Perché
tu possa ascoltarmi
EPILOGO
La
neve
si scioglieva, inumidiva i prati, macchiava le grandi mani della statua
di Don
Bosco, protese verso i bambini nel centro del cortile.
Lo
sguardo
di Elena si perdeva oltre le vetrate della saletta ristoro, oltre le
parole di
Chiara che continuava a raccontarle, a spiegarle. Era una ragazza
minuta e
dalle guance morbide, Chiara, non era cambiata molto dagli anni in
università,
quando ancora erano compagne di corso. Lavorare all’Hospice
però, l’aveva resa
più pragmatica, meno spontanea e solare.
A
volte,
le aveva confidato che si intristiva, era difficile per lei non legarsi.
«Non
credo le resti ancora molto, meno di un mese ormai. Ne abbiamo parlato
con la sorella,
ma non penso lo abbiano detto a suo figlio, è
così giovane»
Elena
ingurgitò il caffè con una smorfia.
Il
caffè
insapore delle macchinette le ricordava Demian.
«No,
Dami ancora non lo sa. Non dirgli niente»
La
sua
amica tacque, si rigirò il bicchierino di plastica tra le
dita corte e tozze. Le
aveva spiegato quanto fosse legata emotivamente alla famiglia Lemaire e
che Jenevieve
era stata uno dei suoi primi casi medici quando ancora era una
tirocinante, un
paio di anni prima, per questo Chiara le raccontava tutto, anche se non
avrebbe
dovuto.
Per
questo
non si meravigliava che, almeno un paio di volte alla settimana, Elena
si presentasse
all’Hospice, per osservare quella donna diafana e sfatta da
lontano, senza mai
avvicinarsi per parlare.
Elena
le era grata per tutta la sua discrezione e la sua
disponibilità.
Dopo
quella
fatidica mattina, quando si era svegliata e Demian non era
più accanto a lei,
qualcosa si era irrimediabilmente rotto nel loro rapporto. Da
lì, il crollo era
stato lento e inesorabile, il terreno sotto i loro piedi era come la
parete scoscesa
e friabile di una montagna, sempre sul punto di franare, di perdere un
pezzo.
Così
erano
stati loro.
Non
si
erano persi, non avrebbero potuto nemmeno volendo, ma tutta la
confidenza e la
dolcezza che li aveva uniti si era dispersa, scialacquata
nell’odio e nell’insofferenza
di Demian. Perciò, perfino chiedergli come stesse lui, come
stesse Jenevieve,
era un diritto che aveva perduto, e non le restava altra scelta che
vegliarli
da lontano.
«Che
rapporto
hai con il ragazzo?» osò domandarle Chiara, con
incertezza.
Le
era sfuggito un sorriso amaro, intriso dei suoi stessi dubbi.
Non
lo
so, che rapporto ho con lui.
Ma
ciò
che sono, lo devo a lui.
Ogni
mia scelta sensata è nata da lui.
Era
difficile spiegare che se alla fine
aveva scelto di specializzarsi in oncologia, era stato per Demian,
perché l’impotenza
che aveva provato di fronte al suo dolore era stata il più
grande fallimento
della sua vita. Era difficile spiegare che Jenevieve, con il suo solo
esistere,
l’aveva messa con le spalle al muro, le aveva donato una
consapevolezza che
nella leggerezza dei suoi vent’anni non avrebbe mai potuto
avere.
Stava
valutando cosa risponderle, ma notò
la figura di Demian, in lontananza nel corridoio, varcare le porte a
vetri dell’ingresso,
ed ogni buon proposito le morì in gola. Era meraviglioso,
anche ora che i suoi
sedici anni li portava come ne avesse vissuti trenta. Era bello di una
bellezza
bruciata e sbattuta alla James Dean, un poco consumata dagli eccessi ma
sempre
limpida, eterea come il suo lento incedere da mago, da creatura
mitologica.
Elena
esitò, si guardò le mani, come a
farsi forza, per convincersi ad alzarsi, ad andare da lui.
Negli
anni avevano dimenticato come
parlare, come volersi bene, eppure Elena desiderava solo quello,
avvicinarsi,
sincerarsi che stesse bene, proprio ora che il momento peggiore
incombeva su di
lui ed era sempre tanto triste. Negli ultimi mesi però, la
loro distanza si era
fatta più grande e profonda, una gola invalicabile, e
perfino quel poco che ancora
era rimasto sembrava ai suoi occhi perduto in maniera tragica e
disperata.
Negli
ultimi due anni, una sola certezza l’aveva
confortata: nel rancore, Demian le voleva ancora bene, la cercava,
aveva bisogno
di lei. Anche solo per scopare, con quella rabbia che non era
più scemata, che
si manifestava solo nel rapporto fisico, una collera aggressiva ed
incurante
della quale lei per prima si nutriva, come un vampiro.
Perché in un mondo
dorato che l’aveva viziata e coccolata, la sua rudezza non
era mai davvero
troppo, non era eccessiva, era solo forte, inebriante.
Un
montante spietato, un colpo forte a
tradimento che, nel dolore, la faceva sentire viva.
Per
Demian non era mai stata di vetro,
pronta a spezzarsi, per questo lo aveva amato, amava quel broncio
naturale
delle sue labbra gonfie mentre camminava assorto, raccolto in
riflessioni che non
l’avevano mai davvero inclusa.
Sei
sempre
stato una scarica di energia, afferrare il proibito.
L’infinito raccolto dietro
il velo della mia ipocrisia.
Per
questo esitava, perché per quella botta
di adrenalina, quel brivido intenso, era lui a doverne pagare le
conseguenze. Glielo
aveva letto negli occhi, alla fine di ogni rapporto consumato in fretta
e senza
cura, che Demian soffriva, si sentiva in colpa e si sentiva meschino.
Demian
non avrebbe voluto vederla, da tempo
cercava di recidere quel loro legame malsano, negli ultimi mesi con una
rinnovata decisione che l’aveva spaventata, l’aveva
resa debole.
Si
era alzata senza accorgersene e l’aveva
raggiunto in uno slancio quasi disperato.
Sono
io che non voglio lasciarti andare, sono io che ti provoco, lo so.
Non
posso
farne a meno
«Dami,
sei tu»
Demian
si era fermato, a pochi metri dagli
ascensori.
Si
era voltato lentamente, meravigliato,
quasi non credesse a se stesso.
Elena
lo guardò negli occhi e rimase senza
parole, sopraffatta dalla medesima sorpresa. Per la prima volta da
chissà
quanto tempo, non trovò instillato in quello sguardo
sentimenti di odio e
rancore, solo una genuina serenità, una pacatezza che
scivolava nello sconforto
nel trovarsela di fronte, in un appena percettibile nervosismo puerile.
È
successo
qualcosa, è evidente.
Qualcosa
di bello.
Qualcosa
di bello che non riguarda più me.
Il
disagio del non sapere esattamente cosa dire la colse impreparata.
Il
sesso era stato l’ultimo brandello di legame che li aveva
uniti, avevano
scopato per allontanare il peso di una mancanza, avevano sfogato in
quei
rapporti un dolore inesprimibile a parole, un male di cui, in
realtà, erano
loro stessi la causa, loro che si aggrappavano l’uno
all’altro con tutte le
forze per non perdersi.
Ora,
anche quel desiderio si stava sbrindellando, stava diventando nulla, e
questo
la spaventava. Eppure, sotto le ceneri di quell’amore
morboso, ritrovava il
ragazzino inerme e indifeso, tenero come non le sembrava più
nemmeno possibile
ricordarlo.
«Ellie»
aveva sospirato semplicemente, e le aveva sorriso con mestizia, carico
di una
nostalgia che la prese a tradimento.
Avevo
dimenticato, quanto fossi tenero quando pronunciavi il mio nome
così, in un sospiro,
come fosse ovvio, scontato che fosse la mia, la mano che ti sfiorava.
Come
dovessi essere io
Allungò
emozionata una mano verso il suo volto, nel gesto di
una carezza che prima era sempre stata scontata, ma che ora non lo era
più, perché
Dami non le aveva più permesso di concedersi certe dolcezze.
Per questo le dita
avevano tremato e con amarezza aveva abbassato il braccio.
«Stai
bene» sussurrò.
Dami
si era sciolto in un’espressione sdilinquita, lo spettro
del ragazzino adorante, purificato dall’odio che li aveva
inghiottiti e che,
nonostante tutto, non era mai riuscito a cancellare
l’affetto, lo aveva solo e
sempre mascherato.
«Sto
bene» aveva sussurrato.
La
sua pelle non portava più le tracce dell’ultimo
pestaggio
che l’aveva portato ad essere ricoverato in ospedale, il suo
pallore naturale
rifletteva la luce come la più pura delle statue, senza
alcuna ombra di sfregio.
Quel pestaggio per cui, per la prima volta, non l’aveva
chiamata.
Non
aveva chiesto aiuto, non a lei, per non fare torto all’altra,
perché ora c’era un’altra.
«L’ultima
volta non mi hai chiamato. È stata la prima volta. Ho
avuto paura… che non avessi più bisogno di
me»
«Le
cose sono cambiate»
Non
le aveva più parlato con quell’arrendevolezza,
quella
tenerezza impietosita.
«Lo
immaginavo»
Dami
le aveva dato un leggero buffetto sulla guancia, una
sorta di carezza affettuosa e indulgente «Come avevi detto
una volta? Che avrai
sempre bisogno di me, giusto?»
Gli
sorrise, anche se era triste «Sì, l’ho
detto»
«Vale
anche per me, Ellie. Lo sai che vale anche per me, anche
quando ti odio»
Le
tremò il labbro inferiore, ma lo morse, per contenere il
dispiacere.
Era
stato terribile per lei, quella chiamata mai avvenuta l’aveva
messa davanti alla realtà: non era più il suo
punto di riferimento. Guardò i
capelli candidi che gli accarezzavano la fronte pallida, la linea
pulita del
suo viso, e pensò che, nonostante tutto, riusciva a
trattarla a volte come
fosse ancora la poesia di Neruda che le aveva dedicato, quel foglio che
Elena
teneva, piegato e sgualcito, dentro il portafoglio, per non dimenticare
il proprio
errore.
Per
non dimenticare che oltre la violenza di quella mattina
lontana, non lo aveva mai odiato e lui era sempre tornato da lei.
Per
non dimenticare che l’aveva amata e che anche lei lo
amava.
Solo,
non abbastanza.
«Mi
va bene, quando mi odi, basta che non sparisci come hai
fatto in questi mesi… me lo avevi promesso»
Nel
disagio, Demian l’aveva rifuggita, i suoi occhi erano
corsi al corridoio, all’ascensore che lo divideva da sua
madre. Ed Elena si era
sentita ancora meschina, ancora piccola e immatura e ingrata.
«Se
devi andare non farti problemi, Dami, mi basta vederti
ogni tanto, almeno per poco…»
Sì
sentiva tragicamente esposta, pensò che Demian
l’avrebbe
presa e schiacciata come un chicco d’uva tra pollice e
indice, come faceva a
volte quando lei gli mostrava il suo affetto, per ferirla, per
pareggiare in
qualche modo i conti.
Lo
supplicò quasi disperatamente di non farlo.
Se
deve essere l’ultima
volta, permettici di essere quelli che siamo sempre stati prima.
Ti
prego
«Cosa
ci fai qui, Ellie?»
Abbozzò
un sorriso mesto «Passo almeno un paio di volte alla
settimana. L’infermiera che hai visto prima era una mia
compagna di corso,
lavora nel reparto di tua madre»
È
il mio modo di starti vicino, anche
quando ti sono lontana
È
il mio modo di non perdere tutta la
bellezza che rappresenti, che mi doni
Vederlo
esitante le ricordava che era dolce
in realtà, che fare il duro non era il suo mestiere, eppure
Demian aveva sempre
tentato di calcarsi addosso quella maschera di solidità e
forza incrollabile.
Quanto
era cambiato in quegli anni, come si era fatto fragile, di cristallo, e
lei non
lo aveva saputo vedere, non lo aveva aiutato, lo aveva spinto solo nel
baratro.
Persino la serenità che gli tingeva lo sguardo in quel
momento era solo uno
specchio per mascherare la debolezza che languiva nella sua anima.
Demian
era un vetro incrinato che minacciava di sbriciolarsi, era una
richiesta disperata
a cui non aveva saputo prestare aiuto. Era un bambino che si era
aggrappato a
lei ogni volta che il mondo si era fatto troppo grande e troppo ostile.
Ormai
era una donna, aveva capito cosa voleva, non si sentiva più
persa, ma di fronte
a Dami, di fronte ai suoi occhi fatati di luna, Elena sentiva
riaffiorare l’insicurezza
dei suoi vent’anni, quell’istinto morboso di
prendersi cura di lui al di là di
tutto.
Si
sentiva
nulla, davanti all’affetto che li aveva uniti.
«Tu,
adesso…» ma Dami non trovava le parole.
C’erano
cose che non aveva mai saputo chiedere, cose che Elena aveva imparato a
capire
lo stesso.
Gli
sorrise,
smossa dalla familiare tenerezza per lui «Non vado via. Resto
qui ancora un po’.
Vuoi un passaggio per tornare a casa?»
Arrossì
come un bambino, chinò piano il capo.
«Devo
andare in ospedale, dopo» aveva detto, senza spiegare il
perché, era quella
verità omessa che lo imbarazzava.
Elena
sapeva che andava da lei.
«Ti
porto io»
«Non
serve» borbottò imbronciato. Voleva fare il duro,
risultava solo più tenero e morbido,
così se stesso da farla ridere.
Perché
quelli erano i “No” che adorava, che in
realtà celavano un “Sì”.
«Ti
aspetto
qui»
Non
aspettò
una risposta, gli diede la schiena e tornò da Chiara,
perché tanto lo sapeva,
Demian stava annuendo.
Ogni
volta che incontrava sua madre, Demian ne usciva un poco distrutto e
Elena
allora sentiva il cuore incrinarsi per il ragazzino che si portava
dentro e che
soffriva innocentemente la perdita di un genitore. Anche lei ritornava
indietro,
con lui, ritornava davanti alla camera d’ospedale di
Jenevieve, ingenua e
impreparata.
«Sto
bene» aveva detto subito Dami, per fermarla sul nascere.
E
lei
aveva finto che fosse vero, non aveva insistito.
Sentirlo
accanto a lei, in quella stessa macchina, le ricordava quando lo
accompagnava a
casa in quei mesi di tirocinio e gli bendava le ferite, una vita prima.
La riportava
a quel primo bacio rubato, all’errore di averlo ricambiato,
di non essersi
fermata.
La
riportava
a quando era l’oggetto della sua adorazione, non del suo
disprezzo, non un
semplice sfogo ma l’epicentro di un amore innocente.
«Lui
come sta?»
Si
morse
le labbra, prima di rispondere.
«Sta
bene. È da tanto che non mi chiedi di lui»
«Non
mi è mai stato troppo simpatico» lo diceva con
tranquillità, scrollando le
spalle.
«E
ora sì?»
Demian
guardava lontano, i palazzi fuori dal finestrino, assorto, con le
palpebre
leggermente abbassate, le folte ciglia che mettevano in ombra le iridi
chiare,
le mostrava solo la nuca fragile e quel pallido riflesso nel finestrino.
«Ora
lo capisco»
Aveva
parcheggiato la macchina con una sola manovra, un po’ brusca,
poi si era
fermata, immobile per troppi istanti.
«Ti
sei innamorato» constatò, e si sentì
tremendamente triste.
«Dovrei
esserne felice, ho sempre voluto questo per te, eppure non posso non
sentirmi
triste. È come vedere una parte di me che se ne va»
«Amore
è una parola grande» era in imbarazzo, si sentiva
in difetto.
«Eppure
non ne trovo un’altra. Con quell’aria sognante hai
guardato solo me, è un’espressione
che conosco bene»
«Hai
intenzione di provare ad allontanare Annie come hai fatto con ogni
ragazza che
mi si è avvicinata negli ultimi due anni?»
Elena
sussultò, si sentì quasi tradita da
quell’accusa.
«Ti
sbagli» aveva sempre saputo che Demian l’aveva
fraintesa, che da quell’unica volta
in cui avevano fatto l’amore, era stato tutto distorto e
traviato. Sapeva, che
pensava lo avesse usato senza affetto, per egocentrismo,
perché voleva troppo e
pensava solo a se stessa.
Ma
non
era reale.
A
modo
suo, in modo malato forse, lo aveva amato tantissimo.
«Forse
ho voluto proteggerti troppo, è vero, ma non le ho mai
cacciate per possesso. L’ho
fatto solo per vergogna, credo. Con la mia leggerezza infantile ti
avevo fatto
così male, ti avevo tolto la fiducia… non volevo
che altre immeritevoli potessero
avvicinarsi a te, scavare nuove crepe nella tua purezza»
La
guardò confuso, gli occhi immensi erano sempre gli stessi,
limpidi di un cielo
invernale che incantava e raggelava, per
l’immensità che le apriva davanti,
senza confini.
I
suoi
occhi erano come la luna che ispirava i poeti, nello stesso modo le
ispiravano
la più nobile bellezza.
«Non
sono mai stato puro»
Lo
bloccò
«Non sapevi guardarti. Ti ho rovinato, me ne sono sempre
pentita. Sei stato la
cosa più bella della mia vita, lo sai quanto vali per me,
puoi fingere di non
rendertene conto… ma lo sai. Lo sai che non avrei mai
tradito Simone, mai con
nessuno. Solo con te»
Tre
anni
di tradimenti, la sua vergogna più grande, l’unica
a cui non riusciva a
rinunciare, non le importava che lui capisse realmente la portata del
suo
affetto, le bastava che lo ricordasse, che si ricordasse che anche lui
l’aveva
amata.
Attraversarono
il parcheggio, parlarono del più e del meno, di qualche
sciocchezza.
«È
stato triste, vederti circondato di un mondo di cui non faccio
più parte, ma sono
stata così felice, Dami, di sapere che stavi bene. Sembravi
stare bene davvero»
Lui
le
aveva sorriso, arrendevole, soffice, così Elena gli aveva
detto tutto, gli
aveva detto la verità.
«Simone
mi ha chiesto di sposarlo»
«Ah»
era quasi inciampato nei suoi stessi piedi, per la sorpresa.
«Quando?»
aveva recuperato il pacchetto di sigarette dalla tasca, se ne era messa
una in
bocca e l’altra gliel’aveva offerta. Si erano
seduti, spalla contro spalla, con
le volute di fumo a riempire lo spazio che li separava.
«Non
è deciso»
«Hai
detto di sì?» una domanda strana, che le
strappò un sorriso: perché Dami restava
ancora la persona che meglio la capiva, a volte.
«No.
Ho
detto “vediamo”»
Demian
corrugò la fronte «Vediamo cosa?»
«Vediamo
il momento in cui questo non ti ferirà»
Insieme
alla boccata di fumo, Demian liberò il suo nome, un sussurro
leggero e già
disgregato nell’aria, un rimprovero che sapeva di supplica.
«Ellie»
Spense
la sigaretta e si appoggiò a lui: con la testa abbandonata
su quella spalla non
più sottile, non più infantile, si
sentì un poco a casa, un luogo famigliare e
sicuro che le era mancato tragicamente.
«Dovremmo
lasciarci andare» le disse, con una riluttanza troppo dolce
per non
commuoverla.
Annuì
piano «Forse dovremmo»
Ma
già
inclinava la testa, quel poco perché potessero guardarsi
negli occhi, perché potesse
assorbire lo splendore del suo ragazzino, infinitamente vicino eppure
destinato
a perdersi lontano da lei.
«Tu
lo
sai, che per me sarai sempre tu. Lo sai, devi saperlo… la
tua sola esistenza ha
cambiato la mia, non devi dimenticarlo. Io non lo
dimenticherò»
Sentiva
il suo respiro sulle labbra, quegli occhi chiari che
s’infrangevano nei suoi, l’opposto,
sempre, dei suoi, fragili come un cristallo di neve in controluce.
Le
sorrise,
si chinò piano su di lei, le sfiorò le labbra in
ultimo, familiare bacio intriso
di tutti i forse che, non ci fosse stato Simone, sarebbero stati
realtà. Si baciarono
come un addio, un ultimo delicato bacio prima di separarsi.
Le
sue
labbra erano morbide e dolci come succo d’uva.
Demian
sarebbe sempre stato il suo “forse” più
grande e la sua motivazione più forte.
Spero
davvero che un giorno potrai
perdonarmi di non essere stata abbastanza adulta quando avrei dovuto.
Spero
che un poco mi capirai, capirai quanto
ti ho voluto bene, quanto mi sono odiata perché quel bene
non bastava.
Avrei
davvero voluto saperti ascoltare come
avresti meritato.
E
grazie.
Grazie
di avermi aperto gli occhi,
ragazzino.
Grazie,
di avermi dato un senso.
Ti
amerò sempre, per questo.
Angolo
autrice
È
così, per la prima volta, ho portato a compimento questa
storia su EFP. In passato
non ci ero riuscita, per scoramento, perché questa
piattaforma è un po’ morta e
se non ti crei dei circoletti non combini nulla. Ora però,
la soddisfazione di
aver messo un punto è più grande di tutto il
resto, perciò voglio ringraziare
le numerose persone che pur limitandosi a leggere, hanno dedicato tempo
a questo
racconto.
La
storia di Demian ed Elena qui si conclude, altro che li riguarda
è scritto
altrove, nella storia originale, e non racconta più il loro
amore ma,
semplicemente, il loro legame.
Sì,
le loro strade non si dividono, ma si allontanano, ci sono rapporti che
sono
destinati a durare nel tempo, a mutare la loro natura, semplicemente. E
quando
due persone si sono amate molto ma vanno oltre l’amore
provato, penso che sia questo
che succede, non smettono di amare, semplicemente non sentono
più la necessità
di essere riamati.
Questo
è ciò che avviene in Demian, perlomeno.
La
perdonerà solo nel momento in cui non sentirà
più la necessità di ricevere da
lei ciò che lei non può dargli.
Amo
questi due moltissimo, spero vi abbiano tenuto buona compagnia e che
l’epilogo
non vi abbia delusi troppo. Volevo raccontare un amore che finiva, non
il per
sempre, e mi piace sperare di esserci riuscita un pochino.
Per
quel che vale, mi sono divertita, non mi stancherò mai di
scrivere di Dami.
E
quindi… niente, scusate per averci messo tanto e grazie di tutto!
Ps:
i Red House Painters con la loro Have you
Forgotten avevano accompagnato la stesura di questo
capitolo. Sì, sono
retrò, lenti e tragici, ma ehi, sono i padri dello Slowcore,
perciò li cito,
che magari a qualcuno possono piacere!