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Autore: Vella    13/05/2019    1 recensioni
La massa si nutre dei nostri fantasmi, alberga dentro la nostra mente e ci impedisce, platonicamente, di rompere le catene.
Quando la norma si scaglia contro il diverso, sarà sempre essa, la maggioranza, a schiacciare il libero arbitrio, la libera scelta.
Greta è una giovane adolescente alle prese con quelle che sono le problematiche comuni di generazioni sempre più assopite e sole. Frequenta una ragazza, Alice. E tutti ne sono felici perché è una cosa comune. Ma cosa accadrebbe se un giorno decidesse di fare coming out e di iniziare ad amare un ragazzo?
“Capovolto” è un progetto sperimentale che ha come unico obiettivo quello di smuoverci e di abbandonare la scelta del gregge, ribaltando i nostri tradizionali punti di vista.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Bondage | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.
Critica alla ragion pura, Immanuel Kant
 

III.

 
«Buona serata, Adelina». Tommaso abbracciò mia madre in piedi, così vicina ai fornelli per trovare un’occupazione, o per meglio dire, un diversivo.
Fu un abbraccio terribilmente solidale, che continuò ad aumentare il dolore nel mio cervello.
«Scusaci Tommaso, tu non c’entravi nulla in tutto questo… io non so proprio cosa dire, in realtà». Farfugliava, si sistemava i capelli dietro le orecchie, li ravvivava e torturava, la voce di un tono troppo alto lasciava trapelare un disagio a malapena paragonabile a ciò che sentivo io.
Si figuri”, “ancora buona serata”, “passo in questi giorni”, “Ciao Greta”. Alessio lo accompagnò fuori, sparirono per una manciata abbondante di minuti. Meglio così, me ne sentii sollevata.
«Era il caso di mettere su questo teatrino davanti al ragazzo di tuo fratello?» avrebbe potuto dirmi tante cose in quei minuti di faccia a faccia. Non c’era nessuna barriera a dividerci, se non quella dell’imbarazzo, ma lei credette esser opportuno ricordarmi di quanto fosse stato poco decoroso parlare della mia deviazione davanti ad estranei. Aveva paura mia madre, e come biasimarla. Non accettava che i vicini mormorassero e che gli sguardi delle persone mutassero. Odiava essere al centro dell’attenzione per cose sconvenienti: come il suo divorzio.
La mia presa di coscienza e l’abbandono da parte della mia seconda madre avevano una verità in comune: la delusione delle persone care.
«Parlare davanti a chiunque di questi problemi non ti porta a nessuna, e dico nessuna, soluzione, Greta», si era avvicinata, in una sua calma glaciale. Aveva ripreso coraggio. Bastava un cerotto, Greta, e la bua sarebbe sparita.
Bastava un po’ di sabbia, e tutto era dimenticato, ancora non lo capivo.
«Io non cerco una soluzione».
«Ti senti trascurata? Ho fatto qualcosa che ti ha turbato fino a questo punto, Greta? Parlami. Non c’è alcun bisogno di attirare la mia attenzione così. Non sei più una bambina. È un atteggiamento che hai sempre avuto. Quando Alessio riceveva della premura in più tu facevi di tutto pur di farti considerare a tuo modo. Era un gioco? Il gioco smetteva di piacerti. Era una materia? Iniziavi a non studiarla più. Adesso cosa c’è? Volevi rovinargli questa serata? Ci sei riuscita in pieno,» sospirò, «perché dev’essere tutto così complicato con te?»
Quella banale, banalissima e retorica analisi pseudo-freudiana mi lasciò di stucco, e di per sé ero già abbastanza scossa. Che il problema risiedesse in un meandro indefinito di un’infanzia neutra e poco contestualizzata, mi parve una presa in giro. Alle volte, e mi sembrò vero quella sera più di altre, il cervello umano cerca di creare delle barriere infinitamente alte pur di non perdere un appiglio conforme nella propria visione di realtà.
«Quello che provo non ha nulla a che fare con delle stupide e infantili manie di protagonismo». Farfugliai e lei si schiarì la voce; non ero più certa che mi stesse ascoltando, le mie parole, qualunque fossero il loro valore, avevano perso il ruolo centrale. La conversazione era diventata una corsa contro il tempo alla ricerca di una soluzione immediata.
Portò il busto in avanti e con cautela le sue braccia si allungarono verso il mio corpo contratto e appesantito. Stava cercando evidentemente un contatto con le mie mani incrociate sul tavolo.
«Senti, Greta, sei solo caduta in uno stato confusionale». Titubante, un po’ tremolante, non sapevo a cosa volesse andare a parare ma l’esordio non mi parve promettermi sensatezze.
«Tutti noi viviamo delle simpatie verso l’altro sesso, l’amicizia e l’affetto profondo che si provano sono reali e figurati se una madre non vuole che la propria figlia abbia degli amici», rise, mi accarezzò il dorso delle dita con il pollice, «anche io trovo piacevoli molti uomini. Quand’ero giovane pensavo che i lineamenti del mio vicino di casa fossero incantevoli». Cosa stava dicendo? Dio mio, era ridicolo.
«Ma ce ne passa di buon senso dal provare dell’attrazione fisica o emotiva. Capisco che questa simpatia ti abbia portato a pensare e a costruire un’idea di te che non ti appartiene. Ed io sono contenta che…» respirò ancora più forte, «non ti sei tenuta tutto dentro». Si guardò attorno.
«Io non sono confusa» ribadii e le sue mani si allontanarono dalle mie con lentezza, senza che i suoi occhi si posassero sul mio volto.
«Io lo…», un sussurro, mi presi vari secondi per finire, necessitavo di assaporarne la parola sulla lingua e assaggiarne tutta la dolcezza, «amo».
«Zitta!» mi urlò contro, la calma apparente era stata squarciata dallo straziante dolore dell’accettazione, poggiava il peso al tavolo come se volesse trattenersi dallo scagliarsi contro il mio corpo per strattonarlo con forza e farmi rinsavire dalla miriade di stronzate che quella sera stavano prendendo forma nell’aria.
«Sei solo una ragazzina, non hai la minima idea di cosa sia l’amore».

 
Novembre
La frescura di novembre ci gelava le mani e penetrava nelle stoffe ancora leggere che con ostinatezza osavamo indossare a quel tipo di festa.
Eravamo su una terrazza infinitamente grande ed ovale, la preparazione dei tavoli e dei divanetti era intrisa di stile e di fascino.
Tante formiche imparavano a vivere un briciolo di tempo in quell’universo senza inizio né fine.
Il primo ricordo di quel luogo fu proprio sobrio. Come l’ho descritto. Come lo ricordo.
Ed invece gli altri sembrano così dannatamente confusi.
Come se tutto ad un tratto, nella sciccheria, fosse scoppiata la musica; quella che ti perfora i timpani e ti stordisce male.
La festa di Margherita, una compagna di classe di Marco e Lorenzo, fu proprio uno sballo. Per tutti.
Anche per me.
Senza rendermene conto, la musica mi aveva trascinato nel suo vortice.
«Ma quanto sei…» Margherita, la festeggiata, si era avvicinata al nostro angolo, dove io e Alice bevevamo una coca corretta, alla vodka forse. Non guardava me, a malapena mi rivolse un saluto di conoscenza ma accettò il regalo che le avevamo fatto insieme di buon grado.
Avevo una rivale? Adesso potrei ammettere che sì, quella festa contenne tanti segnali ma che la mia ingenuità era più caparbia di tutte.
«carina!» concluse la frase guardando la mia ragazza. Era un’ammirazione per quel vestito nero e sobrio che le scendeva con dolcezza lungo i fianchi. Stava bene, me ne accorsi quasi subito dopo essere salita nella macchina. Non le dissi niente.
«Ah, ma grazie. Sai che anche la tua festa è proprio carina?» risero entrambe. Bevvi un sorso bello lungo di quella roba contaminata che sapeva di plastica.
«Tu dici? Tra poco Marco parte con le casse e non si capirà più niente…»
«Il condominio non si lamenterà?»
«Ma il condominio deve mettersi in testa che questo terrazzo va sfruttato ogni tanto!» risero di nuovo. Fu una conversazione un po’ stupida che mi arrivò ovattata, sono sincera. Cercai di inserirmi, ricordo, non so esattamente in che modo, ma presto Margherita si dileguò, lasciandoci delle ottime informazioni di servizio.
«Sono contenta che Marco vi abbia invitate!» il suo sguardo ricadde su di me ma non ne ero certa, «divertitevi e non fate complimenti. Quell’angolo lì è pieno di roba buona». Un occhiolino.
L’angolo intriso di fumo.
Intriso di canne. Solo?
«Andiamo».
«Dove?» chiesi subito, allarmata. Alice mi guardò un attimo, roteò gli occhi al cielo e mi smollò il suo bicchiere, «abbiamo bisogno di rilassarci un po’, vieni». Si strinse al mio corpo e provai un senso sulla pelle che non fu piacevole, non fu accomodante, non fu vero.
«Non ti era passata?» i suoi occhi piantati nei miei, uno sbuffo. Il rancore suo non c’era più ma a me… a me non era passata.
«va beh, mi trovi là».
Là era il fumo.
Là era Marco che si allontanava dal gruppo e l’abbracciava contento con una sigaretta in mano sua e poi in quella di Alice.
Decisi di non darle corda, di continuare nella mia caparbietà e mi ritrovai a girare tra la folla liceale. Incontrai, ma più propriamente scontrai, occhi inquieti ed euforici, già sbronzi e assonnati. Nessuno celava un guizzo di felicità.
Francesco, Eleonora, Laura, Paolo, Roberto, Veronica, tanti nomi e tanti legami adolescenziali, labili, fievoli.
No, non mi scontrai con i bicchieri quasi vuoti sulla camicia celestina di Lorenzo.
No, non lo vidi da lontano per poi avvicinarmi. Intenzionalmente.
No, non fu un incontro plateale. Né scontato. Fu però il primo nostro ricordo reale.
In fondo, il mio sguardo stava aspettando di appigliarsi a qualcosa di familiare, che mi potesse dare del calore.
Lo intravidi appena, tra un giubbotto di pelle e una gonna troppo corta. Era di lato all’entrata del terrazzo. Anche lui con quel bicchiere rosso e bianco, imbarazzato ed imbarazzante. C’era una ragazza al suo fianco, appoggiata al muro verdastro che rendeva l’atmosfera più soffocante di quanto già non fosse.
Si chiamava Lucia, l’avrei scoperto qualche tempo dopo, durante una chiacchierata banale, sulla panchina di un parco in fiore.
«Perché non lo sapevi?», «Ma che dici? Non lo avrei mai capito». «Dio santo, che peccato però, è proprio un bel ragazzo».
Il caso è strettamente attaccato alle nostre vite, come un amore malsano e giocoso.
Mi ritrovai così nel mezzo di un gruppetto di gente che conoscevo di vista, incrociati in qualche progetto, o durante le gite scolastiche più remote.
«Ehi Greta, tu che ci dici? Non è che Alice è tutta una copertura?» partirono risate, ma ero troppo interdetta per unirmi al coro e sentivo che c’era qualcosa in tutta quella storia che non mi tornava, chiaramente.
«Cioè?» mi guardai indietro ma non la vidi. Dov’era? Chissà. Ero contenta di quella lontananza passeggera. Sapevo che non avrei dovuto pensarlo. Diamine.
«Niente», disse chi aveva già parlato in precedenza e di cui mi sfuggiva letteralmente il nome. Pure il viso.
Non mettevo a fuoco. La vodka, o perché non volevo.
«Lo vedi quel tipo lì?» Era Lorenzo poco più avanti. Intendeva lui? Sì, forse la traiettoria non era delle più precise con quel dito tremolante, indicativo, ma non mi sbagliai e me ne resi conto presto.
«Sta mollando quella.
I suoi amici dicono che non smette di piangere da giorni.
Guarda come parlano fitto, fitto».
«Che intendi?» chiesi, ancora, forse sembrai un po’ stupida.
«Non lo sai?» pausa. Sorrisetto, «è etero».
Fu una notizia buttata lì, che portò una calma apparente, un momento serio tra il caos più totale. Addirittura, o la mia immaginazione galoppò troppo, sentii qualcuno schiarirsi la voce. No, impossibile. Avevo dubbi persino su quell’accozzaglia di parole.
«Come fai a dirlo? Solo perché lo avete sentito in giro?» Ero curiosa, e pure scocciata. Non capivo cosa fossero quelle emozioni distaccate, a tratti coinvolte.
Il gruppo aveva ormai spostato l’attenzione su qualche altro povero individuo che probabilmente avrebbe preferito vivere senza essere soggetto di quelle analisi intime, pettegole e… di cattivo gusto.
Una calma a rallentatore.
La musica iniziò a riscaldare l’aria insipida ed io entrai nella sala al coperto, tra i tanti gomiti e tra le tante persone.
La bionda, che poco prima avevamo visto con Lorenzo, mi seguì. No, che dico, entrammo insieme.
Non mi guardò.
Non guardò nessuno.
Il suo ero un viso intriso di tristezza e rabbia bollente.
La vidi sperdersi, e così mi girai.
E ci incontrammo noi
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