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Autore: unforgivensoul    02/05/2019    3 recensioni
“Caro?! Cercavi qualcuno?”.
“No. Cioè, sì. Io…” scosse la testa “… ma ora suppongo non abbia più importanza”. Il diciassettenne roteò gli occhi, impacciato. “Ero venuto per l’audizione, io...suono”.
Sentendo l’ovvietà che gli era appena sfuggita dalle labbra aggrottò le sopracciglia. Bella entrata in scena, John.
Oppure: un John Deacon diciassettenne si presenta all'audizione per la band Queen con un po' di ritardo e si ritrova a dover convincere tre musicisti testardi a dargli la possibilità di esibirsi.
Genere: Comico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Brian May, Freddie Mercury, John Deacon, Roger Taylor
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mrs Davis si spostava rapidamente da una parte all’altra della stanza, riconsegnando a ciascuno studente il proprio compito in classe, non prima di averlo commentato brevemente. L’intera aula era immersa nel silenzio, eccezion fatta per i borbottii di quelli che avevano fallito il test e ora si passavano nervosamente le mani tra i capelli o le sfregavano sulle cosce, fissando i segni rossi sul foglio come se si aspettassero di vederli scomparire da un momento all’altro.


“Ottimo lavoro, signor Deacon!”.


 John sollevò appena lo sguardo per incontrare il sorriso soddisfatto della propria professoressa di matematica e stirò le labbra in una smorfia imbarazzata, consapevole che l’attenzione degli altri studenti fosse rivolta a lui.  Mrs Davis annuì brevemente, forse intuendo il disagio del ragazzo, e si avvicinò ad un altro alunno. Quest’ultimo non rivolse che una rapida occhiata al compito, disinteressandosene subito.


Prima che se ne rendesse conto, John lo stava osservando chiedendosi che cosa sapesse di lui. Il cognome era Harris, ne era certo, e il nome doveva iniziare con la G, se non ricordava male. Gregory, forse? D’altronde, i due non si erano mai parlati. Non si era presentata l’occasione, non si era presentata con nessuno di coloro che frequentavano la classe di matematica del giovedì pomeriggio, in effetti. Non negli ultimi due anni, almeno.


Il presunto Gregory lanciò un’occhiata interrogativa a John, che avvampò, distogliendo lo sguardo. Forse creare l’occasione giusta non era il suo forte.


 


Al termine della lezione, John si caricò lo zaino su una spalla e la custodia del basso sull’altra, abbandonò l’aula e raggiunse velocemente l’uscita, schivando le figure stanche e ciondolanti che, dalle aule, si riversavano nel corridoio. Aveva pianificato tutto e non c’era tempo da perdere.  Diede una rapida occhiata all’orologio: erano le diciassette. Per raggiungere l’Imperial College, camminando, avrebbe impiegato almeno venticinque minuti, il che gliene avrebbe lasciati solamente cinque per racimolare tutto il coraggio che aveva in corpo e trenta per affrontare l’audizione.


Era stato Oliver, uno dei pochi studenti di cui il bassista apprezzasse la compagnia, a menzionargli l’annuncio di una band alla ricerca del componente mancante e a suggerirgli di presentarsi alle audizioni. John aveva strabuzzato gli occhi, scosso la testa, esclamato più volte “che assurdità!” e persino riso all’idea; l’aveva poi considerata, ponderata, e infine abbracciata. Sì, perché no? Dopo tutto suonare era la sua principale occupazione durante il tempo libero che riusciva a ritagliare tra una lezione e l’altra e la prospettiva di farlo con ragazzi altrettanto appassionati non gli dispiaceva. Forse, sarebbero stati simili a lui. Magari, avrebbero persino stretto amicizia.


“Signor Deacon! Aspetti! Solo un secondo, Signor Deacon!” un’affaticata Mrs Davis gli corse incontro sventolando un plico di volantini. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, innervosito all’idea di perdere attimi preziosi, per poi voltarsi verso l’ansante professoressa.


 “Sì, Mrs Davis?”. John non dimenticava mai l’educazione.


“Signor Deacon, finalmente! L’ho rincorsa per tutto il corridoio! Ecco, ho qualcosa che potrebbe interessarle!” esclamò, tendendo alcuni dei volantini verso di lui. “Si tratta di un corso di matematica, destinato solo ai miei alunni più brillanti. Ho pensato che potrebbe farle piacere approfondire alcuni argomenti, in vista degli esami finali e dell’iscrizione all’università”.


“Uhm, si. Insomma, ci penserò! Grazie!” rispose John in modo sbrigativo, afferrando i volantini e muovendo un passo verso i cancelli.


 Mrs Davis, instancabile, gli si avvicinò nuovamente, tanto che il bassista poté notare le rughe che stavano cominciando ad incorniciarle gli occhi, segnando inesorabilmente lo scorrere del tempo. 


“Le ho lasciato qualche volantino in più, nel caso conoscesse qualcuno che potrebbe essere interessato! Vede, il programma che svolgeremo è scritto sul retro. Mi piacerebbe avere un suo parere a riguardo” esclamò entusiasta mentre posava un’unghia smaltata su uno dei fogli.


“Lo leggerò senz’altro! Mi scusi, ora dovrei proprio…” tentò il ragazzo. 


“Oh, non faccia lo sciocco! Ci vorranno solo un paio di minuti”.


Così dicendo, la donna si lanciò in una spiegazione dettagliata, dalla quale erano facilmente intuibili la sua dedizione per l’insegnamento e il suo interesse per la materia. Il diciassettenne, invece, non faceva altro che lanciare occhiate fugaci verso i cancelli e spostare il peso da un piede all’altro, in un gesto di impazienza. Le audizioni sarebbero terminate alle diciotto e, considerato l’entusiasmo di Mrs Davis, nemmeno un miracolo avrebbe potuto aiutare John ad arrivare in orario.


 


Erano le diciassette e venticinque minuti quando finalmente riuscì a sfuggire alla parlantina della professoressa. Una volta giunto a destinazione, gli sarebbero rimasti solo cinque minuti per darsi   coraggio e altrettanti per convincere la band che quel tempo risicato fosse più che sufficiente per un’audizione.  


“Niente di più facile!” commentò alzando gli occhi al cielo e accelerando il passo, la custodia del basso che si spostava sulla schiena ad ogni movimento. Non c’era situazione che non richiedesse un pizzico di sarcasmo o, per lo meno, non ve ne era una in cui John non se ne servisse.


Entrò nell’atrio dell’Imperial College alle diciassette e cinquantacinque minuti, come previsto, ma perse i successivi dieci a cercare l’aula adibita alle audizioni. Aula A20, recitava l’annuncio. Aula A20, si ripeteva mentalmente mentre spostava lo sguardo da una parete all’altra. Tanto grande era quel posto, tanto scarse erano le indicazioni per muoversi al suo interno.


 Fermatosi finalmente davanti alla stanza contrassegnata come A20, si concesse un minuto per sfilarsi la giacca dell’uniforme scolastica e sostituirla con un maglione nero che, la sera precedente, aveva piegato accuratamente e infilato sul fondo dello zaino. Quella giacca color verdone, con lo stemma dell’istituto cucito in rosso e blu proprio sul taschino, non gli dava certo l’aspetto di un musicista rock and roll.


 


Diciotto e dieci. John prese un respiro profondo ed entrò nella stanza.


“Nove bassisti! Nove nel giro di quattro ore…e nemmeno uno decente!” un ragazzo biondo si stava lamentando a voce piuttosto alta, storpiando leggermente le parole a causa della sigaretta che gli pendeva dalle labbra. In una mano, un accendino e un pacchetto di sigarette, nell’altra, un paio di bacchette di legno che minacciavano di sfuggirgli di mano ad ogni movimento stizzito. Ecco il batterista, pensò John.


“Posa quelle dannate bacchette, Roger! Finirai per accecare qualcuno”. L’ammonimento giunse da una chioma di capelli ricci, intenta a riporre una chitarra nella sua custodia. ​Il chitarrista. Il tono era pacato ma deciso e lasciava trasparire una certa esasperazione, probabilmente dovuta alla giornata lunga e improduttiva.  Nove bassisti e nemmeno uno decente, non proprio incoraggiante come inizio. 


 Il batterista, apparentemente disinteressato all’avvertimento ricevuto, continuò a gesticolare, parlando animatamente: “Pazzesco​! No?! Se sembrano adatti alla band, non sanno suonare mezzo accordo; se invece sono dei musicisti decenti, si rivelano tutti dei fottuti psicopatici”.


“Tesoro” giunse una voce dalla prima fila. John, trovandosi sul fondo dell’aula, non riusciva a vedere chi avesse parlato, eccezion fatta per le ciocche di capelli neri che spuntavano dallo schienale della sedia. “Sono frustrato quanto te ma non possiamo accontentarci di un bassista qualunque. Serve qualcuno che suoni in modo grintoso, appassionato, con una mente sveglia e idee brillanti”. La voce si era fatta più animata, determinata. Il suo proprietario, in una giacca dalla fantasia piuttosto stravagante, si era alzato, puntando lo sguardo verso il batterista, e diretto con passo felino verso quest’ultimo. Sembrava un attore, colto nel bel mezzo del proprio monologo. “Voglio che il nostro ragazzo accarezzi le corde del suo basso con la delicatezza e la decisione con cui tocca i corpi delle sue amanti” mormorò in un tono suadente, un’espressione giocosa dipinta in volto mentre circondava le spalle del batterista, esalando un sospiro intriso di drammaticità.  


“Oh, vuoi dire come fa Brian! Dicci, Brian, con chi sogni di fartela mentre suoni?!” rise il biondo, con fare canzonatorio.


Nel frattempo, John aveva fatto dietro front. Chiaramente non corrispondeva alla descrizione del musicista che stavano cercando. ​Beh, sai cosa? Al diavolo la band. Ci hai provato, John. In ogni caso questi tizi sembrano già avere i loro problemi. Non hanno bisogno di…


“Caro?! Cercavi qualcuno?”.


John, le spalle ancora rivolte verso il piccolo palco che occupava un quarto della sala, si bloccò, per poi voltarsi lentamente e mordersi un labbro.


 “No. Cioè, sì. Io…” scosse la testa “… ma ora suppongo non abbia più importanza”.


Il diciassettenne roteò gli occhi, impacciato. “Ero venuto per l’audizione, io...suono”.


Sentendo l’ovvietà che gli era appena sfuggita dalle labbra aggrottò le sopracciglia. Bella entrata in scena, John.


“Oh! Ecco perché sei strano! Tutto regolare, comunque” borbottò il biondo, divertito, poi alzò le spalle, si accese la sigaretta e continuò: “Spiacenti, sei in ritardo amico!”.


“Sì, lo avevo capito. Ci si vede” tagliò corto il bassista, indispettito dall’accoglienza poco amichevole. Aveva corso da una parte all’altra della città per tutto il pomeriggio, mentito a sua madre, chiesto ad Oliver di badare a sua sorella finché lui non fosse rientrato: tutto inutilmente. A quel punto era chiaro che non gli avrebbero dato la possibilità di suonare, quindi che senso aveva rimanere? Giratosi, agguantò nuovamente la maniglia della porta.


“Aspetta!” intervenne il ragazzo che gli era parso un attore. “Come ti chiami?” domandò, facendogli segno di avvicinarsi.


John mosse qualche passo incerto verso di loro.


 “John”.


“Sei in ritardo, John”. Il tono non era accusatorio. Quel ragazzo dall’aspetto etnico e gli occhi marcati da una spessa linea nera sembrava innocuo, semplicemente intenzionato a sapere chi fosse il diciassettenne che era piombato in quella stanza, interrompendo le loro lamentele.


“Beh, sì?” tentò il bassista.


“Capita anche a me, ogni tanto…” ammise l’altro, in modo casuale. Gli altri due musicisti gli lanciarono subito un’occhiata, come a dire: Ogni tanto?! Il diretto interessato, tuttavia, non diede segno di accorgersene e, se se ne accorse, non gli diede peso. Si limitò a scrollare le spalle, offrendo a John un sorriso a labbra serrate.


“Io sono Freddie, tesoro” si presentò, sedendosi sul bordo del palco, le gambe a penzoloni. “E di solito non mordo aspiranti bassisti, a meno che non siano loro a chiedermelo” aggiunse, ammiccando scherzosamente.


Un improvviso calore si irradiò in John e le guance gli si tinsero di rosso. Quando si trovava a suo agio con qualcuno, non gli era difficile lasciarsi andare ad una risata o ad una battuta più colorita del solito.  Anzi, in quei casi, a suo modesto parere, diventava anche piuttosto simpatico. Soprattutto con un paio di martini in corpo. Davanti a nuove persone, però, vincere sulla timidezza sembrava sempre un’impresa impossibile: i pensieri, nella sua mente, si confondevano in un groviglio indistinto, il corpo si irrigidiva e tutto ciò che riusciva a fare era blaterare poche parole, in modo sconnesso.


“Lo so” si affrettò a dire, sfoggiando lui stesso un’espressione confusa, che fece ridere tutta la band. Tuttavia, si trattava di una risata bonaria, non percepiva traccia di scherno nelle tre paia di occhi che erano fermi su di lui. Di questo, fu immensamente grato.


“Facciamo così, John” Freddie si riscosse dalle risate “dicci qualcosa di te e se ci sembrerà interessante ti faremo fare l’audizione anche se sei arrivato tardi. Brian, Roger, cari, che ne dite?”. Rivolse brevemente lo sguardo verso i due compagni, in cerca di un cenno d’assenso.


Brian sospirò, incerto. “Abbiamo già smontato tutto, Fred.”


“Sì e io sto morendo di fame! Letteralmente” rincarò il batterista. Infantile, pensò John.


Qualcosa di interessante, riflettè poi. Ironicamente, la sua vita era tutto fuorché interessante. Insomma, probabilmente la cosa più emozionante che gli fosse capitata nell’ultimo mese era stata ricevere venti sterline di mancia dalla signora Thomas, come ricompensa per averle consegnato e letto il giornale tutte le mattine, per una settimana intera.


 Sì, occasionalmente consegnava giornali al vicinato. Si trattava semplicemente di un lavoretto, uno dei tanti che si trovava a fare per racimolare qualche sterlina e aiutare sua madre. Dalla morte di suo padre, alcuni anni prima, erano ricadute sulle sue spalle le responsabilità e i doveri di un uomo adulto.


Scosse la testa, tornando a concentrarsi sul problema corrente: non aveva idea di come rispondere alla richiesta della band. Forse, a quel punto, ringraziare ed andarsene, sarebbe stata un’opzione migliore. Ma “No, John. Non questa volta” lo ammonì il suo orgoglio. Voleva suonare. Lo avrebbe fatto.


“Curioso che mi chiediate qualcosa di interessante su di me” cominciò, incerto. “Insomma,” proseguì “sono un bassista. I bassisti non lo sono mai. Interessanti, intendo. Se fossi un cantante, un chitarrista o, sì, un batterista sarebbe una domanda lecita ma…nel mio caso suppongo che un po’ di mistero non possa far troppo male” concluse John, stringendosi nelle spalle.


“Non sai ancora nulla della nostra band” obbiettò Brian. “Chi ti dice che noi, al contrario di altri gruppi, non cerchiamo qualcuno con una personalità un po’ più…vivace?” domandò poi, scrutandolo attentamente.


John si torturò il labbro per qualche secondo, spostando lo sguardo da un musicista all’altro. Rifletté, inclinando il capo verso la spalla. Ad un tratto, un guizzo di vita gli balenò negli occhi e un angolo delle labbra gli si incurvò impercettibilmente.


“Io vi servo” constatò, senza traccia di presunzione.


Seguì una breve pausa.


“Oh, io o un altro, si intende. Ma di certo una personalità tranquilla! Non vedo come potrebbe essere altrimenti” ridacchiò, imbarazzato.


Freddie si voltò verso Roger in cerca di spiegazioni ma il batterista scosse semplicemente il capo, confuso, accendendosi un’altra sigaretta.


“Vorresti spiegare anche a noi, bassista?” domandò il biondo.


“Beh, guardati! Guardatevi!” rispose semplicemente John.


“Che accidenti dovrei guardare?!”.  Roger era perplesso.


“Non lo vedete? Tu! Tu non conosci il significato della parola vergogna, scommetto. Mi guardi, mentre fumi quella sigaretta, e sei completamente a tuo agio. Sai anche che io non lo sono e questo ti diverte, in un certo senso. Sei sicuro di te. E un testardo sbruffone. Un po’ infantile, aggiungerei” rifletté John ad alta voce, parlando piuttosto velocemente, srotolando il gomitolo dei suoi pensieri. Tuttavia, il tono era neutro: solo qualche piccola frecciatina qua e là, per ripagare il biondo della fredda accoglienza e per riportare i piedi a terra all’intera band.


 “Oh, vi conoscete già, Roger?” lo interruppe Brian, non lasciandosi sfuggire un’occasione perfetta per stuzzicare il biondo. L’analisi fatta da John era piuttosto azzeccata, in effetti, e la situazione che si era venuta a creare così paradossale da rivelarsi interessante.


“Che cazzo vorrebbe dire?” si difese il batterista, innervosito, per poi lanciare uno sguardo lapidario a Brian e incrociare le braccia al petto. “Non è divertente” borbottò.


Prima che un Roger offeso scendesse dal palco e affrontasse il bassista, quest’ultimo puntò gli occhi sul riccio. “Tu. Sono qui da più di trenta minuti, ormai, e fin dall’inizio ti stai dedicando a quella chitarra”


Brian, automaticamente, abbassò lo sguardo sulla sua amata Red Special.


“Devi essere un tipo piuttosto preciso. Puntiglioso. Pacato, forse. Gentile, certo, ma con un ego piuttosto grande. Sbaglio? Non è una cosa brutta, non deve esserlo per forza ma…può complicare le cose se qualcuno mette mano alle tue idee e decide di cambiarle…” proseguì il diciassettenne.


Brian dischiuse leggermente le labbra, ridusse gli occhi a due fessure e assunse un’espressione piuttosto sorpresa. Poi si limitò a serrare nuovamente le labbra, senza emettere alcun suono.


“Conosce anche te, se per questo” bofonchiò Roger.


“Quanto a me?” lo sovrastò Freddie, rivolgendosi al bassista. “Cosa vedi in me?” domandò lentamente, scandendo le parole, come se volesse invitare John a risolvere un misterioso enigma.


“Beh, tu…tu sei così pieno di energia, estroverso e sicuro di te. Ti muovi come se ogni passo fosse  calcolato, studiato per affascinare un pubblico: ogni sguardo, ogni parola, ogni tocco…nulla sembra lasciato al caso. Credo che tu ti nutra dell’energia che ricavi dalle attenzioni di quello stesso pubblico. Ti comporti come una rock star prima ancora di esserlo: occorre molta autostima per farlo”.


“Solo…questo?” un velo di dubbio e malcelata delusione offuscò per qualche secondo gli occhi enigmatici di Freddie.


“No” John incontrò lo sguardo del cantante, avvertendo una momentanea connessione. “No, non solo questo. Nessuno può essere solo questo. Non ho visto solo questo” mormorò, rassicurandolo.


Certo, aveva notato altro: avrebbe voluto dirgli di quanta bontà avesse percepito nei suoi sorrisi rassicuranti, di quanto gli fosse grato per avergli concesso la possibilità di presentarsi alla band, nonostante il ritardo, di come non gli fosse sfuggita l’insicurezza causata da quegli incisivi prominenti che lo portava a tenere le labbra serrate quando sorrideva o a soffocare una risata dietro ad una mano smaltata.


E poi…


E poi, c’era altro. Tanto altro. Ma era troppo presto: ancora non gli era permesso vedere, ancora non poteva sapere.


Lo sguardo di Freddie sfuggì nuovamente, non prima che John potesse notare stupore e intrigo plasmargli il volto.


 Il bassista si riscosse: “In conclusione, siete tre personalità eccentriche e tre persone testarde …non credo ve ne serva una quarta. Ammesso e non concesso che non vogliate trasformare un ipotetico studio di registrazione in un ring”. Accompagnò la fine del suo discorso con un buffo movimento delle sopracciglia che diceva “fossi in voi, penserei bene a quale sia la decisione migliore da prendere”.


L’intera stanza ricadde nel silenzio.


Brian fu il primo a lasciarsi andare ad una risata. “Un punto per te, John. Te lo concedo!” esclamò, scuotendo la testa.  Alzò le mani in segno di resa. “Ti sei guadagnato la tua audizione, per quanto mi riguarda. Nessuno aveva il coraggio di dare a Roger dello sbruffone da molto tempo, eccezion fatta per me e Fred, ovviamente”.


“Non sono uno sbruffone” rimarcò il batterista, guardando John di sottecchi mentre spegneva la sigaretta sul bordo del palco, disegnando una striscia di cenere nera.


 “Ma ammetto di non averti accolto nel migliore dei modi. Quindi, forse, me lo sono meritato. E, in un certo senso, ti rispetto per averci tenuto testa. Sembri molto più fragilino prima di aprire bocca” ammise, prima di sfoderare nuovamente il suo sorrisino divertito. Tuttavia, questa volta era diverso, in qualche modo: pareva più amichevole, meno distante.


John ricambiò il sorriso, sincero. Era grato che il suo intervento non avesse scatenato nient’altro che qualche risata.


Si rivolse a Freddie, che lo aveva fissato fino a quel momento senza proferire parola. Disse semplicemente: “Il palco è tuo, non deludermi, tesoro!”


Sedutosi su una delle sedie centrali con le gambe incrociate, posò le mani sulle ginocchia, in attesa. Roger si sistemò al suo fianco e sfoggiò uno sguardo indecifrabile, a metà tra il curioso e il provocatorio. Chiaramente, volevano sapere se John si sarebbe dimostrato all’altezza delle aspettative.


Ecco, questo è il momento in cui ti metti in gioco e rovini tutto.


 Salì sul palco, cercando di chiamare a se’ tutta la calma possibile.


 Brian gli mostrò uno spartito. “Dunque, suona da qui a qui. Solo questo pezzo, okay? E, se riesci, personalizzalo. Aggiungi quello che vuoi, rallentalo, velocizzalo. Insomma, mostraci quello che i precedenti nove non hanno fatto” spiegò, muovendo un dito affusolato e calloso lungo il rigo, un sorriso di incoraggiamento stampato in viso.


“Ci proverò” rispose il bassista, cercando di mantenere una voce ferma, che non tradisse la sua agitazione. Imbracciato il proprio strumento, chiuse brevemente gli occhi, esalando un profondo respiro. Poi, li riaprì e li puntò prima sui tre ragazzi che lo osservavano attentamente dalla prima fila, e successivamente sullo spartito sistemato sul leggio di fronte a lui.  Iniziò a suonare e, per la prima volta, la sua voce interiore sembrò volerlo incoraggiare. È questo il momento, John. Dimostra quanto vali. Dimostralo a loro, dimostralo a te stesso.


 


 


“Fine” dichiarò John, stringendo ancora il suo basso.


Erano passati solo pochi minuti, ma erano stati più che sufficienti per convincere i tre membri della band che, dopo una breve pausa di silenzio, annuirono all’unisono raggiungendolo sul palco.


“Sì, sì! Mi piace, lui mi piace!” ripeteva Freddie, entusiasta. “Quel ta-ta-ta-taratara era buono! Molto buono!”


“Uhm, nulla di che” arrossì John, distogliendo lo sguardo.


“Non male, stronzetto” gli sorrise Roger, strappando una risatina al bassista.


 “Quello era…buono! Molto buono! Quanti anni hai detto di avere?” domandò incuriosito Brian.


 “Diciassette” rispose John.


Per il chitarrista, ventitré anni compiuti da poco, quella fu una rivelazione piuttosto sorprendente. “Wow. Sei…un ragazzino. Diciassette anni. Diciassette anni e suoni così!?” rise, incredulo, passandosi una mano tra i capelli.


“Cazzo, sei un bambino!” aggiunse Roger.


“Disse il diciannovenne” lo stuzzicò Freddie, alzando un sopracciglio. Subito, si guadagnò una smorfia dal biondo.


“D’accordo, non mentirò: mi aspettavo qualcuno di un po’ più grande. Io ho ventiquattro anni, tesoro. Ma, ehi, Paul Mccartney era ancora più giovane di te quando si è unito ai Beatles e tu hai talento. Giusto?! Brian, Roger?” sorrise speranzoso posizionandosi alle spalle di John e posando le mani sulle sue spalle, in attesa del responso finale, come se fosse lui stesso ad attenderlo.


“Come? Tutto qui? Voglio dire: ha giocato allo psicologo per un’ora intera ed ora non lo facciamo aspettare neanche dieci minuti? Nessun “ti faremo sapere”, nessuna riunione della band?!” si stizzì Roger, puntando scherzosamente le bacchette verso il bassista.


“Che senso avrebbe, caro? Ti è piaciuto, ci è piaciuto! E ti ha tenuto testa: anzi, ha tenuto testa a tutti e tre, noi vecchi pavoni” lo incitò Freddie.


Il batterista lo scrutò “Direi che possiamo concederti qualche prova con tutti noi…sempre che tu riesca a stare al passo”


“Credo di riuscire a tenere il passo di tre vecchi pavoni” ribatté il bassista, raccogliendo con gioia la sfida lanciatagli.


“Brian?” chiese Freddie. Tuttavia, prima che il chitarrista potesse esprimersi, il cantante intervenne ancora: “Ah, fermo. So cosa stai pensando. Smetti di pensare. John ti è piaciuto, tesoro! No?! Concentrati su questo!”.


“Certo ma…è così giovane. Ho solo paura che…”. La frase rimase sospesa a mezz’aria, incompleta. Lo sguardo del riccio, infatti, era caduto su John e, in particolare, sulle sue dita che tamburellavano nervosamente sul collo del basso. Dita callose: la conseguenza di ore ed ore di esercizio e sacrifici, la testimonianza indelebile di una profonda dedizione, le ferite di una battaglia persa contro la passione. Oh, conosceva bene il significato di quei calli, gli stessi che costellavano le sue mani.


“Fai del tuo meglio, John. Hai talento. Sarebbe sciocco lasciarti scappare” si arrese il chitarrista, annuendo per sottolineare la convinzione nel dare il suo assenso.


John deglutì a fatica, ricacciando indietro tutta la tensione che gli si era accumulata in gola. Provò a fare l’indifferente e a rimanere composto ma risultò tutto inutile. La felicità era tanta da riuscire a scalfire qualsiasi muro la timidezza avesse eretto. Così, si lasciò pervadere dalla gioia di quel momento.


“Davvero?! Voglio dire…grazie! Grazie ragazzi!” esclamò, soddisfatto ed incredulo.


“Bene, John. Sei ufficialmente un membro dei Queen!” esclamò Freddie, stringendogli affettuosamente gli avambracci, ancora alle sue spalle. “Penseremo domani a tutti i dettagli tecnici. Per ora, dobbiamo festeggiare!”


“E far ubriacare John prima che si accorga di quanto voi siate isterici” ridacchiò Brian.


“Hey!”. Freddie pareva indignato.


“Sempre che abbia mai assaggiato una birra!” lo sfidò Roger.


“Scommetto di poter bere più di te prima di ubriacarmi!” mormorò casualmente John, staccando il basso dall’amplificatore.


Qualcosa si accese negli occhi del batterista. Uh, in fondo quel ragazzino non gli dispiaceva. In fondo. “Ci sto, bassista!” replicò deciso e, prima che Brian potesse sollevare una qualsiasi obiezione, si lanciò fuori dalla porta gridando un: “Parcheggio il Van qua fuori, sbrigatevi!”.


 Poco dopo, mentre caricavano strumenti e amplificatori sul Van di Roger, mezzo che usavano per tutti gli spostamenti della band, Freddie sfoderò una domanda lecita.


“John. John, e poi?”


Ci volle qualche secondo perché il diciassettenne afferrasse il senso della domanda, troppo euforico all’idea di star maneggiando la vera strumentazione di una vera band, che faceva veri concerti e di cui lui, ora, faceva parte, veramente. 


“Deacon. John Deacon” si affrettò a rispondere.


Il cantante fece una smorfia. “Credo che dovremmo fare qualcosa per migliorarlo”


“Cosa? Perché?”. John era confuso e stava persino ponderando l’idea di offendersi.


“Perché nessuno con quel nome viene scopato prima dei trent’anni” commentò Roger, divertito.


“John Deacon sembra il nome di un venditore di aspirapolveri porta a porta. A te serve un nome da rockstar, tesoro!” spiegò Freddie, con ovvietà.


“Okay, tutto questo non ha senso: è il mio nome! Non posso semplicemente cambiarlo!”. Ora John era definitivamente offeso.


 “Brian?” cercò aiuto nel riccio.


Il chitarrista alzò gli occhi al cielo, chiudendo il baule del Van e raggiungendo i compagni che, nel frattempo, si erano accomodati al suo interno. Salì sul sedile anteriore, accanto a Roger, che era alla guida. Poi, rivolse al nuovo arrivato un’occhiata carica di comprensione: “Ignorali! Hanno sollevato obiezioni anche sul mio nome!”.


“E infatti avevamo ragione! Quand’è stata l’ultima volta che qualcuno ti ha…?” iniziò il batterista.


“Non sono affari tuoi, Roger!” tagliò corto Brian.


Mentre i due battibeccavano, John se ne stava in silenzio sul sedile posteriore, accanto ad un riflessivo Freddie. Quei tizi erano strani, non c’era dubbio, ma standogli accanto avvertita una piacevole sensazione. Aleggiava qualcosa di nuovo nell’aria: profumo di amicizia, di progetti ambiziosi e di sogni da realizzare.


“CE L’HO!” Freddie interruppe sia il suo rimuginare che il battibeccare proveniente dai sedili davanti. “Deaky! Che ne dici, caro?!” domandò, emozionato.


“Molto meno da sfigato!” concordò Roger.


Brian si strinse nelle spalle. “Sembra carino!”.


“No, no, no! Scordatevelo” si oppose, scuotendo la testa. “Nessuno mi conoscerà mai con il nomignolo Deaky! È stupido! Mi avete sentito?! Mai!”.


Mentre il Van si allontanava dall’Imperial College, John non poteva sapere quanto si sbagliasse.


 


 


 


 


 


 
 
 
   
 
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