavolo il turbamento della sua perdita, che sarei rimasta io con la zia ad aspettare le onoranze funebri, perché prima di una figlia doveva essere una madre. Ho mandato i suoi amici a casa a fermarlo, ma la verità è che sono stata solo fortunata.

Ho sempre contato sul fatto che, nonostante i suoi desideri suicidi, in realtà avesse troppa paura della morte per riuscirci. Ma era tanto disperato, che c’è stato un frammento di cedevolezza in me in cui ho temuto che la disperazione lo avrebbe portato a riuscirci.

Pochi giorni fa è arrivato ubriaco e si è accasciato ai miei piedi, e mi ha detto che non sa se questa vita riesce a viverla tutta, che io sono il suo unico scrupolo.

Ho fatto l’unica cosa che potevo fare, l’ho fatto sentire in colpa. Siamo i nostri vicendevoli e unici appigli in un’esistenza di solitudini simili a rette parallele destinate a non incrociare la strada di nessuno, lui non ha il diritto di mollarmi qui, non ha il diritto di farmi anche lui questo.

Almeno lui, solo lui, deve restare.

Noi dobbiamo guardarci le spalle.

Sono stata contenta, perché ha avuto paura. Ci ha provato, ma non è riuscito ad ammazzarsi. L’ho ritrovato spezzato, ma va bene. Lui può rompersi, può essere un giocattolo demolito e abbandonarsi sul ciglio di una strada, può mancargli la forza, avrà sempre la mia, lo raccoglierò sempre e lo rimetterò in piedi ancora e ancora.

Non sono stata contenta, perché quella lettera di commiato fallito che la mamma ha ritrovato era per me. Ed io non posso credere che davvero abbia pensato di abbandonarmi, proprio lui che con me condivide l’anima, e di liquidarmi con un biglietto.

Cerco di tirare le somme.

Mi hanno detto che sono tante cose tutte insieme, che devo rifletterci, che sono un colpo.

Ma non ho vissuto nulla come uno shock, ho fatto quello che andava fatto e basta, qualcuno deve restare lucido, ed io sono più brava a restare lucida.

È semplice, è tutto qui.

Non c’è nulla di triste in questo, sono cose che vanno fatte e qualcuno deve farle. Far ridere le mie cuginette, far capire loro che la morte è nulla, che conta solo tutto il resto, è un qualcosa che ho sempre potuto fare solo io, per non farle diventare come mia madre, come mia zia e mia nonna e mio fratello. Perché non avessero paura, paura di qualcosa di normale, di qualcosa che da solo senso a ogni cosa.

Al funerale le ho tenute con me, su un’altra panca, perché era giusto così.

Perché là piangevano, e io le facevo sorridere.

Nessuno dovrebbe avere paura della morte. È la morte che ci insegna a vivere.

Tenere compagnia alla nonna, dormire nella tua forma, è una cosa che posso fare solo io, perché tutti gli altri non ne hanno il coraggio, come se ci fosse qualcosa di male nell’occupare il tuo posto. La tua sagoma mi fa sentire bambina, mi ricorda che sei sempre stato enorme, avvolgente, e quando mi abbracciavi ci scomparivo nel tuo abbraccio, nonostante io non sia piccola. Mi ricorda che mi hai sempre trattato come se non fossi mai cresciuta, e probabilmente è così, rispetto alla tua mano grande io restavo sempre una bambina.

La somma di tutte le perdite degli ultimi anni, anche di quelle che il mondo considera poco rilevanti ma che in realtà mi hanno fatto male come perdere una parte di me, mi hanno preparato a questi dolori più grandi, questa è la verità. Mi hanno indurita, mi hanno insegnato quali sono i passaggi che devo compiere per andare oltre e non provare amarezza.

Nella casa del commiato dove ti abbiamo lasciato, ho preparato cioccolate e giocato.

Io e lo zio ci siamo seduti nella stanza accanto, era vuota, e abbiamo cercato d’immaginare come sarebbe stato fare finta di essere morti lì dentro, e gli ho raccontato dell’imperatore Claudio e di Trimalcione.

Ho portato i giornali con scritto il tuo necrologio, ho fatto sedere le mie cugine in cerchio, e su quel giornale ho preso i cruciverba e le ho convinte a giocare. Chi entrava ci guardava male, guardava male quelle cugine che per me sono sorelle, che sono cresciute sotto i miei occhi giorno per giorno, tanto che le tratto ancora come bambine per come a volte mi si rannicchiano addosso come passerotti sparuti, eppure non lo sono più, sono bellissime e grandi.

La Marti mi ha fissato, ha scosso il capo, ha detto che noi il lutto non sappiamo proprio portarlo.

Ma l’ha detto con il sorriso e allora ho pensato “fanculo il lutto”.

Il lutto è una stronzata, che siamo qui in cerchio, raccolte sul giornale a dissacrare con un sorriso e un gioco la chimera della morte, questo è importante.

Del biasimo non me ne frega nulla, che passino, che mi guardino, storcano la bocca e pensino che il rispetto non so cosa sia, possono metterselo dove vogliono. Io continuerò a entrare in quella stanza, guardare il corpo, e fare congetture, e prenderti in giro, e a dire con mia cugina che no, se un paradiso esiste deve essere solo d’italiani perché con i francesi non possiamo proprio conviverci, e quindi un cambio monetario ci sarà di sicuro e anche se ti cremiamo con le sterline invece che con un obolo dovrebbe comunque funzionare.

E ti bacerò la fronte ogni volta che ne uscirò, come sempre, perché siamo onesti, che il corpo sia caldo o freddo, che differenza fa?

Guardarti e non riconoscerti più sarebbe impossibile.

Parlo perché dicono che devo, ma non so dire le cose come vanno dette, e non so fare le cose come vanno fatte.

Ci sono persone che sono refusi di stampa e stanno lì, per errore, a occupare posto in una frase che non gli appartiene.

Tra i miei parenti io sono la virgola fuori posto, non c’è un modo diverso di dirlo, e non c’è malessere nell’ammettere una verità.

Non è che non parlo come dovrei, semplicemente non parlo come si dovrebbe, come ci si aspetta. E non capisco perché vogliono che dica che soffro, come se non fosse scontato, ovvio. Certe verità non meritano di essere espresse, meritano di essere comprese e basta. E se non lo vedono, se non sanno leggere tra le righe, allora forse non sono io che non so esprimermi, forse ci sono troppo pochi buoni lettori e si guarda troppo al plateale, e di un mondo analfabeta non è che me ne faccia poi molto.

   
 
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