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Autore: kurojulia_    09/05/2019    2 recensioni
Yuki ringhiò, stringendo i denti in una morsa dolorosa. Dannazione. L'unica cosa che potevano fare – l'unica che avesse un po' di senso, per lo meno – era quella di levare le tende. Eppure, la sola idea di lasciarli continuare a vivere, impuniti, la faceva impazzire come il più spregevole dei demoni. Se fosse dipeso da lei, sarebbe rimasta nella neve fin quando essa non le avesse raggiunto le ginocchia, e avrebbe continuato ad ucciderli. Fino all'ultimo.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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24.




Ai si era infilata nel letto, piccolo in confronto a quello che aveva lasciato a casa sua. Era il letto di Takeshi. Lei ci entrava tranquillamente, con le coperte fino al naso, lo sguardo fisso sulla parete. Poco più di cinque minuti dopo, era già in dormiveglia. Sentì i passi silenziosi del ragazzo, la coperta che si scostava e il suo calore che l'avvolgeva immediatamente, il suo respiro farsi quieto e regolare.

Ai aprì le palpebre e ruotò la testa verso l'umano, guardandolo fra le ciglia – con gli occhi chiusi, sembrava già addormentato, ma la piccola mezzosangue sapeva che non era così. Lo capiva dal battito del suo cuore, ancora troppo veloce, o il respiro non abbastanza costante.

Stava cercando di rimanere sveglio?

Ai girò di nuovo la testa e chiuse gli occhi, lasciandosi sprofondare nel buio del sonno – desiderando una notte insipida. Era tutto ciò di cui aveva bisogno, in quell'istante: una notte vuota e senza sogni. Così, forse, avrebbe potuto dimenticare tutto.

 

Tuttavia, lei non aveva fatto niente per meritare un sonno ristoratore. Lei non aveva realmente aiutato durante quella sorta di invasione, se non in quell'unico caso nella stanza di Yuki. Proprio per questo, doveva essere punita.
Doveva vedere il volto di suo padre, bianco come un lenzuolo, ora immerso in una pozza di sangue scarlatto; doveva vedere sua madre smontarsi pezzo per pezzo, come un manichino, le ossa scivolare via dal suo corpo; doveva assaporare la morte della sorella – una morte fittizia.

 

 

Spalancò gli occhi, tappandosi la bocca con le mani per trattenere un urlo terrorizzato – ansimando contro i palmi sudati.

Era la quarta volta che si svegliava, il cuore artigliato dagli incubi. Tremava.

Perché era sola? Dov'era sua sorella? Dov'era Yuki?

 

«Hai fatto un altro incubo?».

Lei ci mise più tempo del dovuto a capire a chi appartenesse quella voce. Dolce, rassicurante, calda come il sole. Era la sua voce. «Va tutto bene», bisbigliò, mentre le sue braccia la stringevano con gentilezza. «Era solo un brutto sogno». La proteggeva. «Sono qui. Sono qui con te».

Ai si sentì salire le lacrime agli occhi.
Quello stupido, ingenuo di un umano. Quello stupido di un Takeshi la proteggeva come il più ambito dei tesori.
Gli occhi dorati si sollevarono nel buio spaesati, ansiosi, finché non incontrarono le sue palpebre calate, le labbra socchiuse, i capelli scapigliati sulle guance e sulla fronte. Lui era... sfinito. Lo era, decisamente. La sua umanità gli dava in omaggio una batteria e, sfortunatamente, questa si consumava molto in fretta. Ma lui era testardo, stupido, la sfruttava bruciandola fino alle fondamenta. Era così provato – eppure, riusciva a stringerla saldamente. Riusciva a rassicurarla.

Chissà se l'avrebbe fatto anche per la quinta volta.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Quando il livello di stanchezza e di stress supera quel confine di non-ritorno, al punto da non riuscire a sentirsi nemmeno la pelle addosso, probabilmente una gettata di acqua ghiacciata ti aiuterà a darti un po' di vita – o almeno, questo era ciò che aveva pensato Yuki, la mattina seguente.

Erano appena le 9.00 quando aveva aperto gli occhi, stordita da un'ondata di luce che non si era affatto aspettata – allora si era ricordata della grande vetrata; si era alzata, meccanicamente, e da una parte non era stato nemmeno tanto male: almeno avrebbe potuto aggiustarsi un pochino prima di farsi vedere da Takeshi – forse era sciocco preoccuparsi di qualcosa di simile, in un momento come quello, ma quel tipo di pensiero l'alleggeriva un minimo.
Vedersi allo specchio, rendersi conto che il suo giudizio estetico aveva ancora una sorta di importanza per lei – un piccolo, storto sorriso apparì nel riflesso dello specchio del bagno. Chinò la schiena, raccogliendo l'acqua dentro i palmi delle mani, affondandoci subito il viso. I capelli corti sulle guance si erano immersi nell'acqua insieme al viso, ma li aveva ignorati.

Ah, che bella sensazione.

Era come gettarsi nelle braccia della freschezza stessa, come appisolarsi su una nuvola, una doccia fredda in un'estate torrida. Era possibile, per caso, passare l'eternità a sciacquarsi il viso?

 

Stava per rispondersi – che assurdità stava pensando, voleva forse indebitare quella famiglia per la bolletta dell'acqua? – quando la porta dell'unico bagno di casa Katugawa si aprì. Così, in automatico.

O quasi.

 

 

Per un lungo attimo, Yuki aveva sinceramente creduto che fosse Takeshi – quello di fronte ai suoi occhi sorpresi, meravigliati; ma la persona che aveva di fronte era solo molto simile al suo ragazzo. I suoi capelli molto più corti, scuri, più ordinati del ragazzo, e gli occhi screziati di verde scuro con le folte ciglia scure ad ornarli come una seria cornice. Ecco, era proprio questo. Aveva uno sguardo troppo rigido per essere Takeshi.

Yuki aggrottò la fronte, dubbiosa. Certo, aveva un ché di incredibile – l'aveva riconosciuto per lo sguardo e non per le rughe che adornavano i suoi occhi. Quell'uomo... doveva essere il padre di famiglia, dunque.

Naturalmente, le stava già antipatico.

 

«Aspetta, è– ». Ed ecco il suo ragazzo, il figlio maggiore di famiglia. Di fretta e furia nei gesti, con un principio di panico nel viso, il bruno si era affacciato alla soglia della porta, vicino alla spalla del padre.

Quest'ultimo se ne stava in piedi, la mano sulla maniglia, lo sguardo fisso sull'albina, ostinato nella sua posizione ingombrante. Come se lui fosse il gatto e lei l'esile topino. Povero illuso, avrebbe detto la mezzosangue, sfoggiando il solito sorriso, divertito e provocatorio, scuotendo la testa. Questo avrebbe fatto.
Invece, con gli abiti che aveva dovuto accettare da Misaki, si sentiva estremamente a disagio. Riuscì solo a raddrizzare la schiena e a ruotare le spalle, faccia a faccia con quell'uomo. Il silenzio era opprimente.

Solo il sospiro, pesante ed esasperato di Takeshi, riuscì a smuovere le acque. «Lei è Yuki Akawa», disse. «E lui è Takahiro Katugawa. L'uomo che non sapeva bussare».

 

L'albina sorrise amabilmente, scoprendo una fila di denti piccoli e immacolati, con i canini che sporgevano – ugh, stava per ridere, gli avrebbe riso in faccia, se lo sentiva. Yuki piegò la testa e la schiena, in un piccolo ma rispettoso inchino.

«È un piacere conoscerla, signore».

Era assurdo ma, in quello sguardo duro e giudicatore, non c'era nemmeno una briciola di suo figlio – e sembrava un po' irritato, a dir il vero; sdrammatizzando, avrebbe detto che Takeshi doveva essere stato adottato.
L'uomo fece un veloce cenno con la testa. «Gokingenyou*». La sua voce era bassa ma fresca, con una pronuncia netta e decisa, scandiva bene le sillabe.
Yuki inclinò il capo di lato. «Immagino abbia bisogno del bagno– cioè, che le serve. Insomma, ecco... prego». Tra mille balbettamenti, si appiattì contro la parete, quasi volesse uniformarsi ad esso, e scivolò fino dall'altra parte – fuori da quell'angusto bagno. Takahiro aveva seguito i suoi movimenti con la coda dell'occhio e, senza rispondere, aveva richiuso la porta alle sue spalle lentamente, gettando una leggera ombra nel corridoio, precludendo la luce che proveniva dalla finestrella in bagno.

 

Dio, che ansia, pensò. Sicuramente sarebbe andato d'amore e d'accordo con Oseroth, non c'erano dubbi. Già se li immaginava, con le braccia incrociate, in piedi: due mummie che si fissano a vicenda.

«Beh, hai conosciuto mio padre, adesso».

Yuki si voltò, scostando la sua attenzione da quella porta – lo vide, ne studiò l'espressione quasi d' impaccio.

«Che bello, eh?», il moro fece una pausa, sul punto di sospirare. «Mi dispiace».

«Perché dici così? Lui non... », ma non sapeva come continuare, quindi si zittì. Non sapeva perché lui si fosse scusato, per una volta che lei non gli stava rimproverando nulla – non lo sapeva, non ancora.
Ma intanto, sul viso di Takeshi, sotto i bei occhi scuri, facevano bello sfoggio di sé ombre violacee. I capelli erano più arruffati del solito, un esplosione di ciuffi ribelli, e le labbra erano leggermente arrossate. Era chiaro che il ragazzo si fosse svegliato e alzato da poco e probabilmente di fretta. Dopo averlo guardato per qualche secondo, rendendosi conto della stanchezza del ragazzo, l'albina piegò le labbra in una smorfia di dispiacere. «Tutto... okay?», disse, in un sussurro.

Takeshi la guardò, inizialmente con sorpresa, annuendo. «Certo», ma ben presto il suo viso si sciolse in un sorriso affettuoso quando, incapace di trattenersi, sollevò la mano per infiltrarla tra i capelli di lei. «Potrei anche abituarmi all'idea di svegliarmi e incontrarti... a casa mia».

D'istinto, la mezzosangue piegò la testa contro la mano del ragazzo, premendoci la guancia – gli occhi dorati, vispi, lo fissarono. «Quindi non ti disturbiamo troppo?».

«Niente affatto. E poi», Takeshi strofinò dolcemente il pollice sul suo zigomo. «è il minimo che possa fare, dopo che voi mi salvate la vita così spesso».

«Agenzia tuttofare Akawa, al tuo servizio».

 

Lui ridacchiò, prima di prenderle la mano. «Vieni con me», disse, per poi condurla verso la sua stanza, attraverso il corridoio buio. La porta della sua camera era socchiusa e attraverso quel piccolo spiraglio si intravedeva la figura rannicchiata di Ai. «Non ha dormito granché», bisbigliò il ragazzo, per non svegliare la rossa. «Si è svegliata diverse volte per dei brutti sogni».

Yuki si appoggiò allo stipite, osservando la sorellina con malcelata preoccupazione. C'era da aspettarselo; all'esterno quella ragazzina sembrava pronta a tutto e inscalfibile, ma aveva pur sempre undici anni. Undici anni erano pochi per vivere un'esperienza come quella della scorsa sera.
L'albina ruotò il capo verso Takeshi, un sorriso debole. «Grazie per esserle stato vicino», mormorò. «E... », chiuse la labbra, un'ombra di angoscia le attraversò lo sguardo. Alla fine lo guardò, languidamente. «Mi dispiace per quello che ho detto in carrozza. È stato cattivo, da parte mia, e la cattiveria è l'ultima cosa che meriti».

 

Takeshi si girò verso la ragazza, stupito.

La frase che lei gli aveva rivolto? A dir il vero, ci aveva fatto caso a malapena.

«Yuki», sussurrò. «Non devi nemmeno pensarci ad una cosa del genere».

«Ma... ».

 

Takeshi sorrise. Le fossette, rare quanto belle, segnarono gli angoli delle guance. «Voglio aiutarti, quindi fatti aiutare. Non pensare a queste sciocchezze. Ciò che voglio da te», le prese il viso tra le mani, avvicinando il proprio. «è che tu rimanga viva».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Alle 12.00, Ai era sbucata fuori dalla camera di Takeshi, dopo essersi svegliata con enorme fatica.

 

La bambina, ovviamente, non era abituata a grandi fonti di luce come quella del mattino; ad un certo punto, tuttavia, la sorella maggiore non poteva più lasciare la minore immersa nel tipico sonno di una creatura notturna, e aveva dovuto svegliarla.
Ai si era arrotolata nella coperta del letto ad una piazza e tra mille lamenti, si era tirata a sedere, la frangia tutta scompigliata. Le sopracciglia inarcate sugli occhi assonnati, la bocca imbronciata. Per lo meno, aveva cambiato espressione.

Frattanto che la ragazzina si svegliava, Yuki e Takeshi si sedettero sul letto, a dividerli la rossa.

«Mi dispiace averti svegliata», disse Yuki. Le spazzolò un po' la frangia con le dita, sorridente. «ma in casa altrui non puoi prenderti il lusso di dormire fino al pomeriggio come fai di solito».
E come avrebbe dovuto fare Yuki stessa.

 

Takeshi, seduto sul bordo del letto, si issò in piedi. «Se mia madre sapesse la verità su di voi, non dovreste preoccuparvi di una cosa del genere». Poi si fermò, riflettendo. «Però immagino che dopo vi preoccupereste per un altro motivo».

L'albina annuì. «Per il momento, è meglio non correre altri rischi». Si voltò verso la sorellina, che stava tentando di aggiustare la capigliatura, sbuffando. «Capito? Non lasciarti sfuggire niente, né su chi siamo né su cosa è successo».

«Sorellona, mi offendi... », la voce impastata, Ai lasciò perdere i capelli e si tappò la bocca con entrambe le mani, a nascondere uno sbadiglio. «Non mi lascerò scappare di certo un informazione così importante... ».

 

Ai, nobile aristocratica del famoso casato Akawa, era adorabile con la maglietta blu scuro dell'umano Takeshi, con la scritta “NASA” al centro, talmente larga da arrivarle fino alle cosce. Ai aveva sentito tutto il suo orgoglio di nobile sgretolarsi nel momento in cui si era tolta il suo bellissimo vestito di merletti e stoffa pregiata per indossare quella maglietta, comune, di seconda mano, che il ragazzo stesso non metteva più.

L'albina sorrise leggermente. «Ne sono sicura. Adesso, tuttavia, dovremo affrontare una sfida parecchio ardua. Ti conviene prepararti».

Ai sollevò gli occhioni verso la sorella, perplessa, mentre anche Takeshi appariva confuso.

L'adolescente annodò le braccia al petto e sollevò il mento – dentro di sé, aveva ancora qualche briciolo di altezzosità. «Mi riferisco all'incontro con la tua famiglia, Takeshi. Ieri sera non abbiamo avuto occasione di parlare con loro, ma stavolta non sarà così», si fermò, guardando il moro negli occhi. «Stavolta, li conosceremo».

Takeshi fece una smorfia, come se sentisse dolore. «Aah, era questo, quindi... ». Il moro si appoggiò al muro accanto al letto, abbozzando un sorrisetto sarcastico. «Non l'avevo tenuto in conto».

«Dì un po'», esordì Ai, ruotando il viso verso Takeshi. «Tu e i tuoi genitori non andate d'accordo?».

«Io e i miei genitori?». Il ragazzo non si aspettava questa sorta di curiosità da parte della rossa. Guardando l'espressione dell'albina, si capiva che anche lei volesse saperne di più. Forse, in questo caso, la bambina aveva cercato di dare voce ai pensieri della sorella.
Takeshi attese qualche secondo prima di rispondere, come se stesse ripercorrendo la storia della sua famiglia. I giorni e i ricordi. «Con mia madre e Shin vado d'amore e d'accordo», sulle sue labbra, però, c'era un sorriso malinconico. «Ma penso proprio che mio padre mi odi».

«Un padre può davvero odiare un figlio?», bisbigliò Ai, elaborando lentamente quella frase. Per lei era difficile da credere – suo padre l'aveva sempre fatta sentire amata. Oseroth era sempre stato così, per lei. Poi sollevò lo sguardo, inchiodandolo in quello del ragazzo. «Sembra surreale. Come fai ad esserne così sicuro, tu? Sei quello stesso umano che ha sempre pensato ai vampiri e ai demoni come favolette».

Takeshi strinse impercettibilmente le labbra. Nella voce della bambina c'era la solita superiorità. «Non ho mai pensato fossero “favolette”, Ai».

«E cosa pensavi che fossimo, esattamente?».

«Ah, accidenti!».

 

Yuki scattò in piedi, stiracchiandosi energicamente. «Voi non avete fame?!», esclamò. «Io sto letteralmente morendo!».

Se non faccio qualcosa, Ai potrebbe andare avanti all'infinito, pensò la ragazza, sudando freddo.

 

Si sporse verso la sorella, prendendole la mano per farla alzare, sul punto di trascinarla. «Su, anche tu, Take. Tua madre ci starà aspettando, non pensi?».
Ai arricciò le labbra, scostando lo sguardo di lato. Non ce l'aveva con Takeshi, era logico. Anzi, tutto al contrario, si sentiva in colpa, si sentiva...

«In effetti, a momenti arriveranno anche mio padre e Shin. Andiamo in soggiorno».

 

 

Fuori dalla camera, sbucarono nello stretto corridoio – un discorso che non aveva motivo di esistere, era caduto nel dimenticatoio. O almeno, così sembrava.
Takeshi aprì la porta che dava nel soggiorno, entrando nella stanza per primo. L'ondata di luce che proveniva dalla vetrata era a malapena sopportabile, per le sorelle Akawa. Takeshi gli gettò un'occhiata e poi si diresse verso Misaki, impegnata in cucina come tutti i giorni a mezzogiorno.

La donna indossava un grembiule bianco, allacciato dietro la schiena e al collo, e teneva i capelli corti in un pratico codino. Canticchiava tra le labbra chiuse, spostandosi da un lato all'altro della cucina veloce e agile, adesso assaggiando questo, adesso controllando quest'altro.
Quando però il figlio maggiore le apparve alle spalle, la donna sembrò sorprendersi per un attimo.

«Sembri uno spettro, figlio mio!».

«Grazie, mamma. Grazie».

«Non hai la faccia di uno che ha dormito bene».

«E poi? Sono anche zoppo?».

La donna si mise a ridere, fragorosamente, per poi accorgersi della presenza delle sorelle qualche metro più in là. Yuki le rivolse un ampio sorriso, forse anche troppo. «Possiamo fare qualcosa per aiutarla?».

Misaki rispose al sorriso, sollevando le sopracciglia. «No, no! Mettetevi comode, potete già sedervi a tavola», rispose, aggiungendo subito dopo: «Tranne il capotavola, potete sedervi dove volete».

«Mamma, senti... ».

«Mh?».

Takeshi guardò verso la finestra. «Non pensi che oggi entri un po' troppa luce?», osservò, tornando poi con lo sguardo sulla donna. «Spostiamo le tende, ti va?».

«Se ci tieni tanto», rispose la donna, stupita dalla proposta del figlio – ovviamente, non ci diede molto peso, e tornò a preoccuparsi dei fornelli.

 

Takeshi non aveva mai manifestato grande interesse per l'arredamento della casa. Anzi, a dirla tutta, non aveva mai manifestato grande interesse per niente, da un po' di tempo a quella parte. Misaki seguì con l'occhio i movimenti del figlio mentre quest'ultimo si dirigeva verso la finestra e scostava le tende verso il centro, gettando una leggera penombra sulla metà destra del tavolo, proprio sui posti delle sorelle.

Proprio durante quegli attimi, si sentì un rumore di chiavi e lo scattare della serratura della porta d'ingresso. Yuki, che si era seduta al lato del tavolo, con affianco la sorella, spostò lo sguardo verso il piccolo ingresso.
«Siamo tornati!», disse una voce maschile, pimpante e allegra. Subito dopo, nel soggiorno apparve Shin Katugawa, zaino sulle spalle, divisa scolastica. Il ragazzino era veloce come un gatto in fuga. «Che buon profumo».

«Lavati le mani prima di venire a mangiare», ed ecco Takahiro. Il viso dell'uomo adesso appariva molto più disteso e caloroso, rispetto a quella stessa mattina, quando la mezzosangue l'aveva incrociato – malauguratamente – in bagno; indossava una camicia azzurra a maniche lunghe e una cravatta rosso scuro, pantaloni neri, e sottobraccio teneva un cappotto. A nascondere un po' le rughe attorno agli occhi c'erano un paio di occhiali dalla montature sottile e grigia.

 

Adesso che ci penso, anche Takeshi ha problemi di vista, pensò l'albina, sorridendo, dev'essere una cosa di famiglia.

 

«Bentornati», esclamò Misaki.

Takahiro si allentò il nodo della cravatta, insidiandosi nella cucina, accanto alla moglie. «Perché non è andato a scuola?».


Yuki aggrottò la fronte.


«Ah, era stanco morto. E poi, voleva restare vicino a quelle ragazze, e da scuola non avrebbe potuto farlo, no?». Misaki prese le bacchette con la mano destra, prendendo un pezzetto di frittata. «Inoltre, si sta impegnando moltissimo negli ultimi tempi. Se lo merita un giorno di riposo».

Takahiro non rispose. L'albina fissava la scena senza emettere un fiato, forse aspettando un qualche tipo di risvolto. L'uomo, invece, si voltò verso di lei, guardandola dritta dritta negli occhi – fu talmente improvviso e repentino che la ragazza non fece in tempo a distogliere lo sguardo, venendo colta sul fatto.
«Peccato che non è così che funziona, il mondo del lavoro», ribatté Takahiro, scandendo lentamente le parole. «Non puoi permetterti un giorno di riposo perché ti sei comportato bene».

 

La mezzosangue spostò la sua attenzione su Takeshi.

Stava guardando fuori dalla finestra - la mano, stringeva la tenda.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Quanti anni hai?». Shin, che si era seduto di fronte ad Ai per il pranzo, aveva fissato la mezzosangue per quasi tutta la durata del pasto. Ad un certo punto, pur di trovare una scusa per parlarle, il ragazzino le aveva chiesto di passargli la salsa di soia.
Solo grazie alla gomitata della sorella, Ai era riuscita a reprimere un'occhiataccia, talmente minacciosa che avrebbe fatto scappare anche un ladro.

Ovviamente, quell'umano non poteva sapere a chi aveva appena chiesto di passare la salsa. Certo, non poteva saperlo. Ma dannazione se era difficile resistere...


Il pranzo poi era giunto al suo termine e Ai si era seduta sul divano di fronte alla tv, la postura elegante e perfetta, le mani appoggiate in grembo, il mento sollevato e gli occhi socchiusi – a guardare i cartoni animati e tutti quei colori sullo schermo.

Shin ne aveva approfittato. «Sembri parecchio piccola».

«Ne ho undici».

«Eeeh... », Shin incrociò le gambe, ruotandosi completamente verso la rossa. «Io ne ho dodici. A settembre ne compio tredici. Ah! Perché non vieni al mio compleanno?! Così ti faccio conoscere anche i miei amici e i miei compagni di classe».

Sorellona, aiutami... , pensò la ragazzina.

«Adesso siamo ancora a Febbraio, quindi di tempo ne abbiamo», continuò Shin.

Ai gli gettò un'occhiata di traverso. «Per fare cosa?».

«Per diventare amici!».

«Oh, cielo... ».

 

 

 

Dall'altra parte della stanza, rintanati nella cucina, Takeshi insaponava con dedizione i piatti e le posate. Ad ogni piatto lavato, quello arrivava a Yuki, che con un panno lo asciugava e lo infilava nella sua credenza o nel suo cassetto.
Lo scrosciare dell'acqua o il crepitio della schiuma erano i pochi suoni che animavano quel lato della stanza. I due ragazzi non stavano parlando. Yuki era concentrata ad asciugare per bene ogni stoviglia, ma soprattutto a non rompere nulla.

Takeshi non aveva molta voglia di parlare. Come la maggior parte dei casi, nel presto pomeriggio lo assaliva un cattivo stato d'animo – tuttavia, rispetto al solito, si sentiva molto più sereno.

E sapeva benissimo chi ringraziare.

 

La mezzosangue guardò nel lavandino. C'era solo una padella, la cui superficie era abbondantemente oleosa. Salendo con lo sguardo, incontrò le sue lunghe dita, i polsi stretti, l'avambraccio, e la manica del pullover raggomitolata.

«Take... ».

Le sue mani ebbero un fremito. Il movimento della spugna si fermò, il viso si girò. «Sì?».

«Vorrei tornare a casa mia».

Takeshi aggrottò la fronte.

«No, aspetta», aggiunse subito la ragazza, appoggiando i palmi sul bordo del mobile. «Intendevo dire: voglio tornare a casa per verificare la situazione. Vorrei vedere... », le dita corsero dentro al palmo, chiudendosi saldamente. «... vorrei vedere con i miei occhi cosa hanno fatto di casa mia».

«Potrebbe essere una visione insopportabile. Ne sei certa?».

Per quanto avrebbe voluto, non aveva senso cercare di indorarle la pillola. Yuki, molto presto, avrebbe dovuto scontrarsi contro quell'orribile notte. Era solo questione... di tempo.
Tutti e due ne erano perfettamente consapevoli – per questo l'albina scrollò la testa, per poi annuire. «A giudicare da tutto quel fracasso che hanno fatto mentre fuggivamo, dubito fortemente che la casa sia in buono stato. Anzi, penso proprio che... sarà già tanto trovarla in piedi».

Takeshi le rivolse un sorriso storto. «Allora sarà meglio chiamare Tetsuya per informarlo. Dobbiamo coprirci le spalle».

«”Dobbiamo”?».

«Non iniziare nemmeno. Non ti lascerò mai andare da sola fin lì».

Yuki fece una smorfia, bofonchiando. «Se proprio insisti!», piccata, incrociò le braccia al petto.

Takeshi chiuse gli occhi, con un ampio sorriso sulle labbra, soddisfatto. «Se sei tanto preoccupata per la mia incolumità, potremmo portarci Anima. Hokori ti ha già insegnato qualcosa su come maneggiarla?».

«Ora che me lo dici... ».

 

La katana Anima riposava sotto il letto di Takeshi, avvolta in un panno nero di velluto.
La leggendaria spada, tramandata da Akawa in Akawa, marchiata a fuoco da una maledizione orribile...

Tanto per cominciare, portarla dentro casa era stata un'impresa. Naturalmente non potevano attraversare il soggiorno con una spada sottobraccio, quindi avevano dovuto prima nasconderla in giardino, sul lato della casa. Solo dopo, quando Misaki e Shin erano andati a dormire, Yuki e Takeshi avevano recuperato Anima per assicurarla nella stanza del ragazzo, nella polvere, purtroppo.

E dire che, fino al giorno prima, quella katana aveva un suo altare.

 

«Sì, portiamocela. Dopo tutta la fatica per recuperarla dai sotterranei e nasconderla in camera tua... ».

Takeshi annuì.

In salotto, si sentiva la voce di Shin, le sue domande incuriosite, e le risposte apatiche e annoiate di Ai. Di tanto in tanto, le loro “conversazioni” venivano coperte dalla televisione.

Il moro passò sotto l'acqua del rubinetto la padella, girandola e ruotandola, sciacquando via la schiuma – per poi passare la stoviglia all'albina, che l'asciugò per bene.

«Ecco fatto», esclamò lei, allungando le braccia per stiracchiarsi. «Quella era l'ultima, vero?». Si girò verso Takeshi. Il ragazzo, chissà perché, stava sorridendo. Aveva perso quel buio negli occhi. Lo vide staccarsi dal lavandino e rivolgersi a lei – in un secondo, aveva infiltrato le mani sotto al largo maglione della mezzosangue, agguantando la pelle nuda della vita con le mani bagnate. «Sì», disse lui, avvicinando la punta del naso a quella di lei. «Adesso possiamo rilassarci».

 

A quel contatto – così repentino ma piacevole – lei rispose rabbrividendo. Sentiva chiaramente la schiuma scivolarle lungo i fianchi. I pollici aderire sulle costole.

«Lo sai, vero, che a due metri da noi ci sono due bambini?».

«Particolarmente impegnati. Shin sta dando il tormento ad Ai, al momento, quindi non penso proprio si girerà da questa parte».

«Take... sei proprio un pervertito», nonostante questo, aveva già inclinato il collo, accogliendo i piccoli baci che lui le stava lasciando. Gli stava già allacciando le braccia al collo, attraversandogli i capelli sulla nuca con una mano, assaggiandone ancora una volta la morbidezza.

Lui piegò indietro la testa, attratto dalle carezze – e finalmente, incastrò le labbra in quelle di lei, dimenticandosi anche del tempo.

 

Lasciando la razionalità alla schiuma.

 

 

 

 

 

 

 

 

* gokigenyou: è un'alternativa molto formale al classicco “ohayo”, che significa buongiorno.

 

NOTA:
Uelà, eccoci di nuovo qui. Sono tornata qualche giorno fa dal mio viaggio a Torino e dopo essermi ripresa dal trauma psicologico della scuola – e del fatto stesso di dover riprendere a sgobbare – mi sono finalmente dedicata al capitolo e in un paio di ore sono arrivata alla fine.
C'è da dire che non è stata questa gran fatica, come potete vedere è un capitolo piuttosto tranquillo 'na volta tanto.

A proposito, ma cosa ne pensate di Shin? Io l'ho sempre adorato – modestia portami via – per il semplice fatto che è davvero... innocente. Innocente e rompipalle. E riesce a smuovere qualcosa nei cuori più freddi, come quello di Yuki e Takahiro.

Detto questo, ci rivediamo con il 25° capitolo, very soon. ~

 

 

   
 
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