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Autore: Bloodred Ridin Hood    12/05/2019    2 recensioni
Commedia sperimentale sulle vicende di vita quotidiana della famiglia più disfunzionale della saga.
Immaginate la vita di tutti i giorni della famiglia Mishima in un universo parallelo in cui i suoi membri, pur non andando esattamente d’accordo, non cerchino di mandarsi all'altro mondo gli uni con gli altri.
[AU in contesto realistico] [POV alternato]
[Slow-burn XiaoJin, LarsxAlisa] [KazuyaxJun] [Accenni di altre ship]
[COMPLETA]
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Asuka Kazama, Jin Kazama, Jun Kazama, Lars Alexandersson
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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38
And This is Why You Should Always Call Before You Show Up to People’s Houses
(Lars)

La neve continua a cadere silenziosa lungo quella strada semideserta. È quasi mezzogiorno, ma il sole è coperto da una fitta coltre di nubi e riesce a filtrare solo una luce argentea che illumina fiocamente la città.
Alisa cammina davanti a me, tenendo la mappa della città con le indicazioni scritte con caratteri cirillici.
Si ferma e si volta. Alcuni fiocchi di neve le si sono posati sui ciuffi di capelli che le sfuggono da sotto la cuffia.
“Dietro questo incrocio dovrebbe esserci una locanda. Potremo chiedere lì per delle informazioni.” indica l’ennesimo complesso di appartamenti rettangolare sulla destra “Sempre che non sia cambiato qualcosa dal…” legge la data di stampa di quella mappa “... 1984.”
Sospiro. Purtroppo non abbiamo trovato niente di più recente al chiosco della stazione.
“Beh, non possiamo far altro che controllare.” dico.
Riprendiamo a camminare con gli zaini in spalla in quel mondo sbiadito. La foresta di conifere si estende minacciosa dietro a quello schema di scatoloni di cemento, quasi a contornare quel paesaggio quasi irreale e senza tempo. Perché sì, sembra davvero che il tempo si sia fermato qualche decennio fa in questo villaggio di poco più di diecimila abitanti.
Svoltiamo finalmente l’angolo e Alisa indica davanti a lei con un gran sorriso.
“È lì!” dice “È quell’insegna gialla!”
L’insegna della locanda brilla di colore in mezzo a tutto quel grigiore uniforme.
Acceleriamo il passo e raggiungiamo la porta della suddetta locanda.
Alla porta è legato un campanello che segnala il nostro arrivo. Entriamo in una stanza semi-buia e piuttosto affollata. 
“Vado a prendere una stanza per stanotte.” dice Alisa avvicinandosi al bancone.
La seguo e noto un vecchio dall’aria assonnata che si avvicina a servirci.
Bofonchia qualcosa in russo e inizia uno scambio di battute per me incomprensibili con Alisa.
Poi lei sorride, dice qualcosa accompagnato da un piccolo cenno di assenso e prende i soldi per procedere al pagamento.
“Hanno una stanza libera.” mi informa poi.
Non mi sorprende. Non credo che questo villaggio sia una meta tanto amata dai turisti.
Il vecchio ci offre una chiave e seguo Alisa al piano di sopra.
“Primo piano, camera di destra. Non possiamo sbagliare, ha detto.”
La scala cigola in maniera inquietante sotto i nostri passi e ho come l’impressione che nessuno debba esserci passato per molto tempo. 
Arriviamo al piano di sopra e davvero non possiamo sbagliare, dato che ci sono soltanto due porte, una a destra e una a sinistra. 
Alisa apre la nostra camera ed entriamo. È una stanzetta minimale, con due letti gemelli, due comodini, un piccolo comò. L’aria a dire il vero puzza un po’ di chiuso, ma posso sorvolare. 
Alisa lascia lo zaino a terra, si toglie guanti, cuffia e sciarpa e va a dare un’occhiata al bagno. Torna indietro con una smorfia.
Mi avvicino a vedere anche io e sospiro. Non è esattamente il migliore bagno d’albergo che abbia visto, ma…
“Ho visto di peggio.” commento a voce alta per cercare di sdrammatizzare un po’.
“Spero che… tutto questo ne valga la pena.” commenta Alisa togliendosi il cappotto e andando a sedersi su uno dei lettini. Si rabbuia un po’ e abbassa lo sguardo “Insomma, mio padre non ha un carattere facile. È vero che non conosco tante famiglie e di certo i Mishima non sono l’emblema della normalità, ma… mio padre non mi ha nemmeno lasciato un indirizzo dove poterlo trovare. Non credo neanche questa sia una cosa tanto normale!”
Non posso fare a meno di notare una sottile nota di rancore nelle sue parole.
Scuoto la testa. Inutile mentire. Neanche io sono nella posizione di poter vantare parentele normali, ma Alisa ha ragione, neanche la sua situazione è affatto normale.
“L’unico contatto che ho di mio padre è un numero di casella postale.” continua lasciandosi cadere all’indietro sul letto e guardando il soffitto “... e delle lettere ogni due mesi circa.” dice con un soffio “E ci sono così tante cose che non so di lui… mio padre è sempre stato un mistero.” poi mi guarda un po’ preoccupata “Lars… non sono sicura che accetterà di aiutarci.”
“Non ti preoccupare. Noi faremo del nostro meglio per convincerlo.” sorrido cercando di sembrare rassicurante “E se non funzionerà, per lo meno ci avremo provato!” 
Alisa annuisce e torna a guardare il soffitto.
Qualche decina di minuti dopo scendiamo di nuovo nel locale con l’intenzione di indagare per scoprire dove può risiedere il dottor Bosconovitch. Stando alle indicazioni di Lee, o Violet, che dir si voglia, sappiamo per certo che si trova qui da qualche parte nei dintorni, ma non abbiamo idea di dove sia.
Alisa chiede informazioni all’uomo al bancone. Non sono ovviamente in grado di capire la sua domanda, ma posso comunque captare il nome Bosconovitch e a quel punto noto un sussulto nel vecchio della locanda.
Si ferma, alza lo sguardo, guarda Alisa a bocca aperta e risponde qualcosa biascicando le parole.
“Che succede?” chiedo a bassa voce.
“Dice… che non ha mai sentito quel nome.” mi traduce Alisa con aria diffidente.
Guardo il vecchio con sospetto. Sembra quasi spaventato.
“Ha reagito in modo piuttosto strano.” commento a voce alta.
Alisa alza le spalle.
“In realtà non mi sorprende.” ammette con un po’ d’amarezza “Papà è un tipo che potrebbe incutere un certo tipo di timore nelle persone… ed è probabilmente lo scienziato pazzo del villaggio.”
Riusciamo all’esterno e riprendiamo a camminare lungo le strade.
“Ci fermeremo ad ogni tipo di attività.” dice Alisa “Prima o poi troveremo qualcuno che abbia il coraggio di dirci dove si trova, no?!”
Ma dopo aver provato in un ufficio postale, un negozio di ortaggi, in un chiosco di giornali e in una sartoria e avendo ricevuto reazioni tutte simili a quella del vecchio della locanda, iniziamo a perdere un po’ le speranze.
“Di questo passo non riusciremo a trovarlo neanche se bussassimo ad ogni casa del paese…” brontola Alisa con disappunto.
“Alisa…” dico io a quel punto notando qualcosa di molto strano. Davanti a noi si è appena fermata una donna di mezza età che ci osserva, o meglio, osserva Alisa come se stesse vedendo un fantasma.
“A… Alisa?” ripete la donna.
Alisa si volta e la guarda incerta.
La donna impallidisce, indietreggia e per poco non perde l’equilibrio.
“Ti… conosce?” chiedo perplesso.
“Sembrerebbe, ma io non ho idea di chi sia.” mormora. 
A quel punto però Alisa avanza e le fa qualche domanda in tono educato. La donna la guarda sconcertata, deglutisce e scuote la testa.
Alisa continua con la frase che ormai ho imparato a riconoscere.
“Stiamo cercando il dottor Bosconovitch. È molto importante, può aiutarci?”
La donna la guarda ancora, con occhi vacui, poi si volta e alza tremolante un dito verso la fine della strada. Dice qualcosa.
Bene, forse ci siamo!
Detto questo, la donna prende le mani di Alisa, la guarda per un momento, con gli occhi che le si riempiono di lacrime e improvvisamente si allontana velocemente, lasciandoci senza parole.
“Cosa... è appena successo?” mi chiedo a voce alta.
Alisa la segue con lo sguardo, poi abbassa gli occhi, con un’espressione un po’ triste.
“Alisa?” chiedo “Cosa ti ha detto?”
“Mi ha detto di seguire quella strada… e di cercare una casa nella foresta.” risponde a bassa voce.


Per tutto il tragitto lungo la foresta non parliamo dello strano episodio con quella donna, ma sono assolutamente certo che Alisa abbia capito meglio di me che cosa sia successo. Per qualche ragione però, non sembra a suo agio nel volerne parlare. E io decido di rispettare la sua decisione.
Quando raggiungiamo quella che con tutta probabilità è la dimora del dottor Bosconovitch ormai il sole è tramontato e con l’oscurità l’edificio assume un aspetto ancora più spettrale di quello che dovrebbe avere di mattina. 
È una casa molto grande, antica, tetra, quasi un piccolo castello dall’aspetto minaccioso. Ha diversi piani e una moltitudine di finestre. Sono quasi tutte buie, fatta eccezione per un debole lume che si intravede in una delle finestre dei piani più alti.
“È proprio… nello stile di mio padre.” mormora Alisa osservando la dimora.
“Tuo padre ha un’inclinazione per l’horror?” chiedo a mo’ di battuta, dato che questa potrebbe passare per la casa delle vacanze di Dracula.
“Qualcosa del genere.” risponde lei.
Arriviamo davanti al portone e Alisa muove il battente in ferro. È talmente impolverato e incrostato di ruggine che mi sorprende che sia ancora in grado di muoversi. È come se non lo toccasse nessuno da almeno vent’anni. Immagino che il dottore non riceva spesso delle visite.
I tonfi contro l’enorme porta di legno risuonano minacciosi, ma non arriva nessun suono dall’interno della casa.
“Forse… non è in casa.” ipotizzo.
“Mio padre non esce mai di casa.” risponde Alisa con sicurezza.
“Beh, immagino che in Antartide doveva essere così, ma magari…”
“È molto vecchio e debole.” riprende Alisa con sguardo basso “E ha un numero illimitato di allergie. Odia stare in giro all’aria aperta quando non è necessario.”
Sospiro.
“D’accordo, allora è chiaro che non intende avere visite.” dico “Che facciamo?”
Alisa alza lo sguardo e osserva i piani superiori della casa.
“Il ramo di quell’albero è abbastanza vicino alla finestra laterale…” ragiona a voce alta “Se riuscissimo ad arrampicarci fin lassù e a sfondare il vetro dovremmo poter entrare facilmente.”
La guardo sgranando gli occhi. Non riesco a credere che sia seria!
“Alisa?! Vuoi davvero irrompere in questo modo in casa di tuo padre?!” chiedo perplesso “Come se fossimo… dei ladri?!”
Lei sorride.
“È anche casa mia dopotutto, non è così sbagliato.” risponde “E mio padre non se la prenderà per un vetro rotto! Quando mi vedrà sono certa che sarà felice e ci perdonerà.”
“Ma…” cerco di replicare.
“Lui mi ha insegnato a ragionare in questo modo.” continua Alisa tornando ad osservare la finestra bersaglio “A trovare sempre una soluzione ad ogni ostacolo che si pone tra me… e il mio obiettivo.”
Poi mi guarda ancora con un piccolo sorriso.
“Sei… sei davvero sicura?” chiedo.
Lei annuisce con decisione.
“D’accordo.” mi arrendo “Seguiamo il tuo piano.”
Ha ricominciato a nevicare. 
Seguo Alisa che si issa agilmente sul primo ramo dell’albero. Lo strato di neve che ricopre la superficie dei rami non semplifica le cose, dobbiamo muoverci molto cautamente per non scivolare giù. 
Alisa si sposta con un balzo sul secondo ramo, si aggrappa con le braccia poi dandosi lo slancio con le gambe riesce a sollevarsi su, rimanendo inginocchiata sull’albero. 
“Tuo padre ti ha insegnato anche questo?” chiedo, stupito davanti a tanta agilità.
Lei mi guarda con un sorriso triste.
“Ho fatto questo genere di esercizi per tutte le mattine della mia infanzia e adolescenza.” ammette “Dovevo essere pronta a difendermi in ogni modo nel caso… ce ne fosse la necessità.”
La seguo sul secondo ramo, mentre lei sta già scalando il terzo.
“Di cosa aveva paura tuo padre esattamente?” continuo “Veramente era solo perché temeva potessi ritrovarti in mezzo ad una terza guerra mondiale?!”
Alisa si alza in piedi sul ramo.
“Qualcosa del genere.” risponde vaga, poi osserva la finestra a pochi metri da lei “Da qui dovremmo riuscire a raggiungere la finestra.” 
Si tira su il cappuccio del parka.
“Cosa… hai intenzione di fare?!” chiedo, mentre la guardo prepararsi a saltare “Alisa, aspetta!”
Ma Alisa si è già tuffata in avanti contro la finestra, con le braccia incrociate davanti al viso, a mo’ di protezione. Il vetro si frantuma con fragore, spargendo cocci tutto intorno.
“Alisa!” la chiamo ancora preoccupato, sentendo il cuore che accelera.
Lei, con un’abile capriola in avanti, si rialza sul pavimento della casa e si scuote per far cadere i frammenti di vetro dal cappotto.
“Sto bene.” conferma voltandosi verso di me come se niente fosse “Per fortuna abbiamo guanti, cuffia e vestiti invernali a proteggerci!”
Tiro un sospiro di sollievo e mi preparo a copiare il suo salto. Raggiungo il davanzale, facendo attenzione a non calpestare i frammenti di vetro più grossi, che mi farebbero scivolare. Facendo attenzione a non toccare quel che resta della finestra, mi infilo all’interno della casa, raggiungendo Alisa.
“Alisa… sei matta, avresti potuto farti molto male.” mi avvicino togliendole un frammento di vetro dalla cuffia.
Lei mi rivolge un goffo sorriso e si sfila il cappotto ancora coperto da frammenti e polvere di vetro.
“Dobbiamo portare a termine la missione.” dice come se fosse una timida giustificazione, poi lascia cadere il parka a terra “Forse è meglio lasciare qui i cappotti e il resto, per non rischiare di farci male con le schegge di vetro.”
Annuisco e faccio come lei.
Non abbiamo neanche il tempo di guardarci intorno e di esplorare la stanza completamente buia, che subito sentiamo dei forti rumori metallici, come dei pesanti passi ritmati che si avvicinano pericolosamente.
“Cosa diavolo è questo rumore?!” chiedo allarmato guardandomi intorno lasciando cadere il cappotto ai miei piedi.
“Jack!” esclama Alisa rimanendo all’erta. 
Io non ho la minima idea di che cosa significhi.
La stanza è in completa oscurità, fatta eccezione per l’area dietro la finestra, dove ci troviamo, debolmente illuminata dalla luna.
“Jack?!” ripeto confuso.
“Una delle invenzioni più riuscite di papà.” spiega Alisa “È un modello di soldato meccanico. Ti prego, Lars, fai attenzione.”
“Un soldato… meccanico?!” ho il tempo di dire. 
“Lars giù!” urla Alisa spingendomi a terra.
Il pugno di un braccio metallico arrivato da chissà dove nell’oscurità fende l’aria sopra la mia testa. Io sgrando gli occhi dalla sorpresa e dalla paura.
“Presto, scappiamo!” insiste Alisa tirandomi su per un braccio. 
Goffamente mi rialzo in piedi e la seguo, sgattaiolando alla cieca verso la parte sinistra della stanza.
Sento il robottone che ci segue e parte per un nuovo attacco. Riesco a schivarlo, ma a quel punto mi rendo conto che non è un solo Jack a seguirci, ma riesco a distinguere i passi di almeno tre di loro. È a quel punto che inizio a preoccuparmi sul serio.
“Alisa, come facciamo a fermare questi cosi?!” 
Schivo gli attacchi e cerco di seguirla nell’ombra. I robottoni sono alti e incredibilmente pesanti, tanto che ho l’impressione che il pavimento si pieghi sotto ogni loro passo. 
Alisa non mi risponde, ma è chiaro che non si possono fermare. Affrontarli in una sfida corpo a corpo è lo stesso fuori discussione, sarebbe come prendere a pugni un'auto per evitare che ti investa. L’unica via d’uscita sarebbe riuscire ad evitarli abbastanza a lungo da riuscire a metterci al riparo da qualche parte. Fortunatamente i loro movimenti sono piuttosto lenti e legnosi, quindi se evitiamo di fermarci forse saremo in grado di fuggire.
Riesco a ritrovare Alisa, mi prende per un braccio.
“Da questa parte!” esclama trascinandomi in quella direzione. 
La seguo camminando nell’oscurità, mano nella mano, mentre i Jack ci seguono a passi ritmati sempre più veloci. I miei occhi iniziano ad adattarsi al buio, ma è comunque ancora troppo scuro per avere una visione chiara di ciò che ci circonda.
Come diavolo riesce Alisa a muoversi in maniera così spedita?
Non ho il tempo di chiederglielo, ovviamente, ma arriviamo presto davanti ad una parete.
“C’è una porta!” esclama Alisa e poi sento dei rumori come di tasti che vengono premuti.
Tocco la superficie della porta con una mano, è metallica, come una porta di un ascensore. 
C’è una sorta di tastierino numerico. Alisa digita qualcosa e la porta si apre, rientrando lateralmente dentro alla parete. 
“Per fortuna papà utilizza sempre la stessa password!” dice mentre entriamo dentro alla nuova stanza. 
La porta metallica si richiude dividendoci dall’esercito di Jack.
Anche la nuova stanza è completamente buia, ma per lo meno c’è silenzio e non sembrano esserci minacce imminenti.
“Tuo padre ha dei sistemi molto particolari di antifurto!” commento riprendendo fiato.
E questa casa pure non è quello che mi aspettavo. Insomma, una casa in pieno stile gotico ottocentesco con porte elettroniche e soldati meccanici che fanno la guardia!
“Mi sembrava di essere finiti in un episodio di quella serie TV che vi piace tanto.” aggiungo.
“Non hai tutti i torti!” commenta Alisa ridacchiando “Andiamo” dice poi facendomi strada.
Ma abbiamo il tempo di fare giusto qualche passo, quando improvvisamente scatta un allarme assordante e una luce lampeggiante rossa illumina ritmicamente la stanza. 
“Oh merda…” mi lascio sfuggire.
Che diavolo succede adesso?!
Finalmente, grazie alla luce rossa, sono in grado di avere un’impressione della stanza in cui ci troviamo. Sembra un lungo corridoio, le pareti sono spoglie e ricoperte di lamiere metalliche.
“Cosa…” ho il tempo di farfugliare, prima che una botola nel pavimento si apra esattamente sotto il punto in cui c’è Alisa.
Lei urla e inizia a scivolare nel vuoto sottostante.
“Alisa!” urlo.
Alisa perde la stretta con la mia mano e finisce giù inghiottita dal buio.
Mi butto a terra e cerco di riafferrarla con entrambe le braccia, ma è tutto inutile, ormai è caduta.
“Alisa!!!” urlo ancora con tutto il fiato che ho in gola.
Sto per calarmi giù anche io per seguirla, ovunque sia finita, ma la botola si richiude di colpo, impedendomi di passare.
“Nooo!” sbraito colpendo violentemente il pavimento.
L’allarme continua imperterrito, coprendomi la voce, e sento che la porta metallica che mi separa dall’esercito di soldati meccanici si riapre.
Subito mi rialzo e mi volto, vedendo il primo Jack fare capolino oltre la porta.
“Dannazione…” sibilo tra i denti.
Mi volto e mi metto a correre lungo il corridoio, la luce intermittente mi permette di avere una vaga idea della traiettoria che sto seguendo e di non finire contro il muro. 
Lungo questo corridoio ci sono diverse porte, tutte metalliche, tipo quella della prima stanza, e tutte accompagnate da un tastierino numerico. Insomma tutte le porte sono sigillate da una password che solo Alisa conosce! I Jack continuano a seguirmi con i loro pesanti passi meccanici, il suono dell’allarme mi rimbomba nelle orecchie, la preoccupazione per Alisa mi divora dall’interno. 
Noto a quel punto che il corridoio è costellato di telecamere, che si muovono al mio passaggio, seguendo i miei movimenti.
“Aiuto!!” cerco di urlare rivolto alle telecamere mentre corro a perdifiato “Dottor Bosconovitch! Alisa! Sua figlia… sua figlia Alisa è qui!”
Arrivo alla fine del corridoio e freno la mia corsa, spingendo entrambe le mani contro la parete, come in un disperato tentativo di spingerla e spostarla. 
Inutile, ovviamente la parete è ben salda. Mi volto e mi appiattisco contro il muro, guardando i Jack camminare pericolosamente verso di me. 
È finita, penso con il cuore in gola. Non ho alcuna possibilità di salvarmi.
Guardo una delle telecamere puntate verso di me.
“È sua figlia!!” urlo ancora con tutto il fiato che ho in gola “Alisa Bosconovitch!!”
Ma niente. Non sono neanche sicuro che chi sia dietro quelle telecamere abbia la possibilità di sentirmi.
Guardo ancora i Jack, ancora qualche secondo e mi raggiungeranno. Soltanto pochi metri mi separano dalla mia ormai inevitabile morte. 
Sto per arrendermi al fato, quando noto una piccola finestra di un condotto di areazione, poco più indietro della telecamera. È coperta da una griglia di metallo ed è piuttosto stretta, ma dovrebbe essere alta abbastanza da permettermi di infilarmici dentro.
Non ho il tempo di stare a contemplare troppo l’idea, spinto da un’improvvisa scarica di adrenalina, mi lancio contro la finestrella. Mi appendo alla griglia con entrambe le mani, con tutta la forza che ho in corpo e facendo leva con le gambe piantate contro il muro, spingo in un tentativo disperato.
Lancio un urlo per scaricare la tensione e incredibilmente riesco a staccare la griglia, finendo a terra sul pavimento. Ho giusto qualche paio di secondi per dare un’occhiata ai Jack, che ormai mi hanno quasi raggiunto. Con uno scatto improvviso torno ad alzarmi e salto per issarmi su per quella finestrella. Ce l’ho quasi fatta e cerco di scivolare lungo il condotto, quando mi sento afferrare per una scarpa.
Lancio un urlo di rabbia. 
Sento che il Jack inizia a tirarmi giù e mi stritola il piede con una forza bruta. Mi aggrappo ad un tubo che corre lungo il soffitto del condotto. Per fortuna è saldo abbastanza da permettermi di fare un po’ di resistenza, anche se non sarò in grado di resistere a lungo.
Cerco di scalciare via la presa del soldato meccanico, ma è impossibile liberarmi, riesco a malapena a muovermi.
Lancio un altro grido disperato di dolore, mentre il Jack rafforza la sua presa e mi frantuma le ossa del piede sotto la sua stretta meccanica.
A quel punto però, mi viene una nuova idea. Senza stare troppo a rifletterci, lascio la presa con la mano sinistra e mi piego all’indietro, cercando freneticamente di sfilarmi lo scarpone. È l’ultima carta che posso giocarmi. Se non funziona questo sono spacciato. 
Riesco a slacciarmi la scarpa e tiro su il piede. Il dolore straziante del piede fratturato mi fa esplodere in un nuovo grido di disperazione, ma cerco di resistere e sfilo il piede dalla scarpa, che si accartoccia sotto la presa di Jack.
Ce l’ho fatta. Col cuore martellante, cerco di trascinarmi in avanti con le braccia il più rapidamente possibile. 
Sento il Jack che scaraventa via la mia scarpa vuota e infila un braccio meccanico all’interno della fessura per cercare di riafferrarmi. Continuo a muovermi camminando in avanti sui gomiti il più velocemente possibile, trascinandomi il piede fratturato a peso morto.
Uno strano rumore metallico mi suggerisce di voltarmi per un secondo e scorgo il braccio meccanico che si allunga e cerca pericolosamente di raggiungermi. Continuo a muovermi in avanti, spinto dalla forza della disperazione.
Il braccio sembra aver raggiunto il massimo dell’estensione, la mano si piega all’indietro e inizia a sentirsi un bip ritmato, sempre più veloce, come una sorta di timer.
Stringendo i denti continuo a camminare il più velocemente possibile, fino ad arrivare ad un bivio nel corridoio, mi trascino a sinistra, scelgo una direzione a caso e non mi fermo, continuo ad avanzare. 
Il timer arriva alla fine del suo conteggio e il condotto viene attraversato da una violenta sfiammata viola, che fortunatamente non riesce a raggiungermi, se non per l’ondata di calore che mi fa accapponare la pelle.
Non mi fermo, continuo ad avanzare a ritmo frenetico. Dopo qualche decina di metri, avanzando di nuovo nell’oscurità più totale, non sento più i rumori dei Jack e anche il suono dell’allarme si è fatto più lontano. È ancora presto perchè mi senta al sicuro però. Non posso escludere di ritrovarmi davanti qualche altro tipo di trappola mortale da un momento all’altro. 
Devo tra l’altro riuscire a raggiungere Alisa, ovunque sia finita! Devo riuscire a passare nei piani inferiori della casa, o ovunque Alisa sia caduta, e certamente non sarà semplice farlo passando da un condotto di aerazione.
Appena mi accorgo di essere davanti ad un’altra griglia, la afferro con le mani e cerco di spingere con tutte le forze. È un po’ più difficile farlo stavolta, data la mia posizione non ottimale e l’impossibilità di fare leva opponendo il piede rotto, ma dopo il decimo tentativo riesco finalmente a spingerla via sul pavimento. 
Tiro fuori la testa per dare un’occhiata. È un’altra stanza buia, ma dalla luce che filtra dalla finestra riesco a scorgere dei mobili, come delle librerie e delle poltroncine impolverate.
Non ho lo spazio per potermi girare, ma fortunatamente una di quelle poltroncine è proprio sotto il condotto, quindi potrò provare ad atterrare lì per evitare di ferirmi ulteriormente.
Mi spingo in avanti e riesco a cadere sulla poltrona, come pianificato, ma finisco subito dopo rovinosamente a terra, riuscendo comunque ad attutire la caduta con le mani. 
Il piede fratturato urta lo schienale della poltrona, facendomi avvertire una terribile fitta che sento penetrare fino al midollo. Soffoco un lamento di dolore e chiudo gli occhi, cercando di ignorare quelle sempre più dolorose dolorose pulsazioni. 
Riapro gli occhi poco dopo e mi trascino verso la finestra, dove c’è una maggiore visibilità. Sfilo la calza del piede infortunato e osservo il disastro. Il piede è gonfio e violaceo. Devo avere diverse fratture all’altezza del tarso e del metatarso.
Digrigno i denti. Alla faccia della legittima difesa, Bosconovitch!
Tiro fuori un coltellino dalla tasca e strappo la calza, improvviso una sorta di fasciatura provvisoria, stringendola forte attorno al piede. In questo modo forse riuscirò a muoverlo più facilmente.
Avrei potuto usare un pezzo di tenda, se solo non fosse così impolverata. Sembra che questa stanza non veda pulizie da almeno dieci anni. Bosconovitch non potrebbe addestrare i suoi Jack anche come robot da pulizie piuttosto che antifurti mortali? 
Torno a guardarmi intorno e intravedo una candela su un mobile vicino alla finestra. È una candela bianca, quasi del tutto consumata, ma forse è ancora utilizzabile.
Facendo attenzione, mi alzo cercando di caricare il peso del corpo solo sul tallone, e mi trascino a fatica verso il mobile. Prendo la candela e tiro fuori il mio accendino militare. Un alone di luce finalmente illumina debolmente il resto della stanza.
Come avevo già intuito, si tratta di una sorta di vecchia biblioteca e sulla parete opposta a quella della finestra c’è una porta, una normale porta di legno, non come quelle automatizzate di poco fa. 
Cammino lentamente verso quell’uscita, illuminandomi il cammino con la candela. 
Quando finalmente raggiungo la porta, afferro cautamente la maniglia, poi spingo appena, per aprire un varco di soli due centimetri. La porta dà su un altro corridoio buio, con varie porte di legno. Ha un aspetto diverso però rispetto al corridoio di prima. Le pareti sono coperte da una carta da parati a fiori e sono appesi vari quadri e ritratti. Questa parte dell’abitazione ha decisamente un aspetto più ‘casalingo’ rispetto a quello di poco fa.
La situazione sembra tranquilla, c’è silenzio e tutto sembra fermo. Non ci sono neanche videocamere appese al soffitto. 
Sempre molto cautamente spingo la porta per allargare il varco, poi esco lentamente sul corridoio e infine richiudo la porta alle mie spalle. 
Nessun allarme e nessun rumore di Jack. 
Bene, posso cercare Alisa adesso. Ho bisogno di raggiungere delle scale o qualcosa che mi permetta di scendere ad un piano inferiore. Il corridoio sembra essere cieco, sia da un’estremità che dall’altra, ci sono solo queste numerose, anonime porte.
Apro la prima e guardo al suo interno, illuminando l’interno con l’aiuto della candela. Un’altra biblioteca, librerie e scaffali ovunque, ma nessuna scala o ascensore. 
Chiudo e passo alla porta successiva. La apro e faccio luce su una sala semi spoglia con un grande pianoforte a coda e un lampadario di cristallo che pende dal soffitto. 
Niente di utile per la mia ricerca, chiudo e mi trascino claudicante verso la porta successiva ancora.
Faccio irruzione in una vecchia camera da letto, un bagno, altre due biblioteche, ma ancora niente scale. 
Arrivo dunque alla penultima porta del corridoio, la apro, accosto la candela per illuminare l’interno e scorgo l’ombra di un altro letto a baldacchino, un’altra camera da letto. Faccio per richiudere la porta e passare alla successiva, se ci sono delle scale, devono per forza essere dietro quell’ultima porta, quando improvvisamente noto qualcosa di strano che mi convince a dare una seconda occhiata a quella stanza. 
Tutte le stanze che ho controllato finora avevano qualcosa in comune, erano tutte impolverate e abbandonate come se nessuno ci mettesse piede da anni. Questa camera da letto invece è pulita e ben tenuta. Entro dentro e mi guardo meglio intorno. La trapunta a fiori è pulita e ben stirata sul letto. Alla mia sinistra c’è una scrivania con un mobile con diverse mensole, con vari oggetti e fotografie. Sull’altro lato della stanza c’è un grande armadio e delle mensole con una collezione di bambole di porcellana. 
A prima vista sembrerebbe la stanza di una ragazzina. Possibile che ci viva qualcuno qui dentro?
Mi avvicino alla scrivania. La superficie del legno è lucida e pulita. C’è quello che sembra un album fotografico adagiato sul piano. 
Allungo cauto una mano, indeciso se sfogliarlo o meno. 
Potrebbe aiutarmi a capire in che razza di posto sono finito e perché questa stanza è così diversa dalle altre, ma allo stesso tempo è come se stessi andando a ficcare il naso negli affari privati di persone estranee e la cosa mi mette a disagio.
Sollevo la copertina e inizio a curiosare tra le prime pagine. Come avevo pensato, è un album di fotografie. Le prime foto, secondo le date annotate a fianco, risalgono alla fine degli anni ‘50. Sono delle foto di famiglia, ma la maggior parte di queste ritrae una bambina piccola e i suoi genitori. Sarà la famiglia Bosconovitch? E la bambina sarà la proprietaria di questa stanza? Se queste foto sono degli anni ‘50 dovrebbe essere piuttosto avanti con l’età a questo punto, ma Alisa non ha mai parlato di altri parenti oltre a suo padre. È davvero possibile che questo sia Bosconovitch e che Alisa abbia una sorella molto più grande di cui non ha mai parlato?
Continuo a sfogliare le pagine. Si passa agli anni ‘60, la bambina cresce, ci sono i primi giorni di scuola, le lezioni di danza classica, le foto dei compleanni con amici e parenti, le foto a Mosca alla piazza rossa. C’è qualcosa che non va però in queste immagini, qualcosa di disturbante che mi sta lentamente facendo gelare il sangue nelle vene. Continuo a sfogliare le pagine, con la mia crescente agitazione. Arriviamo ai ‘70, la ragazza inizia le scuole superiori e il mio sospetto è sempre più forte, pagina dopo pagina, foto dopo foto, anno dopo anno. 
Arrivo all’ultima foto, datata 1974, la sollevo con dita tremanti per guardarla più da vicino.
“Non… può essere…” mormoro con un soffio. 






NOTE:
Capitolo decisamente "particolare", dato che è di un genere un po' diverso rispetto allo slice of life predominante nel resto della storia. Spero abbiate apprezzato nonostante appunto questa piccola differenza.

  
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