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Autore: edoardo811    08/05/2019    3 recensioni
La pace ha continuato a regnare al Campo Mezzosangue, gli Dei si sono goduti molti anni di tranquillità. Ma la pace non è eterna.
La regina degli dei Amaterasu intende dichiarare guerra agli Olimpi, mentre un antichissimo mostro ritornato in auge si muove nell'ombra, alla ricerca di Ama no Murakumo, la leggendaria Spada del Paradiso.
EDWARD ha trascorso l'intera vita fuggendo, tenuto dalla madre il più lontano possibile dal Campo Mezzosangue, per ragioni che lui non è in grado di spiegarsi, perseguitato da un passato oscuro da cui non può più evadere.
Non è facile essere figli di Ermes. Soprattutto, non è facile esserlo se non si è nemmeno come i propri fratelli. Per questo motivo THOMAS non si è mai sentito davvero accettato dagli altri semidei, ma vuole cambiare le cose.
STEPHANIE non è una semplicissima figlia di Demetra: un enorme potere scorre nelle sue vene, un potere di cui lei per prima ha paura. Purtroppo, sa anche che non potrà sopprimerlo per sempre.
Con la guerra alle porte e forze ignote che tramano alle spalle di tutti, la situazione sembra farsi sempre più tragica.
Riuscirà la nuova generazione di semidei a sventare la minaccia?
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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17

Milù

 

 

«Siamo sicuri che sia saggio andare a fare colazione al bar dopo quello che è successo all’aeroporto?» domandò Edward.

Tommy spalancò la porta del bar. «Stavo per farti la stessa domanda…» 

Trovarono Konnor e Lisa già seduti a un tavolo, mentre un vecchietto dietro al bancone armeggiava con tazzine, posate e piatti, senza fare caso ai due nuovi arrivati. Era presto, il bar doveva aver appena aperto, il gestore doveva essere ancora nel letto con la testa, e l’età di certo non aiutava, era sicuro che non avrebbero avuto problemi lì dentro. Erano solo quattro, cinque contando Stephanie quando sarebbe arrivata, ragazzi in viaggio. Normalissimi adolescenti. Trasandati, scossi, spossati, con i vestiti strappati, uno di loro con la faccia tagliata in due, adolescenti.

Certo, sarebbe andato tutto bene. Thomas gli aveva dato una t-shirt nuova, del resto. Sarebbe filato tutto liscio.

Konnor stava leggendo un giornale, che a quanto pareva ancora esistevano. E la prima pagina recitava a caratteri cubitali: INCIDENTE ALL’AEROPORTO KENNEDY.

Edward fece una smorfia. Non poteva fare cinque passi senza che qualcuno o qualcosa lo rimandasse a quel maledetto “incidente”.

«Allora? I piccioncini hanno risolto i problemi di coppia?» incalzò Lisa, sogghignando ai due arrivati quando si sedettero.

Edward roteò gli occhi. «Lo scherzo non era divertente la prima volta, pensi che lo sia la seconda?»

Lisa si strofinò le mani sotto agli occhi, fingendo di asciugarsi delle lacrime. «Oh, piccolino, ti ho offeso per caso? Buu huuuh! Non correre a piangere dalla mammina ora!»

Konnor abbassò il giornale non appena udì quelle parole. Tommy schiuse le labbra, voltandosi verso Lisa, che parve realizzare solo in quel momento quanto stupida fosse la frase che aveva appena pronunciato.

«Dalla… mammina?» domandò Edward, stringendo i pugni.

Lisa abbassò le mani. Aprì la bocca, ma non uscì alcun suono. Sembrò pietrificarsi.

«Wow» commentò Thomas. «Bella mossa, genio.»

«I-Io…» mormorò lei. «S-Scusa, ho… parlato senza pensare, m-mi ero dimenticata che…»

«Già, questo è il problema» sbottò Edward, chinandosi sul tavolo per sporgersi verso di lei. «Tu non pensi.»

Lisa abbassò lo sguardo. Per la prima volta parve sembrare mortificata e, soprattutto, senza parole. Non che a Edward importasse granché. C’era un limite a tutto quando si trattava di scherzi, una linea che non andava superata, e Lisa, che l’avesse fatto apposta o meno, l’aveva superata in pieno. Non aveva fatto altro che rompere le scatole fino a quel momento. Era ora che anche lei cominciasse a provare un po’ di rimorso.

Il vecchio barista che portò loro due piatti, uno con uova e pancetta e l’altro con dei pancake, salvò il gruppo di ragazzi da una situazione parecchio sgradevole. «Ora porto anche i caffè» mugugnò, con una vivacità pari a quella di un sasso, per poi svanire.

Konnor allungò la mano verso le uova e la pancetta, ed Edward afferrò senza troppi complimenti i pancake, che con tutta probabilità era stata Lisa ad ordinare.

«Ne vuoi un po’?» domandò a Tommy, il quale scosse la testa. Edward annuì. «Come vuoi.» Chinò la testa sul piatto e cominciò a trangugiare, mentre Lisa osservava senza parole il proprio cibo venire spazzato via da qualcun altro.

Non era un tipo da pancake, preferiva i waffles, ma la fame faceva da padrona, e comunque Lisa meritava una lezione. E poi quelli erano buoni, ma forse era per via della crema al cioccolato e nocciole che avevano dentro. Vennero raggiunti da Stephanie poco dopo che il barista ebbe portato loro i caffè. La tensione nel gruppo sbollì d'un tratto quando si accorsero dell’arrivo della figlia di Demetra, che sorrise. «Ho buone notizie.»

Konnor posò la tazza di caffè, Edward la forchetta, ed entrambi rimasero a osservarla ammaliati, non per via di quello che aveva detto, ma per via del suo aspetto. Si era sciolta i capelli, che ora le cadevano sulle spalle e sulla fronte, e si era tolta gli occhiali. Non era un cambiamento così drastico, ma erano tutti quanti così abituati a vederla con i capelli raccolti ed ordinati e gli occhiali sempre posati sul naso che osservarla con quel nuovo aspetto fu… strano. Non brutto, però. Tutt’altro. Ora aveva un’aria più rilassata e sbarazzina, il tipo che Edward preferiva. Se per lui prima era bella, ora era stupefacente.

«Ehm… che c’è?» domandò Steph, per poi posarsi una mano sul volto. «Ho qualcosa sulla faccia?»

«Ti sei messa le lenti a contatto!» esclamò Tommy, sorridendo, salvando Edward e Konnor. «Finalmente! Stai meglio, così. Almeno non hai più quell’aria da secchiona.»

«Ha-ha. Tu invece hai sempre la stessa aria da baccalà» ribatté lei, afferrando una sedia e sistemandosi al tavolo assieme a loro. Thomas spalancò la bocca, finendo con l’assomigliare ancora di più al pesce a cui Steph l’aveva paragonato. Quel loro scambio permise a Edward di riscuotersi, facendolo ridacchiare.

«Quali buone notizie?» domandò curioso. Buone notizie dopo la valanga di sfortune, per non dire di peggio, che erano capitate? Le avrebbe accettate molto volentieri.

Stephanie tornò a sorridere, fu ovvio ad Edward che i minuti trascorsi da sola per schiarirsi le idee dovevano averle giovato, perché non sembrava più turbata come prima. O forse le buone notizie erano davvero buone.  

«Ho scoperto che città è questa. Siamo a La Plata, nel Missouri.»

Edward corrucciò la fronte. Si scambiò uno sguardo con Tommy, che era confuso tanto quanto lui.

«Ehm… okay, sì, è una splendida notizia, credo…» 

«Non è questa la buona notizia!» esclamò Steph, ridacchiando. «Questa linea ferroviaria è la stessa che porta fino a Kansas City! Ma non capite? È praticamente metà strada, e saremo là per le dieci di oggi! E una volta arrivati possiamo prendere un diretto per San Francisco! E siamo solo al secondo giorno di viaggio!»

Sembrava davvero entusiasta, ed era difficile non lasciarsi condizionare dal suo buonumore e dal suo sorriso. In effetti la prospettiva era allettante, certo viaggiare in treno sarebbe stato più stancante e frustrante che prendere un aereo, ma meno che guidare per tutto il tempo. Rimaneva solo un problema, un problema che quel rompiscatole di Konnor non si sarebbe mai lasciato sfuggire.

«Ma possiamo davvero viaggiare in treno? Con i controllori, le telecamere e tutto il resto?» domandò, tamburellando con il dito sulla prima pagina del giornale. «Siamo arrivati qui da Chicago perché abbiamo preso il treno alle due del mattino, ma prenderne uno a mezzogiorno, alla Union Station di Kansas City di tutti i posti, quanto sicurò potrebbe essere?»

Stephanie osservò il giornale e il sorriso scivolò via dal suo volto. Purtroppo, il figlio di Ares aveva ragione, ed Edward si morse la lingua per averlo pensato, perché odiava dargli ragione.

«Ma non possiamo viaggiare per sempre in auto» replicò, anche se con più incertezza. «È massacrante, e non possiamo nemmeno fermarci a dormire in giro, o rischieremmo di essere raggiunti da altri mostri. Dobbiamo restare sempre in movimento, è l’unico modo. E possiamo farlo solamente con il treno.»

Edward annuì. Anche Stephanie aveva ragione. Non aveva alcuna intenzione di dover guidare ancora per il resto del viaggio, o di farsi squartare anche l’altra metà del volto. Tuttavia, era strano che Stephanie stesse insistendo per fare qualcosa che comunque poteva essere altrettanto dannoso per il loro viaggio, ossia muoversi in pubblico, sotto la luce del giorno e gli sguardi di tutti. Sembrava quasi che il motivo per cui volesse raggiungere Kansas City non fosse solo perché avrebbe giovato all’impresa.

«E se… provassimo a camuffarci?» suggerì Lisa con voce tenue. I quattro si voltarono verso di lei. Lisa parve sentirsi a disagio, soprattutto sotto lo sguardo di Edward, ma tenne i nervi saldi. «Insomma, adesso tu hai un aspetto decisamente diverso da prima» mormorò, rivolta a Stephanie, per poi voltarsi verso di Edward. «E tu… beh… anche tu…»

Distolse lo sguardo, imbarazzata, mentre Edward si sfiorava le cicatrici. «Continua» incalzò, mentre l’idea cominciava a stuzzicarlo.

«Beh, io potrei provare a tagliarmi un po’ i capelli, magari farmi una coda, e Konnor… potrebbe tagliarsi la barba…»

Konnor sussultò. «Cosa?»

«E soprattutto… nei luoghi pubblici dovremmo rimanere separati. La polizia cerca cinque ragazzi, no? Se viaggiassimo insieme, ma divisi in due gruppi, e con i nostri aspetti leggermente diversi, forse daremmo meno nell’occhio. E poi…»

Edward sollevò una mano per fermarla. Lei lo osservò in attesa di un riscontro per un breve istante, poi le sorrise. «Non serve che continui. Mi avevi già convinto quando hai detto che Konnor dovrebbe radersi la barba…»

Lisa riuscì a sorridere e Stephanie annuì. «Sì, devo ammetterlo, potrebbe funzionare.»

«Oh, no. Oh, assolutamente no!» protestò Konnor, puntando il dito contro di lui e contro di Lisa. «Potete scordarvelo! Io non taglio un bel niente! Mi rifiuto!»

«Suvvia, Konnor, è per il bene dell’impresa!» esordì Edward, sollevando le braccia.

«Ma pensate davvero che funzionerà?! Le nostre facce sono sempre le stesse! Non stiamo mica manipolando la Foschia! Ci riconosceranno subito! E comunque…» Konnor sorrise come colto da un’illuminazione improvvisa. «… e comunque non ho mica un rasoio dietro! Non posso tagliare nulla!»

Non appena finì di pronunciare quelle parole, Tommy posò lo zainetto sul tavolo. Non si era ancora pronunciato in merito alla faccenda, ma dal gesto che compì, fu piuttosto chiaro il suo pensiero in merito. Estrasse una lametta dallo zaino, per poi mostrarla a Konnor con un sorriso. «Questa può andare bene?»

Per poco la mascella del figlio di Ares non si staccò dal resto del suo volto. Lisa, Stephanie, Edward e Tommy osservarono il loro compagno di viaggio, sorridendo divertiti.

Konnor rimase con le iridi incastonate sulla lametta per almeno trenta secondi. «… mi prendete in giro, vero?»

Nessuno rispose.

 

***

 

Purtroppo nessuno di loro sapeva manipolare la Foschia, altrimenti sarebbe stato tutto molto più semplice. Tuttavia, potevano aggiustarsi con altri modi.

Con lo zainetto sulle spalle, il berretto a visiera calato sulla testa a nascondere i capelli rossi e la giacchetta diversa, a un occhio distratto Tommy pareva davvero un’altra persona. Edward invece aveva alzato il cappuccio della felpa, e forse, con un po’ di fortuna, nessuno lo avrebbe degnato di un secondo sguardo, stando alle parole del compagno di viaggio.

«Con il cappuccio alzato sembra che tu voglia nascondere la cicatrice» gli aveva spiegato. «Se qualcuno dovesse vederti in faccia, sicuramente la noterebbe, penserebbe che la nascondi perché ti fa sentire a disagio, e allora si volterebbe per farti credere che non l’hanno vista.»

Di fronte a quella spiegazione che aveva quasi dello scientifico, Edward non aveva discusso.

Stephanie si era offerta di aiutare Lisa con il suo cambio di look e Konnor con tutta probabilità stava ancora piangendo in bagno all’idea di perdere la sua amata barba. Il treno sarebbe partito alle sette, dopo quello scalo di un’ora, e ormai non mancava molto.

A dieci minuti dalla partenza, Konnor li raggiunse cupo in volto. Edward dovette trattenersi dallo scoppiare a ridergli in faccia. Proprio come con Stephanie, era così a abituato a vederlo con la barba che senza pareva un bambino di dodici anni. Tuttavia Konnor sembrò intuire il suo stato d’animo perché fece una smorfia. «Giuro che se mi riconoscono anche senza barba io…»

Si interruppe, quando anche Lisa e Stephanie li raggiunsero. I ragazzi, in particolare Thomas, osservarono sbalorditi la figlia di Bacco. Aveva i capelli ricci molto più corti, che ora arrivavano appena all’altezza del collo, raccolti in una coda che le lasciava il viso scoperto. Ancora una volta, erano stati tutti così abituati a vederla con il volto sempre nascosto dai capelli che nessuno di loro si era mai accorto quanto graziosa fosse anche lei, con le lentiggini, la carnagione abbronzata e il naso grosso che però si sposava bene al suo viso. Certo, non era bella come Stephanie, ma si difendeva bene.

Accorgendosi degli sguardi, la figlia di Demetra sorrise, poi indicò la compagna con un cenno della mano. «Ta-daaa! Che ve ne pare?»

Lisa abbassò la testa, avvampando. Tutta quella timidezza sorprese Edward, ma forse era perché si sentiva ancora in colpa per quello che aveva detto nel bar. Non che fosse un problema vederla rimanere tranquilla per un po’ dopo averli infastiditi per tutto il giorno.

«Ehi, stai bene senza barba!» disse Stephanie a Konnor, con un ampio sorriso.

Konnor sembrò colto alla sprovvista. «Oh… grazie.»

Non seppe spiegarsi il motivo, ma a Edward non piacque vedere Stephanie complimentarsi con Konnor. Anzi, sì, il motivo lo sapeva eccome, ma avrebbe fatto meglio a concentrarsi sulle cose importanti. 

«Bene gente» esordì, facendo vagare lo sguardo sul gruppo, per poi sorridere. «Direi che possiamo salire a bordo. Prossima fermata: Kansas City!»

 

***

 

Come al solito, Stephanie aveva avuto ragione. Erano circa le dieci del mattino quando arrivarono a Kansas City. Le tre ore di treno erano state tutto sommato leggere, ed Edward ne aveva approfittato per schiacciare un altro pisolino, ragion per cui non ricordava molto del viaggio.

Non era mai stato alla Union Station, ma ne aveva sentito parlare, e vista dal vivo faceva comunque la sua bella figura. Era un gigantesco e fatiscente edificio bianco, fondato quasi un secolo prima. Quando le porte si spalancarono i pendolari scesero con pigrizia, prossimi ad affrontare l’ennesima routine giornaliera nella grande città, bellamente ignari dei cinque ragazzi che avevano viaggiato assieme a loro da cui, invece, dipendeva il destino del paese e forse del mondo.

«Restiamo separati e non date troppo nell’occhio. Io mi informo sul prossimo treno che dobbiamo prendere» annunciò Stephanie, poco prima di scendere sulla banchina affollata. Edward rimase a bocca aperta quando si accorse di quanto enorme fosse quel luogo, soprattutto se visto da dentro. Il soffitto doveva essere alto almeno cinquanta metri, grosse finestre lasciavano filtrare la luce del sole, che andava a riflettersi sul marmo lucido del pavimento.

I semidei avanzarono tra la folla, dividendosi in mezzo ad essa in due gruppetti, Tommy ed Edward da una parte, Stephanie, Lisa e Konnor dall’altra. Viaggiavano a diversi metri di distanza, cercando comunque di rimanere nei rispettivi campi visivi per non perdersi.

Incontrarono alcune guardie e controllori di quando in quando, ma nessuno badò a loro. Edward realizzò che la gente tendeva davvero a evitare di guardarlo in faccia. Forse Tommy aveva davvero avuto ragione, o forse ai comuni mortali con la testa piena di pensieri non importava un accidente di un ragazzino incappucciato qualsiasi. Raggiunsero l’atrio principale, dove sui lati si trovavano gli sportelli delle biglietterie. Di fronte a loro, un ristorante di due piani.

Stephanie si diresse verso gli sportelli. Con i capelli sciolti e senza gli occhiali, in mezzo alla folla, anche lei pareva davvero un’altra persona. Edward si appoggiò a una parete, incrociando le braccia e tenendo la testa bassa. Tommy rimase accanto a lui, con lo sguardo smarrito tra la gente che camminava, mentre Lisa e Konnor rimanevano accanto alla parete opposta dell’atrio.

Dopo diversi minuti di attesa, Stephanie fece ritorno, invitando gli amici con un cenno della mano a seguirla.

«C’è un treno che parte alle due del pomeriggio» iniziò a spiegare, una volta che furono riuniti in cerchio. «È il più economico che sono riuscita a trovare, ma non è un diretto. Ci vorranno tre giorni di viaggio per arrivare a San Francisco, contando le fermate, gli scali e tutto il resto. Un biglietto costa cinquanta dollari.»

«Aspetta, vuoi prendere i biglietti?» domandò Lisa.

Steph si strinse nelle spalle. «Sarà un viaggio lungo, non possiamo viaggiare senza biglietti per così tanto tempo, qualcuno se ne accorgerebbe. Però… c’è un problema. Non abbiamo abbastanza soldi. Ci servono almeno altri cento dollari, duecento se vogliamo anche mangiare durante il viaggio. Io… potrei chiederli a mio padre, ma lui abita a trenta chilometri da Kansas City. Forse potremmo… prendere un taxi e…»

«Ma non è rischioso?» domandò Tommy. «Insomma… sono certo che lui ci aiuterebbe, però mettersi a gironzolare troppo con i mostri e la polizia che ci cercano… non sarebbe più sicuro non allontanarci troppo da qui?»

«Ma ci servono i soldi» obiettò Stephanie, per poi massaggiarsi dietro il collo. «E poi… vorrei rivedere mio padre solo per fargli sapere che sto bene. Sarà preoccupatissimo ed io… beh…» La ragazza sospirò, scuotendo la testa. «Scusate. Mi sto comportando da egoista… è vero, andare da lui sarebbe solo una perdita di tempo.»

«N-No, non voglio dire questo» si affrettò ad aggiungere Tommy, alzando le mani. «Solo che…»

«Ho paura che non sia possibile» mugugnò Konnor, cupo in volto. «Capisco che tu voglia rivedere tuo padre, ma… temo che la polizia ormai abbia riconosciuto anche le vostre identità. Avranno mandato agenti alle residenze di tutti i nostri parenti. Mi… mi dispiace, Steph.»

Stephanie lo osservò per qualche istante, quasi come se sperasse che aggiungesse qualcos’altro, magari qualche buona notizia, ma alla fine sembrò accettare la realtà, perché abbassò il capo demoralizzata.

Nonostante lui non c’entrasse nulla in quella conversazione, Edward si sentì in colpa. Era per questo che Steph si era mostrata così entusiasta di raggiungere Kansas City, sperava di poter rivedere suo padre. Purtroppo, anche lui aveva sospettato che la polizia avesse localizzato i loro genitori.

«Non preoccuparti, Steph» disse Konnor, rivolgendo un cenno alla ragazza. «Sono sicuro che lui sa che stai bene, e quando completeremo l’impresa passeremo da lui durante il viaggio di ritorno.»

Un piccolo sorriso nacque sul volto di Steph, che annuì. 

Edward cercò di non farci caso. «Rimane comunque il problema dei soldi» riprese a dire, incrociando le braccia. «Davvero ce ne servono altri?»

«Temo di sì» mormorò Steph. «Ne abbiamo solo più un centinaio.»

Edward sospirò. Era un semidio, credeva che i suoi problemi più grandi fossero il non farsi ammazzare dai mostri o arrestare dalla polizia, non il dover racimolare duecento dollari nel giro di quattro ore. E il peggio era che per lui non farsi uccidere, di solito, era semplice; trovare dei soldi invece no.

«E allora come dovremmo fare?»

«Io… io forse ho un’idea» mormorò Tommy, che per una volta non venne punzecchiato da Lisa nonostante l'assist perfetto.

Si sfilò lo zainetto, per poi frugarci dentro. «I miei fratelli negli anni hanno rubato un sacco di cose nel campo, e hanno preso l’orribile abitudine di mettere la roba più preziosa qui dentro. Io volevo restituirla, però… avevo paura che i proprietari se la prendessero anche con me. In ogni caso, potrei… beh, potrei provare a vendere qualcosa in qualche negozio. Se per voi va bene.»

Edward sollevò le spalle. «Non credo ci siano molte altre opzioni.»

Konnor ridacchiò, scuotendo la testa. «Che… situazione bizzarra…» commentò. Per una volta Edward si trovò d’accordo con lui senza odiarsi per quello. Sì, era proprio una situazione bizzarra quella.

«Steph, tu sei già stata a Kansas City, giusto? Conosci un posto che faccia al caso nostro?» domandò il figlio di Ermes, rimettendosi lo zaino sulle spalle.

«Beh… forse possiamo provare al centro commerciale» rispose lei, dopo un attimo di esitazione. «Ma… davvero vuoi provare a vendere qualcosa che non è tuo? Non mi sembra proprio da te…»

«Sono certo che i proprietari capiranno. È… per una buona causa. Credo. Spero.» Tommy sospirò. «In ogni caso, l’alternativa sarebbe borseggiare qualche poveraccio e… e non mi va molto.»

«No, certo che no» convenne Edward, posandogli una mano sulla spalla. «Vada per la tua idea, allora.»

Spostò lo sguardo sul resto dei suoi compagni. «Meglio non rimanere uniti troppo a lungo. Steph, tu vieni con me e Tommy. Konnor e Lisa, voi rimanete qui alla stazione.»

«Ehm, cosa?» domandò Konnor, sollevando un sopracciglio. «E che diavolo dovremmo fare qui?»

«E io che ne so? Fatevi un giro» ribatté Edward. «In ogni caso, non possiamo viaggiare tutti insieme, o desteremmo sospetti.»

«Ma perché proprio noi dobbiamo restare qui?»

«Tommy ha lo zainetto, Stephanie conosce la città e io sono quello che ha la spada divina che dà i superpoteri. Ti basta come risposta?»

Konnor assottigliò le labbra. A dire il vero non parve molto felice, ma non disse altro. Lo stesso fecero gli altri, e così la decisione fu presa.

 

***

 

Il trio procedeva sul marciapiede accanto alla strada, affiancando vetrine di negozi, bar, ristoranti e condomini. Tolta la vista mozzafiato della Union Station dall’esterno, il resto della città non parve così grandioso. Kansas City era la solita grande metropoli, anche se meno affollata di New York.

Stephanie faceva da guida, avanzando per prima e, a differenza di Edward, continuava a guardarsi attorno in preda ai ricordi e alla nostalgia.

«Mio padre mi portava qui ogni settimana quando vivevo con lui» stava raccontando loro, con tono di voce a metà tra l’entusiasta e il triste. «È passato tanto tempo dall’ultima volta, ma ricordo ancora tutto alla perfezione. Non avevo ancora idea di essere una semidea, e anche se non avevo una madre, mi sembrava tutto così… normale. Mi mancano quei giorni.»

«Dev’essere stato bello…» mormorò Tommy. «Anche a me sarebbe piaciuto avere un vero genitore mortale.»

Stephanie si fermò, voltandosi per osservarlo, con espressione mortificata. «Scusa Tommy. Mi ero dimenticata che per te è stato diverso…»

Edward osservò l’amico. Nemmeno lui aveva mai parlato molto di sua madre, ma era chiaro che fosse successo qualcosa di spiacevole tra loro. «Tommy… cos’è successo a tua madre? Se ti va di parlarne.»

Tommy scrollò le spalle. «Non c’è molto da sapere, in realtà.» Sospirò. «Sta bene, di questo non devi preoccuparti. Solo che… diciamo che non tutti i mortali riescono ad accettare il fatto che gli dei esistono davvero. E mia madre è sicuramente uno di questi. Non conosco bene i dettagli, lei non me ne ha mai parlato, ma immagino che avesse progettato una vita con Ermes, magari pensava che lui volesse sposarla, o robe del genere, ma poi ha scoperto che lui non poteva rimanere con lei. E soprattutto ha scoperto che lui era un dio.»

Si strinse nelle spalle. «Lei, una cameriera, una donna qualsiasi, che non aveva nulla e che viveva grazie a un lavoro da poco, aveva attirato l’attenzione di un dio, che le aveva fatto credere di amarla, per poi andarsene, lasciandola sola con un figlio che non faceva altro che ricordarle l’uomo che aveva amato e che l’aveva abbandonata.»

Thomas scosse la testa. «Tutto quello in cui credeva si è rivelato una menzogna, e non potendosela prendere con mio padre, se l’è presa con me. E mia zia, mio zio, il resto della famiglia, nessuno ha voluto intromettersi. Gli unici che invece hanno capito che io non c’entravo nulla sono stati i miei nonni, i suoi genitori. Lei mi lasciava da loro ogni volta che poteva, mi hanno cresciuto più loro che lei, e forse i momenti che ho trascorso con loro sono i pochi in cui ho creduto di avere davvero una famiglia. Fino a quando i satiri non mi hanno portato al campo, almeno.»

«Mi dispiace, Tommy» mormorò Edward. Ora capiva perché l’amico non avesse mai parlato di sua madre. Certo, anche Edward non se l’era passata bene da bambino, ma sua madre era sempre stata con lui, e gli aveva sempre voluto bene. Thomas, invece, non aveva avuto questa fortuna. «Deve essere stata dura.»

Tommy scrollò un’altra volta le spalle. «Sicuramente non come lo è stato per te.»

Edward fece un sorrisetto amaro. «Non è mica una gara.»

«No, certo che no.» Anche Tommy sorrise. «Non volevo dire questo.»

«Essere semidei a volte fa davvero schifo.»

«Già.»

Di fronte a loro, Stephanie si mordicchiò il labbro. «Ecco, ora mi sento da schifo per avervi parlato della mia fantastica infanzia…»

«Ehi, solo perché noi due siamo stati sfortunati non significa che tu non possa avere trascorso dei bei momenti con tuo padre» rispose Tommy, portandosi entrambe le mani dietro al collo, spostando lo sguardo verso il cielo limpido. «Essere semidei farà anche un po’ schifo, ma è quello che siamo, e dobbiamo accettarlo, con i suoi pro, e i suoi contro. Non avrò avuto una madre amorevole, ma ho voi, e ho i miei fratelli al campo. E loro contano su di me per completare questa impresa. E io non li deluderò.»

Thomas scambiò uno sguardo prima con Edward, poi con Stephanie, rivolgendo un sorriso ad entrambi. Erano passate solo poche ore da La Plata, ma pareva tutta un’altra persona. Edward batté il pugno contro la sua spalla. «Ben detto amico. Forza, proseguiamo, non lasciamo che sua maestà Konnor ci aspetti più del dovuto.»

«Poveraccio, rimasto da solo con Lisa» mugugnò Tommy, mentre proseguivano. «Non lo augurerei nemmeno al mio peggior nemico…»

Edward ridacchiò, trovandosi d’accordo con lui. Steph, invece, parve essere di altro avviso. «Non essere così duro con Lisa» lo rimproverò, senza voltarsi. «Prima, mentre la aiutavo con i capelli, sembrava… scossa. Credo che le sia successo qualcosa di brutto.»

«Forse era per quello che ha detto a Edward…»

«Che ha detto a Edward?»

«Niente» sbottò il figlio di Apollo. 

«Ehm… ok» rispose Stephanie. «Comunque, penso che Lisa sia turbata da qualcosa. So che non è stata gentile con te, Tommy, ma forse non lo fa con cattiveria.»

«Resta il fatto che lo fa.» 

Stephanie si strinse nelle spalle, ma non rispose. Edward si grattò la cicatrice. Turbata o meno, Lisa era una testa calda, fine della discussione. E lui lo sapeva bene, perché era proprio come lei. Forse era dovuto al fatto che erano semidei, erano iperattivi e tutto il resto, ma almeno lui sapeva controllarsi. Ogni tanto.

Mentre passavano accanto a un negozio di elettronica, Edward notò una piccola folla radunata di fronte ai televisori esposti in vetrina. Spostò lo sguardo, incuriosito, e sgranò gli occhi. Si fermò, dando un colpo al braccio di Tommy, attirando la sua attenzione. «Mh? Cosa c’è?» 

Edward accennò con il mento ai televisori. A quel punto, Thomas emise un gemito sorpreso. «Steph» chiamò. 

La diretta interessata, che aveva proseguito per qualche metro, si volto. «Sì?»

«Guarda…»

Stephanie affiancò i due ragazzi, e gli sguardi di tutti loro rimasero incollati all’edizione del telegiornale che i televisori stavano trasmettendo. Non potevano sentire l’audio, ma le scritte in sovrimpressione, e soprattutto le immagini, furono più che sufficienti a far capire tutto.

Un cantiere di Chicago era stato interamente ricoperto di vegetazione. Era successo tutto dal nulla, nel giro di una notte. Gli operai che il giorno prima avevano staccato alla sera erano tornati quel mattino trovando il luogo invaso da radici, rampicanti e perfino fiori. La vegetazione continuava a crescere e a svilupparsi a vista d’occhio, e anche se forse la Foschia impediva ai mortali di vederlo, loro tre potevano.

I giornalisti non avevano idea di come spiegare quel fenomeno, così come gli esperti di botanica che avevano contattato. Si parlava di esperimenti fatti nella notte, dell’utilizzo non regolare di qualche fertilizzante sperimentale, si parlava addirittura che fosse opera di – e no, non stavano affatto scherzando – un gruppo di eco terroristi.

Leggendo quelle parole, Edward scosse la testa. I giornalisti erano fissati con quella parola.

«Oh, no…» sussurrò Stephanie, portandosi una mano di fronte alla bocca. «Che… che cosa ho fatto…?»

Uno degli spettatori si voltò verso di loro. Era vestito di stracci, aveva una lunga e incolta barba, capelli neri arruffati e sopra gli occhi un paio di occhiali da sole che parevano essere stati recuperati dritti da un cassonetto. Anche i vestiti parevano usciti da un cassonetto. L'uomo nel suo insieme, pareva essere uscito da un cassonetto.

Quel tizio li scrutò per un istante, ed Edward si irrigidì, temendo che potesse riconoscerli. Una stranissima sensazione cominciò a farsi largo dentro di lui, mentre percepiva lo sguardo di quello sconosciuto analizzarlo. Tuttavia, dopo diversi interminabili attimi, quello sorrise loro, per poi tornarsene a osservare il notiziario. Nessun altro fece caso ai ragazzi.

Atterrito, Edward si voltò verso di Tommy, rimasto anche lui con il respiro mozzato. Stephanie, invece, non sembrava aver fatto alcun caso a quel barbone.

«A-Andiamocene» sussurrò Edward, con il cuore che batteva all’impazzata nel petto. Thomas non se lo fece ripetere. Insieme, riuscirono con un movimento delicato a separare lo sguardo di Steph da quei televisori, e il trio proseguì lungo il marciapiede.

La poveretta era sconvolta. Era impallidita e tremava come un animale impaurito. Edward le strinse il braccio con forza, cercando di rincuorarla, ma la sua mente era altrove. Si voltò di nuovo verso quel tizio vestito di stracci, ma non riuscì più a vederlo in mezzo alla folla di curiosi. Per un attimo pensò di esserselo sognato, ma era sicuro che anche Tommy l'avesse visto. In ogni caso, ora avevano altro di cui preoccuparsi.

Mentre Stephanie si riprendeva dallo shock, i due ragazzi continuarono a scortarla verso i meandri di Kansas City.

 

***

 

Si fermarono un centinaio di metri più avanti e fecero sedere Stephanie su una panchina di fronte a un negozietto. Aveva recuperato un po’ di colore nelle guance, ma sembrava ancora scossa.

«Steph» la chiamò Tommy, schioccando le dita. «Steph, che ti prende?»

«Tommy…» disse Edward, cercando di fargli intuire che era meglio lasciarla stare, ma la ragazza sembrò riscuotersi.

«Quel… cantiere…» mormorò, lo sguardo incollato sul marciapiede. «Sono stata io. Quella vegetazione… è opera mia…»

«Sì, questo l’avevo intuito, ma perché sei così sconvolta? Ci hai salvati, ricordi?»

«S-Sì, però…» Stephanie esitò. «Però… non… non è così semplice. Ho… ho risvegliato la natura in quel luogo e adesso si sta espandendo. Ho paura che non si fermerà solo nel cantiere.» Strinse i pugni con forza. «Potrebbe… potrebbe ricoprire tutta Chicago.»

Edward sgranò gli occhi. Quello… cambiava un bel po’ di cose.

«Non… non puoi dire sul serio» mormorò Tommy. «Vero?»

Stephanie non rispose. Non sembrava affatto che stesse scherzando. Anche perché altrimenti non si sarebbe comportata come se avesse visto un fantasma.

«Chicago… è una grande città» osservò Edward, per una volta cercando di essere lui quello razionale. «Secondo me la vegetazione non la ricoprirà tutta. E anche se invece dovesse farlo, ci metterà un bel po’ di tempo. I mortali si inventeranno qualcosa per fermarla.»

«E se la natura… non lo accettasse? Se si ribellasse? Se qualche mortale si facesse del male, o peggio?» Stephanie scosse la testa, per poi osservarsi le mani. «Sarebbe solo colpa mia… perché non ho saputo usare i miei poteri, mi sono sentita male e… ho perso il controllo su di loro.»

«Nessuno si farà male, vedrai. Dobbiamo solo…»

«Va tutto bene ragazzi?»

I tre sobbalzarono, voltandosi all’unisono verso la persona che aveva appena rivolto loro la parola. Sulla soglia del negozietto di fronte alla panchina era comparsa una donna, che osservava i tre con espressione curiosa e anche vagamente divertita.

Fumava da una sigaretta con il filtro attaccato ad un lungo tubicino di legno, simile a quelle che si vedevano nei film noir.

Indossava strani abiti, una specie di accappatoio rosso con dei fiori stilizzati, chiuso da una cintura, sotto il quale si potevano comunque intravedere i pantaloni bianchi, che si concludevano sui piedi nudi che calzavano in dei sandali di legno. Un bizzarro cappello rotondo e largo, invece, era posato sulla sua testa. All'improvviso, i nomi di quei vestiti si fecero strada tra i suoi pensieri, e a Edward parve di averli sempre conosciuti.

L’accappatoio era un kimono, anche se quello era più semplice da riconoscere, il cappello invece un jingasa. Era fatto di legno intrecciato dipinto di nero, e sia quello che il vestito erano indumenti giapponesi.

Poi, Edward si accorse dell’aspetto vero e proprio della donna. A quel punto, la sua mente andò in tabula rasa.

La pelle era bianca come neve, che cozzava con il colore rosso sangue delle labbra carnose. Gli occhi a mandorla erano marroni, con una sfumatura di ombretto e le ciglia folte. I capelli, neri e luminosi, erano raccolti sotto il jingasa in uno chignon. Aveva visto belle ragazze negli ultimi giorni, le figlie di Afrodite, Stephanie, Natalie, perfino Afrodite in persona, ma quella donna… quella era su un altro livello.

I suoi lineamenti, gli occhi, il naso, le labbra, lo sguardo, perfino quel sorrisetto divertito… ogni cosa non faceva altro che catturare l’attenzione di Edward, rendendo impossibile per lui distogliere lo sguardo. Non aveva idea del perché. Non ricordava l’ultima volta in cui era rimasto così affascinato da qualcuno. Nemmeno Afrodite, con la sua aura da dea, era riuscita ad avere un effetto così forte su di lui.

«S-Sì, va tutto bene, grazie…» riuscì a biascicare come risposta.

«Davvero?» La donna si avvicinò, mentre l’espressione divertita svaniva dal suo volto. «La tua ragazza non sembra molto in forma.»

Per poco Edward non si strozzò con la propria saliva. «L-La mia…» Si voltò verso di Stephanie, che era atterrita tanto quanto lui. Non riuscì a concludere la frase, ma la donna parve intuire cosa volesse dire, perché si portò una mano di fronte alla bocca.

«Oh! Perdonami, devo aver frainteso. Mi era sembrato che foste molto affiatati e… non importa. Ma…» La donna fece un verso sorpreso. «Tesoro, che ti è successo?» domandò apprensiva, posando una mano sulla guancia di Edward e guardandogli le cicatrici. Il ragazzo sentì un brivido percorrerlo da capo a piedi, mentre gli occhi della sconosciuta si posavano su di lui e quella mano fredda e morbida rinvigoriva la sua pelle inaridita dal viaggio con un solo tocco.

«E-Ecco, io…» Edward ingoiò il groppo alla gola. «Sono… caduto in un roseto da bambino…»

Non poté vedere le reazioni dei suoi compagni, ma poteva immaginarsele. Per fortuna, la donna si bevve quella bugia campata all’aria. «Mi dispiace così tanto. Però, guarda il lato positivo. Le cicatrici rendono molto più affascinanti.» Gli strizzò l’occhio, facendolo sussultare. Quello sguardo, quel sorriso, quel viso gentile… Edward pensò di essersi appena innamorato.

«Vi va di entrare per una tazza di thè, cari?» domandò poi la donna, lasciando la guancia di Edward. Non appena lo fece, il mondo gli sembrò un posto peggiore.

«L-La ringrazio, ma non abbiamo soldi…» rispose Stephanie. «Non possiamo fermarci…»

«Non ho mai detto che vi avrei fatti pagare» rispose la donna, ridacchiando. «Suvvia, non fatevi pregare. Sarà un piacere per me aiutare tre bei ragazzi come voi. Entrate, riposatevi un po’. O c’è forse qualcosa che vi turba?»

Li studiò con più attenzione, ed Edward sussultò. A un primo sguardo potevano anche sembrare diversi rispetto alle immagini di loro che erano trapelate tramite i telegiornali, ma se osservati con occhio scrupoloso, nessun cappello, cappuccio o diverso taglio di capelli avrebbe potuto nascondere le loro identità.

«Ora capisco» affermò lei, facendolo trasalire. Si stava già preparando per correre a perdifiato, sperando che i suoi amici lo seguissero, quando la loro interlocutrice tornò a sorridere gentile. «Siete turisti, vero?»

«S-Sì» si affrettò a rispondere, annuendo con più energia di quanto avrebbe voluto usare. «Sì, è così.»

«Sembrate stanchi. È da tanto che viaggiate?»

«Beh…» cominciò Edward, piegando la testa. «Solo da due giorni ma… sono sembrati molti di più…»

«Bene, allora. Fate un salto dentro, magari potreste anche trovare qualcosa di carino da portarvi dietro. Il mio banco dei pegni non è molto grande, ma dopotutto è proprio in posti come questo che si possono trovare tesori nascosti.»

«Banco… dei pegni?» domandò Thomas, aprendo bocca per la prima volta da quando la misteriosa donna era apparsa.

Quella si voltò verso di lui, sorridendo gentile. «Certo caro, banco dei pegni. La cosa ti interessa?»

Edward si accorse solo in quel momento dell’insegna appesa sopra la vetrina scura del negozio. Era una frase in giapponese, con tanto di traduzione dipinta a caratteri più piccoli. A quel punto realizzò che gli sarebbe bastato alzare lo sguardo un attimo prima.

 

ミルの質屋

Banco dei pegni di Milù

 

«È lei Milù?» domandò alla donna, che rispose chinando il capo.

«Sì, sono io. È un piacere incontrarvi.»

Edward scambiò un altro sguardo con Stephanie e Tommy, che sembravano incerti tanto quanto lui sul da farsi. Alla fine, sorrise a Milù.

«Il piacere è tutto nostro. Le dispiace mostrarci l’interno?»

 

***

 

Visto da dentro, il negozietto pareva molto più grande. C’erano cianfrusaglie di ogni tipo, disposte su vari scaffali sulle pareti, da souvenir della città – occhiali da sole, cartoline, palle di vetro – a elettronica – televisori, macchine fotografiche, stereo – a vestiti. C’erano vari ornamenti di manifattura orientale, come alcune lanterne di carta appese e sgargianti stendardi con scritte giapponesi e cinesi – o almeno, Edward pensò che fossero in cinese, visto che non riusciva a capirle. In un angolo notò anche un piccolo acquario con dentro un bizzarro pesce rosso e bianco, una carpa koi in base a quello che recitava la targhetta.

«Quindi vi servono soldi» disse Milù, una volta che finirono di spiegarle la loro situazione. «Allora il nostro incontro è stato provvidenziale, non pensate?»

«Credo proprio di sì» confermò Edward, incrociando le braccia. Il suo sguardo tornò sugli stendardi. «Per caso… le piace la cultura giapponese?»

«Dammi del tu, caro» sorrise la donna, per poi annuire. «E sì, è naturale che mi piaccia. Dopotutto, è da lì che provengo.»

Edward sollevò un sopracciglio, sorpreso. «Intendi dire che vieni dal Giappone?»

«Sì, certo» rispose Milù, allargando il sorriso. «Ora vi dispiace aspettare qui per qualche minuto? Vado a preparare il the» aggiunse, prima che Edward potesse fare altre domande. La donna sparì dietro alla porta al fondo della stanza, oltre il bancone con il registratore di cassa.

«Tutto questo non mi convince per niente» mormorò Stephanie, alcuni istanti dopo la sparizione di Milù. Edward si voltò sorpreso verso di lei. L’espressione della figlia di Demetra era molto diversa. Non pareva più sconvolta come prima, tutt’altro.

«Che vuoi dire?» 

Steph lo squadrò confusa. «Ma come, non sembra anche a te? Insomma… tu possiedi un’arma giapponese, ci sono dei mostri giapponesi che ci inseguono e incappiamo in questa misteriosa donna, giapponese, che, guarda caso, gestisce un banco dei pegni, cioè proprio ciò che cercavamo. Un po’ troppe coincidenze, non credi?»

«Già…» mormorò Tommy, annuendo, anche se pareva avere altre turbe. «Ma… non è solo una questione di coincidenze. Milù… lei… insomma… all’inizio non c’ho fatto molto caso, ma ora... più la osservo, e più mi viene da pensare che lei in realtà non è davvero quello che ci sta mostrando. Però… però non è come se lei fosse un mostro qualsiasi e ci fosse la Foschia a mascherarla, mi spiego? Lei… lei ha qualcosa di diverso, ma non capisco cosa…»

Stephanie annuì. «Me ne sono accorta anche io. C’è qualcosa che non quadra. Non lo pensi anche tu, Edward?»

Edward cominciò a sentirsi in imbarazzo. Entrambi i suoi amici gli stavano dicendo che Milù non la contava giusta, e lui, invece, non aveva scorto proprio nulla di sbagliato in quella donna. Certo, il fatto che il loro incontro fosse stato così fortuito avrebbe fatto sorgere qualche dubbio nella mente di chiunque, ma da quando il viaggio era iniziato erano stati vittime di una sfortuna dietro l’altra. Un briciolo di buona sorte, di tanto in tanto, avrebbero anche potuto averlo. E poi gli aveva detto che era affascinante. Che motivi aveva di dubitare di lei? 

Sospirò. «Sentite, io…»

La porta dietro al bancone si riaprì all’improvviso, e Milù sbucò fuori con un piccolo vassoio di plastica, con sopra quattro tazzine nere contenenti un liquido che ancora emanava del fumo. La donna sorrise di nuovo gentile. «Eccomi, scusate l’attesa.» Posò il vassoio sul bancone, per poi prendere una tazza. «Ho usato un kit istantaneo, quindi la qualità non è certo eccellente, ma spero comunque che possa piacervi.»

Edward tornò a sorridere, afferrando una tazzina. Non era un tipo da thè, anzi, ma non voleva essere scortese. «Non preoccuparti, ti sei disturbata anche troppo.»

Milù gli sorrise calorosa ed Edward fu costretto a distogliere lo sguardo, sperando di non essere arrossito. Bene, oltre agli artigli di mostri rigurgitati dal Tartaro, ora aveva scoperto di avere un’altra terribile debolezza: i sorrisi di quella donna. 

Sì, si era innamorato.

Vide Stephanie prendere una tazza, con espressione ancora poco convinta, per poi annusarne il contenuto.

Edward si avvicinò il the alla bocca, venendo subito inondato dal forte aroma che emanava. Non era un esperto, ma qualunque cosa ci avesse messo dentro, doveva essere parecchio forte. Ebbe appena il tempo di sfiorare il liquido con le labbra, riuscendo comunque a percepirne il sapore davvero intenso, prima che Stephanie apparisse accanto a lui come un miraggio, schiaffeggiandogli la mano con molta poca delicatezza. «Non bere!»

Fece un verso sorpreso, la tazza che cadeva e che andava a frantumarsi sul suolo. Di fronte a loro, Milù sgrano gli occhi. «Ragazzina, che cosa…»

«Non mi prendi in giro» soffiò Stephanie, mostrando un’ostilità mai vista prima, nemmeno contro Campe. Sollevò la tazzina che aveva preso. «So riconoscere l’aroma di un’erba sedativa quando lo sento!»

«C-Cosa? Un… sedativo?» domandò Edward, credendo di aver capito male.

Stephanie annuì. «So riconoscere le erbe velenose, o sedative, e questa era anche più potente del normale. Se ne avessimo anche solo bevuto un sorso noi… Tommy!»

Thomas, con il naso premuto sulla tazza, sobbalzò e fece cadere il recipiente. «Non stavo bevendo!»

Steph gli scoccò un’occhiataccia, poi tornò a fronteggiare Milù. «Chi sei tu? Perché ci hai propinato quella roba?!»

Milù era ancora dall’altra parte del bancone. Non disse nulla, mentre Edward, realizzando una volta per tutte cosa fosse appena successo, faceva cadere l’espressione stupita e si dimenticava all’improvviso della cordialità mostrata poco prima. Si sentì come se fino a quel momento ci fosse stata una bolla attorno a lui, che gli impediva di scorgere i veri colori di Milù, e che Stephanie fosse riuscita a farla scoppiare con le sue parole.

Infine, Milù tornò a sorridere. Ma non era più un sorriso gentile come quelli di prima. Era un sorriso freddo, divertito, ma non in senso buono. Come se trovasse divertente il fatto che i ragazzi avessero svelato il suo inganno. 

«Bene, allora, mocciosa…» cominciò a dire, togliendosi il copricapo e sciogliendosi i capelli, facendoli ricadere sulle spalle, mentre il colore della sua pelle nivea cambiava millimetro dopo millimetro, scurendosi, e i dettagli del suo viso dapprima così stupefacente ora andavano mutando a loro volta, dando lei un aspetto molto diverso rispetto a prima. Il naso si allungò, diventando nero, e quando dischiuse le labbra mostrò dei denti aguzzi, simili a quelli di un animale. Le orecchie sbucarono da sotto i capelli, ingrandendosi verso l’alto, ricoprendosi di peluria bianca all’interno.

Edward non credette ai propri occhi. Il volto della donna ora era coperto di peluria arancione fino al livello del naso nero, che diventava bianca al di sotto di esso. Non era nemmeno più sicuro di poterlo definire volto. Era... era un muso. Il muso di un animale. Milù ora sembrava… sembrava una volpe. O meglio, un ibrido tra una volpe e una donna.

A trasformazione conclusa, Milù tornò a sogghignare, passandosi la lingua color rosa pallido tra i canini affilati. «… vorrà dire che mi occuperò di voi nella maniera tradizionale!»

 

 

 

Nota tecnica per questo capitolo: Milù, come vedrete più avanti, è una creatura particolare, in grado di ingannare le persone. Per questo motivo Edward ha creduto come un povero fesso di potersi fidare di lei, ma verrà spiegato tutto meglio nei prossimi capitoli, non preoccupatevi. Grazie per aver letto. Alla prossima!

 

   
 
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