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Autore: lagadema    05/05/2019    2 recensioni
"Quando ero piccola non avevo alcuna concezione dello scorrere del tempo. Tutto era immutabile, certo, i miei 'per sempre' granitici, inossidabili, assoluti. Le cose erano in quel modo e non sarebbero mai cambiate."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando ero piccola non avevo alcuna concezione dello scorrere del tempo. Tutto era immutabile, certo, i miei 'per sempre' granitici, inossidabili, assoluti. Le cose erano in quel modo e non sarebbero mai cambiate. L'infinito era tangibile, fatto di qui ed ora, permeava i capelli neri di mia madre, lucenti nel sole reggino di Agosto, in quella città che non conosce pioggia se non, forse, a Gennaio. La sua chioma splendeva di un nero gentile, non finto o aggressivo da punk post-moderna, no: era un colore caldo, screziato di rosso e castano, di soffici torciglioni che ella raccoglieva in una coda morbida, proprio come piaceva a me, con quei fermagli larghi che si incrociano sulla sommità del cranio a chiudere la forma ellittica. Detestavo quando li tirava troppo in uno chignon castigato e metteva il rossetto viola: sembrava appassire un poco, perdeva dolcezza -  “Mamma, levati quel coso” le dicevo e lei, puntuale, mi accontentava. A volte, mi faceva una sorpresa e la mattina mi svegliava pettinata con la coda molle e senza quel dannato rossetto. Con quella tinta violacea sulle labbra  sembrava rifuggire quel sole che era nei suoi prendisole a fiori grandi, sbocciati, come nella canzone di Battisti, nel suo vestito nero a pois bianchi, nella sua gonna abbinata alla camicia arancione, che una volta una signora era vestita uguale, con i grandi occhiali da sole neri, e la abbracciai per sbaglio urlando “Mamma!” (ero già allora una talpa).

Nulla sarebbe mai cambiato. Nel pieno dell’Estate, quando la pelle sarebbe diventata meno bianca - ma di poco, una sfumatura quasi impercettibile - e il mare una piacevole consuetudine giornaliera con la scuola lontana e irrilevante, zia Tita sarebbe arrivata puntuale: piccola e rotonda, il cui nome mi è sempre rimasto sconosciuto, formava il perfetto ‘articolo il’ con mio zio Peppino, alto e ossuto  come un lampione dell’800. Avrebbe fatto le cotolette, mi avrebbe portato un regalo che avrebbe consegnato a mia madre ed avrebbe trascinato con sé un’anguria gigantesca, così grande da faticare a metterla in frigo. Mio padre, finalmente libero dal lavoro, sarebbe arrivato a Reggio e l’avrebbe aperta dopo i tentativi inutili di mia madre e me ne avrebbe data una fetta: “Mangi, bevi e ti lavi la faccia”. Io  non ne ero tanto convinta, di sicuro ero sazia e dissetata, ma la faccia non era lavata proprio per niente: era appiccicosa e zuccherina, e mia madre me la puliva con un  fazzoletto umido.

Alla fine dell'estate saremmo andati a vedere le bancarelle e poi avremmo fatto le conserve di pomodoro, con mio zio Francesco, su, al quinto piano. I miei capelli si sarebbero impregnati dell’odore del fuoco e del carbone e mia madre me li avrebbe lavati.  

Era magico il quinto piano, di quella magia che permea ogni cosa immotivatamente se vista dal basso con gli occhi di una bambina. Non era mai stato completato, e si vedeva già dalla scala che dal pianerottolo di mia zia portava sopra: il marmo screziato lasciava il posto al grigio cemento, nudo e grezzo. Salite due rampe, la porta di legno appoggiata chiudeva l’ingresso all’appartamento. Le scale proseguivano, ma oltre mi era impedito di andare a causa di altri ostacoli (non rammento cosa vi fosse) e il divieto di mio padre: sopra vi era la terrazza, che non era stata completata con la ringhiera, e avrei rischiato di volare di sotto. Al quinto piano, invece, potevo giocare in tranquillità.  Non vi erano pareti, solo i pilastri portanti, mucchi di ghiaia in un angolo dai quali mi divertivo a scivolare riempiendomi di polvere, assi e gli attrezzi di mio padre e mio zio. Il grande calderone dove bollire le conserve era invece più riparato, nella parte che dava sulla strada interna, vicino all’enorme pianta di Bougainville che dal piano terra si arrampicava per tutto il palazzo, creando una volta verde e fuxia sull’ingresso e invadendo gli spazi esterni dei primi due piani e sfiorando il quarto, mentre il balcone all’ultimo piano correva lungo tutto il perimetro abbracciando, da quell’altezza, la vista di tutta la città, dai quartieri alti al mare dello Stretto, con in lontananza le luci della Sicilia. Mia zia stendeva le lenzuola nella parte più ampia della balconata, dove essa girava per seguire il palazzo; lì si allargava in un ampio semicerchio e davvero sembrava di essere come Rose sulla punta del Titanic: si dominava l’orizzonte. L’immutabilità, mentre mi affacciavo da lì, era ancora più presente. Maramao era morto ma Romeo gatto selvaggio nato di Maggio ne aveva preso il posto nelle canzoni di mio padre. A Settembre, nell’aria autunnale di Milano, 'Ok il prezzo è giusto' sarebbe sempre andato in onda e mia madre l'avrebbe guardato - dopo essere finalmente tornata a casa, dopo essere salita e scesa da casa quattordici volte per accompagnarmi ai vari miei impegni quotidiani ed aver atteso ai suoi impegni - prima di preparare la cena, mentre sferruzzava a maglia il mio nuovo golfino o la mia nuova gonna a balze; io, dopo aver avvicinato la poltrona verde acqua al bracciolo del divano dove sedeva lei, mi sarei accoccolata con i pennarelli e gli album da colorare regalati dalla signora della piscina sulla mensola in vetro, illuminata dalla lampada che in un momento creativo avevo scarabocchiato in modo irrimediabile (Mucciaccia lévati, altro che attacco d'arte). Il Sabato e la Domenica mio padre mi avrebbe condotta al Museo di Scienze Naturali dove avrei potuto perdermi ad osservare le ricostruzioni degli animali, mentre mia madre a casa preparava una torta. Avevo quintali di pennarelli da usare, e sapevo che a Natale altri ne sarebbero arrivati, insieme alle videocassette dei dinosauri con Piero Angela, volto ormai così presente nella routine quotidiana che ormai mi ero convinta, senza alcun dubbio,  che fosse un parente, forse un nonno magico che viveva nel tubo catodico. Avrei avuto altri fascicoli da leggere avidamente sui rettili che 65 milioni di anni prima avevano dominato la terra, altri sulle pietre naturali da collezionare e nuovi libri sui miti dell’Antica Grecia: avrei continuato ad immaginarmi archeologa, intenta a scoprire un nuovissimo dinosauro tutto mio a cui mettere un nome buffo e ad ammirare Minerva, Dea protettrice di Ulisse, con i suoi capelli lunghissimi e neri così simili a quelli di mia madre. Il mio triciclo verde mela dalle ruote cicciotte e bianche sarebbe rimasto sempre lì, fedele compagno di giochi da usare in mille modi per misurare per ore intere l’intero perimetro dell’appartamento, ché tanto la tipa al piano di sotto era sorda come una campana. Mio padre avrebbe continuato a leggermi ‘Topolino’. Il futuro era nebuloso e lontanissimo. Un giorno sarei stata adulta, e chissà come mi sarei trasformata. Forse sarei diventata alta. Forse i miei occhi non sarebbero più stati irrimediabilmente color cacca e i miei capelli arancioni. Forse avrei incontrato una gatta nera, con un simbolo sulla fronte, e sarei stata io Sailor Moon, e i miei capelli sarebbero diventati lisci e pettinabili anche senza chili di balsamo (era quello che mi affascinava: capelli chilometrici e neanche un nodo).

Ogni cosa era perfetta.

Erano anni felici.

Peccato che nessuno di noi se ne fosse accorto.

Crescere, scoprire che il salone pieno di regali non era un prodigio di Babbo Natale, smettere di volteggiare sul parquet con mio padre sulle note del  bel Danubio Blu o del Flauto Magico in quel cielo di Milano che all’epoca era azzurro come solo un cielo di Primavera può essere, fu traumatico. E lo è ancora. Una volta ho letto in un libro che ‘crescere non è un accidente deciso dal tempo ma dal coraggio. Solo se abbandoni la comoda via della certezza per accogliere la scommessa della possibilità, hai qualche chance di chiamarti adulto’.*  Il coraggio. Rifletto ancora su questa frase, su questo coraggio. Per me crescere è stato proprio un accidente, una decisione della biologia, del tempo che sotto i miei piedi ha, lentamente e inesorabilmente, sgretolato ogni certezza. Ogni assolutismo. Ogni ‘per sempre’. Non c’è stato un termine esatto, un giorno in cui ho smesso di rincorrere mio padre per fargli i chiodi strappandogli i peli delle gambe, è finito e basta.

Senza che me ne accorgessi, il tempo passava e cambiava ogni cosa. Non il mio corpo, no: quello era cresciuto presto, repentinamente, ma non aveva causato nulla in me. Ma il cambiamento attorno continuava. Zia Tita ci lasciò troppo presto, come troppo presto ci lasciano sempre coloro che amiamo, e mia madre pianse. Qualcosa quel giorno si ruppe per sempre, e le angurie finirono. Non ebbero più lo stesso sapore, non furono più così rosse. Zio Peppino la raggiunse presto: spesso ciò che la vita ha unito neanche la morte riesce a separare.

Qualcosa in quel periodo finì e le persone iniziarono a cambiare. O forse fui io che cambiai. Mi spogliai inesorabile della gioia dell’infanzia e iniziai a vedere le sfumature della vita, anche quelle che non avrei mai voluto mi appartenessero.

Crebbi ancora. Non mi preoccupai. I ‘per sempre’ erano ancora lì, il quinto piano era ancora lì.  Bastava qualche rampa di scale per raggiungerlo. ‘Poi’, pensai. Non sarebbe mai cambiato.

C’erano le medie, il futuro da abbracciare, succoso come un pesca matura. ‘Sto crescendo’, pensai. Ma i ‘per sempre’ restavano, mi davano la certezza lacunosa di una pia illusione, nonostante il matrimonio dei miei si sgretolasse ogni giorno di più e mia madre diventasse un’altra persona, sempre più distante. Tagliò i suoi capelli, e dovetti dire addio ai suoi torciglioni soffici, anche se non me ne resi conto fino in fondo. I silenzi smisero di essere quieti e sereni, divennero pesanti e finti e soprattutto rari, farciti di una musica di sottofondo che evocava rancori ed odi profondi.

Mio padre non seppe farci nulla. Non capì. Nemmeno mia madre.

Non andai più al quinto piano.

C’era il Liceo, e il miracoloso cambiamento non avvenne definitivamente. Non ci fu una gatta nera, i miei capelli rimasero arancioni e scarruffati, i miei occhi non conobbero la sfumatura del cielo e del mare, i miei centimetri non aumentarono e i miei piedi non crebbero. Nemmeno il mio volto cambiò. Tale ero, e tale rimasi.

Sailor Moon non conobbe una sesta stagione e smise di esistere. Forse fu peggio che con Babbo Natale. Candy dimenticò Terence e Romeo restò quindi morto in terra mentre Giulietta pensava già ad un altro.**

Intanto, i primi due piani furono smantellati: le Ferrovie ridussero le spese, e il personale si trasferì. Le studentesse che mio padre trovò non vollero la maestosa Bougainville: agli impiegati non fregava niente della pianta, ma per le tipe era diverso - era impossibile aprire le finestre, c’erano le spine, il balcone era semi-invaso, e se qualcuno si arrampicava? Fu ridimensionata, e da ornamento per tutto il palazzo divenne un placido alberello che a malapena manteneva la sua funzione di copertura della volta dell’ingresso.

Continuai a non capire, presa da altro, da cose che ora comprendo quanto fossero inutili: il ragazzo che non mi voleva, i brufoli, i vestiti che non mi stavano come avrei voluto, la mia faccia, l’ultimo disperato pseudo-corteggiatore raccattato alla fermata del bus, le feste e le uscite a cui non ero invitata, il greco che mi faceva venire il mal di mare, il latino incomprensibile, la matematica su un altro pianeta, la fisica che mi lasciava perplessa e fumata dopo solo due righe.

Mi accanii su queste cose futili. Per quelle importanti, era ormai troppo tardi. Avevo imboccato la via più semplice, quella del quieto vivere, quella del ‘lasciar correre’: imparai la rassegnazione e chinai il capo. Preferii evitare le urla di oggi, senza preoccuparmi che così facendo quelle del giorno dopo sarebbero aumentate.

Diventai bravissima nel gioco del ‘non sono qui, sono altrove’. Nei momenti peggiori, la mia testa si scollegava dal resto e immaginavo un’altra vita, un’altra speranza, un’altra me.

Ci fu un cambio: dal terzo piano, mio zio scese al primo. Il cancello che separava i primi due pianerottoli dal resto della scala fu rimosso. Le studentesse affittarono il secondo e il terzo.

‘La pianta si porta via la pavimentazione con le radici’, disse mio padre. Fu la fine per la poverina, addio fiori fuxia.

Un piccolo ed innocente cespuglietto prese il suo posto.

Lo guardai, triste e incolpevole. Tondo e paffuto, ignaro di ciò che prima era stato. Il palazzo mi sembrò spoglio senza i tralci verdi a rivestirlo, uguale a tutto il grigiore già presente.

Le studentesse spesso non pagavano l’affitto. Ancora oggi, con tutto che in quelle stanze ne siano passati a decine, mio padre ha la capacità di trovarli tutti restii a saldare i debiti. Feticisti dei solleciti, ignari dell’esistenza delle bollette, si meravigliavano allora - e continuano a farlo anche oggi - del fatto che se non si pagano le utenze il Comune te le stacca.

Giunsi alla maturità e partorii finalmente la gioia di sopravvivere al Liceo, dopo cinque anni di doglie e patimenti. Mi sentii strana: credevo di essere invulnerabile, che l’euforia si sarebbe impossessata di me, invece no - uno strano senso di inquietudine scorse nelle vene, si attaccò al sangue, e la paura strisciò sotto la pelle.

Capii dopo cos’era: timore del futuro.

Capii - troppo tardi - che niente è per sempre, che tutto è destinato a finire o a cambiare - ‘panta rei’, tutto scorre: mi tornava perfino in mente un po’ di greco, o meglio, l’unica cosa che avevo imparato a pappagallo.

Capii che avevano ragione Alice, il Cappellaio Matto - che tanto matto forse non era - lo Stregatto:

“Per quanto tempo è per sempre?”

“A volte, solo un secondo”.

Divenni adulta e conobbi ancora più forte il grigio che non amavo e che offendeva la mia vista e il mio sentire. Mi sentii sola.

 

Altri anni sono passati da allora.

Dodici esattamente.

La mia vecchia vita è lontana, eppure ancora troppo vicina, e io non ho avuto il coraggio di tornare in quei luoghi e vederli cambiati per sempre.

Il quinto piano non esiste più così come lo conoscevo: è stato venduto.

Ora la scala continua dritta, non vi è più il nudo cemento ma un marmo liscio e lucente.

Credevo che avrei avuto tempo per andarci ancora, ma quegli attimi sono passati, e non torneranno.

 Il ‘poi’ è diventato ‘mai’ e infine ‘mai più’.

I miei si sono finalmente separati.

Mio zio è morto. È andato via in fretta, invecchiato di colpo, incapace ormai di andare in campagna alle cinque di mattina per raccogliere le arance. Era una quercia, aveva spalle forti e larghe, era generoso e onesto, ostinato e cocciuto… era mio zio, che rideva con gli occhi quando mi vedeva, l’unica nipotina femmina, che poggiava la fronte contro la mia e diceva: “Bellabella!”.

Ma è stato giusto così: è andato via in fretta, a 91 anni, per quei non-motivi che si chiamano ‘vecchiaia’, seduto sulla sua poltrona, nella sua casa.

Non ho ancora trovato il coraggio, non sono andata al funerale, non sono tornata in quei luoghi. Lo voglio ricordare com’era, forte e vigoroso, voglio credere, illudermi che lui sia ancora lì, che quando tornerò ci sarà ancora, che sarà lui ad aprirmi la porta.

Lo so che non accadrà.

So che non esisterà più Babbo Natale e lo spazio sotto l’albero resterà vuoto, per quanto una minuscola parte del mio cuore non si sia mai rassegnata, e forse non lo farà mai.

Non mi è stato fatto dono dell’Eternità, e la carezza dei petali di stelle a me non è mai arrivata, come non è arrivato qualcuno che mi amasse esattamente come Endymion amava Serenity o come Terence amava Candy. 

Ed io

io non conosco nulla

di più terribile

dei ricordi. ***

 

 

* Citazione dal libro ‘Niente è come prima’,  di ‘I ragazzi di EFP’, dal racconto ‘Pelle Nuda’, di Sara Galeotti.

** Anime ‘Candy Candy’, di Kyoko Mizuki. Nell’originale i due non tornano insieme. Terence torna a New York da Susanna e Candy alla Casa di Pony. La versione italiana ha modificato il finale con qualche dialogo, facendo intendere che i due si riuniranno. In realtà il finale resta aperto come nel Manga, con Candy che corre verso Albert, che le si rivela come Principe della Collina. Il parallelismo è Terence-Romeo e Candy-Giulietta. Qualche anno fa è uscito il romanzo e si è scoperto che Candy è sposata e vive in Inghilterra. Tuttavia l’autrice non ha esplicitato il nome del marito, per rispettare i sentimenti dei fan e non deludere nessuno.                                                                               Per Sailor Moon, si compone di cinque stagioni, e i petali di stelle sono nominati nella quinta serie.

*** Citazione dall’anime ‘Vampire Princess Miyu’, introduzione all’episodio 5° ‘Ritratto in seppia’, posta alla fine dell’episodio 4°. 

   
 
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