Quando
ero piccola non avevo alcuna
concezione dello scorrere del tempo. Tutto era immutabile, certo, i
miei 'per sempre' granitici,
inossidabili,
assoluti. Le cose erano in quel modo e non sarebbero mai cambiate.
L'infinito
era tangibile, fatto di qui ed ora, permeava i capelli neri di mia
madre,
lucenti nel sole reggino di Agosto, in quella città che non
conosce pioggia se
non, forse, a Gennaio. La sua chioma splendeva di un nero gentile, non
finto o
aggressivo da punk post-moderna, no: era un colore caldo, screziato di
rosso e
castano, di soffici torciglioni che ella raccoglieva in una coda
morbida,
proprio come piaceva a me, con quei fermagli larghi che si incrociano
sulla
sommità del cranio a chiudere la forma ellittica. Detestavo
quando li tirava troppo
in uno chignon castigato e metteva il rossetto viola: sembrava
appassire un
poco, perdeva dolcezza - “Mamma,
levati
quel coso” le dicevo e lei, puntuale, mi accontentava. A
volte, mi faceva una
sorpresa e la mattina mi svegliava pettinata con la coda molle e senza
quel
dannato rossetto. Con quella tinta violacea sulle labbra sembrava rifuggire quel sole
che era nei suoi
prendisole a fiori grandi, sbocciati, come nella canzone di Battisti,
nel suo
vestito nero a pois bianchi, nella sua gonna abbinata alla camicia
arancione, che
una volta una signora era vestita uguale, con i grandi occhiali da sole
neri, e
la abbracciai per sbaglio urlando “Mamma!” (ero
già allora una talpa).
Nulla
sarebbe mai cambiato. Nel pieno
dell’Estate, quando la pelle sarebbe diventata meno bianca -
ma di poco, una sfumatura
quasi impercettibile - e il mare una piacevole consuetudine giornaliera
con la
scuola lontana e irrilevante, zia Tita sarebbe arrivata puntuale:
piccola e
rotonda, il cui nome mi è sempre rimasto sconosciuto,
formava il perfetto ‘articolo il’
con mio zio Peppino, alto e
ossuto come un
lampione dell’800.
Avrebbe fatto le cotolette, mi avrebbe portato un regalo che avrebbe
consegnato
a mia madre ed avrebbe trascinato con sé
un’anguria gigantesca, così grande da
faticare a metterla in frigo. Mio padre, finalmente libero dal lavoro,
sarebbe
arrivato a Reggio e l’avrebbe aperta dopo i tentativi inutili
di mia madre e me
ne avrebbe data una fetta: “Mangi, bevi e ti lavi la
faccia”. Io non
ne ero tanto convinta, di sicuro ero
sazia e dissetata, ma la faccia non era lavata proprio per niente: era
appiccicosa e zuccherina, e mia madre me la puliva con un fazzoletto umido.
Alla
fine dell'estate saremmo andati a
vedere le bancarelle e poi avremmo fatto le conserve di pomodoro, con
mio zio
Francesco, su, al quinto piano. I miei capelli si sarebbero impregnati
dell’odore del fuoco e del carbone e mia madre me li avrebbe
lavati.
Era
magico il quinto piano, di quella
magia che permea ogni cosa immotivatamente se vista dal basso con gli
occhi di
una bambina. Non era mai stato completato, e si vedeva già
dalla scala che dal
pianerottolo di mia zia portava sopra: il marmo screziato lasciava il
posto al
grigio cemento, nudo e grezzo. Salite due rampe, la porta di legno
appoggiata
chiudeva l’ingresso all’appartamento. Le scale
proseguivano, ma oltre mi era
impedito di andare a causa di altri ostacoli (non rammento cosa vi
fosse) e il
divieto di mio padre: sopra vi era la terrazza, che non era stata
completata
con la ringhiera, e avrei rischiato di volare di sotto. Al quinto
piano,
invece, potevo giocare in tranquillità. Non
vi erano pareti, solo i pilastri portanti, mucchi di ghiaia in un
angolo dai
quali mi divertivo a scivolare riempiendomi di polvere, assi e gli
attrezzi di
mio padre e mio zio. Il grande calderone dove bollire le conserve era
invece
più riparato, nella parte che dava sulla strada interna,
vicino all’enorme
pianta di Bougainville che dal piano terra si arrampicava per tutto il
palazzo,
creando una volta verde e fuxia sull’ingresso e invadendo gli
spazi esterni dei
primi due piani e sfiorando il quarto, mentre il balcone
all’ultimo piano correva
lungo tutto il perimetro abbracciando, da quell’altezza, la
vista di tutta la
città, dai quartieri alti al mare dello Stretto, con in
lontananza le luci
della Sicilia. Mia zia stendeva le lenzuola nella parte più
ampia della
balconata, dove essa girava per seguire il palazzo; lì si
allargava in un ampio
semicerchio e davvero sembrava di essere come Rose sulla punta del
Titanic: si
dominava l’orizzonte. L’immutabilità,
mentre mi affacciavo da lì, era ancora
più presente. Maramao era morto ma Romeo gatto selvaggio
nato di Maggio ne
aveva preso il posto nelle canzoni di mio padre. A Settembre,
nell’aria
autunnale di Milano, 'Ok il prezzo
è
giusto' sarebbe sempre andato in onda e mia madre l'avrebbe
guardato - dopo
essere finalmente tornata a casa, dopo essere salita e scesa da casa
quattordici volte per accompagnarmi ai vari miei impegni quotidiani ed
aver
atteso ai suoi impegni - prima di preparare la cena, mentre sferruzzava
a
maglia il mio nuovo golfino o la mia nuova gonna a balze; io, dopo aver
avvicinato la poltrona verde acqua al bracciolo del divano dove sedeva
lei, mi
sarei accoccolata con i pennarelli e gli album da colorare regalati
dalla
signora della piscina sulla mensola in vetro, illuminata dalla lampada
che in
un momento creativo avevo scarabocchiato in modo irrimediabile
(Mucciaccia lévati,
altro che attacco d'arte). Il Sabato e la Domenica mio padre mi avrebbe
condotta al Museo di Scienze Naturali dove avrei potuto perdermi ad
osservare
le ricostruzioni degli animali, mentre mia madre a casa preparava una
torta. Avevo
quintali di pennarelli da usare, e sapevo che a Natale altri ne
sarebbero
arrivati, insieme alle videocassette dei dinosauri con Piero Angela,
volto
ormai così presente nella routine quotidiana che ormai mi
ero convinta, senza
alcun dubbio, che
fosse un parente,
forse un nonno magico che viveva nel tubo catodico. Avrei avuto altri
fascicoli
da leggere avidamente sui rettili che 65 milioni di anni prima avevano
dominato
la terra, altri sulle pietre naturali da collezionare e nuovi libri sui
miti
dell’Antica Grecia: avrei continuato ad immaginarmi
archeologa, intenta a
scoprire un nuovissimo dinosauro tutto mio a cui mettere un nome buffo
e ad
ammirare Minerva, Dea protettrice di Ulisse, con i suoi capelli
lunghissimi e
neri così simili a quelli di mia madre. Il mio triciclo
verde mela dalle ruote
cicciotte e bianche sarebbe rimasto sempre lì, fedele
compagno di giochi da
usare in mille modi per misurare per ore intere l’intero
perimetro
dell’appartamento, ché tanto la tipa al piano di
sotto era sorda come una
campana. Mio padre avrebbe continuato a leggermi ‘Topolino’. Il futuro era
nebuloso e lontanissimo. Un giorno sarei
stata adulta, e chissà come mi sarei trasformata. Forse
sarei diventata alta.
Forse i miei occhi non sarebbero più stati irrimediabilmente
color cacca e i
miei capelli arancioni. Forse avrei incontrato una gatta nera, con un
simbolo
sulla fronte, e sarei stata io Sailor Moon, e i miei capelli sarebbero
diventati lisci e pettinabili anche senza chili di balsamo (era quello
che mi
affascinava: capelli chilometrici e neanche un nodo).
Ogni
cosa era perfetta.
Erano
anni felici.
Peccato
che nessuno di
noi se ne fosse accorto.
Crescere,
scoprire che
il salone pieno di regali non era un prodigio di Babbo Natale, smettere
di
volteggiare sul parquet con mio padre sulle note del bel
Danubio Blu o del Flauto Magico in quel
cielo di Milano che all’epoca era azzurro come solo un cielo
di Primavera può
essere, fu traumatico. E lo è ancora. Una volta ho letto in
un libro che ‘crescere non
è un accidente deciso dal
tempo ma
dal coraggio. Solo se abbandoni la comoda via della certezza per
accogliere la scommessa della possibilità, hai qualche chance
di chiamarti adulto’.*
Il coraggio.
Rifletto ancora su questa frase,
su questo coraggio. Per me crescere è stato proprio un
accidente, una decisione
della biologia, del tempo che sotto i miei piedi ha, lentamente e
inesorabilmente, sgretolato ogni certezza. Ogni assolutismo. Ogni ‘per sempre’. Non
c’è stato un termine
esatto, un giorno in cui ho smesso di rincorrere mio padre per fargli i
chiodi
strappandogli i peli delle gambe, è finito e basta.
Senza
che me ne
accorgessi, il tempo passava e cambiava ogni cosa. Non il mio corpo,
no: quello
era cresciuto presto, repentinamente, ma non aveva causato nulla in me.
Ma il
cambiamento attorno continuava. Zia Tita ci lasciò troppo
presto, come troppo
presto ci lasciano sempre coloro che amiamo, e mia madre pianse.
Qualcosa quel
giorno si ruppe per sempre, e le angurie finirono. Non ebbero
più lo stesso
sapore, non furono più così rosse. Zio Peppino la
raggiunse presto: spesso ciò
che la vita ha unito neanche la morte riesce a separare.
Qualcosa
in quel
periodo finì e le persone iniziarono a cambiare. O forse fui
io che cambiai. Mi
spogliai inesorabile della gioia dell’infanzia e iniziai a
vedere le sfumature
della vita, anche quelle che non avrei mai voluto mi appartenessero.
Crebbi
ancora. Non mi
preoccupai. I ‘per sempre’
erano
ancora lì, il quinto piano era ancora lì.
Bastava qualche rampa di scale per raggiungerlo. ‘Poi’, pensai. Non
sarebbe mai cambiato.
C’erano
le medie, il
futuro da abbracciare, succoso come un pesca matura. ‘Sto
crescendo’, pensai. Ma i ‘per
sempre’ restavano, mi davano la certezza lacunosa
di una pia illusione,
nonostante il matrimonio dei miei si sgretolasse ogni giorno di
più e mia madre
diventasse un’altra persona, sempre più distante.
Tagliò i suoi capelli, e
dovetti dire addio ai suoi torciglioni soffici, anche se non me ne resi
conto
fino in fondo. I silenzi smisero di essere quieti e sereni, divennero
pesanti e
finti e soprattutto rari, farciti di una musica di sottofondo che
evocava
rancori ed odi profondi.
Mio
padre non seppe
farci nulla. Non capì. Nemmeno mia madre.
Non
andai più al quinto
piano.
C’era
il Liceo, e il
miracoloso cambiamento non avvenne definitivamente. Non ci fu una gatta
nera, i
miei capelli rimasero arancioni e scarruffati, i miei occhi non
conobbero la
sfumatura del cielo e del mare, i miei centimetri non aumentarono e i
miei
piedi non crebbero. Nemmeno il mio volto cambiò. Tale ero, e
tale rimasi.
Sailor
Moon non conobbe
una sesta stagione e smise di esistere. Forse fu peggio che con Babbo
Natale.
Candy dimenticò Terence e Romeo restò quindi
morto in terra mentre Giulietta
pensava già ad un altro.**
Intanto,
i primi due
piani furono smantellati: le Ferrovie ridussero le spese, e il
personale si
trasferì. Le studentesse che mio padre trovò non
vollero la maestosa Bougainville:
agli impiegati non fregava niente della
pianta, ma per le tipe era diverso - era impossibile aprire le
finestre,
c’erano le spine, il balcone era semi-invaso, e se qualcuno
si arrampicava? Fu
ridimensionata, e da ornamento per tutto il palazzo divenne un placido
alberello che a malapena manteneva la sua funzione di copertura della
volta
dell’ingresso.
Continuai
a non capire,
presa da altro, da cose che ora comprendo quanto fossero inutili: il
ragazzo
che non mi voleva, i brufoli, i vestiti che non mi stavano come avrei
voluto, la
mia faccia, l’ultimo disperato pseudo-corteggiatore
raccattato alla fermata del
bus, le feste e le uscite a cui non ero invitata, il greco che mi
faceva venire
il mal di mare, il latino incomprensibile, la matematica su un altro
pianeta,
la fisica che mi lasciava perplessa e fumata dopo solo due righe.
Mi
accanii su queste
cose futili. Per quelle importanti, era ormai troppo tardi. Avevo
imboccato la
via più semplice, quella del quieto vivere, quella del
‘lasciar correre’:
imparai la rassegnazione e chinai il capo. Preferii evitare le urla di
oggi,
senza preoccuparmi che così facendo quelle del giorno dopo
sarebbero aumentate.
Diventai
bravissima nel
gioco del ‘non sono qui, sono
altrove’.
Nei momenti peggiori, la mia testa si scollegava dal resto e immaginavo
un’altra vita, un’altra speranza,
un’altra me.
Ci
fu un cambio: dal
terzo piano, mio zio scese al primo. Il cancello che separava i primi
due
pianerottoli dal resto della scala fu rimosso. Le studentesse
affittarono il
secondo e il terzo.
‘La
pianta si porta via
la pavimentazione con le radici’, disse mio padre. Fu la fine
per la poverina,
addio fiori fuxia.
Un
piccolo ed innocente
cespuglietto prese il suo posto.
Lo
guardai, triste e
incolpevole. Tondo e paffuto, ignaro di ciò che prima era
stato. Il palazzo mi
sembrò spoglio senza i tralci verdi a rivestirlo, uguale a
tutto il grigiore
già presente.
Le
studentesse spesso
non pagavano l’affitto. Ancora oggi, con tutto che in quelle
stanze ne siano
passati a decine, mio padre ha la capacità di trovarli tutti
restii a saldare i
debiti. Feticisti dei solleciti, ignari dell’esistenza delle
bollette, si
meravigliavano allora - e continuano a farlo anche oggi - del fatto che
se non
si pagano le utenze il Comune te le stacca.
Giunsi
alla maturità e
partorii finalmente la gioia di sopravvivere al Liceo, dopo cinque anni
di
doglie e patimenti. Mi sentii strana: credevo di essere invulnerabile,
che
l’euforia si sarebbe impossessata di me, invece no - uno
strano senso di inquietudine
scorse nelle vene, si attaccò al sangue, e la paura
strisciò sotto la pelle.
Capii
dopo cos’era:
timore del futuro.
Capii
- troppo tardi -
che niente è per sempre, che tutto è destinato a
finire o a cambiare - ‘panta
rei’, tutto scorre: mi tornava
perfino in mente un po’ di greco, o meglio, l’unica
cosa che avevo imparato a
pappagallo.
Capii
che avevano
ragione Alice, il Cappellaio Matto - che tanto matto forse non era - lo
Stregatto:
“Per
quanto tempo è per sempre?”
“A
volte, solo un secondo”.
Divenni
adulta e
conobbi ancora più forte il grigio che non amavo e che
offendeva la mia vista e
il mio sentire. Mi sentii sola.
Altri
anni sono passati
da allora.
Dodici
esattamente.
La
mia vecchia vita è
lontana, eppure ancora troppo vicina, e io non ho avuto il coraggio di
tornare
in quei luoghi e vederli cambiati per sempre.
Il
quinto piano non
esiste più così come lo conoscevo: è
stato venduto.
Ora
la scala continua
dritta, non vi è più il nudo cemento ma un marmo
liscio e lucente.
Credevo
che avrei avuto
tempo per andarci ancora, ma quegli attimi sono passati, e non
torneranno.
Il ‘poi’
è diventato ‘mai’
e infine ‘mai
più’.
I
miei si sono
finalmente separati.
Mio
zio è morto. È andato
via in fretta, invecchiato di colpo, incapace ormai di andare in
campagna alle
cinque di mattina per raccogliere le arance. Era una quercia, aveva
spalle
forti e larghe, era generoso e onesto, ostinato e cocciuto…
era mio zio, che
rideva con gli occhi quando mi vedeva, l’unica nipotina
femmina, che poggiava
la fronte contro la mia e diceva: “Bellabella!”.
Ma
è stato giusto così:
è andato via in fretta, a 91 anni, per quei non-motivi che
si chiamano
‘vecchiaia’, seduto sulla sua poltrona, nella sua
casa.
Non
ho ancora trovato
il coraggio, non sono andata al funerale, non sono tornata in quei
luoghi. Lo
voglio ricordare com’era, forte e vigoroso, voglio credere,
illudermi che lui
sia ancora lì, che quando tornerò ci
sarà ancora, che sarà lui ad aprirmi la porta.
Lo
so che non accadrà.
So
che non esisterà più
Babbo Natale e lo spazio sotto l’albero resterà
vuoto, per quanto una minuscola
parte del mio cuore non si sia mai rassegnata, e forse non lo
farà mai.
Non
mi è stato fatto
dono dell’Eternità, e la carezza dei petali di
stelle a me non è mai arrivata,
come non è arrivato qualcuno che mi amasse esattamente come
Endymion amava
Serenity o come Terence amava Candy.
Ed
io
io
non conosco nulla
di
più terribile
dei
ricordi. ***
*
Citazione dal libro
‘Niente è come prima’,
di ‘I ragazzi di
EFP’, dal racconto ‘Pelle Nuda’, di Sara
Galeotti.
**
Anime ‘Candy Candy’,
di Kyoko Mizuki. Nell’originale i due non tornano insieme.
Terence torna a New
York da Susanna e Candy alla Casa di Pony. La versione italiana ha
modificato
il finale con qualche dialogo, facendo intendere che i due si
riuniranno. In
realtà il finale resta aperto come nel Manga, con Candy che
corre verso Albert,
che le si rivela come Principe della Collina. Il parallelismo
è Terence-Romeo e
Candy-Giulietta. Qualche anno fa è uscito il romanzo e si
è scoperto che Candy
è sposata e vive in Inghilterra. Tuttavia
l’autrice non ha esplicitato il nome
del marito, per rispettare i sentimenti dei fan e non deludere nessuno.
Per
Sailor Moon, si compone di cinque stagioni, e i petali di stelle sono
nominati
nella quinta serie.
***
Citazione
dall’anime ‘Vampire Princess Miyu’,
introduzione all’episodio 5° ‘Ritratto in
seppia’, posta alla fine dell’episodio 4°.