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Autore: Gaetano_Cappello    07/05/2019    0 recensioni
Tratto da Sette Dopo il Tramonto, questo racconto ci porta a seguire i passi di Nick, ragazzo tormentato dall'amore, trovato a confrontarsi con una situazione troppo grande: Christine, una ragazza sordomuta che gli cambierà la vita...
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il tempo continua a scorrere?
Sfortunatamente sì.
Scorre?
Che dico, precipita.
Il passato aumenta e il futuro diminuisce.
Le possibilità si assottigliano, i rimpianti crescono.”

Haruki Murakami

 

Era l'estate del 1997 e avevo di nuovo il cuore spezzato. Si chiamava Adeline e stavamo insieme da soltanto un anno. Non credevo che avrei sofferto così tanto per la rottura di una relazione; non dopo essere scampato indenne a quella con Maddy, durata sei anni e finita nel bel mezzo dei preparativi per le nozze.

Ero convinto che il tempo – in maniera inversamente proporzionale – fosse il fattore predominante nell'equazione della sofferenza, perché in quella manciata di mesi le aspettative su Adeline erano tutte orientate verso quel che avrebbe potuto essere; superavano di gran lunga la matura concretezza di quel che Maddy fosse veramente.

In ogni caso, di tempo per risanare le ferite ne avevo a bizzeffe. A venticinque anni, per me, il futuro era un'incognita: un viaggio senza meta in un'autostrada non illuminata.

In quei giorni ero diventato intollerante ai miei genitori e alle loro asfissianti preoccupazioni. All'ennesimo ‘cos'hai?’, mosso dall'ira, scagliai sul pavimento il piatto in cui stavo mangiando della zuppa di verdure. Mentre mia madre si chinava a raccoglierne i cocci, con le gote rosse e le lacrime agli occhi, io levavo le tende. Avevo bisogno di calma e tranquillità, per recuperare me stesso.

Mi rifugiai da Ben, l'amico di una vita, nonché l'uomo con la più ampia scorta di whiskey del Tennessee che abbia mai incontrato. Senza fare molte domande mi procurò un divano a due piazze, una bottiglia di Jack Daniel's, un televisore e mi diede in prestito cinquanta dollari.

Tentai di ricontattare Adeline, ma lei non volle saperne. Diceva che ero pesante, che non si sentiva libera di respirare e che se avevo bisogno di affetto avrei dovuto comprare un cane. Aveva tutte le ragioni del mondo, o meglio ne aveva tante quante erano quelle che mi portavano ad asserire che fosse lei a essere troppo leggera all'interno della coppia. Il gatto che si morde la coda, insomma. L'unica verità assoluta rivelava che la storia era finita, dovevo solo farmelo entrare in testa.

La mattina successiva mi alzai tardi, ma andai comunque al solito bar per fare colazione. La consueta folla che colmava il locale nelle prime ore della giornata doveva essersi dileguata da un pezzo e quando entrai, una sola persona attendeva di essere servita al bancone. Era una ragazza dai lineamenti mascolini, capelli chiari tagliati corti e sedere sodo... estremamente sodo. I suoi occhi erano stupendi, di una sfumatura di verde che non avevo mai visto prima. Era come se avessero sciolto dell'oro sul fogliame chiaro delle ninfee. Mi piaceva.

Quando una porta del cuore è soltanto socchiusa, aprirne un'altra crea corrente. Avevo coniato questa massima soltanto il giorno prima, ed ero già pronto a dimenticarmene. Quasi per sfidare me stesso feci un cenno al barista, indicai la ragazza e dissi: «Pago io quello che prende.»

Il barista le servì una tazza di caffè e scandì molto lentamente le parole: «Guardi, le è già stato pagato.»

Lei si voltò verso di me e mi ringraziò con un tono di voce gutturale, la dizione disarticolata. Visibilmente imbarazzata si apprestò a uscire dal locale, quasi fosse stata messa in fuga dai propri modi.

«Carina... molto carina», dissi al barista non appena fummo soli.

«Carina sì, ma è anche sordomuta.» mi rispose lui, quasi seccato.

Feci finta di non aver percepito il – neanche poi così tanto – velato avvertimento. «Sai chi è?»

«Dai, Nick, dimmi che stai scherzando.» Non parlai. «Si chiama Christine Knox e se non erro vive nel Montana. È qui per i nonni. Non so nient'altro.»

«Trovami il suo numero di telefono!» conclusi, lasciando sul bancone cinque dollari.

Miller non si fece attendere. Nemmeno io. Chiamai Christine quello stesso pomeriggio.

«Pronto? Ciao, sono Nick, il ragazzo che ti ha offerto il caffè al Pit. Be', ti ho vista quasi fuggire e mi chiedevo se ti andrebbe di rivederci, senza impegno.»

La persona all'altro capo dell'apparecchio sembrò ascoltare con attenzione le mie parole, ma quando terminai con l'invito chiuse la comunicazione di netto.

Il mio cellulare squillò dopo un paio d'ore per avvertirmi della presenza di un messaggio di testo. Era lei. Recitava: Scrivimi, per favore.

Inviai le stesse parole che le avevo detto per telefono e la risposta arrivò immediata. Domani offro io.

Mi sentii immediatamente stupido a non aver pensato alle difficoltà che avrebbe potuto avere nel comunicare senza guardare le mie labbra. Stupido, ma anche emozionato. La prigione in cui ero tenuto, quella di nome Adeline, sembrava dissolversi come neve al sole. Nuovi voli pindarici sostituivano i ricordi dolorosi del passato.

Nicholas Jones, è proprio perché sei innamorato dell'amore che vieni sempre fregato’. Mia madre mi riprendeva spesso con queste parole. Non poteva aver torto, ma non le avrei mai dato ragione. A pizzicare i miei nervi fu invece la frase di Miller. ‘Carina sì, ma è anche sordomuta’.

Stavo realmente sottovalutando la questione?

Incontrai Christine il giorno dopo, come d'accordo. Era ancora più bella di quanto pensassi. Ci sedemmo al tavolo più vicino all'ingresso, in compagnia di due tazze di caffè nero forte e due fette di crostata di mele. Fu lei a rompere il ghiaccio iniziando a raccontare di sé con il suo tono imperfetto e scomposto. Trovavo la cosa molto dolce.

Mi disse che era sorda dalla nascita, ma fin da bambina era stata seguita da una logopedista che le aveva insegnato a gestire la voce. Ciò le aveva reso possibile parlare senza più intoppi di quanti la disabilità ne arrecasse in partenza. Giocava a calcio in una squadra femminile semiprofessionistica del Montana e questo spiegava – in maniera abbastanza esaustiva – la consistenza marmorea dei suoi glutei. Io le dissi che suonavo la chitarra in un gruppo rock e lei ne sembrò entusiasta.

«Ho sempre sognato di cantare, sai?» mi disse, raggelando il sangue nelle mie vene. Sentivo di stare per entrare in un discorso da cui difficilmente sarei uscito senza ferirla, o turbarla.

Turbarla? Sei tu l'unico che sembra turbato, mi dissi. Evasi l'argomento e le promisi che l'avrei ricontattata nuovamente. Volevo rivederla.

Ho sempre sognato di cantare, sai? Che sia maledetta quella frase, come l'idea che innestò nella mia testa; probabilmente la più folle e sconclusionata che abbia mai concepito.

Decisi di tornare a casa – dove fui accolto in maniera assai migliore di quanto meritassi – e la invitai lì per il giorno successivo. Acquistai un metronomo e un accordatore cromatico che funzionasse anche con la voce. Avrei provato a insegnarle la musica cercando di spiegarle il tempo e l'altezza delle note in maniera grafica. Con l'accordatore, lei avrebbe potuto vedere l'intonazione della propria voce. Se le avessi insegnato le scale diatoniche, forse sarebbe riuscita a produrre una melodia distinta. Nella mia testa la cosa sembrava funzionare.

Ero convinto di aver sentito il suo cuore esplodere, quando le donai quegli aggeggi. Che il mio battesse all'impazzata era un dato di fatto. Coglione io e la mia avventatezza.

Dopo decine di tentativi, l'unico risultato fu il suo pianto logorante. Il mio incoraggiamento aveva sortito l'effetto opposto a quello desiderato. Tutte e sette le note si erano avvicendate come impazzite nella parte alta dello schermo, senza che il cursore le centrasse. Non ci eravamo andati neanche vicini.

Tentai di chiederle scusa in ogni modo. Tentò di chiedermi scusa in ogni modo. Rimanemmo in silenzio per minuti interi, poi la situazione sembrò stabilizzarsi. La presi tra le braccia e fu come stringere del velluto. Profumava di vaniglia.

«Domani al teatro daranno un concerto. In realtà è più una commemorazione dedicata alla scomparsa di Richard Hutchings», disse lei, rompendo il silenzio. «Anche se non so chi sia.»

«Era il bassista di una band folk locale, una gran brava persona.»

«Mia cugina Missy si esibirà lì. Ti farebbe piacere accompagnarmi?»

Accettai senza pensarci un secondo.

Per l'evento aveva indossato un abito celeste d'organza che lasciava trasparire le forme. Diventava ogni giorno più bella.

Arrivammo quando lo spettacolo era già cominciato, ma trovammo comunque un paio di posti di fortuna. Quando la piccola Melissa Knox raggiunse il microfono e annunciò che avrebbe eseguito ‘Amazing Grace’ voce e pianoforte, mi alzai in piedi per applaudire. Christine mi imitò.

L'esibizione toccò le corde della mia anima e un brivido inaspettato risalì la mia schiena. Avevo i peli delle braccia ritti come pali dell'alta tensione. ‘Quale dolce suono che ha salvato un miserabile come me’, recitava la canzone. Non credevo in Dio, ma quelle parole suonarono dentro la mia testa come qualcosa di spirituale, potente, che prescindeva dal tema religioso del brano. Senza rendermene conto, mi trovai immerso in una sorta di torpore lenitivo. Attorno a me, tutto era perfetto... troppo perfetto.

Appena il pianista intonò la nota finale, Christine richiamò la mia attenzione accarezzandomi il dorso della mano.

«Com'è? È bello?» mi disse all'orecchio, non esattamente sussurrando.

Il tempo si fermò di colpo e il piacevole intontimento provato divenne un sussulto gelido di terrore. Lo avevo fatto di nuovo e ancora una volta non me ne ero reso conto. L'avevo portata in quel posto, quando realmente era lei ad avermici accompagnato. Era lì per me. Il suo cuore era puro e pieno di altruismo e la cosa mi atterriva. Il timore di non essere all'altezza della situazione era diventato una certezza. Non sarei mai riuscito a gestire una relazione simile senza ferire nessuno, me stesso in primis. Scoppiai in lacrime.

Dal giorno successivo non la cercai più. Pensai di far bene a dimenticarla. Non sarebbe stato così difficile, non dopo tutto quello che avevo già passato.

Penserà che la stai abbandonando per colpa della sua disabilità, disse il cervello. Perché? Non è forse così? No. Probabilmente non era del tutto così, ma ero stato meschino e vigliacco... e il cuore lo sapeva.

Lei partì per il Montana e non la incontrai mai più.

Sono passati cinquant'anni da allora e sto morendo in un letto di ospedale, solo, annegando nel mio stesso vomito. Tutta la mia vita si appanna, ma rimane vivido quell'unico ricordo, lucido e chiaro come se si potesse toccare. Christine, da sola in quel teatro, vestita d'organza. Il mio unico grande rimpianto.

 

 

 

 

 

 

 

FINE

 
   
 
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