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Autore: Surya_Asu    09/05/2019    0 recensioni
Seconda metà del secolo corrente. Crisi energetica e sovrappopolazione innescano circostanze drammatiche e precipitano il mondo nel caos. In un’ottica di conservazione del benessere, ogni essere umano diventa vittima e carnefice allo stesso tempo. Elio, ingegnere energetico italiano emigrato in Pennsylvania, cerca di salvare la sua famiglia dal male che è giunto. Un male che culmina con un nuovo olocausto per il genere umano. Ma non è tutto qui: c’è chi trama per soluzioni ancora più estreme e ci sono persone ancora più disperate di quelle che vengono sacrificate alla luce del sole.
Genere: Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Dei clangori metallici si diffusero insieme a profusioni di pianti e urla.
Yuna aprì gli occhi. Nella cella angusta in cui si era svegliata, non solo i piccoli, ma anche quelli che le sembravano 'grandi' singhiozzavano e si comportavano come bambini. Solo le donne capellute non piangevano e scappavano per la stanza sussurrando 'sss' e regalando carezze qua e là.
«È meglio che tu faccia i bisogni prima che arrivino» disse Mary, ma lei non capì, non fiatò e non si mosse.
«La pipì o altro... Loro vanno su tutte le furie quando qualcuno se la fa sotto.»
Le indicò il vaso alla turca in fondo alla stanza. A vista, in un angolo.
«Davanti a tutti?»
«Sì, qui funziona così.»
Yuna si alzò in piedi e cercò coraggio negli occhi vacui degli altri poveretti, ma non lo trovò. Arrivò al piatto di ceramica schizzato di escrementi. Mise i piedi sulle basi antiscivolo e si abbassò le mutandine. Reggendo la tunica in modo da non schizzarla, si accovacciò e si sforzò di tirare fuori qualche goccia.
Poi liberò il posto per il prossimo: un ragazzo calvo, o forse una ragazza, che faticava a stare in equilibrio.
Mary lo guidava tenendolo per mano.
Lo aiutò a posizionarsi e gli resse la veste sopra la vita; era una femmina. Fu sempre Mary a pulirla, con uno strappo della carta igienica che si trovava per terra, vicino a un lavandino incrostato di sudiciume. Poi le lavò le mani nel lavabo.
Nel frattempo, un'altra capelluta aveva condotto un altro calvo alla latrina e lo aiutava a tenersi in posizione raccolta, mentre l'aria si appestava per via degli escrementi che il foro di scarico faticava a lasciar defluire.
Yuna si premette le mano sulla bocca e sul naso, ma funzionò solo fino a quando non fu costretta a prendere il respiro. Allora dovette arrendersi alla puzza e sopportarne la botta fino a che l'olfatto non ci si abituò.
Uno dopo l'altro, come in una catena di montaggio, tutti salirono sulla turca e lasciarono il proprio contributo all'olezzo di quel luogo. Qualcuno lo fece senza smettere di partecipare al piagnisteo che regnava dentro e fuori dalla cella.
Non appena si ripristinò una certa quiete, un rimbombare di passi precedette un nuovo scompiglio: serrature che si sbloccavano e cigolii come di cardini arrugginiti, tra urla infantili e voci di uomini che strillavano di tacere e lanciavano improperi.
La porta metallica si spalancò stridendo.
Un uomo entrò nella cella agitando uno sfollagente. Un altro comparve sulla soglia spingendo una sorta di carrello. Una gabbia più che altro, senza tetto e con le ruote. Quello con lo sfollagente si caricò in braccio il più piccolo dei calvi, un fagottino com'era lei nelle foto di quando aveva due o tre anni. Lo depose nel carrello con le sbarre e prese un altro piccolo, che era più o meno come lei quando faceva la prima elementare.
Anche quello finì dentro al carrello seguito poi da altri due che, sebbene fossero grandi come ragazzi delle scuole medie, non sapevano camminare. Gli energumeni li presero uno per ciascuno abbracciandoli per la vita e facendosi venire il fiatone nel trasportarli. Ne caricarono altri due allo stesso modo, fregandosene del fatto che piangevano e si agitavano disperati. Accompagnarono l'atto di sollevarli ulteriormente per gettarli nella gabbia con delle urla da sforzo. Quindi se ne andarono lasciando la porta aperta.
Subito irruppero altri due brutti ceffi.
Le donne capellute si tenevano inchiodate al muro. Erano rimasti solo i ragazzi più grandi. Sgambettarono impauriti verso il corridoio, come se già sapessero cosa dovevano fare, ma uno di loro non si mosse.
«Andiamo idiota! Non hai ancora imparato niente? Sei proprio stupido!» urlò uno dei carcerieri e lo picchiò col manganello. Quello si mise a strillare e il carceriere gli prese la faccia con una mano. Puntò gli occhi sulla testa senza capelli.
«Guarda qui, è tutto infiammato. Quante volte vi devo dire di controllare che non si grattino vicino all'erogatore?» strillò rivolto alle capellute.
Lanciò il povero calvo verso la porta.
«Ci stiamo attente, davvero, forse lo fanno mentre dormiamo» disse Mary.
L'uomo le piantò uno sguardo che le fece abbassare la testa e fece una mossa come se volesse tirarle uno schiaffo. Ma glielo risparmiò e se ne andò.
Yuna aspettò che uscisse anche l'altro uomo, ma invece quello rimase lì e le andò incontro mostrandole un sorriso sdentato e marcio.
«Tu invece vieni con me» disse.
La prese in braccio e lei, visto com'era andata agli altri, non provò a ribellarsi.
«Ci vuole un nuovo taglio di capelli non trovi? Questi ricci così lunghi sono scomodi, ti darò una bella spuntata.»
La trasportò fuori dalla cella e poi per corridoi chiazzati di muffa. Macchie scure come quelle che le aveva fatto interpretare una psicologa dopo la morte di suo padre.
«Eccoci al salone di bellezza» disse l'uomo spingendola in una stanza dove non c'era nemmeno uno specchio. C'erano solo una sedia e un tavolino con sopra forbici e rasoio elettrico. Poi, in un angolo, scopa e paletta.
Tutti quei ragazzi di prima non erano calvi, ma rasati. E adesso le avrebbero ridotto la testa a un uovo liscio come la loro. Ma ciò che davvero la terrorizzava non era quella presa di coscienza, era ben altro: anche a lei avrebbero messo uno di quegli aggeggi orrendi in testa?
L'uomo la fece sedere e cominciò a infierire con le forbici senza neanche coprirle le spalle con una mantellina. Ciocca dopo ciocca, Yuna guardò i suoi amati riccioli cadere sul pavimento e poi sopportò il supplizio del rasoio elettrico.
Quando l'uomo le disse che aveva finito, non osò toccarsi la testa.
Il parrucchiere la scortò fino a un'altra stanza e la mollò nelle mani di un altro tizio.
Anche se lei era diventata ubbidiente ed era salita senza fare storie sulla barella che quello le aveva indicato, non appena si mise supina lui le allacciò delle cinghie di cuoio intorno ai polsi, alla vita e alle caviglie.
Una lampada le scagliò in faccia una luce accecante. Girò la testa di lato per sfuggire a quella tortura degli occhi e scoprì, sul carrello d'acciaio che aveva di fianco, pinze, lozioni e garze accanto a oggetti che sembravano provenire da un'officina, tipo uno sparachiodi e un trapano.
Voltò la testa dall'altra parte e osservò il muro formato da più unità modulari collegate da un'inestricabile rete di cavi elettrici, con ben tre monitor fissati a una struttura d'acciaio.
Si immaginò di essere finita nel laboratorio del dottor Ventura, lo scienziato pazzo e combina guai del suo cartone preferito.
Ma il carceriere, che ora armeggiava con quella strumentazione, nel suo camice sporco di un rosso che sembrava sangue, non aveva niente a che vedere col dottor Ventura: non era simpatico e nemmeno allegro.
Voluminosi baffi grigi gli nascondevano il labbro superiore e quasi gli finivano in bocca mentre sbuffava vicino ai monitor.
Si sentì una musichetta, tipo un jingle, e una tastiera laser si accese di colore rosso vivo vicino al tavolo dei ferri.
Il dottore sfiorò con le dita alcune lettere e fece comparire una pagina di inserimento dati in uno dei monitor.
Si fermò qualche momento a osservarla e tornò a digitare sulla proiezione laser.
Riempì i campi del form e si allontanò.
Ricomparve con una confezione di cartone del McDonald's.
«La mia colazione» disse e tirò fuori una ciambella glassata al cioccolato. La addentò e si mise a masticare rumorosamente, anche se la ciambella sembrava morbida. Infilò una mano nella scatola e ne estrasse un bicchiere di plastica con sopra la scritta 'Cafè mocha'. Tolse il coperchio e vi immerse i baffi.
Sbatté un poco le labbra e cominciò ad alternare un morso e un sorso, un morso e un sorso.
Un secondo uomo arrivò.
«Tempismo perfetto» disse il baffuto. Si cacciò in bocca l'ultimo pezzo di ciambella e si pulì il muso con uno strappo di carta mani.
«Forza, diamoci una mossa» disse con la bocca ancora piena «così ce ne andiamo dritti al campo da golf. Oggi provo il mio nuovo ferro».
Gli lanciò un paio di guanti in lattice.
«Ok, preparo il Soggetto» disse il nuovo arrivato. Indossò i guanti e aprì un armadietto. Prese un tubetto di plastica e le andò vicino. Glielo strizzò sul capo e iniziò a spalmarle quella cosa fredda, che sulla pelle aveva la consistenza un gel.
Imbevve un batuffolo di cotone con una sostanza rossa e le unse il punto situato tra gli occhi, al centro della fronte.
Intanto la testa le diventava fredda come un iceberg e lei non poteva passarci le mani per scaldarsela, perché ce le aveva bloccate.
«Ci siamo» disse l'alter ego del dottor Ventura. Adesso aveva tra le mani una strana cuffia costituita da un intrico di filamenti di un materiale d'aspetto simile al silicone. Gliela infilò in testa e si armò di una sorta di spatolina.
«Regola le radiazioni termiche» disse al collega, che subito si affaccendò sulla strumentazione vicino ai monitor.
Lui intanto, con la spatola e una pinzetta, prese ad armeggiare sulla cuffia.
Yuna la sentì scaldarsi e poi appiccicarsi alla pelle come per un effetto ventosa che si innescava sotto il tocco della spatola. La sentì aderire sempre più forte, anche sulla fronte, fino a sfiorarle le palpebre e la cima del naso.
Vide dei puntini luminosi accendersi di vari colori sul volto del dottore.
L'uomo depose i suoi arnesi e avvicinò l'indice alla cuffia.
Yuna sentì il tocco come una leggera pressione e contemporaneamente vide uno dei puntini sul viso del dottore oscurarsi.
Lui le spostò il dito sulla testa. Il puntino oscurato ricomparve, ma ne sparì un altro.
Levò il dito. «Il collegamento è buono, tutti i chip sono attivi.»
Si allontanò dalla barella e andò a controllare i monitor.
Due di essi mostravano dei grafici indecifrabili, mentre l'ultimo, il più grande, mostrava chiaramente un cervello umano le cui aree erano distinte in diverse sfumature cromatiche.
La versione cattiva del dottor Ventura indossò degli spessi occhiali a mascherina e prese un arnese che sembrava un trapano senza punta.
Si avvicinò facendo sibilare l'orribile strumento. Glielo puntò tra gli occhi, appena al di sopra del naso, dove la cuffia le tirava la pelle.
«Aumenta la funzione ingrandimento delle lenti, non riesco ancora a vedere bene la micro cannula» disse al collega. «Ok ancora un po', non riesco a centrare il foro d'accesso. Bene, ora ci siamo.»
Tirò fuori un pezzo di lingua e spinse di colpo il trapano.
Il sibilo mutò in ronzio e si accompagnò a una fitta lancinante. La carne e la scatola cranica le sembrarono infuocarsi mentre venivano trapassate da qualcosa che doveva essere sottile come un ago, ma che le infliggeva un dolore indicibile. Rimase paralizzata, impossibilitata a muovere anche il più piccolo dei muscoli, come se tutte le sue energie si fossero concentrate nel resistere allo strazio. Non riuscì a dare forma alle grida che le si formarono in gola, riuscì solo a pensare che sarebbe morta.
«Piano... sì così. Punta un poco verso destra...»
Adesso era quello piazzato vicino alla strumentazione a parlare, mentre il dottore si impegnava sulla sua testa. «Ancora un po'... stop!»
Si udì un clic, e il dolore cessò. Il dottore mise via il suo attrezzo e si affiancò al collega davanti ai monitor.
Come si spostò per andare a digitare qualcosa sulla tastiera, Yuna osservò nel monitor un filamento che terminava in un piccolo pallino colorato di verde.
«Invio!» disse il dottore.
Yuna sentì un formicolio al di sopra del naso. Incrociò gli occhi per cercare di vedere cosa stesse accadendo là sopra, ma vide solo il bordo della cuffia. Dopo poco però, vide un filamento argenteo calarle sul viso allungandosi come se avesse vita propria. Un sottilissimo vermicello, che cresceva rapidissimo, le scivolò sul naso e ricadde penzolando di lato.
Il dottore tornò accanto a lei. Osservò il vermicello e si lisciò i baffi. Prese a staccarle i bordi della cuffia dalla carne.
«Lasciamo entrare un po' d'aria» disse.
«Ed ecco fatto!» esclamò sfilandole la cuffia.
La gettò sul tavolino e afferrò un attrezzo che sembrava uno sparachiodi. Con l'altra mano prese un oggettino di forma allungata: il temuto fermaglio per calvi.
Yuna iniziò a immaginare la tortura successiva, ma ebbe poco tempo per la fantasia: si trovò subito quella roba puntata sul capo.
Sentì uno sparo, poi un altro e ancora numerosi altri.
Stavolta riuscì a urlare e la violenza delle grida le graffiò la gola.
Sentì le lacrime sgorgare copiose dagli occhi che, per il troppo dolore, non riusciva più nemmeno a strizzare.
Vide il dottore agganciare il vermicello con una pinza.
«Questo lo inseriamo qui» disse mentre armeggiava sopra la sua testa. «Adesso qualche punto di nanosaldatura.»
Yuna sussultò.
Il collega passò al dottore una specie di pistola dalla canna sottile e le fermò la testa con le mani.
Il dottore iniziò a strusciarle la pistola sul cranio. Bruciava, oh se bruciava.
«Passami lo stimolante» disse il dottore. Il collega si riprese la pistola e gli allungò una siringa piena di un liquido giallognolo.
Yuna strinse i denti anche se pensò che dopo ciò che le era stato fatto, un'iniezione non doveva essere nulla. Ma, contrariamente a quanto si sarebbe aspettata, non si sentì pungere quando il dottore scaricò il liquido in un punto sopra la sua testa che non riusciva a vedere.
«Ecco fatto.»
Il dottore si sfilò i guanti e li lanciò verso il secchio dei rifiuti mancando la mira.
«Completa la registrazione del soggetto nel database e riportalo in cella. Io ti aspetto al campo» disse al collega, le sciolse le cinghie e se ne uscì fischiettando.
Yuna si portò una mano alla testa e sfiorò il metallo di cui era fatto l'aggeggio che avevano anche gli altri bambini. Sopportò il dolore che quel piccolo tocco le aveva ripercosso nella zona sottostante e studiò la conformazione allungata di quella cosa di cui non capiva la funzione. Individuò il filamento, sottile come un capello, che lo collegava con il centro della sua fronte.
«Che diavolo stai facendo?» le urlò il tizio che era rimasto con lei. «Quello è il serbatoio delle tue medicine. Non devi toccarlo mai, capito?»
Yuna ritrasse la mano.
«Sono malata?» domandò.
L'uomo fece un mezzo sorriso. «Sei piccola.»
 
   
 
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