Capitolo
9
Più
forte di una catena
“Fui tuo, fosti
mia. Tu sarai di colui che ti amerà,
di colui che
raccoglierà nel tuo orto ciò che io ho seminato.”
Pablo Neruda, Farewell
Immagine dal film “Il club del libro e della torta
di bucce di patata di Guernsey”
Sarah
decise di non darla vinta alla tristezza, di non cedere alla nostalgia di
Hermann e, quasi con avida rabbia, afferrò dal comodino i suoi due giorni di
paga e uscì di nuovo, con l’intento di fare qualcosa per se stessa per
liberarsi dalla malinconia. La sua prima tappa fu in un piccolo negozio di
abbigliamento, dove la sua attenzione era già stata attratta da un vestito nero
con tanti piccoli fiorellini rossi, esposto in vetrina. Provò
l’abito e lo specchio le rimandò l’immagine di un viso un po’ scurito dal sole
e spento dallo sconforto, di un corpo più tondito dall’aria buona del sud e
piegato dai ricordi del dolore e dell’amore. Fu come vedere sulle proprie
spalle tutto il peso che portava dentro di sé della sofferenza per ciò che
aveva vissuto durante la guerra, il disprezzo della gente, la separazione dalla
famiglia, e per ciò che avrebbe voluto continuare a vivere nel campo di Fossoli
con il tenente Hermann. Ma il vestito le stava bene e Sarah tentò ancora di
aggrapparsi a quel sottile filo di entusiasmo per la festa a sorpresa che
l’attendeva di lì a poco tempo e così sfuggire alla tristezza del suo passato.
E si obbligò a riuscirci.
Fece
una giravolta davanti allo specchio e, sorridendo compiaciuta alla propria
immagine riflessa, si rivolse alla seriosa e compassata negoziante. “Lo prendo…
E prendo anche quei sandali con la zeppa in sughero”, disse, indicando uno
scaffale vicino alla porta.
Uscì
dal negozio con indosso il vestito e i sandali nuovi e, fermatasi davanti a un
salone di parrucchiere, decise che era arrivato il momento di cambiare qualcosa
di sé, per iniziare a scucirsi di dosso quel pezzo di vita, fradicio di
infinite lacrime e logoro di folli rimpianti. Sarah guardava dallo specchio i
suoi capelli fluttuare sul pavimento e le mani di Hermann, che amavano tanto affondarvici
dentro, diventare un ricordo un po’ più lontano. Sentì di essere libera e si
forzò a sorriderne, mentre il loquace parrucchiere le portò i capelli a una
lunghezza media, sistemandoglieli in un’acconciatura con onde e riga laterale e
persuadendola a farsi applicare in viso un velo di trucco e colorare di rosso
le labbra e le unghie. Uscì dal salone e, prima d’incamminarsi verso casa, alzò
le spalle in un profondo respiro: si sentiva più bella, più forte, pronta a
ricercare la felicità nella propria vita, pur senza un uomo al suo fianco, pur
senza Hermann.
“Ma
guardati, Sarah, sembri un’attrice di Hollywood!” esclamò piena di entusiasmo
Hannah, che la stava aspettando sull’uscio di casa, prendendola per mano e
facendole fare una mezza giravolta.
“Esagerata!”
rispose Sarah con una risatina ironica e, varcata la porta d’ingresso, il cuore
le sobbalzò e le sue labbra si aprirono in un sorriso a trentadue denti al
rimbombante e gioioso urlo di “sorpresa”.
Se
l’aspettava, ma vederli tutti lì, il signor Gennaro con la moglie e tutta la
sua famiglia, i suoi colleghi e i clienti più affezionati del Gran Cafè, che le
si avvicinavano sorridenti per farle gli auguri e porgerle un regalo, fu
comunque una grande e incontenibile emozione. Quelle braccia protese verso di
lei per abbracciarla, quegli sguardi che riflettevano un affetto sincero, quei
baci sulla guancia che sigillavano tenere e incoraggianti parole di auguri la
facevano sentire a casa e le restituivano il calore di una famiglia. Era
proprio vero: tante persone le volevano bene e non poteva più dirsi sola.
Dopo
la cena, costituita da un’allegra spaghettata, in tutta la casa si sparse un
profumo di caffè e di dolci e, da lontano, iniziarono a giungere le note di “’O
surdato ’nnammurato”, una canzone dal ritmo vivace e dal significato struggente,
tanto famosa che anche Sarah aveva ormai imparato.
E,
mentre il suono di quella voce tonante e avvolgente, accompagnata da chitarra e
mandolino, si faceva sempre più vicino fino a risuonare nella casa, Sarah,
pensando che fosse un’altra sorpresa del signor Gennaro e dei suoi colleghi,
allargò il sorriso e disse alla sua amica: “No, pure la serenata? Non ci posso
credere!”
All’ultima
nota, tutti applaudirono mentre Hannah si alzò di scatto per andare ad
accogliere il giovane e corpulento cantante e, da dietro le sue grosse spalle,
apparve Matteo, ben pettinato e vestito e con in mano un mazzo di fiori. Il
cuore di Sarah accelerò di un battito per lo stupore di rivederlo e nel
ricordare i loro giri in barca, le loro corse in spiaggia, il suo bacio a fior
di labbra, ma il suo sorriso si spense, palesando il risentimento per la sua
inspiegabile fuga e la sua assenza protratta per ben una settimana. Davanti
allo sguardo di Matteo, che la fissava con l’espressione di chi sembrava aver
avuto una visione celestiale, Sarah abbassò gli occhi e, intanto, la musica
riprese, più lenta, più triste. Il cantante iniziò a dare voce e gestualità al
tormento di una passione descritta come più forte di una catena e i pensieri di
Sarah non poterono che andare a Hermann. Sulle note di quella struggente
canzone, gli occhi di Sarah e di Matteo cominciarono a muoversi, abbassandosi e
rialzandosi, nascondendosi e ricercandosi, in una danza di sguardi lucidi, per
lei di malinconia e tristezza, per lui di sospirante attesa. D’un tratto, la
moglie del signor Gennaro le si avvicinò e, sedendosi accanto, la prese per
mano.
“Vai,
Sarah. Non aver paura, è un bravo ragazzo. Mio marito ha preso
informazioni su di lui, vai”, le sussurrò all’orecchio, strattonandole
lievemente il polso, nel tentativo di farla alzare.
Ma
Sarah svincolò la mano, incrociò le braccia con un broncio quasi da bambina e
non si mosse dalla sedia. Alzarsi da quella sedia, avvicinarsi a Matteo,
accettare i suoi fiori significava rassegnarsi all’idea che Hermann fosse
morto, lasciar morire il ricordo dei suoi occhi verdi di smeraldo per due occhi
color terra, delle sue mani morbide e bianche per due mani scure e callose,
della sua pelle dal profumo orientale che evocava luoghi sconosciuti per una
pelle dal perenne odore di alghe e salsedine, dimenticare il suono della sua
voce, il sapore delle sue labbra, le loro notti di passione a Fossoli e lei non
era poi così sicura di volerlo fare realmente, di volersi realmente liberare da
quelle catene. Fu colta da un improvviso senso di vuoto nel petto e il cuore
iniziò a batterle più in fretta, agitato dalla prospettiva di un futuro di
solitudine e si sentì di nuovo fragile. Fu la paura a spingerla ad alzarsi e ad
andare verso Matteo, con l’andatura e l’espressione di chi sembrava andare
incontro a una condanna. Prese i fiori, senza nemmeno un sorriso e, mentre le
sue labbra disegnavano un debole “grazie”, due grosse lacrime le caddero dagli
occhi. Sarah guardava Matteo, i suoi occhi scuri spalancati di interrogativi e
le sue labbra asimmetriche socchiuse di ammirazione, e pensava a Hermann,
all’ultima immagine che aveva di lui, inginocchiato con espressione persa e
impaurita davanti ai fucili partigiani. E, intanto, il cantante interpretò gli
ultimi versi:
“Te
voglio bene,
te
voglio bene assaje.
Si’
tu chesta catena
ca
nun se spezza maje.
Suonno
gentile,
suspiro
mio carnale,
te
cerco comm’a ll’aria,
te
voglio pe’ campà!”
(Dicitencello
vuje, Rodolfo
Falvo & Enzo Fusco)