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Autore: Saelde_und_Ehre    14/05/2019    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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IX.
Zum Nahkampf vom Schicksal erkoren
(parte prima)


 
 

Sdraiato carponi coi gomiti e le ginocchia affondate nell’erba alta, il sottotenente Kühn osservava il prato al di sotto del pendio sul quale il plotone era appostato, un’interminabile distesa di steli verdi ondeggianti al vento d’inizio settembre. Intorno a sé percepiva le presenze dei suoi commilitoni, che si traducevano in sospiri e fruscii concitati, in attesa che la fanteria polacca giungesse in vista: era stata loro assegnata un’ala laterale, in posizione sopraelevata, col compito di riferire ai comandanti qualsiasi movimento sospetto all’orizzonte. Gli alberi erano una muraglia solida che li proteggeva da assalti ai fianchi o alle spalle, ma lì, su quel declivio erboso, il calore del sole riverberava sui loro elmetti e la luce rendeva il verde quasi abbagliante. Erich si schermò gli occhi col palmo della mano e con lo sguardo cercò il tenente von Kleist tra le schiere di soldati, riparati dentro trincee o dietro avvallamenti del terreno, mentre aiutava il maggiore Bühler a trasmettere gli ordini ai vari reparti e ad accertarsi che venissero eseguiti correttamente. Individuò entrambi vicino alla prima linea: il maggiore era di spalle, ma si riconosceva per la figura slanciata, mentre di von Kleist colse subito il bagliore dora­to dei capelli, che catturavano la luce del sole e si intravedevano al di là della spalla dell’altro. Poco dopo arrivò anche il capitano Bentheim, che si trattenne a discutere con loro intorno alla mappa fino a quando non lo vide salutare e allontanarsi per raggiungere la propria compagnia. Solo l’aiutante di campo von Kleist rimase insieme al maggiore, a scrutare l’orizzonte col binocolo mentre l’altro ascoltava le comunicazioni di un portaordini.
Intorpidito dalla lunga permanenza in quella posizione, il sottotenente si mosse appena e si voltò verso i soldati del plotone che, tutti con gli sguardi puntati nella stessa direzione, sembravano reclamare irrequieti la presenza del tenente von Kleist. Quasi senza accorgersene, il ragazzo si sentì attraversare da un tremito di disagio: poiché l’entrata in guerra lo aveva sorpreso troppo presto – prima che lui, appena uscito dalla scuola ufficiali, potesse ricevere un’adeguata preparazione – era stato aggregato al tenente affinché completasse il proprio addestramento sul campo e, all’evenienza, lo sostituisse al comando del plotone.
Sapeva che pochi dei presenti, in virtù della sua inesperienza, riponevano in lui il loro affidamento; tuttavia drizzò le spalle e cercò di darsi una parvenza di sicurezza, puntando lo sguardo dritto di fronte a sé. Non sapeva ancora se von Kleist e Bühler si fidassero di lui, ma si ripeté che avrebbe fatto di tutto per non deluderli.

Il maggiore Bühler congedò il portaordini e per un po’ rimase assorto a fissare i soldati delle prime linee: sembravano insolitamente agitati, impazienti di dare battaglia. “Von Kleist?”
Il tenente lasciò ricadere il binocolo, che non aveva ancora rivelato alcun movimento della fanteria nemica, fece un passo avanti e alzò lo sguardo su di lui. “Signore?”
“Lei che cosa ne pensa?” indagò Hans, rivolgendogli un’occhiata eloquente. Con un impercettibile cenno del capo alluse genericamente alle truppe che li circondavano, senza però tradire a parole il reale senso della prima domanda: confidava che l’altro l’avrebbe afferrato senza troppe spiegazioni. Poi cambiò discorso: “Si muoveranno per intercettarci, o continueranno a temporeggiare per provocarci ad attaccare per primi?”
Friedrich strinse gli occhi per osservarlo con più attenzione, come se cercasse di cogliere un qualche segno d’incertezza nella sua espressione seria. “Con tutta onestà, signor maggiore”, rispose poi sullo stesso registro, prendendosi del tempo, “è probabile che non si siano neanche avveduti della nostra presenza.” Con aria pensierosa, si volse distrattamente verso il prato: una formazione di Stuka oscurò il sole e disegnò ombre nere sulla verde distesa d’erba, per poi scomparire dietro le basse colline in uno stridere di sirene che sovrastò perfino il rombo dei motori. Fischi e scoppi irruppero nel silenzio sospeso, poi gli aerei riemersero in quota lasciandosi alle spalle una scia di devastazione. A quella vista, il tenente trasse un profondo sospiro, poi riprese: “Preferiscono arretrare in difesa piuttosto che azzardarsi ad affrontarci in campo aperto, dopo le ingenti perdite dei giorni precedenti: credo che si asserraglieranno da qualche parte e terranno la posizione fino a quando non li forzeremo ad uscire allo scoperto… o fino a quando non riterranno di avere forze sufficienti per respingerci. D’altro canto, anche i nostri sembrano molto sicuri della vittoria: una fiducia che rasenta l’incoscienza, oserei dire.” Quell’ultima, breve frase, fornì l’implicita risposta anche alla domanda del maggiore; con un lieve movimento del capo, anche lui accennò alle schiere di soldati. “Per quanto mi riguarda, ritengo che la situazione non sia da sottovalutare.”
Bühler annuì. “Io sono molto scettico.”
Von Kleist abbassò la voce, accostandosi a lui quel poco che bastava affinché gli altri non lo sentissero. “Cos’è che non ti convince?”
Il maggiore abbassò la voce a sua volta e in tono sibillino disse: “Lo vedrai tra poco.”

Seguito a pochi passi di distanza dal suo aiutante di campo, Bühler riprese la sua ispezione delle retrovie. Schultz, al comando del plotone artiglieria da campagna, si congedò frettolosamente dai sottoposti e gli andò incontro con una deferenza quasi teatrale.
“Sottotenente Schultz a rapporto, signor maggiore!” esclamò, tirando il petto in fuori e la testa all’insù per incontrare il suo sguardo.
Hans aggrottò le sopracciglia, leggendo negli occhi verdi del giovane un chiaro desiderio di accattivarsi la sua approvazione – segnale, quest’ultimo, che lo portò a scuotere la testa con disappunto. Gli ordinò il riposo e lo condusse in disparte, al riparo da orecchie indiscrete. “Non ci siamo, Schultz,” disse semplicemente. “Lo sta facendo di nuovo.”
L’altro chinò il capo. “Chiedo scusa, signore.”
“Forse non sono stato chiaro,” replicò con durezza il maggiore, guardandolo dritto in faccia. “Lei non deve scusarsi, sottotenente. Lei deve dare prova di aver capito e far sì che ciò che è successo l’altro giorno non succeda mai più. Vorrei sapere, che cosa sperava di ottenere?”
Schultz spostò il peso da un piede all’altro, mentre le sue guance lentigginose avvampavano. “Io… speravo soltanto di non deluderla, signor maggiore. Né lei, né il capitano Schwieger.”
“E invece l’ha fatto,” fu la ferale risposta. “Prima di mettersi inutilmente in mostra, è bene che impari a fare il suo dovere. E soprattutto, che smetta di eseguire solo gli ordini che piacciono a lei, dato che non ne ha alcuna facoltà né competenza.”
“Signorsì, signore.”
“Vada, adesso. Ne riparliamo stasera nel mio ufficio.”
Bühler si passò una mano sul volto: sapeva di essere stato fin troppo brutale con quel ragazzo, ma doveva stroncare sul nascere ogni atteggiamento che avrebbe potuto compromettere il funzionamento del suo reparto. Prima di affidargli quell’incarico, von Rauheneck l’aveva subito messo in guardia sulle difficoltà che avrebbe incontrato al comando di un battaglione, ma era solo in quel momento che ne toccava con mano gli effetti più nefasti, dalla troppa irruenza dei sottoposti ai pregiudizi dei suoi pari: in verità non aveva mai desiderato quella promozione, essendo affezionato alla sua compagnia e ai soldati che ormai conosceva di vista dal primo all’ultimo uomo; tuttavia, anche se si era preparato per la guerra coi gradi di capitano sulle spalle, era stato infine spedito al fronte come comandante di battaglione, con quasi ottocento uomini alle sue dipendenze, di cui ne conosceva forse un misero quarto.
Continuò l’ispezione e chiese un breve rapporto al capitano Schwieger; poi si soffermò a guardare i soldati che trasportavano le casse di munizioni e i sottufficiali che, gridando i loro ordini, vigilavano sull’operato delle loro squadre, fin quando non intravide un capannello radunato intorno a un pezzo d’artiglieria, apparentemente immerso in chiacchiere oziose. Si avvicinò con ostentata noncuranza, le mani dietro la schiena, cercando di non farsi vedere mentre tendeva l’orecchio per captare l’argomento e il tono della conversazione.
“Sarà, ma a me questi pivelli sembrano troppo esaltati…” sentenziò un veterano, coi gradi di caporale sulla manica e la faccia rugosa quanto una prugna matura. “Non per dire, ma quando i giovani sono teste calde ci vuole qualcuno con dell’esperienza per rimetterli in riga. Il Vecchio ne deve fare ancora parecchia, di strada…”
Un secondo graduato scoppiò in una risata sguaiata. “Il Vecchio? Vorrai dire il Giovanotto!”
“Così lo chiamano, quelli che sono davvero vecchi. Ma del resto, era il pupillo di von Eltz: se l’è praticamente cresciuto…”
Il maresciallo Eichmann, che fino ad allora era rimasto in silenzio, si sistemò gli occhiali con sussiego e tossicchiò per attirare la loro attenzione. “E invece vi dico che è un ragazzo in gamba, uno con la testa sulle spalle… a differenza di molti altri, che non si capisce perché stiano qui quando sarebbero più utili a pelare patate in cucina.”
Bühler si avvicinò accigliato, incrociando le braccia sul petto e palesandosi alla loro vista. “C’è forse qualche problema tecnico che i signori vorrebbero rendermi noto?” s’intromise, retorico, con voce velata di tagliente sarcasmo.
Tutti e tre si congelarono in posizione di attenti e salutarono militarmente, forse nel vano tentativo di rimediare alla loro sfacciata violazione del regolamento.
“Nossignore”, rispose Eichmann, a nome di tutti e tre.
L’ufficiale non si scompose. “Allora tornate ai vostri posti,” ordinò, ruvido ma inamovibile.
Si accertò personalmente che il sottufficiale e i due graduati ritornassero nelle posizioni loro assegnate, poi emise un altro sospiro, roteò gli occhi spazientito e si voltò di nuovo verso il suo aiutante di campo. “Ecco a cosa mi riferivo poco fa, tenente”, disse.

Friedrich era salito sul retro della Kübelwagen per consentirsi una migliore visuale, mentre Hans, la mappa dispiegata sul cofano, rifletteva sul da farsi: il tenente aveva confermato i suoi timori e le sue supposizioni in merito alla situazione tattica, e adesso c’era solo da aspettarsi un attacco in forze da parte dei nemici o, in caso contrario, risolversi a marciare contro di loro, abbandonando la posizione vantaggiosa che avevano conquistato. Gli ordini del generale erano stati chiari: bisognava avanzare, spezzare la resistenza dei nemici e forzare la linea della Vistola. Inoltre, Erwin von Salza aveva fama di non essere uno di quelli che dirigevano le operazioni dal Quartier Generale, a meno che non fossero in visita il Führer o il Feldmaresciallo, quindi c’era da aspettarsi che da un momento all’altro passasse di persona a ispezionare la linea del fronte per assicurarsi che i comandanti di battaglione rispettassero le sue indicazioni.
La fanteria nemica, secondo alcuni rapporti ancora attestata da qualche parte a sud-est, non accennava a muoversi.
Decise che avrebbe atteso altri dieci minuti, poi, in caso, avrebbe dato ordine di rimettersi in marcia.
“I P.11 hanno intercettato gli Stuka…” comunicò Friedrich all’improvviso. “Li stanno inseguendo, cercano di spingerli fuori dallo spazio aereo di Varsavia.”
Senza distogliersi dalle proprie meditazioni né alzare la testa, dopo un po’ Hans chiese: “E come sta procedendo lo scontro?”
“Da quello che mi sembra di vedere, uno dei nostri è stato danneggiato a un’ala e costretto a un atterraggio di fortuna, ma gli altri reggono il confronto… ne hanno abbattuti due dei loro.” Si interruppe per un breve istante per regolare le ottiche del binocolo. “Ah! Ne stanno arrivando altri, da nord.”
Il maggiore quasi sobbalzò. “Di aerei da caccia polacchi?”
“No, no, sono bombardieri della Luftwaffe. Bimotori… una decina, forse anche di più.”
Bühler annuì, forse sperando in quella precisa risposta, che non lo lasciò particolarmente impressionato. Guardò l’orologio: erano passati all’incirca venti minuti da quando avevano approntato lo schieramento, ma l’immobilità della situazione li faceva apparire dilatati a dismisura, come un attimo sospeso e intollerabile nella sua staticità. “A terra com’è la situazione, tenente?”
Von Kleist stava per rispondere, ma alla sua voce si sovrappose quella di un portaordini appena giunto sul posto. “Signor maggiore!”
Bühler fece un passo avanti per riceverlo e gli ordinò il riposo.
“Secondo un rapporto dei ricognitori, c’è una sezione del primo battaglione corazzato polacco in avvicinamento da nord-est,” riferì il soldato. “Si stanno muovendo per intercettarci.”
“Von Kleist?”
“Confermo, signore. Abbiamo otto… no, dieci carri in avvicinamento da nord-est.”
Hans diede l’allerta generale e chiamò a rapporto i comandanti di compagnia, poi prese a sua volta il binocolo e osservò nella direzione indicatagli da Friedrich: i carri erano sagome scure che procedevano allineate sulla stradina sterrata che tagliava i campi, sollevando una nube di polvere finissima che avvolgeva le sagome degli alberi.
Fece presente la situazione ai capitani giunti sul posto, poi mostrò loro un punto sulla mappa col pennino della stilografica. “Allerta generale, le truppe nemiche si trovano sul sentiero. Arriveranno qui tra non molto,” spiegò, “e ho buone ragioni per supporre che vogliano schiacciarci tra incudine e martello. Occorre approntare una difesa anticarro e impedire l’accerchiamento.”
Diede le disposizioni a Walkenhorst e a Schwieger, mentre Bentheim e Fromm continuavano a fissarlo con attenzione, come in attesa che proferisse il suo verdetto. Von Kleist, invece, era balzato giù dalla sua postazione e lo affiancava, stringendo la cinghia dell’onnipresente MP38 che gli pendeva dalla spalla. Bühler rifletté per qualche istante, si guardò intorno incalzato dall’urgenza, cercando di sondare le intenzioni del nemico nel minor tempo possibile, poi indicò un punto in cui la pianura veniva turbata da rilievi e sporgenze irregolari. “Ci attesteremo su quell’altura, la fanteria dietro ridotti e buche individuali, in modo che la nostra posizione limiti le possibilità di movimento dei blindati. L’artiglieria sul crinale, in modo che contribuisca a rallentarne l’avanzata. La compagnia di Fromm rimarrà in prima linea con quella di Walkenhorst, con armi anticarro e mitragliatrici pesanti, mentre Bentheim sposterà la sua compagnia a sud-est, in modo da impegnare la fanteria su due fronti.”
Finito di dare le ultime indicazioni, congedò i comandanti di compagnia, ripiegò la mappa e tornò a far oscillare lo sguardo tra i soldati che iniziavano a spostarsi e il progresso dell’avanzata nemica. Anche Friedrich fece per andarsene insieme al capitano Fromm, ma Hans gli poggiò una mano sulla spalla. “Non adesso, tenente”, lo trattenne. “Mandi Kühn al suo posto.”
Sentendo la presa solida del giovane, von Kleist si voltò verso di lui e alzò la testa rivolgendogli uno sguardo interrogativo. Hans strinse leggermente e lasciò ricadere la mano, un gesto muto ma significativo che fu accompagnato da uno sguardo d’intesa e da un lieve sorriso. “Ho bisogno di lei per coordinare le prime fasi dell’attacco.”
Anche senza il bisogno di ulteriori spiegazioni, Friedrich comprese al volo il senso di quella richiesta.

Il camion procedeva sobbalzando sulla strada irregolare, martoriata dal passaggio di carri armati e mezzi pesanti. Gli alberi fitti che la costeggiavano, come una specie di soffitto a volta entro la quale filtravano timidi sprazzi di sole, nascondevano alla vista gran parte del paesaggio, ma il capitano Bentheim ne aveva già bene impressa in mente la conformazione. Il maggiore Bühler, che fuori dal servizio poteva considerare a pieno diritto un amico di vecchia data, gli aveva lasciato piena libertà di manovra, ed egli era sicuro che non si trattasse solo di fiducia: Hans prendeva raramente le sue decisioni senza un’attenta pianificazione, quasi mai facendosi guidare dall’istinto o sulla base di un sentimento personale.
Ripensò alle innumerevoli esercitazioni in cui, come comandanti di compagnia, avevano condotto le manovre insieme: gli bastava quello per capire quali fossero le sue intenzioni dal punto di vista tattico e come dovesse comportarsi per agire in linea con esse.
Quando ritenne di aver trovato il punto idoneo per proseguire con le azioni offensive, a colpo sicuro ordinò all’autiere di fermarsi, scese dal camion e iniziò a disporre le truppe in vista dell’imminente assalto.

Tra il furioso martellare delle mitragliatrici, i fischi cupi dei mortai e gli echi delle detonazioni, il capitano Bentheim correva da un capo all’altro dello schieramento con un MP38 ad armacollo, andando avanti e indietro per tenere sotto controllo l’intera situazione. Doveva urlare gli ordini sotto la cacofonia di grida per farsi sentire, conferendo direttamente coi comandanti di plotone mentre le sequenze concitate dello scontro lo mettevano di fronte a esigenze tattiche sempre nuove. Nelle primissime linee non vi era più un fronte compatto, bensì frammenti di gruppi che si scontravano all’arma da fuoco, in campo aperto, sfruttando ripari naturali o impilando sacchi uno sull’altro per approntare frettolose postazioni difensive.
Quando ebbe individuato il tenente Koch, intento ad abbaiare ordini al suo plotone con la sua solita voce baritonale, constatò che tutto procedeva secondo i suoi ordini e si guardò di nuovo alle spalle: non c’era nessuno in giro. Abbandonò rapidamente la postazione e tornò nelle retrovie, alla ricerca del tenente Tiedemann.
Lo scorse di spalle, come sempre senza berretto e in maniche di camicia rimboccate fino al gomito, i capelli biondastri incollati alla testa. Stava osservando una squadra di serventi mentre armavano un obice, ma quando si accorse della sua presenza gli andò rapidamente incontro.
Bentheim gli ordinò il riposo prima ancora che si mettesse sull’attenti e fece scorrere lo sguardo lungo tutto il settore dell’artiglieria campale. “Aumentate la potenza del fuoco”, ordinò conciso, “avanzate e dirigete il tiro verso il centro dello schieramento nemico.”
“Sissignore!” rispose il tenente, sorridendo raggiante. Si allontanò a grandi passi, e Konrad non poté trattenere un sorriso quando sentì la sua voce schioccare: “Avete sentito cos’ha detto il capitano? Forza, fate avanzare questi aggeggi, aumentate la potenza del fuoco e vedete di non sprecare munizioni. Bisogna colpire il centro dello schieramento nemico!”

Mentre avanzava, Bentheim vide cadere una granata sollevando schegge e schizzi di terra, si buttò per terra fulmineo e strinse saldamente la pistola. Seguì un breve attimo di stasi, poi dietro la nebbia prodotta dall’esplosione si profilarono ombre barcollanti che sciamarono verso di lui. L’ufficiale strisciò dietro un albero appoggiandovisi con la schiena e aprì il fuoco prima che gli altri potessero rispondergli. Qualcuno di loro corse al riparo, altri caddero feriti e furono trascinati via, dai commilitoni o dai medici tedeschi incaricati di raccogliere i prigionieri bisognosi di assistenza.
Una pallottola si abbatté contro l’albero che proteggeva il capitano e rimbalzò tintinnando sulla corteccia, seguita in rapida successione da altri minacciosi sibili che gli passarono sopra la testa e lo costrinsero a cercare copertura altrove.
Come gli avevano sempre insegnato durante l’addestramento, un comandante di compagnia doveva essere capace di pensare mentre sparava, elaborare strategie sul momento e al tempo stesso metterle in pratica in prima persona. Mentre ricaricava l’arma, cercò di fare un paio di rapidi calcoli: i nemici dovevano aver sottovalutato la situazione; probabilmente si aspettavano di metterli in scacco, ma non avevano fatto i conti con la superiore preparazione della fanteria tedesca. Sembrava comunque che fossero determinati a ricacciarli indietro con le unghie e coi denti, fino all’ultimo, e lui, che non era mai stato una persona incline a facili entusiasmi, si sentiva in dovere di esortare i suoi soldati alla massima prudenza.
“Signor capitano!” lo chiamò una voce. “Il sottotenente Ziegler richiede la sua presenza: i nemici stanno tentando l’accerchiamento!”

Quando giunse sul posto, la situazione era perfino peggiore di quanto immaginasse: Ziegler era adagiato contro un ridotto e si premeva una fasciatura insanguinata contro la spalla, ansimando con fatica. Mertens, a cui Bentheim aveva affiancato il plotone del giovane ufficiale, aveva preso momentaneamente il comando di entrambe le sezioni, ma appariva impegnato in un cruento combattimento contro un gruppo piuttosto agguerrito, che superava il suo di parecchie unità.
Il capitano si avvicinò all’ufficiale ferito. “Che succede qui?” gli chiese, sollecito.
“Signore.” Ziegler, assegnato alla sua compagnia due settimane prima dello scoppio della guerra, contrasse il viso in una smorfia di dolore e alzò su di lui un paio di occhi pesti e velati. “Siamo stati sorpresi da una manovra totalmente inaspettata. Abbiamo organizzato il contrattacco, ma…” Tacque di nuovo, scosso da un colpo di tosse.
Bentheim annuì con aria grave, poi gli offrì una borraccia con dell’acqua fresca. Proferendo cortesi ringraziamenti, il sottotenente la afferrò con entrambe le mani e bevve avidamente, per poi bagnarsi appena anche i capelli biondi incrostati di sangue e sporcizia. Dopo avergliela restituita, si lasciò ricadere esausto contro la barriera di sacchi imbottiti ed esalò un profondo sospiro. “Per un attimo… ho pensato che questo potesse essere l’ultimo servigio da rendere alla Patria.”
“Pensi alla morte solo come extrema ratio, sottotenente: finché si trova tra noi, il suo servigio glielo renderà meglio combattendo.” Strinse appena il braccio del giovane, come per incoraggiarlo a tenere duro, poi lo guardò dritto negli occhi. “Stia tranquillo. Manderò a chiamare un ufficiale medico, mentre nel frattempo mi occuperò di risolvere questa situazione.”

Le sparatorie continuavano a susseguirsi senza sosta, punteggiate dai tonfi dei mortai e dalle detonazioni lunghe degli obici da 105 che scandivano un ritmo incalzante e irregolare. Bentheim aveva imbracciato un MP38 e aveva preso il posto di Ziegler, volgendo rapidamente la situazione a vantaggio dei tedeschi. Ma quando, per l’ennesima volta, allungò la mano verso il tascapane per prelevare a tentoni un altro caricatore, si accorse che era ormai desolatamente vuoto.
Appiattendosi tra l’erba alta si guardò intorno, attento come un falco in cerca di una preda, e poco distante dalle prime linee individuò una postazione abbandonata, sulla quale era sistemata una mitragliatrice MG 34 completa di nastro. Senza pensarci due volte, si affrettò per raggiungerla e, avanzando con cautela per evitare di essere raggiunto dai proiettili che schizzavano per aria, balzò agilmente all’interno del ridotto. Il mitragliere – un giovane caporale, già da tempo ai suoi ordini – giaceva esanime in una pozza di sangue rappreso, raggiunto alla testa da una pallottola che gli aveva sfondato l’elmetto. Aggrottando la fronte con costernazione, Konrad lo scostò delicatamente e lo adagiò per terra ricomponendogli le mani sul petto, quindi si chinò sulla MG 34 per armarla.
“Soldato!” gridò, rivolto a un ragazzo che passava di lì.
“Signor capitano!”
“Presto, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a tenere il nastro.”
Gli occhi del giovane si illuminarono di entusiasmo, quasi come se si fosse sentito offrire un onore irripetibile. “Sissignore!”
Adagiò il suo fucile contro la parete del ridotto e si apprestò a fare come gli era stato ordinato, mentre il capitano si sistemava in posizione di tiro e contrastava l’ondata nemica con poderose sferzate. Col suo consueto sangue freddo, la osservò ritirarsi sbandata, incalzata dalla foga dei soldati tedeschi, spezzandosi in due tronconi come un albero abbattuto da una folgore.
“Bisogna cambiare la canna: è diventata rovente,” rilevò dopo un po’, avvicinando la mano alla mitragliatrice.
“Certo, signore.”
Mentre il giovane soldato eseguiva, Bentheim si sporse leggermente oltre la barriera e col binocolo scandagliò il campo al di là delle linee nemiche: i carri armati continuavano a caricare come tori aizzati per risalire il pendio su cui era attestato il resto del battaglione, tempestando la fanteria di cannonate e raffiche di mitragliatrice.
Proprio sotto i suoi occhi, uno dei blindati fu colpito in pieno da una granata ed esplose in un oceano di fiamme.

Preceduta da un lampo di luce arancione, l’esplosione fu assordante. Abbacinato, il sottotenente Erich Kühn si allontanò di corsa e si buttò a faccia in giù per terra, le spighe selvatiche che gli solleticavano il viso. Un poderoso spostamento d’aria gli increspò la giubba dell’uniforme, facendogli salire brividi gelidi lungo la spina dorsale; le dita afferrarono convulsamente un ciuffo d’erba. Subito dopo, subentrarono le falde di fumo acre, l’odore del carburante incendiato e un’intollerabile zaffata di caldo torrido, che per un istante gli fece tornare in mente gli altoforni della fonderia in cui lavorava suo padre, e si premette una manica contro naso e bocca per impedirsi di tossire. Quando trovò il coraggio di alzare la testa, al di là della nebbia scura e del velo di lacrime, non vide altro che un relitto abbandonato, le cui lamiere si accartocciavano divorate dalle fiamme.
Dalle retrovie provenne qualche grido entusiasta che lo riempì di baldanza; qualche subalterno gli riservò addirittura un applauso. Erich osservò compiaciuto i resti del 7TP che la sua granata aveva appena distrutto, poi un’altra serie di detonazioni ravvicinate lo riportò alla cruda realtà: i mostri d’acciaio avanzavano implacabili, mentre i cingoli sferragliavano grattando la terra e sollevando schizzi di fango. Alcuni di essi erano già stati abbattuti o danneggiati, ma quelli che ancora resistevano erano manovrati con perizia, proteggendo con la loro solida mole la fanteria nemica.
Ricordava i discorsi dei suoi superiori che, prima di partire per il fronte, avevano più volte ripetuto che le forze corazzate polacche erano esigue in confronto alle grandi quantità di carri armati giunte dalla Germania, ma quei pochi blindati schierati avevano dato prova di riuscire a tener testa sia alla fanteria che ai Panzer. “Forse non saranno forti abbastanza da riuscire a sopraffarci”, aveva detto il maggiore Bühler a tutti gli ufficiali presenti, “ma vi invito a non abbassare la guardia e a non sottovalutarli, esortando le vostre truppe a fare altrettanto. Spesso, una fiducia cieca nelle proprie capacità porta a commettere errori che potrebbero risultare fatali.”
Strinse gli occhi, sbatté le palpebre per impedirsi di lacrimare: un altro carro era stato distrutto, colpito in pieno dalla cannonata di un PAK, e due serventi feriti erano riusciti ad abbandonarlo di gran carriera prima che le fiamme aggredissero la pozza di carburante sparso per terra.
Benché le carcasse dei carri spesso e volentieri ostruissero il passaggio, potevano rivelarsi anche un riparo per la fanteria nemica, che una volta domate le fiamme li sfruttava come postazioni difensive.
Per quel poco che vedeva, lo scontro forsennato rendeva impossibile capire quanti nemici fossero ancora presenti sul campo, ma lui era fermamente convinto che il suo reparto avesse ormai la vittoria in pugno.
Rinvigorito da quel pensiero, il giovane ufficiale imbracciò il mitra e ordinò ai suoi uomini di avanzare, incurante delle grandinate di proiettili che schizzavano in ogni direzione.

“Signor capitano!”
Nel caos dilagante, le uniche parole che Erich riuscì a captare furono le grida di un sottufficiale che chiamava il capitano Fromm. Sollevò appena la testa, ricercando con sguardo vigile il punto in cui l’aveva scorto per l’ultima volta, e ciò che vide lo lasciò per un istante agghiacciato: da dietro il ridotto che l’ufficiale aveva eletto a sua postazione di comando, s’innalzava lenta la colonna di fumo di un ordigno appena esploso; nessun movimento testimoniava la presenza di un uomo vivo.
Mormorii costernati percorsero lo schieramento, qualcuno paventava già il peggio.
Il sottotenente deglutì un boccone amaro, mentre brividi gelidi gli percorrevano le membra. Senza neanche rendersi conto di ciò che stava facendo, abbandonò il suo posto facendosi largo tra i soldati attoniti e scavalcò con un balzo la pila di sacchi di sabbia, sporchi di terra e schizzi vermigli.
“Signor capitano!”
Lo trovò riverso per terra, coi capelli biondi e l’uniforme completamente intrisi di sangue. Con mano tremante gli tastò il polso, rendendosi conto che era ancora vivo, ma incosciente; sotto di lui c’erano una mappa del fronte ormai illeggibile e la sua pistola. Le schegge della granata dovevano averlo colpito alle gambe e a un fianco, ma senza raggiungere punti vitali.
“Kühn! Che cosa sta succedendo?” sentì urlare. Era la voce di Wessel, che lui e gli altri ufficiali della compagnia definivano affettuosamente ‘il cane da guardia del capitano’: ringhioso e puntiglioso, ma sempre pronto ad assistere il suo comandante in ogni manovra.
“Signor tenente, il capitano è ancora vivo!” rispose il giovane, cercando di sovrastare il fragore.
Scagliò un fumogeno alle proprie spalle, poi sollevò con delicatezza il ferito, si alzò e se lo caricò in spalla senza sforzo, ringraziando il fatto che Fromm fosse abbastanza leggero.
“Dov’è il maggiore? Qualcuno vada a chiamare il maggiore!” gridò, con tutto il fiato che aveva nei polmoni. “C’è un’emergenza, il capitano è ferito!”

  
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