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Autore: Dark Sider    12/05/2019    14 recensioni
Ethan, scontento della sua vita perfetta, ed Aiden, felice della sua vita imperfetta. Due personalità opposte, apparentemente con nulla in comune, ma che riusciranno a trovare un terreno di condivisione in cui far sbocciare il loro amore. Ed Ethan, scontroso misantropo pieno di negatività, imparerà a sue spese che l’amore, quello vero, può fare tanto bene quanto male, e che può andare oltre qualsiasi ostacolo o barriera.
[Seconda classificata al contest "With or without you - Con o senza di te -" indetto da Emanuela.Emy79 sul forum di EFP e giudicato da missredlights]
Genere: Angst, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Primavera dentro

 

 

1.

 

Ethan fece tintinnare i pezzi di ghiaccio che galleggiavano nella sua birra Pale ale e sospirò. Seduto al bancone, annoiato, si domandò per quale diavolo di motivo si fosse lasciato trascinare in quel pub da Jason: lanciò un’occhiata laconica all’amico, impegnato a pavoneggiarsi con una bella bionda, e scosse la testa. «Tanto non te la dà» borbottò tra sé e sé, tornando a fissare il liquido chiaro della sua bevanda. La birra non gli piaceva, come testimoniava la pinta ancora piena: l’aveva ordinata solo per non sentirsi fuori posto, con il risultato che si sentiva fuori posto comunque.

«Ehi, Lurch, perché non ti schiodi un po’ da quello sgabello?» L’allegra voce di Jason, comparso all’improvviso al suo fianco, lo fece sussultare.

«Non sei spiritoso» brontolò Ethan, ritraendosi un poco.

«E dai, non fare lo scazzato» lo rimbeccò l’amico. «Quella la bevi?» domandò poi, indicando la birra intoccata. Con un grugnito, Ethan la spinse verso di lui.

«Hai appena pagato da bere ad una bionda strafiga» ridacchiò Jason, agguantando la pinta.

«Ho notato.»

«Questa non mi scappa» sentenziò l’amico, sparendo nello stesso modo in cui era arrivato. Senza più il suo boccale di birra a fargli da disimpegno, Ethan si trovò improvvisamente spaesato: si guardò intorno confuso, stordito dalla musica sparata a tutto volume e dalle luci cangianti del locale. Con un sospiro, tornò a fissare il bancone.

«Il tuo amico ti ha lasciato da solo?» Una voce sconosciuta, calda e pacata, gli fece sollevare la testa con stupore. Si voltò verso la fonte di quel suono e si trovò dinanzi un ragazzo che gli stava sorridendo: aveva i capelli di un improbabile color rame, ma le sopracciglia della stessa tinta suggerivano che fossero naturali; gli occhi azzurri rilucevano di gioviale allegria. Misteriosamente, riusciva ad essere bello ed attraente anche con i semplici jeans e la polo che indossava.

«Ha trovato un bel passatempo» rispose Ethan, con un mezzo sorriso.

«Anche i miei amici hanno trovato il loro bel passatempo e mi hanno lasciato qui» ridacchiò l’altro in risposta, appoggiandosi al bancone. Ethan si domandò se quello strano tipo fosse semplicemente annoiato ed avesse voglia di fare conversazione, oppure se avesse un fine differente; in ogni caso, non era molto propenso ad approfondire la questione: detestava parlare con gli sconosciuti.

Grugnendo, tornò a guardare il bancone, sperando che l’atteggiamento scontroso fosse sufficiente a troncare sul nascere quel tentativo di conversazione non richiesto.

«Aiden» sentì dire all’altro; voltandosi, lo trovò che gli stava tendendo la mano, con ancora stampato in faccia quel serafico sorriso di chi della vita ha visto solo il lato migliore.

Ethan non seppe se essere infastidito o divertito dalla tenacia mostrata dal proprio interlocutore; avrebbe voluto chiedergli cosa volesse da lui, esattamente, ma si limitò a stringergli la mano e a presentarsi a sua volta: si sentì meno a disagio di quanto avesse previsto, fatto che lo lasciò alquanto perplesso.

«Non mi sembra che ti stia divertendo molto» osservò Aiden: pareva tranquillo e sicuro di sé, per nulla intimorito dal muro di ghiaccio che l’altro si ostinava ad erigergli davanti.

Ethan grugnì di nuovo, ma Aiden non demorse: smise di parlare e si sedette accanto a lui, animato da chissà quale testarda volontà. «Sei sempre così loquace?» domandò, dopo qualche minuto di silenzio.

Ethan alzò gli occhi al cielo. «Si può sapere cosa vuoi?!» ringhiò, stranito.

Aiden sogghignò con una certa malizia e ad Ethan venne da chiedersi se le sue inclinazioni sessuali fossero così evidenti, oppure se l’altro fosse andato a tentoni ed avesse avuto semplicemente una fortuna sfacciata.

«Ti ho visto mortalmente annoiato e sono venuto in tuo soccorso» spiegò Aiden, senza abbandonare il suo ghigno. «E, dato che mi è venuta una certa fame, pensavo di farlo invitandoti ad andare a mangiare qualcosa» aggiunse, prima che l’interlocutore potesse dirgli che del suo aiuto non se ne faceva proprio un bel niente.

Ethan lo fissò stranito; c’erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli, e così poche cortesi, ma alla fine optò per quella più neutra e sciocca: «Sono le due di notte, non ti sembra un po’ tardi per mangiare?»

«Non devi per forza prendere qualcosa: puoi anche solo accompagnarmi.»

«Ci conosciamo da nemmeno dieci minuti» osservò Ethan, tagliente. La parte di lui che odiava l’umanità desiderava ardentemente che l’altro se ne andasse e lo lasciasse in pace, ma una parte più recondita voleva che rimanesse.

«A volte sono più che sufficienti, non trovi?» domandò Aiden, inclinando leggermente la testa di lato, come un bambino curioso. No, Ethan non trovava affatto: non gli sembravano sufficienti nemmeno i quindici anni di amicizia con Jason, figurarsi dieci minuti; per questo, si ritrovò alquanto sorpreso quando sentì se stesso dire: «D’accordo, però facciamo una cosa veloce».

La cosa veloce consistette nel recarsi nella gelateria più vicina e nell’osservare Aiden ordinare una coppa grande di gelato con lo stupore che un biologo riserverebbe ad una scimmia che si spidocchia.

Mentre uscivano dalla gelateria, Ethan si rese conto di sentirsi bene. Non era qualcosa che gli capitava spesso; non c’era motivo per cui dovesse essere così: aveva una vita ordinaria, dove nulla andava a meraviglia, ma nemmeno male, eppure aveva costantemente addosso un velo di melanconico malcontento che non sapeva spiegarsi. Jason gli diceva sempre che fosse perché era nato stronzo, ed in fondo non si sentiva di potergli dare torto.

Si domandò come fosse possibile che il suo benessere dipendesse dalla presenza di una persona praticamente sconosciuta, ma non volle soffermarsi troppo a darsi una risposta.

«Che fai nella vita?» gli chiese Aiden, tra una cucchiaiata di gelato e l’altra. Avevano iniziato a camminare dalla parte esattamente opposta a dove avrebbero dovuto tornare, con consapevole e serena indifferenza. Ethan si voltò a guardarlo e rimase in silenzio per alcuni istanti: voleva davvero permettergli di conoscerlo?

«Studio legge. Sono al primo anno» rispose, prima ancora di aver deciso se volesse farglielo sapere: cominciava ad odiare il fatto che stesse perdendo il controllo su se stesso.

«Ci avrei scommesso» ridacchiò Aiden. «Io invece sono al quarto anno di medicina. Vorrei diventare chirurgo neurologo.»

Ethan sgranò gli occhi, non riuscendo a nascondere la sorpresa, rendendo forse troppo evidenti i suoi pensieri, perché l’altro chiese: «Sei sorpreso che uno come me voglia fare il medico? Sono troppo superficiale?» Lo disse con un sorriso, ma il divertimento che fino a quel momento aveva illuminato i suoi occhi sembrava scomparso.

«No, non penso assolutamente questo» s’affrettò a rispondere Ethan, a disagio; in realtà, era esattamente quello che pensava, ma non voleva oltraggiarlo. Il perché ci tenesse a non ferirlo era un mistero, come tutto quello che era accaduto da quando l’aveva conosciuto.

«Non mi sono offeso» precisò Aiden, ritrovando la giovialità. «Io sembro un idiota e a te pare che abbiano infilato una scopa su per il culo. Così va il mondo» aggiunse, allegramente, ed Ethan comprese che invece s’era offeso eccome, tuttavia preferì lasciar correre.

Rimasero in silenzio per un po’, poi si ritrovarono a parlare, con incredibile naturalezza, dei più svariati argomenti ed Ethan scoprì di avere in comune con Aiden molte più cose di quanto avrebbe mai immaginato, soprattutto la passione per il cinema e per i libri. Comprese che dietro la sua maschera di ostentata leggerezza, Aiden nascondeva in realtà un animo sensibile e profondo, che lo rendeva una persona piacevole ed interessante, cosa che Ethan non pensava praticamente di nessuno.

Quando tornarono al locale, erano oramai le quattro, anche se ad entrambi pareva trascorso molto meno tempo. «Devo tornare dal mio amico: siamo venuti con la sua macchina» sospirò Ethan, con una malcelata amarezza nella voce, in parte perché non voleva scontrarsi con l’idiozia di Jason dopo ore di piacevole conversazione, ed in parte perché avrebbe voluto passare ancora del tempo con Aiden, fatti che si potevano racchiudere in un unico grande concetto: quell’esuberante ragazzo dai capelli color rame gli piaceva, sia fuori che dentro.

«Posso riportarti a casa io» s’affrettò a dire Aiden.

Ethan lo guardò di sottecchi: non voleva che si facesse strane idee, o che pensasse che lui fosse disposto a concedersi in qualche modo, tuttavia l’idea di trascorrere con lui ancora qualche momento lo rendeva quasi euforico. Tentennante, rispose con la frase più diplomatica che gli venne in mente: «Non vorrei disturbare.»

«Nessun disturbo, davvero.»

Ethan si strinse nelle spalle e si rese conto di star di nuovo perdendo il controllo di se stesso: accettò l’offerta di Aiden ancor prima di aver ponderato se farlo o meno, e non si premurò neppure di cercare Jason; mandò un messaggio all’amico per avvisarlo, dopodiché seguì l’altro con trepidazione ed un certo imbarazzo, entrambe emozioni che solitamente non gli capitava di provare.

Quando aprì la portiera della macchina, lato passeggero, Ethan non si stupì affatto del caos che vi trovò dentro: non avrebbe mai detto che Aiden fosse una persona ordinata, ed infatti non lo era. Quattro tomi pericolosamente spessi e due oggetti - che avrebbe in seguito appreso dallo stesso Aiden chiamarsi fonendoscopio e sfigmomanometro – erano confusamente abbandonati sul sedile sul quale avrebbe dovuto accomodarsi.

«Scusa per il casino» borbottò Aiden, sporgendosi dal lato guidatore per afferrare quell’ammasso di oggetti e depositarlo con insolita grazia sui sedili posteriori, dove altri libri languivano da chissà quanto tempo.

“Ma come cazzo si fa ad essere così disordinati?!” pensò stizzosamente Ethan, lasciandosi cadere pesantemente al suo posto e chiudendo la portiera con particolare ferocia, a sottolineare il suo fastidio. Aiden lo guardò con un sopracciglio inarcato, tra il perplesso e il divertito, poi mise in moto senza dire nulla.

 I venti minuti seguenti, Ethan li passò a dare indicazioni stradali ad Aiden, il quale si limitò a guidare in silenzio: pareva immerso in chissà quale personale riflessione, che lo straniava da ciò che aveva intorno.

Quando giunsero a destinazione, Ethan esitò nello scendere: non sapeva bene se desiderasse semplicemente ringraziare l’altro ed andarsene, oppure se volesse dire qualcosa di diverso. Alla fine, decise di non proferire parola: aprì la portiera e fece per scendere, ma Aiden gli afferrò prontamente un braccio, fermandolo. Ethan si voltò di scatto, con un cipiglio rabbioso: aveva sospettato fin da subito che l’altro avesse dei secondi fini che lui non era assolutamente intenzionato ad esaudire, perciò s’era messo sulla difensiva, serrando la mascella e preparando una serie di improperi ed invettive.

Aiden aveva il suo solito sguardo placido e sornione, come se nulla del mondo potesse in qualche modo toccarlo e scalfire quella sua ridente serenità. Con ancora la mano gentilmente serrata intorno al braccio del recalcitrante passeggero, mormorò: «Mi daresti il tuo numero?» Lo domandò con imbarazzato garbo, lasciando Ethan di stucco: non l’aveva trattenuto perché voleva avere un rapporto con lui, non aveva neppure tentato di baciarlo; gli aveva solamente chiesto il suo numero. Il suo stramaledettissimo numero che in quel momento, con la testa completamente svuotata e la bocca spalancata in un moto di meraviglia, non riusciva nemmeno a ricordare.

Ancora stralunato e vergognandosi per averlo giudicato male, Ethan annuì lentamente, come un cacciatore che cautamente studia una preda alquanto imprevedibile; si sentiva sciocco e impotente, sprovvisto di qualunque arma di difesa anche solo lontanamente efficace.

Ethan Numero Uno non aveva la benché minima intenzione di dare i suoi contatti ad alcun chi, ma Ethan Numero Due, che a quanto pareva aveva preso a esistere e assumere il controllo da quando aveva visto Aiden, ne era particolarmente desideroso, per cui dettò senza esitazioni il recapito che la sua controparte rimbambita aveva misteriosamente dimenticato in preda allo stupore.

«Grazie per il passaggio» borbottò quindi, sbrigandosi poi a scendere dalla macchina cercando di non dare l’impressione di averne fretta, con pessimi risultati. Sentì Aiden sbuffare divertito, prima di richiudere lo sportello e percorrere i pochi metri che lo separavano dal portone di casa; benché desiderasse farlo, non si voltò a guardare indietro, ma si concentrò a cercare le chiavi che poi infilò malamente nella toppa con goffa precipitazione: si sentiva come uno di quegli sciocchi protagonisti da film horror che sta cercando di scappare dal mostro di turno ed improvvisamente diviene affetto da disprassia.

Quando si trovò tra le mura domestiche, si lasciò sfuggire un sospiro liberatorio e si rese conto che Ethan Numero Due era scomparso, così come la sensazione di quieto benessere che lo aveva pervaso fino a quel momento: per un istante ne fu tremendamente turbato, poi scosse la testa, obbligandosi a rinsavire. Si costrinse ad andare a letto benché non avesse affatto sonno e si sentisse euforico ed elettrizzato; prima di coricarsi, controllò il cellulare con la puerile speranza che Aiden gli avesse scritto qualcosa. Fu infastidito dal moto di delusione che lo invase quando vide che aveva solamente un messaggio da parte di Jason.

Sbuffando, si tirò le coperte fin sopra la testa e, contro ogni aspettativa, s’addormentò all’istante.

Fu il suo cellulare che squillava insistentemente a svegliarlo. Con uno sbuffo, Ethan allungò una mano sul comodino e a tentoni cercò la fonte di quel baccano. Ancora assonnato, rispose senza nemmeno controllare chi fosse a chiamarlo.

Quando sentì la voce di Aiden che gli augurava il buongiorno, dall’altra parte della cornetta, sgranò gli occhi dalla sorpresa; avvertì distintamente Ethan Numero Due fare di nuovo la sua comparsa trionfale, mentre un piacevole calore s’irradiava dal suo petto. «Ma che ore sono?» biascicò, mettendosi seduto.

«Le otto» rispose candidamente Aiden.

«Cosa?! Potrei ucciderti.»

Aiden rise di una risata bella e cristallina, senza ombre dentro, che fece immediatamente passare il malcontento ad Ethan con disarmante semplicità, poi lo informò di averlo chiamato solamente per chiedergli se avesse voglia di andare a vedere un film al cinema con lui, quella sera.

«Volentieri» s’affrettò a rispondere Ethan Numero Due.

“Ma volentieri cosa?! Tu non fai volentieri nemmeno quello che ti piace fare!” sbraitò Ethan Numero Uno, contrariato.

«Ti passo a prendere alle nove, allora» annunciò Aiden, chiudendo la chiamata prima che l’altro potesse anche solamente domandargli quali film fossero in proiezione o in quale cinema sarebbero andati.

Sbuffando, Ethan si lasciò ricadere pesantemente sul letto, pensando che Aiden fosse un ragazzo davvero bizzarro, quasi che vivesse in un universo tutto suo nel quale ciò che accadeva nel mondo reale non aveva alcuna rilevanza. Come il fatto che chiamare alle otto di mattina qualcuno che era andato a letto appena tre ore prima potesse essere alquanto sconveniente, ad esempio.

Il resto della giornata, Ethan lo passò ignorando i continui messaggi di Jason e benedicendo il fatto che l’assenza di corsi universitari di Venerdì gli permettesse di non doverlo incontrare: l’amico non faceva che domandargli con chi fosse tornato a casa la sera prima e continuava ad incitarlo a raccontargli tutto ciò che fosse successo, mentre lui non ne aveva la benché minima intenzione. Sentiva che ciò che era accaduto tra lui ed Aiden, per quanto ordinario, fosse qualcosa di profondamente intimo e non aveva voglia di condividerlo con nessuno, perché aveva l’impressione che così facendo avrebbe rotto la sacralità di quel legame che si stava creando contro ogni aspettativa e volontà.

Alle nove in punto, Aiden chiamò Ethan per  informalo che era arrivato e che lo stava aspettando in macchina, notizia che gli risvegliò un’eccitata impazienza di rivederlo.

Quando Ethan lo raggiunse, poté constatare che l’altro non s’era in alcun modo premurato di mettere in ordine la sua auto e che, anzi, quasi con fare beffeggiatorio, aveva ricollocato quegli aggeggi per prendere la pressione - di cui lui non conosceva il nome - sul sedile passeggero: per un attimo, pensò di scaraventarli a terra, ma si limitò diplomaticamente a lanciarli con veemenza sul cruscotto, per poi accomodarsi compito.

«Guarda che costano parecchio» gli fece notare Aiden, tra lo stupito ed il mortificato.

«Allora la prossima volta tienili lontani da dove devo sedermi io» ringhiò Ethan, allacciandosi rabbiosamente la cintura.

«Sembri la mia ex nei giorni in cui aveva il ciclo» osservò divertito Aiden, per poi mettere in moto e partire.

Ethan si voltò a guardarlo stranito: serpeggiò in lui il panico di aver frainteso ogni cosa e di essersi illuso. «La tua ex?» domandò e la sua voce risuonò stentorea.

«Già. È l’unica relazione seria che ho avuto, poi lei ha scelto un’università parecchio distante da qui, si è trasferita e ha iniziato ad allontanarsi da me. In quel periodo, io ho avuto problemi familiari, quindi non avevo proprio voglia di cercare di salvare il rapporto. Abbiamo chiuso di comune accordo» spiegò Aiden, con la sua solita tranquillità.

Ethan avrebbe potuto apprezzare che l’altro avesse deciso di confidargli un fatto così personale, ed invece domandò amareggiato: «Ma quindi a te interessano… Insomma, ti piacciono le donne?» Era consapevole che fosse una domanda alquanto fuori luogo, ma aveva constatato che non voleva essere amico di Aiden: per quanto assurdo potesse sembrargli, si era fatto delle aspettative parecchio differenti; Ethan Numero Due e la sensazione di benessere che lo accompagnava quando era in compagnia dell’altro parlavano chiaro sulla natura di quelle aspettative, e l’idea che fosse stata tutta una sua costruzione mentale gli faceva inspiegabilmente male.

Aiden rise di quella sua risata senza ombre dentro. «Diciamo che non faccio distinzioni tra uomini e donne» rispose allegramente. «Prendo il meglio dei due mondi» aggiunse, voltandosi per un istante a guardare Ethan, come a voler sottolineare che lui facesse parte di quel meglio.

Ethan non poté fare a meno di sospirare: si rilassò contro lo schienale del sedile e sentì che tutto ciò che, fino ad un istante prima, aveva rischiato di crollare era tornato al suo posto.

Quando giunsero al cinema più vicino, Aiden confessò di non avere la benché minima idea di quali film fossero in proiezione ed Ethan non se ne stupì: cominciava a capire che persona avesse davanti e iniziava a sospettare che a lui, maniaco del controllo e dell’ordine, potesse solo far bene avere intorno qualcuno che, invece, era esattamente l’opposto.

Scelsero una proiezione casuale tra quelle non ancora iniziate e non furono nemmeno troppo sfortunati: era un film d’azione, leggero ma non troppo noioso. Quando uscirono dalla sala, lo commentarono brevemente e l’ironia di Aiden su determinate scene ebbe il potere di far ridere Ethan.

Se Ethan Numero Uno trovava tutta quella situazione alquanto scomoda e melensa, non lo stava facendo sapere, oppure Ethan Numero Due lo stava ignorando, completamente assorbito da colui che aveva davanti, dalle sue parole e dal suo modo di porsi. Quando le persone parlavano d’amore, di quel sentimento che per lui era stato così lungamente incompreso, doveva essere quello a cui si riferivano: quel benessere dell’anima, quel suo rifiorire rigogliosa da un lungo torpore.

Quando Ethan si ritrovò davanti casa sua, nella macchina di Aiden, quasi ne rimase stupito, come se fosse giunto da un altro luogo, un altro universo dove il tempo scorreva diversamente ed i contorni della realtà si facevano vaghi e sfocati, fino a perdere consistenza.

“Forza, scendi dalla macchina e levati dalle palle” borbottò Ethan Numero Uno, che era assonnato e voleva solo rimettere piede in casa.

“Non fare lo stronzo” lo rimproverò Ethan Numero Due.

«Se domattina non avessi tirocinio, potremmo anche restare qui dentro tutta la notte, però credo che sia meglio che tu vada, o domani non riuscirò proprio a svegliarmi» intervenne dolcemente Aiden, riportando Ethan alla realtà: solo in quel momento si rese conto che era stato in silenzio per ben cinque minuti, assorto nella constatazione di quanto fosse stata perfetta quella serata, nella sua assoluta semplicità.

«Oh, scusami. Se me l’avessi detto prima, non avremmo fatto così tardi.»

«Nessun problema.» Ethan si domandò se per Aiden esistesse qualcosa che rappresentava un problema, ma prima che potesse darsi una risposta s’accorse che l’altro s’era accostato a lui; si voltò a guardarlo quasi sorpreso e questo gli posò un bacio sulle labbra: fu breve, quasi inconsistente, eppure ebbe il potere di fargli esplodere dentro un miscuglio di sensazioni positive così intenso da minacciare di soverchiarlo.

Aiden si ritrasse e gli sorrise; Ethan lo guardò interrogativo e desideroso di approfondire quel contatto.

«L’ho capito, sai, che sei uno che vuole i suoi spazi ed i suoi tempi, quindi te li lascio. Sono una persona molto paziente, quando vale la pena di aspettare» disse Aiden, e lo fece con la stessa tranquillità con cui si constata un fatto ovvio.

Ethan sentì il cuore saltare un battito e appurò che Numero Uno e Numero Due si trovassero per la prima volta d’accordo sul da farsi, quindi si avventò sulle labbra di Aiden con la stessa foga con cui un assetato si getterebbe in un lago.

Non era la prima volta che Ethan baciava qualcuno, eppure mai gli era capitato di sentirsi come in quel momento: fu come respirare davvero per la prima volta; si sentiva come se, fino a quell’istante, avesse guardato la vita da attraverso un velo che gli impediva una visione chiara, mentre ora quel velo era stato sollevato ed i suoi sensi s’erano acuiti, facendogli apparire tutto più nitido. Qualcosa, dentro di lui, andò in frantumi, qualcosa che lo divideva dal resto del mondo, che lo teneva prigioniero.

Si costrinse a staccarsi dalle labbra di Aiden solo perché non voleva fargli fare ulteriormente tardi; si accorse di star sorridendo mentre fissava i suoi occhi azzurri e brillanti d’emozione.

“Digli che vuoi rivederlo, proponigli di fare qualcosa. Non startene lì impalato: sembri un cretino” suggerì Ethan Numero Due.

“Ma non penso proprio: non dirai nulla, già ti sei reso abbastanza ridicolo così” l’aggredì Ethan Numero Uno.

«Che ne dici se domani sera andiamo a cena da qualche parte?» borbottò Ethan, mettendo a tacere la lotta nella sua testa e guardando altrove.

«Possiamo ordinare una pizza e stare da me: ho casa libera» rispose Aiden: se non fosse stato lui, Ethan avrebbe pensato che in quella frase fossero nascosti dei sottintesi, ma iniziava a conoscerlo abbastanza da poter asserire con una certa sicurezza che non fosse così.

 

La sera seguente, Ethan si presentò con due pizze all’indirizzo che Aiden gli aveva lasciato e suonò il campanello piuttosto titubante. L’altro venne ad aprire con aria piuttosto assonata, ma quando vide di chi si trattava sorrise e si riscosse, scostandosi per lasciarlo passare: Ethan s’era aspettato che l’avrebbe baciato, e s’accigliò quando non accadde, sentendo la propria trepidante aspettativa delusa.

Tra l’imbronciato e il confuso, si lasciò guidare nella sala da pranzo e si sorprese nel constatare, guardandosi attorno, quanto quella casa fosse molto poco da Aiden: tutto era minuziosamente ordinato ed al proprio posto, e stonava terribilmente con la personalità del ragazzo che… stava frequentando? Poteva dire così?

Inizialmente, i due mangiarono in silenzio: Ethan avrebbe voluto dire qualcosa, ma non sapeva da che parte cominciare; non era mai stato bravo ad intrattenere conversazioni. Alla fine, fu Aiden a rompere il silenzio, chiedendogli come fosse andata la giornata, una domanda banale, che Ethan si maledisse di non aver posto per primo.

«Il tuo tirocinio è andato bene, invece?» fece Ethan, dopo aver illustrato il suo poco interessante pomeriggio di studio. Gli occhi di Aiden s’animarono di una luce gioiosa che li risvegliò dal loro assonnato languore: annuendo, cominciò a raccontargli animatamente la sua mattinata; era evidente che amasse profondamente ciò che faceva, cosa che Ethan non poteva dire del percorso di studi che aveva intrapreso, scelto perché, sostanzialmente, Jason glielo aveva proposto e lui non aveva passioni particolari da seguire. Provò un tiepido benessere nell’ascoltare Aiden: si ritrovò a fargli molte domande su parecchi aspetti medici e fu in quell’occasione che apprese che gli oggetti che aveva lanciato sul cruscotto di malagrazia il giorno precedente si chiamavano fonendoscopio e sfigmomanometro.

Apprese anche molte altre cose quella sera, cose della vita di Aiden che quest’ultimo gli rivelò quasi distrattamente, mentre guardavano un film sul grande divano del salotto. Rannicchiato su se stesso come un bambino, con gli occhi azzurri socchiusi per la stanchezza, gli disse di avere casa libera perché suo zio, che era un poliziotto, aveva il turno di notte; gli disse anche che suo zio era il gemello di sua madre, suicidatasi qualche anno prima, a causa di una profonda depressione nella quale era caduta dopo la scomparsa del padre di Aiden, morto di malattia quando lui era talmente piccolo da non poterlo ricordare.

Ethan si sentì profondamente in colpa ed ingrato per essere scontento della sua vita, dinanzi a quella derelitta di Aiden che, pure, riusciva a essere ugualmente sereno o, per lo meno, ci provava.

Quando gli chiese dove trovasse tutta quella gioia nonostante il dolore del suo passato, Aiden gli sorrise e gli rispose: «Bisogna sempre trovare la forza di rinascere, un po’ come fa la natura in primavera; non diresti mai, guardando com’è spoglia d’inverno, che possa riuscire a rifiorire, eppure è così: una mattina ti svegli, ed i rami scheletrici degli alberi si sono ricoperti di foglie, i fiori sono sbocciati nei prati, dove non avresti mai pensato di vederli, e il mondo si riempie di nuovo di tutti i colori e i profumi che l'inverno aveva fatto sbiadire. È stato così anche per me: ho fatto tornare la primavera dove prima c’era l’inverno.»

Ethan reclinò la testa di lato e si rese conto, nell’ascoltare quelle parole, che anche a lui era accaduta la stessa cosa: la sua anima era sempre stata arida e spenta, come morta, incapace di sentire; da quando aveva visto Aiden, tuttavia, qualcosa in lui s’era come risvegliato da un profondo torpore: il mondo aveva acquistato sfumature che prima non possedeva e le cose avevano assunto una bellezza diversa, quasi misteriosa. Lui stesso era divenuto meno intrattabile e cominciava a non comprendere per quale motivo dovesse essere costantemente arrabbiato e scontento.

Non sapendo cosa rispondere e temendo di dire qualcosa di inappropriato, Ethan si limitò ad avvicinarsi ad Aiden e baciarlo, stupendosi di quanto l’avesse desiderato; percepì le labbra dell’altro contrarsi in un sorriso contro le sue, prima di percorrerle con la lingua in una carezza che gli fece correre un violento brivido di piacere lungo la schiena.

Un’ultima cosa apprese Ethan quella sera da Aiden, che non si ritrasse alle sue mute richieste di approfondire quel contatto fisico che si faceva sempre più concitato e quel desiderio che diveniva sempre più impellente: apprese che non era vero che odiava essere toccato, non da tutti almeno; apprese che le mani di Aiden sulla sua pelle accaldata erano come palpiti leggeri, che lo facevano tremare d’impazienza, e i suoi ansiti nelle orecchie il suono più sensuale che avesse mai udito; apprese che sentirlo dentro di sé era forse ciò che più s’avvicinava alla beatitudine: fece male, all’inizio, benché Aiden avesse cercato di essere il più attento e delicato possibile, ma poi il piacere aveva iniziato a subentrare lentamente, in un crescendo che gli avviluppò la mente e gli acuì i sensi.

Con le unghie artigliate alla schiena di Aiden, a gemere il suo piacere, Ethan apprese questo: che essere con lui era come avere la primavera dentro.

 

Nei mesi successivi, Ethan e Aiden consolidarono il loro rapporto in una relazione.

Ethan divenne una persona serena, nonostante la sua ombrosità di fondo rimanesse: Ethan Numero Uno ed Ethan Numero Due si erano fusi in un’unica personalità acida e irascibile, ma sorridente per la maggior parte del tempo. Aiden, che era la sua primavera, la sua rinascita personale, aveva imparato ad essere più ordinato, o quantomeno non aveva fatto trovare più nulla ad Ethan sul sedile passeggero; ad un certo punto, gli aveva fatto conoscere suo zio, Aaron: non gli aveva presentato Ethan come suo fidanzato, ma probabilmente l’aveva capito comunque.

In quel microcosmo che si era creato, in quella bolla di perfetto equilibrio, come un luogo assolutamente rigoglioso e idilliaco, Ethan trascorreva la sua esistenza nella perfetta convinzione che nulla, assolutamente nulla, sarebbe più potuto andare storto da quel momento in avanti. Con Aiden, con la sua risata senza ombre dentro e coi suoi occhi ridenti quando lo guardava, era certo che niente avrebbe potuto scalfire quel guscio di felicità che amorevolmente lo avvolgeva.

Fu per questo che venne completamente colto di sorpresa quel pomeriggio, mentre cercava di seguire una noiosissima lezione, chiedendosi vagamente per quale motivo Aiden non si facesse sentire da un po’, dopo averlo informato di star tornando a casa, finite le sue ore di tirocinio.

Venne completamente colto di sorpresa quando sentì, insistente, la vibrazione del suo cellulare e, afferratolo, vide che era Aiden a chiamarlo: si domandò per quale motivo lo stesse facendo, sapendo che si trovava all’università, e fu quello l’istante in cui il panico cominciò ad impadronirsi di lui.

Recandosi rapidamente fuori dall’aula, con il battito accelerato dall’ansia ed il passo affrettato dall’urgenza, cominciò ad ipotizzare i motivi per i quali Aiden lo stesse chiamando, ma non gliene vennero in mente altri se non che lui volesse lasciarlo.

Non l’aveva visto forse più stanco ed assente nell’ultimo periodo? Lui diceva che era colpa degli esami e delle ore di tirocinio, ma probabilmente, invece, non era affatto così.

Raggiunto il corridoio, rispose con un groppo in gola che minacciò di fargli morire le parole sulle labbra. Dall’altra parte della cornetta, la persona che parlò non era Aiden. In un certo senso, Ethan sapeva di conoscerla, ma non fu in grado di identificarla in un primo momento, poiché la voce era incrinata e distorta da una profonda sofferenza.

«Ethan?» chiese la voce familiare eppure irriconoscibile.

«Sì» fu tutto ciò che riuscì a dire Ethan, mentre il panico si tramutava in terrore, poiché il suo inconscio aveva già compreso ciò che alla ragione sfuggiva.

«Sono Aaron. Scusami, non sapevo come altro fartelo sapere: Aiden ha avuto un incidente.»

All’inizio, ad Ethan venne da ridere: doveva essere uno scherzo, e alquanto di pessimo gusto. A volte, Aiden esagerava davvero col suo senso dell’umorismo, ma arrivare a prendersi gioco di lui in quel modo era veramente troppo.

Gli venne da ridere, eppure non rise. Gli venne da pensare che fosse uno scherzo, eppure non ci credette davvero neppure per un istante. «Come…? Cosa…? Non capisco» balbettò, mentre si sentiva sprofondare in un baratro, come se il terreno fosse venuto a mancargli sotto i piedi e una voragine si fosse aperta ad inghiottirlo.

«Aiden ha avuto un incidente» ripeté Aaron, come se fosse stanco di dirlo. Come se lo nauseasse.

Ethan inspirò a fondo; s’accorse solo in quel momento di essersi appoggiato alla parete per sorreggersi. «Come sta?» domandò precipitosamente: incidente poteva significare qualsiasi cosa, anche una sciocchezza di poco conto. Anche nulla di grave. Era così. Doveva essere così.

«Lo stanno operando» rispose Aaron, inquietantemente vago.

Ethan portò lo sguardo spiritato dinanzi a sé, ad incontrare il paesaggio che si intravedeva al di là della finestra. Fuori, la primavera lussureggiava coi suoi colori sgargianti e vividi. Dentro di lui, invece, era appena calato il più gelido e fetido degli inverni.

  
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