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Autore: itsrigel    09/05/2019    0 recensioni
Ilista è un mondo diviso da un antico rancore: da una parte il popolo magico, dall'altra il più numeroso popolo terreno. È dalla parte dei Maghi che Yera e Neil sono sempre vissuti, finché un lutto inaspettato non li costringere a prendere posizioni nettamente diverse nei confronti dei non magici. Yera è una ribelle, non vuole arrendersi alle evidenze: la vita da nobile le va stretta, ed è proprio per questo che non cede alle pressioni.
Non sa cosa il Destino e gli Dei abbiano in serbo per lei.
Genere: Avventura, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le tenebre stavano lentamente facendo spazio ai tenui toni dell’azzurro nel cielo. Erano trascorse già parecchie ore da quando le ombre avevano cominciato ad accorciarsi e l’aria stava diventando lentamente più tiepida; le giornate stavano cominciando ad allungarsi. Un vento delicato spazzava la città da sud, portando con sé la brezza del mare, distante poche miglia dalla cittadella fortificata.

Ladomne era l’ultimo centro abitato importante sul versante orientale di Flamek da centinaia di anni ormai, l’unica roccaforte rimasta prima della maestosa catena montuosa che separava il Regno Magico dagli altri. Era un luogo incantevole, a prima vista. Rintanata in una profonda valle verdissima, fra due ali di boschi secolari, era quasi completamente circondata da uno dei fiumi più lunghi di tutta Flamek, particolarità che l’aveva resa uno dei più attivi e floridi centri commerciali dell’intero paese.

Pareva decisamente un pezzo di paradiso rubato agli dei—o magari concesso da loro—soprattutto in mattine di inizio primavera come quella.

La villa del conte si affacciava sulla città dal punto più alto, come appollaiata sul culmine dell’altura su cui la città si sviluppava. Alta almeno quaranta piedi e larga il doppio, di un colore quasi perfettamente bianco, sembrava brillasse di luce propria sotto l’alone del sole, a tratti nascosto dietro una cortina di nuvole. Appena dentro le mura basse ricoperte dai rampicanti, il giardino si estendeva per una ventina di passi prima di arrivare al porticato. A destra e sinistra, cespugli simmetrici potati in modo identico sembravano aprire il passaggio a chi camminava sulla via centrale.

Nel cortile interno, Yera era seduta a terra, gambe incrociate e occhi chiusi.  Come sempre, le sue faccende giornaliere erano cominciate in quel giardino appena dopo l’alba, quando il mondo cominciava a svegliarsi e poteva stare a pieno contatto con la natura per le sue meditazioni.

Poteva percepire il lento movimento verso l’alto dei fili d’erba, lo strisciare silenzioso delle lumache, il respiro potente della Terra.  Era in grado di contare i battiti del suo cuore, tanto andavano lenti. Uno, due, tre. Perse lentamente il contatto col proprio corpo. Sentì gli arti gelare fino a sparire e il suo fisico alleggerirsi sempre di più. Quattro, cinque.


Era in un posto mai visto, vagamente simile come conformazione del terreno e vegetazione alla sua città natale. Si alzò in piedi, disorientata da ciò che vedeva intorno a sé. Rumore di armi che cozzavano fra loro; strani versi acuti di animali mai visti, simili a enormi serpenti alati; una forte puzza di bruciato; e rosso, rosso dappertutto. Ovunque spostasse lo sguardo, Yera vedeva solo sangue. Sui volti delle persone che lo circondavano–centinaia, migliaia– sui vestiti che indossava, nella fanghiglia che le copriva le scarpe. Indossava una pesante armatura in cuoio e metallo, in pugno stringeva una lunga lancia dall’impugnatura dorata, di una tonalità simile a quella del cielo in un tramonto senza nuvole. Sentì qualcuno spingerla, per poco non cadde a terra. Si guardò intorno. Alcuni la stavano guardando, come in cerca di approvazione o punti di riferimento; altri, più lontani, sembravano stare cantando inni di guerra in una lingua che non conosceva, ma riusciva a capire perfettamente, come se fosse sempre stata sua. Sentì un brivido correrle lungo la schiena e una scarica di adrenalina percorrerle il corpo. Alzò in alto la lancia, la cui lama rifletté la luce del sole nascente, illuminando il suo volto come un fascio di luce diretta. Guardò un’ultima volta i suoi compagni e, con un grido incitante, si lanciò sul campo di battaglia.

 

Si costrinse a tornare alla realtà. Riaprì gli occhi quanto più velocemente possibile, un paio di gemme di colori differenti: una scura come ossidiana, l’altra una brillante apatite. Aveva il viso rosso per lo sforzo, la vista appannata e il respiro affannoso. Con estrema cautela si alzò da terra e raggiunse la grande fontana posta al centro della struttura. Immerse entrambe le mani fino ai polsi nell’acqua fredda per poi strofinarle sulla faccia accaldata, nel tentativo di calmarsi.

Ormai erano settimane che visioni del genere la perseguitavano, insinuandosi nei suoi pensieri e impedendole di funzionare normalmente durante la giornata.

In realtà, era tutto iniziato anni prima. Aveva cominciato a sentire delle voci che la chiamavano durante i sogni quando era molto piccola, talmente tanto tempo prima che alla fine se n’era dimenticata. Poi, tutto insieme, le voci si erano ripresentate, accompagnate da immagini, sensazioni vive sulla pelle, emozioni forti come non ne aveva mai sentite.

Si guardò nel riflesso dell’acqua. Aveva uno sguardo spaesato, che sembrava quasi non appartenerle. Il volto aveva un’aria stressata, stanca, testimone delle ultime notti insonni che aveva passato nel tentativo di trovare un senso in ciò che le stava accadendo.

Mentre si riprendeva, qualcosa attirò la sua attenzione: una figura all’angolo del suo campo visivo. Era un ragazzo alto quanto lei, vestito di tutto punto con gilet di velluto e bracciali d’oro ai polsi. Yera si raddrizzò e, volgendosi verso di lui, gli sorrise. Lui ricambiò dolcemente e, stando attento a non infilare gli stivali nelle pozze di fango che il temporale della sera prima aveva lasciato a terra, le si avvicinò.

«Anche oggi allenamenti di prima mattina, sorella?»

Yera sbuffò divertita, dandogli un leggero colpetto sulla spalla non appena fu abbastanza vicino. «Non ho neppure ancora cominciato, Neil. E tu, anche oggi studi di prima mattina?»

«Almeno non sono già tutto sudato. O no?».

Si poteva dire che il ragazzo fosse la perfetta antitesi di Yera: capelli corti, appena ondulati; occhi di un comune color nocciola; fisico esile; carattere quieto e sottomissivo; nulla di speciale, niente che potesse attirare l’interesse di qualcuno. 

Erano poche cose che li accomunavano, due in particolare. Una di queste erano le lentiggini: i due gemelli avevano guance, collo, spalle e braccia ricoperte da centinaia di macchioline castane, che donavano a entrambi un'aria a dir poco infantile. La seconda era un piccolo tatuaggio, che Yera aveva in fondo alla schiena e Neil proprio al centro, fra le scapole: un vortice, nel quale era raffigurato un'elegante rosa dal bordo frastagliato. Lo stemma della loro nobile famiglia. 

Anche a parlare di atteggiamenti e carattere, Neil e Yera sembravano appartenere a due mondi diversi. A conoscerli, nessuno avrebbe mai detto che anche lui fosse il figlio del Conte di Ladomne. Insomma, Neil? Il ragazzino che passava le giornate a leggere libri, chiuso in casa perché se solo avesse osato mettere il naso di fuori sarebbe riuscito a farsi mettere i piedi in testa anche da un bambino? No, di sicuro non era un’idea molto accattivante; nemmeno lui ci credeva troppo.

Yera, lei sì che sarebbe stata un’ottima leader. Già dall’aspetto sembrava molto più regale e minacciosa del fratello. Tutti in città sapevano perfettamente che era l’orgoglio del padre, la luce dei suoi occhi. Era un vero e proprio uragano, che arrivava e travolgeva tutti e tutto ciò che trovava per la sua strada. Un’ottima maga, tra le altre cose, una promessa di grandezza. Neil la ammirava, a tratti gli era capitato di vederla come una sorta di divinità. Il portamento che aveva in ogni occasione e la sicurezza dentro i suoi occhi solo quello riuscivano a ricordargli: un dio dell’antico pantheon, una di quelle divinità che nei regni adiacenti ancora si veneravano.

Peccato per quella piccola macchia sul suo onore, mezzosangue. La gente storceva il naso quando sentiva i loro nomi, faceva segni di scongiura nel vederli passare per strada.

Le leggi razziali erano state introdotte a Flamek quasi cento anni prima della loro nascita e da allora in pochi si erano azzardati a sfidarle. Uno fra questi, in tempi relativamente recenti, era stato loro padre, Barahel, nel momento in cui aveva deciso di andare contro le convenzioni sociali e sposare una ninfa. Per amore aveva accettato che il suo titolo nobiliare fosse declassato da principe a conte, la sua esclusione quasi completa dalla vita politica e, indirettamente, l’esclusione dei suoi figli da essa. Tecnicamente, in quella famiglia nessuno aveva diritto di vivere. La loro sola esistenza era un affronto alle leggi del paese, di questo erano tutti consapevoli. Era solo in nome di una profonda amicizia che il re aveva concesso a Barahel la possibilità di diventare conte di quell’appendice lontana del Regno Magico, adiacente a quello di umani ed elfi.

Yera sorrise, il volto tirato dalla spossatezza che la meditazione di poco prima le aveva lasciato addosso. «Già, credo che per adesso in realtà mi fermerò qui. Ho delle commissioni da sbrigare in città per conto del mio tutore e non ho voglia di arrivare tardi a pranzo». 

Neil rise divertito e le diede una pacca sulla schiena prima di allontanarsi. «Faresti meglio ad andare a cambiarti allora, non manca così tanto».


Dopo una corsa fino alla sua camera—su per due rampe di scale, a destra fino al termine del corridoio e poi di nuovo giù, fino agli alloggi riservati  alla famiglia del Conte— e una sciacquata con acqua di rose e lavanda per pulirsi dal sudore, come sempre le ci vollero ore, o almeno le sembrò così, per riuscire a districare quella matassa informe di capelli che si ritrovava in testa, ma alla fine, dopo un enorme sforzo e tanta buona volontà, riuscì a sistemarli in un'elegante treccia che cadeva sulla spalla sinistra. Si vestì con abiti ricchi, in seta e fili d’oro, come era tradizione che una donna d’alto rango si vestisse, prese la borsa di tela poggiata sulla console al centro della sua camera da letto e uscì silenziosamente fuori. 

Solitamente, Yera non prendeva la strada principale per arrivare in città. Le piaceva perdersi nella natura, allungare il tragitto di qualche centinaio di metri giusto per godersi la solitudine e il contatto col verde. Il bosco non si trovava troppo distante dalla villa. Yera ci arrivò con poco, prese il sentiero dove solitamente passavano i carretti dei contadini che abitavano l'area circostante e si inoltrò nel fitto. In poco tempo, le farnie la circondarono completamente. Il terreno argilloso era ricoperto di ghiande e impronte dei cinghiali. L'aria era piena degli stridii aspri delle ghiandaie, che, sentendola arrivare, alzavano le loro grida d'allarme; oltre ciò, l'unico rumore che Yera poteva sentire era quello delle foglie secche che calpestava.

A Yera piaceva starsene lì in solitudine. D'estate, era solita sedersi fra gli alberi a gambe incrociate, con gli occhi chiusi e qualche cristallo al suo fianco. La pace era quasi assoluta, meravigliosa. Si fermò in mezzo al sentiero e inspirò a pieni polmoni l'aria che sapeva di muschio. Poteva sentire gli alberi parlarle, la terra darle la sua energia. Nel suo sangue c'era qualcosa che le sussurrava che quella era casa, che lì era sicuro. I pericoli della foresta sarebbero stati protezione per lei, le tempeste carezze, gli animali compagnia. Avrebbe potuto nascondersi lì, per oggi, per un anno, per sempre; vivere in solitudine come l'istinto le dettava. 

Eppure, non si era mai fermata più di qualche ora lì dentro. La paura dell'ignoto, in qualche modo, era sempre riuscita a trattenerla da quei pensieri malsani. E anche quella volta si rimise in cammino. 


Arrivò al paese che non era ancora passata l’ottava ora: un agglomerato di casette modeste, povere, anonime. Se non fosse stato per le grandi magioni del posto, un tempo usate solo per villeggiatura dai nobili, Ladomne avrebbe potuto anche non esistere. Le strade lastricate erano quasi completamente vuote: probabilmente la gente aveva rincasato in vista del temporale che sarebbe venuto giù di lì a poco. Il cielo era livido, gonfio, e incombeva minaccioso sulla teste. La poca gente rimasta si scansava al passaggio di Yera, il cui andamento fiero sembrava andare d'accordo con quello intimidatorio delle nuvole.

Il mercato si trovava ogni mattina nella piazza principale della città, poco distante dalla scuola di magia che da poco, sotto ordine del re, era stata aperta in tutte le più importanti città di Flamek. Sotto il grande capannone di legno erano accalcate decine di persone, che si trovavano lì un po' per comprare il cibo della giornata, un po' per ripararsi dal maltempo. Yera lo aggirò, tenendosi a debita distanza  .

Tra le persone comuni, quelle che non avevano l’onore di vivere sotto la protezione di Barahel a corte, gli sguardi erano più crudeli. Ridacchiavano fra di loro e si aprivano al suo passaggio, ironici, facendole cenno di passare e inchinandosi, come se lei fosse stata più importante di loro. 

Sii fiera, le disse una voce nella testa. In fondo, le sarebbe bastato fare qualche giro e tornare a casa, dove sicuramente i genitori si erano svegliati e la aspettavano. Ricorda chi sei

Non si scompose nemmeno quando le sputarono addosso.                                                                                                                                                                                                                                                         


La biblioteca di Ladomne era un edificio basso e lungo, intricato come un labirinto e, a primo impatto, immenso.  Realizzato in pietra massiccia per poter resistere il più possibile alle forze della natura, decorato con stucchi elaborati e vetrate finissime, era sotto la tutela del Santuario di Shaar locale.

Dopo aver aggirato il mercato ed essersi addentrata in una via secondaria poco conosciuta, Yera si era ritrovata davanti al portone della costruzione. Spinse una delle due pesanti porte in legno rinforzato ed entrò. Subito, ad accoglierla, si avvicinò un Serviente, un sacerdote minore del dio. Indossava gli abiti tradizionali del Clero: una tunica scura stretta in vita da un’alta fascia rossa, una camicia troppo grande per lui e sandali aperti.

«Posso esservi utile, mia signora?» La sua voce era gentile, ma Yera poteva leggere nel suo sguardo freddo il disprezzo che provava nei suoi confronti. In fondo, sembrava logico: avere rapporti con altre razze era considerato abominio dalla religione.

Yera raddrizzò la schiena e superò l’uomo, guardandosi intorno con fare superiore. «Cercavo un manuale di teologia antica, un anonimo dalla biblioteca di Daham. Mio padre è venuto in persona a richiederne una copia mesi fa». Rivolse lo sguardo verso il Serviente, in attesa di una risposta, ma trovò solo un volto spaesato.

«Mia signora, forse sarebbe il caso che vostro padre venga a ritirare il volume, non vorrei che...»

«Io sono qui adesso». Yera lo squadrò innervosita: a guardarlo, non gli avrebbe dato più di quattordici anni, un bambino del popolo. Lo vide farsi piccolo sotto il suo sguardo, quasi imbarazzato avrebbe detto. «Non amo aspettare. Portami quel volume, adesso».

Il ragazzo fece un inchino goffo prima di sparire tra gli scaffali e ricomparire pochi minuti dopo con un tomo rilegato in cuoio tra le braccia. Yera lo prese senza troppe cerimonie e lo infilò nella sacca che portava a tracolla, senza allontanare i suoi occhi dal giovane.

«Barahel è la persona che più di tutte in questa città si dà da fare per tenere in piedi questo posto». La voce di Yera sembrava calma, ma i suoi occhi tradivano l’orgoglio ferito. «Vi consiglio di fare in modo di non indispettire i figli del Conte». 

Neil non avrebbe mai potuto descrivere la sua vita in alcun modo se non monotona. Gli sembrava di vivere lo stesso giorno in eterno, ora dopo ora, all'infinito. Non usciva di casa se non per degli imprevisti, non parlava con nessuno se non con i suoi parenti, non faceva nulla se non ripetere le stesse cose del giorno prima. E di quello prima, e di quello prima ancora.

A casa, aveva cominciato le sue faccende giornaliere seguendo la routine di sempre: appena sveglio aveva innaffiato le piante nella sua stanza. Poi si era vestito, sistemato i capelli e infine era uscito dalla camera, diretto gli dei sapevano dove. Aveva incontrato Yera nel cortile, ci aveva chiacchierato per un po’, e poi?

Poi era tornato di corsa alla sua noiosa, patetica routine. Uscito dalla magione, si era messo a passeggiare per l’enorme giardino della famiglia. 

Aveva deciso di uscire quando Yera gli era passata accanto, diretta veloce verso il paese. Si era avvicinato al muro di cinta con calma, pensando bene alla sua scelta. Uscire di lì avrebbe significato esporsi ai pericoli della città. Era disposto a tentare la sorte per qualche ora differente dal solito?

Più tardi, una volta in paese, si sarebbe accorto di aver preso la decisione sbagliata.


Risate di scherno e grida di sporadici incantesimi risuonavano nella piazzola al centro della città, dove i giovani erano soliti incontrarsi da un tempo talmente lontano che tutti i maghi delle generazioni precedenti potevano affermare che anche loro, durante la giovinezza, avevano passato giornate lì a scherzare con i compagni.

Con Neil, gli scherzi andavano troppo spesso oltre il limite di ogni normale sopportazione. Il ragazzo era sdraiato a terra, con il naso che grondava sangue al punto di impedirgli la respirazione. Avrebbe voluto chiamare aiuto, o per lo meno riuscire ad urlare per il dolore, ma qualcuno, a quanto pareva, gli aveva chiuso la bocca con un incantesimo di uso fin troppo comune per i suoi gusti. I capelli castani erano sparsi intorno al viso, dentro gli occhi, alcune ciocche che gli erano state strappate giacevano per terra, calpestate dai numerosi piedi che passavano di lì. Era una scena talmente frequente che, ormai, nessuno dei passanti se ne curava più.

Era tutto iniziato con dei piccoli insulti, quando erano poco più che bambini. All’inizio, non se n’era curato. In fondo, aveva sempre saputo che, in una comunità chiusa su se stessa come quella magica, il figlio di una ninfa non sarebbe mai stato visto di buon occhio. Per quanta importanza suo padre avesse mai potuto avere, aveva sempre saputo in cuor suo che farsi accettare sarebbe stato un problema.

Dalle parole si era passati alle mani, nel giro di poco tempo. Un braccio rotto, un dente perso, sangue versato a terra. Dalle mani, i suoi tormentatori si erano evoluti, passando alla magia. Era stato a quel punto che erano apparse le visioni. Lampi di esistenze lontane dalla sua, scene quasi sempre identiche a sé stesse, che riuscivano solo a lasciargli addosso un’angoscia maggiore di prima. Ricordi che non sapeva di aver mai vissuto, pensieri che gli appartenevano ma che non sapeva di aver elaborato. Sensazioni vive sulla pelle, dolorose quasi quanto i pugni che incassava.

Neil era stato costretto a lasciare la scuola quando aveva appena dieci anni. Aveva pensato che, andando via da quello scenario, le cose sarebbero migliorate.

Eppure adesso era lì, a terra, coperto di ridicolo e col volto inzuppato dalle sue stesse lacrime.

Sentì distrattamente qualcuno, oltre il limite del suo campo visivo, alzare la voce sopra tutte le altre. Il dolore si alleggerì d’improvviso, lasciandogli la possibilità di respirare. Aprì affannosamente le labbra, permettendo all’aria di riempirgli i polmoni. Qualcuno gli si parò davanti, di spalle. Aveva lunghi capelli ricci e la voce forte come il fragore di un tuono. Allontanò il capannello di gente che si era radunato per ammirare la scena, lanciando occhiate di fuoco intorno e insulti non poco coloriti.

La figura portava sulle spalle una giacca lunga fino ai piedi, di un viola argenteo su cui spiccava, al centro, un emblema ben preciso: una rosa in fiore di colore bianco, inscritta in un cerchio del medesimo colore decorato con fregi dorati che riportavano una scritta nella loro lingua natale, Kaishior ash ssi resi kaliva, “il protettore non abbandona”. 

Si voltò verso il ragazzo, e Neil poté finalmente guardarla in volto. Per qualche istante, ancora immerso nelle immagini di poco prima, non riuscì a riconoscerla. La ragione sembrava andare e tornare, lo abbandonava per lunghi, terrificanti momenti e subito dopo, come se nulla fosse, tornava a renderlo consapevole di cosa stesse succedendo.

Gli occhi della giovane donna lo fissavano con il fuoco dentro, uno sguardo che terrorizzava; Neil era sicuro che avrebbe potuto incendiare l’intera città solo con quello. 

«Alzati», comandò, tirandolo su per un braccio. Il ragazzo gemette per il dolore, ma non se lo fece ripetere sue volte. Si appoggiò alla spalla della sua salvezza, tossendo per liberare le vie respiratorie dai grumi di sangue. 

«Grazie» mormorò, ma a quel punto nessuno lo stava più ascoltando. Si sentì tirato via dalla folla, mentre dietro di loro gli insulti e le minacce per entrambi si sprecavano. Faticava a tenersi in piedi, le ginocchia sembravano troppo deboli per sorreggere il caos dentro di lui, ma la paura di restare indietro fu abbastanza convincente per farlo sforzare ad andare avanti.

Neil alzò lo sguardo, incontrando il volto di Yera. Era contratto nello sforzo di trascinarlo, distorto dalla rabbia e dalla vergogna. La grande massa di ricci continuava a caderle davanti gli occhi e lei doveva continuamente soffiarli via, sbuffando esasperata.

«Grazie» ripeté, una volta riuscito a riprendere piena coscienza di sé stesso ed essere riuscito finalmente a riconoscere la sorella. Yera lanciò uno sguardo alle sue spalle, per assicurarsi che nessuno li stesse seguendo.

«Non ringraziarmi».

   
 
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