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Autore: The Custodian ofthe Doors    16/05/2019    5 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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!ATTENZIONE! Capitolo lungo e parecchio articolato. Mea culpa, non me so regolato, leggetelo a pezzi.










VI. Ivy.








La parete era ampia e liscia, perfettamente tirata su dalle mani esperte di manovali provenienti da un'epoca ormai dimenticata da molti, rimasta viva solo grazie ai libri di storia.
Il prato ben curato scintillava luminoso, i fili d'erba si muovevano alla stessa brezza fantasma che aveva scosso migliaia di rami d'edera in tutto il labirinto.
Le piante che costeggiavano il muro erano curate con attenzione, perfette come se fossero state carezzate dalla mano di una dea benevola, da una custode pregevole. E Persefone si sentiva proprio così, come una madre amorevole che cresceva i suoi figli anche nell'oscurità dell'Ade.
Non era stata molto fortunata, non poteva alzare lo sguardo su veri bambini suoi e vederli crescere ed affrontare il mondo, non poteva trovar sotterfugi come Atena, come Artemide… paradossalmente, proprio come suo marito, Persefone era rimasta fedele a delle regole, ad un destino prescritto, senza cercare inutilmente di manometterlo.
Oh, ne aveva avuti di figli, eccome, ma non era così semplice, non lo era per lei come non lo era mai stato per Ade. Trovava ironico che proprio loro due, che abitavano sotto il mondo mortale, che non potevano godere dell'oro dell'Olimpo, fossero stati i i più accondiscendenti, i più “giusti”, quelli che meno volte di tutti avevano infranto regole più grandi di loro, più grandi degli Dei.
Persefone gettò uno sguardo al marito: in quel momento pochissimi, se non nessuno, dei loro figli mortali erano impegnati in quella gara, in quella stupida, sciocca gara indetta solo per passare il tempo. Non uno solo di Ade, dei bastardi del Dio della Morte, che preferiva di gran lunga tenere la sua progenie al proprio servizio. Solo un paio dei suoi di bastardi, invece, correvano tra quelle mura, ma Persefone aveva già fatto in modo che trovassero ciò di cui necessitavano e che l'edera li aiutasse ad uscire di lì: a lei era stata affidata la prima prova, nessuno poteva pretendere che se ne restasse con le mani in mano e che non facesse qualcosa anche solo per il suo puro divertimento.
Ma malgrado nessuno dei suoi figliastri fosse impegnato in quella corsa della morte, Ade pareva più pensieroso che mai e Persefone sapeva il perché, poteva dargli addirittura un nome, un cognome, un volto ed una voce.

<< Cosa c'è che non ti convince?>> domandò tornando a guardare il muro, muovendo pigramente una mano per far sì che il suo maggiordomo le porgesse un calice di cristallo lucido e ambrato.

Davanti a lei nessuno schermo, nessuna immagine, solo un mosaico perfetto di un gigantesco labirinto verde.
Migliaia e migliaia di tessere lucide si muovevano chiudendo passaggi ed aprendone altri, divorando piccoli riquadri colorati, sgretolando altre tessere che venivano presto rimpiazzate da altre lisce e perfette maioliche verdi.
Lungo i dedali le anime si muovevano frenetiche o titubanti, un miscuglio di colori che si sovrapponevano, che si sbriciolavano, che s'illuminavano ogni qual volta riuscissero ad entrare in possesso di piccoli e luminosi punti azzurrognoli, le armi divine sparse per il labirinto.
Non ricevendo alcuna risposta alla sua domanda Persefone si volse di nuovo verso il marito, sollevando gli occhiali dalla montatura affilata, rossi ciliegia come la cinta del suo vestito anni '50.

<< Ade?>> chiamò ancora.

Il dio se ne stava seduto su una grande poltrona di vimini dall'alto schienale intricato e decorato da teschio d'animale, nera come ogni cosa su cui poggiava mano.
<< Non riesco a comprendere e questo mi innervosisce.>> disse solo lui.
Persefone annuì, accennando con la testa al mosaico in movimento, un ricciolo rosso le si mosse morbido sul volto pallido. << Hai visto cosa sta succedendo, non hai la minima idea del perché?>>
<< Mi duole ammetterlo, ma no, non ne ho idea. >> scosse piano il capo ed intrecciò le mani, poggiandovi le labbra contro. << Inizialmente credevo fosse solo per evitare nuove stragi, credo fosse l'idea di tutti. >>
<< Ma conoscendolo devi aver subito intuito che non fosse solo quello il punto.>>
Ade accennò un sorriso. << Lo conosci anche tu. Ti ha convinta.>>
<< Ha convinto anche Ipnos a convincere Thanatos, ricorda. >>
<< Non mi interessano i gemelli della Notte. Ha convinto te.>>
Suo malgrado Persefone si trovò ad annuire ancora. << Non riesco a dirgli di no, temo non vi riuscirò mai.>>
Sospirando Ade chiuse per un attimo gli occhi. << Nessuno di noi ne è capace.>>
<< Gli dobbiamo troppo.>>
<< Non è questione di dovere, neanche di sdebitarsi: la storia è piena della nostra inesistente riconoscenza verso chi ci ha servito, verso chi ci è stato fedele. È la nostra natura, Persefone, chiediamo tutto, otteniamo ogni cosa e non diamo nulla in cambio… >>
< Io sì. >> disse lei sicura, << Io d'ho sempre qualcosa in cambio.>>
<< Perché questa è la legge della Natura.>> il dio sciolse l'intreccio delle sue mani e poggiò le braccia sui braccioli di vimini, abbandonando la testa contro la spalliera. << Ma non siamo tutti così, non siamo tutti nati nel Sole, l'oro che ha baciato la mia venuta non era quello di una stella.>> soffiò in un sussurro.

Nel mosaico una tessera verde si tinse di una calda e metallica sfumatura gialla, un riquadro che lentamente sormontava l'erba ed avanzava inesorabilmente, circondato da una scia di puntini azzurrognoli.
Un muro davanti alla tessera si mosse, pronto ad inglobarla nella sua struttura, ma questa vi passò semplicemente in mezzo, come se nulla fosse.
Attratta da quella stranezza Persefone abbandonò il volto triste e tetro del marito per concentrarsi di nuovo sul mosaico, aggrottando le fini sopracciglia rosse, sorridendo nel costatare con quale cinica ed ironica crudeltà il colore che il fato aveva prescritto per quella tessera fosse proprio l'oro.

<< Non posso dirti quali siano le ragioni che l'hanno spinto ad ideare questa gara, ma posso dirti una cosa con certezza, mio Signore.>> iniziò Persefone sistemandosi meglio sulla sua sdraio e rimettendosi bene gli occhiali sul naso. << Che qui, non son certo io l'unica che ha deciso di giocare.>>

 

 

*

 

 

Davanti a lei fluttuava una leggera luce dai toni caldi. Era un colore indefinito tra il sabbia, il giallo ed il rosa, qualcosa che non aveva la minima intenzione di indagare, non in un momento del genere.
Non l'aveva mai fatto, usare la sua magia per trovare la direzione giusta per fuggire non era una cosa che le era mai tornata utile, ma in quel momento ringraziava gli Dei che suo fratello gliene avesse parlato. Era una delle tante magnifiche cose che un semidio poteva fare, che un figlio di Apollo poteva fare. Essere figli del dio della stella maggiore serviva a qualcosa ogni tanto, o probabilmente sarebbe servito sempre se solo Lea fosse stata addestrata ad utilizzare i suoi poteri.
La verità era che essendo nata lontana dal Campo della sua epoca, decisamente troppo lontana, un continente di differenza da quello che le era parso di capire, ed essendo nata donna, l'idea di esser sottoposta ad un qual si voglia tipo di allenamento per sfruttare le sue potenzialità, per farlo sul campo di battaglia, non le era passato neanche per l'anticamera del cervello. O meglio: non le sarebbe mai stato possibile neanche volendo. Le era stato insegnato come sfruttare le sue magie curative, aveva scoperto di avere una mira eccezionale, ma chi le avrebbe mai permesso di aver un arco con sé e cosa avrebbe mai potuto fare una freccia, seppur semidivina, contro un veloce e letale proiettile?
Non poteva certo lamentarsi, suo fratello le aveva insegnato molto ma… non tutto, non abbastanza credeva spesso, dopotutto aveva sempre cercato di tenerla al sicuro, di farla vivere lontano da quel mondo violento che apparteneva loro. In un qualche modo l'aveva privata della possibilità di essere una versa semidea ma ancora una volta Lea non poteva biasimarlo, non accettava ancora le sue scelte ma no, non poteva dire di non capirle.
Le era stata negata la possibilità di diventare medico, un lavoro prettamente maschile, che una donna non poteva certo sopportare o intraprendere, figurarsi se qualcuno si sarebbe mai azzardato ad insegnarle come tener in mano una spada.
No, le serviva solo sapere come difendersi, non come andare all'attacco volontariamente, come affrontare una missione ed in fin dei conti, in quel momento, doveva solo salvarsi la pelle e arrivare al prossimo punto di partenza, solo questo.
La lucciola deviò infilandosi improvvisamente in un vicolo e fermandosi lì.

<< Di qua!>> gridò afferrando Ùranus e trascinandoselo dietro.
Poco dopo due uomini rotolarono lungo il corridoio superandoli senza neanche rendersi conto della loro presenza.
<< Quindi stanno davvero combattendo gli uni contro gli altri.>> disse con voce spezzata il ragazzo, affaticato da un fiatone che non avrebbe dovuto avere.
Lea annuì. << Non è nulla di buono, dobbiamo uscire di qui il prima possibile, con o senza armi. Spero solo che ci venga data l'opportunità di recuperarle, significa davvero molto per me.>> ammise a mezza bocca, lasciando andare per un attimo la testa e rilassando le spalle.
Ùranus di fianco a lei le sorrise impacciato poggiandole una mano sul braccio. << Non posso dirti con certezza che ci riprenderemo le nostre armi, ma se dovesse capitar l'occasione non ci tireremo indietro, an- >>
Non finì la frase e Lea non riuscì neanche a chiedergli perché si fosse interrotto.
Il ragazzo l'afferrò per la vita, tirandosela contro prima di slanciare in alto la gamba e colpire in pieno petto un pellerossa dal copricapo piumato sporco e logoro.
Il grido sorpreso della ragazza fu sovrastato solo da quello bellicoso dell'uomo che non riuscì comunque a rimettersi in piedi senza difficoltà.

<< CORRI!>>
Ùranus strinse la presa attorno al suo polso e la spintonò davanti a sé, lanciandosi occhiate preoccupate alle spalle, lì dove il guerriero si era ripreso e li fissava con occhi spalancati.
Non li stava seguendo, perché non li stava seguendo?
Ùranus non aveva mai visto un uomo del genere, ma di certo era un combattente di una qualche tribù, forse un cacciatore, dalla massa asciutta, i muscoli scattanti, il passo veloce.
I capelli rossicci gli coprirono per un attimo la visuale, costringendolo a scostarli malamente e riuscire a vedere il loro assalitore portare una mano alla schiena ed estrarre qualcosa di lucido, di metallico.

Un'accetta?

Chi diamine andava in combattimento armato di accetta? Poteva capire un'ascia, ma non un'arma così piccola, non sarebbe stata abbastanza forte per parare un colpo ravvicinato, per fermare una spada.
No, per difendersi no, ma poteva essere un'ottima arma da –

Da lancio!

Con un altro spintone allontanò Lea da sé, spedendola a terra in un vicolo alla loro sinistra.
La sentì gridare ancora per la sorpresa, forse anche per l'indignazione, mentre imprecava contro la sua lucciola scomparsa, contro la gente pazza che li attaccava e contro divinità che non conosceva.
Ùranus invece si fermò, voltandosi verso l'uomo e fissandolo dritto negli occhi.

<< Che fai! Dannato stupido, togliti di lì!>> Lea lo guardò allarmata, tendendo un braccio verso di lui senza riuscire a raggiungerlo.
<< Ùranus! URANUS! >>
L'uomo lo fissò in silenzio, l'accetta in mano, il braccio piegato all'altezza dello sterno. Sembrava interessato, forse domandandosi perché non si fosse nascosto o forse aspettando di vederlo estrarre la propria arma. Non sapeva nulla di lui e delle sua cultura, magari per la sua gente gli uomini dovevano affrontare la morte a testa alta, un po' come per la propria. Non ne aveva la più pallida idea ma in quel momento l'unica cosa che si ripeteva era che non poteva né permettere che quel folle l'inseguisse né che lanciasse a lui, o a Lea, quell'affare in pieno petto. O in testa. Sarebbe stato ugualmente terribile e soprattutto non sapeva che effetto avrebbe avuto su di loro, anime ormai morte da secoli, un colpo del genere.
Si sarebbero disintegrati? Sarebbero scomparsi? Sarebbero diventati cibo per Cerbero o magari gli Déi sarebbero stati magnanimi e li avrebbero rispediti ai Campi Elisi?
Non lo sapeva e non poteva neanche permettersi di ragionarci sopra.
L'uomo continuava a fissarlo senza dir una parola, probabilmente anche se l'avesse fatto non si sarebbero mai potuti capire. Si sarebbero accontentati di quegli sguardi attenti e carichi di una tensione che Ùranus non sentiva più da tanto, troppo tempo, e che aveva sperato di non sentir mai più.

<< Ùranus? >> chiamò piano Lea ora con più calma, la classica voce di chi cerca di far ragionare qualcuno. << Per favore… togliti di lì, forse riesco a rifare la luce, possiamo andarcene di qui il più velocemente possibile e- >>
<< Fallo.>> la interruppe parlando a voce bassissima, la folta barba a coprire il movimento delle sue labbra. << Fai la luce e poi chiudi gli occhi, non guardarmi per nessuna ragione al mondo.>> disse serio, senza distogliere la propria attenzione dalle iridi scure dell'avversario.
<< Cosa? Perché? Che vuoi fare?>> domandò ansiosa, cercando comunque nel contempo di respirare con calma e richiamare di nuovo a sé quella luce flebile ma così essenziale.
<< Tu giura di non guardarmi. Fidati di me.>>
<< Non far nulla di pericoloso… >> azzardò la ragazza, il suo tentativo di calmarsi andato a farsi benedire assieme a tutti i santi che aveva tirato giù poco prima.
Un sorriso piccolo ed invisibile tirò le labbra del giovane. << Non lo sarà, non per me.>>
Non attese di ricevere una risposta, di sentirsi dire d'esser pronta, sperò semplicemente che Lea avesse davvero chiuso gli occhi e che non lo stesse osservando o sarebbe stato davvero difficile riuscire poi a portarla lontana di lì, soprattutto non avrebbe saputo dove andare.
Continuando a guardare l'uomo Ùranus cercò di convogliare in sé tutta quell'energia che normalmente era dispersa nel suo corpo, proprio come gli aveva detto suo padre anni addietro.

 

È dentro di te, è tutto dentro di te, Ùranus. L'energia, lo scorrere delle linee magiche, della vita, il filo eterno ed indistruttibile del destino. Ogni cosa è insita in ogni essere. Concentrati, non perder di vista il tuo obiettivo. Diventa tutt'uno con quell'antica potenza e riuscirai dove nessun uomo mortale può.
Nessuno può piegare il Fato al suo desiderio. Nessuno può piegare la Terra al suo volere od il Cielo, ma tu figlio mio, così come gli Déi, puoi piegare gli uomini e non miseramente nel loro corpo, quanto nel loro animo. Piega la loro ragione, piega la loro mente e avrai un dominio che nessun re o sovrano possiede.”

 

Concentrare tutta la propria forza, piegare non il Fato, non il Cielo o la Terra, ma piegare gli uomini. Non piegare la loro schiena, ma piegare la loro mente.

 

Agli Déi è stato dato il gran dono di possedere un elemento e spesso molti di noi condividono poteri diversi su uno stesso dominio, ognuno interpretando l'antagonista dell'altro, facendoci piatti opposti di una bilancia invisibile. Molti altri oltre a me possono influenzare così pesantemente il cuore di un uomo, ma ricorda: non è amore e dolcezza quella che scaturisce dal nostro tocco, quella che si evince da ogni nostro sguardo. Ricordalo bene, figlio mio, sangue del mio sangue, non siamo destinati a seminar amore ma solo a raccogliere tempesta.
Il giorno in cui deciderai di usare ciò che la vita ti ha donato, sappi a quale alba andrai incontro.”

 

Il rumore del vento che soffiava forte nelle praterie vuote, frustrando l'erba alta, perfetto nascondiglio di piccole prede che si accovacciavano attente e vigili ad ogni vibrazione del terreno, in quelle lande adibite alle corse libere di stalloni dalle zampe potenti, gli zoccoli consumati dal trotto ed i muscoli guizzanti. Poteva sentire quello della coscia di un magnifico esemplare contrarsi sotto la sua mano, sentiva il sapore del fieno fresco in bocca, entrato direttamente dal naso, scivolato lungo la trachea sino ad annidarsi nel suo stomaco. C'era anche un vago aroma di fumo, di legno profumato e bruciato e c'era… c'era odore di sangue.
Davanti ai suoi occhi, per un secondo ciechi al mondo circostante, una giovane donna era riversa a terra, il petto e lo stomaco aperti in un unica linea netta, come le bestie da macello.
Improvvisamente la mano poggiata sulla coscia tonica del cavallo gli parve umida, appiccicaticcia e l'arma che teneva nell'altra – quando era successo? Era sempre stata lì?- assunse forma, struttura, pesantezza.
Avrebbe voluto abbassare lo sguardo per vedere cosa fosse, ma in cuor suo Ùranus sapeva di star stringendo un'accetta dalla lama in pietra levigata e tagliente. La stessa che anche l'altro uomo teneva in mano, la stessa che questo lasciò cadere con un tonfo sordo indietreggiando senza staccargli gli occhi di dosso.
L'ambiente arioso e sconfinato che l'aveva ospitato sino a quel momento cominciò a svanire, un luogo così lontano dalle sue terre e che mai, neanche se fosse rinato a nuova vita, avrebbe più potuto veder con i suoi occhi.
Ma non ne aveva bisogno, avrebbe potuto conservare per sempre quel ricordo, quella frazione di tempo in cui la prateria del vecchio e lontano West gli era apparsa in tutta la sua bellezza e la sua perfezione, prima che il sangue ed il respiro pesante di un uomo a lui sconosciuto infangassero quell'immagine, prima che le grida di preghiera di una donna giungessero alle sue orecchie assieme alle maledizioni che aveva urlato a gran voce prima di morire. Le stesse che ancora rimbombavano nella sua mente, le stesse che il guerriero davanti a lui, ora inginocchiato per terra, sentiva dentro di sé.

Non rimase a guardare cosa sarebbe successo, se il pellerossa – la sua mente gli consigliava quello come termine – si sarebbe ripreso o sarebbe rimasto invece lì, agonizzante sul prato. Ùranus deglutì cercando di scacciare quei suoni molesti dalla sua testa, cercando di ignorare il tanfo di sangue, il puzzo di cavallo ed il nervosismo che l'animale stesso gli trasmetteva e si voltò verso Lea e la trovò ad occhi serrati, a mormorare parole a lui incomprensibili con le mani premute sul petto, sotto di esse le stesse leggere auree luminose viste in precedenza.

<< Forza, dobbiamo andare, non so per quanto funzionerà.>> la prese per le spalle e la tirò su, spingendosela davanti per poterla direzionare meglio verso i corridoio.
Lea rabbrividì, la luce delle sue mani tremulò come una candela esposta al vento, il suono di una porta che veniva accostata con attenzione le solleticò la mente, il ricordo di una voce indefinita che diceva qualcosa, il tono basso, confidenziale… dispiaciuto?

Nel fiume sì-”
- metà, non si s-”
“ terribile,tutto per quella dannata-”

Mi spiace Elena…”

La ragazza impuntò i piedi a terra, il tremore divenne più forte ed un brivido gelido l'avvolse velocemente, come il vento freddo che tirava la mattina davanti al Duomo.
<< No- no io… non posso- >> balbettò senza senso.
<< Cosa? Cosa non puoi? Lea? Non abbiamo tempo!>> provò l'altro spingendola.
La sua forza era decisamente superiore alla resistenza che Lea poteva opporre e ben presto si ritrovò ad inciampicare nei suoi stessi passi.
<< Mi dispiace, mi dispiace tantissimo, ne sono profondamente addolorato, qualunque cosa tu stia provando- ma non possiamo fermarci ora.>> Malgrado le sue parole però Ùranus si bloccò, la fece girare verso di lui e le prese le mani nelle sue, aprendole a forza e liberando quella leggera scintilla di luce calda che tremò davanti a loro come stava facendo la sua padrona.
<< Veloce! Guidaci fuori di qui!>>
L'ordine perentorio del ragazzo sembrò arrivare dritto nella testa di Lea, come una freccia ben scoccata.

Come un pugnale lanciato con estrema precisione.
 

Perché è così che facciamo noi!”
 

Una scossa elettrica sostituì i brividi, le mani di Ùranus strette attorno alle sue divennero improvvisamente più reali, più materiali, calde e quasi sudate.
Elena alzò la testa verso il suo compagno, cercando quegli occhi gentili ma così terribilmente freddi ma Ùranus rifuggì il suo sguardo, abbassando il capo e voltandosi verso le sue spalle, come se stesse controllando che nessuno li avesse seguiti fino a lì.
Lea lo fissò rigida, qualcosa le diceva di eseguire al più presto l'ordine che Ùranus le aveva appena dato o sarebbe successo qualcosa di brutto, qualcosa che avrebbe preferito di certo non accadesse.
Annuì incerta a fece scivolare le mani dalla presa dell'altro.

<< Andiamo allora, da questa parte.>> disse riprendendo quel controllo che le era sempre stato invidiato nelle situazioni più delicate, quello che il semplice tocco di una persona amica gli aveva tolto come un colpo in pieno petto.
Ricominciarono a seguire la lucciola, senza guardarsi o parlare per lungo tempo.
Quella vocina che le aveva suggerito di sbrigarsi ed accontentare le richieste del ragazzo rimase seduta nel fondo della sua mente, isolata ma non nascosta.
Un'altra voce invece, decisamente maschile e sconosciuta, le suggerì con tono sibilante una risposta che avrebbe voluto non sentire

 

Istinto di sopravvivenza. Si chiama istinto di sopravvivenza mia cara.
Incredibilmente potente, non credi?

 

 

 

*

 

 

Eliza aveva imparato a marciare e ad eseguire gli ordini come ogni altro soldato e forse era per quello che non le stava pesando più di tanto seguire Nathan in giro per i corridoi d'edera che si arrotolavano su sé stessi come una matassa di fili erbosi e bui. Ciò che la disturbava invece era l'aspetto completamente identico che aveva ogni singolo cunicolo, la sensazione di essere già passata di lì, di aver già percorso quella via.
Il biondo, davanti a lei, continuava ad osservare attento il vetro lucido della bussola, alzando la testa per controllare che le svolte fossero libere, che dietro ad un muro non si nascondesse nessuna brutta sorpresa, nessuno mostro, nessuna anima armata o bellicosa. Lei invece copriva la retrovia.
Non avevano parlato, non molto e solo del labirinto e delle problematiche che gli stavano creando, ed andava bene, davvero, le avevano insegnato che parlare durante una spedizione era solo spreco di fiato, ma questo non significava che nel mentre non potesse pensare, che non potesse ragionare.
Inevitabilmente tornava sempre a Cade, alla sua decisione di allontanarsi da loro, che avevano un mezzo affidabile per uscire di lì, solo per riprendere un coltellino da intaglio. Non era un'arma vera e propria, non era come l'armamentario suo e di Nathan, ma evidentemente significava ben più di quello che il ragazzo avesse lasciato intendere. Ciò che però la lasciava più sorpresa era l'immagine della sua faccia così sicura e furbesca: Cade evidentemente sapeva come uscire di lì anche senza loro. Ma come?
Era ovvio che il ragazzo dovesse aver un qualche potere di discendenza divina che gli permetteva di orientarsi al meglio anche lì in mezzo, perché allora non aveva usato la stessa tecnica per arrivare al palazzo di Ade? Perché seguire loro? Solo per le parole della Guardia Imperiale?
Avevano parlato per un bel po' di discendenze e di Déi, ma sebbene quello di Nathan, Ares, fosse uscito subito fuori e la sua, Nike fosse stata scoperta fin troppo facilmente, Cade non aveva aperto bocca riguardo al proprio genitore divino.

<< Se pensi ancora un po' comincerai a far fumo dalle orecchie.>>
La voce piatta di Nathan la fece voltare verso di lui. L'uomo se ne stava poggiato con le spalle ad un muro, lo sguardo fisso verso il lato ancora inesplorato di quel corridoio.
Eliza gli si accostò, la spalla premuta contro il braccio solido dell'altro.
<< Ragionavo su Cade. Se n'è andato come se fosse convinto di poter uscire di qui quando e come vuole.>> confessò senza timore.
Lui grugnì. << È un coglione, ma non uno sprovveduto. Non mi convince, non so dirti perché ma ha qualcosa che non quadra secondo me.>>
<< Per quanto era confuso nelle Praterie?>> chiese alzando un sopracciglio.
<< Anche. La conosco la gente come lui, di solito non fa una bella fine, è quel genere di ragazzino che da piccolo imbratta i muri dei palazzi e da grande entra ed esce dalla prigione per furtarelli di ogni tipo, di quelli che i poliziotti ormai conoscono così bene da non dover neanche controllare per chiamare la madre perché l'hanno fatto così tante volte da conoscere a memoria il numero.>> si fermò un attimo e le lanciò uno sguardo valutativo. << Telefoni, non c'erano ai tuoi tempi, vero?>>
Eliza scosse la testa, infastidita dal tono di voce usato dall'altro ma del tutto intenzionata a non far polemica per così poco, non in quel momento.
<< No, ma ho capito il tipo.>>
<< E poi anche per la storia della Prateria. Lo sai, più sei stato uno stronzo in vita e più la foschia ha effetto su di te.>>
<< Ma era con noi nei Campi Elisi.>> gli fece notare.
<< Mh, che ne sai? Magari aveva qualche santo in paradiso.>> sogghignò cattivo e poi tornò a guardare davanti a sé, muovendo alla cieca una mano per togliersi quel prurito fastidioso che l'edera gli stava dando. << Se era così convinto di poter uscire da solo, comunque, buon per lui. Ma non farti illusioni, non credo lo vedremo al prossimo traguardo.>>
Con un verso infastidito Eliza si scostò qualche ciocca di capelli dal volto, maledicendosi per non averli tagliati di nuovo prima di partire, ancora più corti di quanto già non lo fossero in precedenza. Le foglie le pizzicavano il collo, le ricordavano il fastidioso prurito della lama ormai senza il giusto filo che le era stata passata sulla nuca per farle il taglio militare.
<< Come farà ad uscire secondo te?>>
<< Te ne frega davvero qualcosa?>> domandò Nathan scettico come sempre dando un'altra manata a quei dannati ramoscelli che gli grattavano la schiena.
Abbassò lo sguardo sulla bussola e bestemmiò a denti stretti: l'ago oscillava troppo, come se ci fossero più fonti a cui cercava di attaccarsi.

Come una dannata radio che prende due stazioni assieme.

E quelle cazzo di foglie...da quando l'edera era così dannatamente fastidiosa?
<< Poteva esserci utile e poi mi hanno insegnato che non si lascia mai un compagno indietro.>>
Eliza lo guardò con freddezza ma a Nathan non interessava minimamente: quella donna era un soldato tanto quanto lo era lui, conoscevano le stesse regole, gli stessi principi, solo che lui non poteva dare il colpo di grazia ad un commilitone in fin di vita per alleviare le sue sofferenze o sarebbe finito davanti alla corte marziale. O almeno non avrebbe potuto farlo in vita.
<< Non era uno di noi.>> disse secco menando una gomitata al muro.
<< Mi pare che anche lui sia un figlio degli Déi, quindi è decisamente uno di noi.>> ribatté lei.
<< Cazzo, hai capito cosa intendevo. Non aveva un minimo di disciplina e non stava mia zitto.>>
<< Perché parli di lui al passato?>>
<< Magari perché non è più un mio problema?>> sbuffò ironico.
Con uno strattone deciso si scostò dalla parete e la guardò in modo ostile. << E questa cazzo di edera mi sta già abbondantemente sulle palle. Da quando prude a sto' modo?>> ringhiò allontanandosi di un paio di passi. << Andiamocene di qui, per quanto ne sappiano questo labirinto infernale potrebbe anche essere vivo e decidere di mangiarci. >>
Non le diede neanche il tempo di annuire, girò sui tacchi e ricominciò a seguire la bussola, cercando inutilmente di stabilizzarla come poteva.
Eliza chiuse un attimo gli occhi e poi li alzò al cielo nero e roccioso. Da quando aveva conosciuto Nathan oscillava tra la soddisfazione nell'aver trovato un commilitone – seppur di svariati secoli dopo – e la rabbia per aver trovato un tipo del genere, così forte e capace ma anche inspiegabilmente pieno di sé e scontroso con tutti. Che fosse una qualche caratteristica derivata da suo padre, da sua madre, da suo nonno o chi per lui non le interessava, ma le dava così terribilmente fastidio saper di aver davanti qualcuno che la riconosceva e rispettava come soldato ma che al contempo si comportava come se lei non fosse altro che una recluta che doveva seguire il capitano, che doveva solo fargli da coda ed accettare tutte le sue decisioni. E lei non era di certo una sprovveduta alle prime armi, con o senza dannata bussola magica.

<< Ho fatto l'America, ragazzino, se non fosse stato per me e i miei compagni sareste ancora combattendo contro i Sudisti. >> soffiò inviperita.
<< Muoviti, non abbiamo tutto il tempo del mondo!>> la richiamò, ignaro del suo borbottio.
Eliza alzò di nuovo gli occhi al cielo ed espirò pesantemente. << Direi che ne abbiamo anche di più visto che siamo morti, non so se ti è sfuggito di mente.>> Si scostò anche lei dalla parete, districandosi da quei rami flessuosi che le si erano avvolti blandamente attorno alla vita.
<< Sì, beh, vorrei evitare di morirci di nuovo qui dentro, che dici?>>
<< Che sarebbe una liberazione probabilmente.>>
<< Che?>>
<< Che non sarebbe possibile.>> rettificò con impressionante serietà rimettendosi bene la giubba blu.
<< Non darlo per scontato, stiamo sempre parlando degli Déi, il detto “ne sa una più del diavolo” per loro è fin troppo azzeccata. Guarda che merda di posto che hanno partorito le loro menti bacate.>>
<< Ma sì, continua ad insultare gli Déi mentre siamo impegnati in una competizione creata da loro, ci sarà sicuramente utile.>> nel dirlo inciampò in qualcosa, rimettendosi in piedi in fretta e voltandosi indietro per osservare cosa l'avesse intralciata.
Non ascoltò la risposta piccata e infastidita di Nathan, non ascoltò neanche le sue battute sarcastiche su cosa avrebbero potuto fargli gli Déi o sul fatto che, secondo lui, si divertivano a sentirli tirar giù tutte le divinità del cosmo. Eliza tenne gli occhi puntati a terra, mentre in lei si ripeteva una frase detta poco prima dal compagno.

“… questo labirinto infernale potrebbe anche essere vivo e decidere di mangiarci.”

Un ramo d'edera si arrotolò su sé stesso, forse infastidito dal calcio che la donna gli aveva dato per districarsi dalla sua presa. Lentamente, come un essere vivente, come un covo di serpenti che sinuosi si muovono gli uni sopra gli altri, l'edera si spostò, s'arricciò, intrecciò i suoi rami e fece vibrare le sue foglie, scostandosi quel poco che serviva per lasciar cadere un oggetto piccolo ed affusolato, un po' consunto, un po' ruvido.
Eliza si abbassò con attenzione, senza spostare gli occhi dal muro in fermento ed allungando con cautela la mano per afferrare l'oggetto.
Leggero, leggermente bitorzoluto, freddo, bianco.

Una falange?

Un rumore improvviso esplose dalle mura. Nathan, a circa una decina di metri di distanza, si voltò di scatto e tornò verso di lei di corsa, fermandosi al suo fianco e portando in automatico la mano alla vita, dove però non trovò nessuna spada, nessun arma.

<< Cazzo!>> ringhiò tra i denti. << Dimmi che non sei stata tu o potrebbe essere la prima volta che mi ritrovo a far a botte con una donna.>> l'avvertì mettendosi in posizione difensiva.
Eliza lo fulminò con lo sguardo. << Non sono stata io, ma se vuoi possiamo risolvere la faccenda quando vuoi: non sottovalutarmi, ragazzino.>> soffiò minacciosa assumendo una posa palesemente da pugile.
Davanti a loro l'edera si contorceva ancora senza però perdere la sua forma perfetta di muro, come se a sostenerla vi fosse una lastra invisibile. A Nathan ricordò il terrario che c'era nella sua vecchia scuola elementare, quel microcosmo stretto nel plexiglass che ospitava formiche e vermi che si schiacciavano contro la parete trasparente in cerca di fuga, illusi dall'invisibilità del vetro. Un moto di nausea gli serrò la gola: malgrado quegli insetti non lo avessero mai minimamente infastidito, in quel preciso momento, ricordarli lo aveva disgustato in una maniera che non credeva possibile, come la prima volta che un suo compagno era stato ferito, come la prima volta che aveva tagliato in due un mostro, quando le viscere di quello erano cadute a terra in uno sfrigolare di bile e sangue marcio. Come se i muri d'edera fossero la pareti di un organo e loro solo qualcosa da assimilare, muovendo i propri muscoli per sciogliere quel cibo improvvisato, prendendone i nutrienti e risputandone gli scarti. Ad ogni nuovo intreccio un pezzo cadeva a terra, una tibia, dei denti, le costole, una clavicola, altre falangi, una rotula. Sì, pareva proprio che il muro fosse un gigantesco animale che, dopo un laudo pasto, risputava le ossa della sua preda, una ad una, pulite e perfettamente intatte.
A far da sottofondo al frusciare delle foglie c'erano mugugnii, urla trattenute, grida lanciate oltre la morsa serrata che chiudeva loro la bocca. In breve tempo i corridoi si riempirono di queste voci, centinaia e centinaia, imploranti, agonizzanti. Sovrastarono le grida di battaglia, le minacce ed il cozzare delle lame, gelarono le anime nelle loro pose, costrinsero molti a tapparsi le orecchie, a piangere disperati un terrore che non conoscevano e non volevano conoscere, qualcosa che li avrebbe tormentati per la prima volta o forse per la millesima.
Da dove provenivano? Chi erano quelle anime? O forse erano persone, forse erano tutti gli sciocchi che si erano persi nel Regno di Ade, tutti coloro che erano finiti lì per colpa del più famoso e letale Labirinto di Dedalo, forse erano mostri, forse… forse erano loro stessi, coloro che avevano fallito la prima prova e si erano dispersi per le Praterie.
Si ricordò di una vecchia voce che girava al Campo, quando i più grandi si riunivano davanti al falò la sera e raccontavano storie dell'orrore provenienti da un passato mitologico ma maledettamente vero: dicevano che nel Palazzo di Ade, attorno al suo trono fatto delle ossa dei più grandi e di più terribili uomini che avessero mai calcato il suolo terrestre, vi era un tendaggio nero e spesso, fumoso e mutevole come l'acqua, come la scia pallida che si alza dai fuochi sacri. In quel tendaggio, proprio come per il trono, era intessuto tutto ciò che rimaneva di anime che non aveano avuto il privilegio di potersi collocare in una delle tre zone infernali, anime che in vita avevano osato sfidare Ade stesso e che ora vestivano quell'essere immortale che li sfoggiava senza il minimo interesse, come un nobil uomo che non sa apprezzare i preziosi tessuti dei suoi abiti poiché abituato da sempre ad indossarne. Solo che Ade non se ne curava perché quello era un ulteriore trattamento di pena, un ulteriore tortura, vestigia sbiadite e dimenticate di vite di cui l'intero creato ignorava ormai l'esistenza. Esistere ancora ma non esistere, non valere, non sapere ma non poter dimenticare, non essere, non essere più nulla, neanche la trama viva del mantello di un Dio.
Era ipnotico il movimento delle foglie, lo strusciare dei rami gli uni contro gli altri, il rumore che facevano le ossa che cadevano a terra, le grida di tutte quelle anime disperse per il labirinto, nel labirinto, come coloro che componevano il tendaggio nero e mortifero del padrone di quelle lande maledette tanto dagli uomini quanto dagli Déi. Erano anche loro intrappolati lì senza possibilità di fuga? Anche loro erano stati destinati a quella fine?
L'idea di un tradimento lo congelò come aveva fatto quel dannato colpo che gli era costato tutto, pensare di essersi illuso di poter tornare indietro per poi finire in quel modo…
Una presa ferrea e decisa si chiuse sulle sue braccia, nel mezzo di quel cacofonico concerto che stava distorcendo l'aria sulfurea e stantia dei corridoi, rendendo quasi difficile vedervi attraverso, Nathan ricordò le innumerevoli volte che sua madre l'aveva afferrato e ritirato in piedi dopo una caduta, dopo esser andato a terra per non aver parato uno dei suoi colpi.
Il mondo tremò come la superficie di una cassa acustica, con una forza che non le avrebbe mai e poi mai attribuito Eliza lo sollevò di peso e lo scostò dal muro che si stava chiudendo su sé stesso, come un budello.
Nathan batté le palpebre shoccato, i piedi per un attimo privi d'appoggio ondeggiarono nel vuoto prima di ritrovarlo.
<< Non è il momento per farsi prendere da una paralisi, Nathan!>> Eliza gli tirò uno spintone in pieno petto ed il soldato si ritrovò con il sedere a terra. Da quando era così forte?
Con un ringhio infastidito si rialzò in piedi e si massaggiò il torace senza pensarci.
<< Che cazzo vi davano da mangiare?>> domandò sarcastico, senza riuscire comunque ad impedirsi di allungare una mano verso la compagna per invitarla, seppur involontariamente, ad allontanarsi anche lei e mettersi al sicuro nello stesso spiazzo largo in cui lo aveva lasciato.
Eliza gli lanciò un'occhiata fulminea da sopra la spalla ed indietreggiò di poco verso di lui.
<< Probabilmente non le schifezze che mangiavate voi.>> propose con un' alzata di sopracciglia. << In ogni caso, credo che questa non sia altro che la forza della Vittoria, che dici, tu che sai tanto degli Déi e dei loro figli?>>
Il biondo soffiò via una ciocca dalla fronte e sogghignò. << Dico che una figlia di Nike come te non l'ho mai conosciuta, ma forse sarà perché sei vecchia.>>
<< Ricordati sempre con chi stai parlando, moccioso, ti ho anche salvato la vita, vedi di non costringermi a farlo di nuovo.>>
La giovane indietreggiò ancora sino a raggiungere lo spazio libero, le dita di Nathan sfiorarono il suo braccio per poi poggiarcisi sopra ma nessuno dei due disse nulla, rimanendo solo in attesa che quel maremoto di foglie si fermasse.
Davanti a loro il cunicolo in cui si erano fermati era ormai chiuso, le ossa che si erano riversate a terra sparite sotto cumuli di rami d'edera.
<< Quindi è davvero vivo e cerca davvero di dividerci, il rosso aveva ragione.>> Nathan si spostò di lato, dando le spalle ad Eliza per controllare meglio i dintorni.
Schiena contro schiena i due si guardarono attorno attenti, all'erta, pronti a combattere contro qualunque cosa gli si sarebbe scagliata addosso, ogni colpo basso sferrato dall'ormai più che vivo labirinto di Ade.
Non avevano armi, erano del tutto svantaggiati, ma questo non significava che non si sarebbero battuti fino alla fine, fino all'ultimo respiro, se così si poteva ancora dire.
Nathan sentì Eliza posizionarsi meglio dietro di lui, poteva avvertire la scapola pungolarlo in mezzo alla schiena. In un attimo si ritrovò a ragionare su quanto sarebbe stato utile aver ancora il suo mitra e si domandò quando invece avrebbe potuto fare il fucile della ragazza. Le guerre di secessione avevano sempre portato innovazioni, nuove armi, nuovi modi per ammazzare la gente e malgrado sicuramente tra il suo armamentario e quello della ragazza non c'era storia, forse il suo sangue divino le avrebbe permesso di far danni, di far centri, anche con quel pezzo da museo.
Un pezzo da museo che comunque non aveva più.
Quasi si maledì per non aver seguito Cade, per non avergli chiesto di trovare anche la sua di arma, adesso sì che lo capiva... anche se cazzo, lui aveva un fottuto fucile, non uno stupido tirapugni o un coltellino da intaglio.
Quell'attesa poi lo stava snervando: Nathan era un uomo d'azione, da obbiettivo ben chiaro e attacco brutale e veloce, ma certo non era da guerra di posizione, assolutamente no, il Vietnam ne era stata la prova, le lunghe attese di vedetta l'avevano sempre ucciso.
Eliza, invece, sembrava maledettamente a suo agio. Ferma in posizione, la testa incassata nelle spalle, le braccia piegate nella classica posa da pugile.
Non era mai stato un grande amante della storia, ma essendo figlio di Ares per lui era risultato sempre facilissimo riconoscere divise, armi, mezzi, movimenti militari, tecniche. Eliza aveva l'abbigliamento, il portamento e, prima, le armi di un soldato del 1700, della seconda metà per la precisione. Attendere che qualcosa succedesse, che qualcuno sparasse un colpo, che il generale di turno, in sella al suo stallone, chiamasse l'attacco, era una cosa che la donna di certo sapeva fare e per questo motivo Nathan si sentiva ancora più innervosito. Odiava quando qualcuno riusciva meglio di lui in una qualunque cosa che riguardasse la lotta.
Lucy glielo aveva ripetuto all'infinito, prendendolo a scappellotti proprio come faceva sempre Alexia, che quella sua smania di fare, di essere il migliore, di agire sempre e comunque di testa sua “perché sì”, prima o poi gli si sarebbe ritorto contro.
Ed ora lo sentiva tutto, Nathan, quel dannato problemino che di solito lo aiutava e che invece in quel momento lo stava affossando: l'iperattività.
Odiava anche questo. Ad essere onesti Nathan Wright odiava un po' troppe cose, come doversi attenere ad un piano e non poter sfogare tutta la sua forza bruta sul nemico di turno facendolo a pezzi e cancellandolo dalla faccia della terra.
Sentiva i nervi a fior di pelle, vedeva l'edera muoversi lenta come se non avesse nessun altro pensiero – sempre che l'edera potesse pesare! - come la risacca del mare che si muove con il suo tempo, con il suo ritmo, ignorando l'uomo e le sue necessità.
Perché non li stava attaccando? Perché si era limitata a sputare fuori ossa e basta? Dalle urla che erano arrivate dai meandri del labirinto quei dannati rami dovevano aver preso qualcuno ed averlo fatto fuori in un modo atroce e definitivo. Questo era attualmente l'unico punto su cui Nathan era sicuro: se le anime potevano essere torturate nei Campi di Pena significava che potevano soffrire anche lì, nel labirinto e a quanto pare l'edera era una sadica bastarda che disintegrava anime. O che come minimo le intrappolava tra le sue foglie per sempre.
Ma dove finivano poi quelle anime? E quelle ossa, di chi erano visto che i loro corpi, per la maggior parte, erano stati bruciati come da tradizione?
Probabilmente sarebbe rimasto lì a pensare per sempre, impegnando la sua mente con ragionamenti contorti pur di scappare alla stasi dell'attesa, se solo Eliza, di punto in bianco, non si fosse slanciata proprio verso uno dei muri ancora in movimento.

 

 

*

 

 

Il colpo non arrivò mai. Quel colosso non si abbatté su di lui ma qualcosa lo toccò ugualmente.
Dopo tutti quegli anni passati in completo isolamento, senza che nessuno avesse il coraggio anche solo di sfiorarlo, temendo i dolori atroci che un contatto diretto con la sua anima avrebbero potuto provocare, Jonas quasi non registrò il pensiero fugace che era passato per la sua mente:

Mi hanno tirato su.

L'avevano tirato su? Ma chi? Come aveva fatto?
Mosse le gambe in cerca di un appoggio solido su cui issarsi e spalancò gli occhi quando si rese conto che sotto di lui c'era il nulla.
In un istante un ricordo lontano gli sfiorò la mente, sua madre, più giovane e serena di quando l'aveva lasciata, che lo sollevava da un lettino e gli sorrideva, tirandolo su, all'altezza del suo viso, facendo sfiorare i loro nasi assieme. Qualcosa di così raro, di così sfocato… qualcosa che la donna forse non aveva mai più fatto, obbligata dal suo stesso padre a comportarsi “come si deve”.
Jonas chiuse un attimo gli occhi, solo per potersi concentrare su ciò che veramente contava, ovvero che qualcuno l'aveva salvato dalla carica di un'anima decisamente bellicosa e pronta ad ucciderlo di nuovo. Sempre che fosse possibile.
Chi mai poteva esser così altro e così forte da sollevarlo ad una tale altezza con così tanta facilità?

Il guerriero nero!

Quindi l'avevano ritrovato! O forse si erano semplicemente imbattuti in lui ed avevano deciso di andarlo ad aiutare. Non sapeva quali fossero le loro motivazioni, ormai si era fatta strada in lui l'idea che il ragazzo biondo, Cicno, avesse un qualche tornaconto nel prestargli soccorso, ma sinceramente non gli interessava, non finché questo significava rimanere in gara.
Abbassò lo sguardo verso terra, cercando conferma della sua idea, aspettandosi di vedere le gambe muscolose e massicce del guerriero, ma le sue aspettative furono decisamente deluse, perché sotto di lui c'era esattamente-

Nulla? Ma che cazzo… ?

L'improvvisa consapevolezza di star fluttuando a quasi cinque metri da terra lo fece agitare. Jonas provò a muoversi senza successo, ottenendo solo di ondeggiar ancora di più e di ricevere in risposta quelle che, malgrado ignorasse dialetto e provenienza, avevano tutta l'aria di essere imprecazioni di un certo spessore.

<< WOW! Seas go fóill! >>
La voce che gli giunse alle orecchi era chiara e decisa, giovane, maschile e soprattutto veniva dá sopra di lui.
Jonas alzò lá testa, tirando inavvertitamente una capocciata dritta sul naso del suo salvatore che sí esibì in un'altra serie di improperi degni di un carcerato.
<< Cazzo!>> ringhiò trá tutte le bestemmie.
Quello indietreggiò urtando uno dei muri, abbasandosi e poi riprendendo quota. In un su e giù continuo, come il salto di un cavallo imbizzarrito, Jonas sí trovò suo maldrado costretto ad afferrare le braccia dell'uomo per aver un minimo di stabilità in più.
Sotto di loro il colosso stava combattendo contro altre anime appena arrivate e di cui il biondo ignorava l'identità, má in quel momento non era importante, tutto ciò che contava era il suo precipitare verso terra.
Scivolarono in un vicolo secondario, Jonas rotolò via, il piede poggiato al suolo malamente, portandosi dietro anche l'altro che però, a differenza sua, con un salto ben calibrato sí rimise subito in piedi.
<< Diamine ragazzo, te la sei vista brutta! Che gli avevi fatto a quella bestia? Ti senti bene?>>
Jonas scrollò la testa per riprendersi da quel ruzzolone, aveva una vaga sensazione di vertigine che a conti fatti non avrebbe dovuto avere, ma erano così tante le sensazioni che stava provando durante quella gara, da quando era uscito dai Campi di Pena, che tecnicamente non avrebbe dovuto provare, che quel dannato giramento era forse l'ultimo dei suoi problemi.
Si girò, rimanendo seduto a terra ed alzando lo sguardo verso l'alto, verso il suo “salvatore”.
Forse fu la posizione in cui sí trovavano, o il fatto che il ragazzo fluttuasse da terra di un paio di centimetri, ma a Jonas parve estremamente alto.
La mascella ben definita e squadrata lo fecero classificare automaticamente come un giovane uomo, di certo più grande di lui, forse di venticinque anni addirittura, Jonas non poteva dirlo con certezza. Il naso dritto, lá fronte rilassata coperta da qualche ciuffo di capelli rossi e lisci. Era un bel ragazzo, su questo non c'era nulla da dire, ma aveva anche un ché di beffardo, di furbesco. Gli occhi verdi, di un verde vivo ed acceccante, come forse un morto non avrebbe dovuto averne, lo scrutavano con attenzione, lo valutavano così come Jonas stava valutando lui.

<< Stai bene?>> ripeté quello tornando con i piedi a terra ed avvicinandosi di qualche passo.
Era cauto, come se si stesse rapportando con un animale di cui doveva guadagnarsi la fiducia ed un po', Jonas si sentiva così, come un animale selvatico appena salvato dalla carità di un umano ma che ancora non sa se potersi fidare ó meno.
Annuì comunque per buona educazione, il sottile istinto ormai radicato in lui che gli diceva di portar rispetto a chi gli era più grande, qualcosa che sí ripromise di abbandonarsi alle spalle in questo nuovo mondo, in quella nuova ma vecchia vita che si sarebbe guadagnato.
<< Sì, sì, tutto bene, ti ringrazio.>> disse a bassa voce, ancora un po' rintontito da tutto ciò che era successo.
Il ragazzo gli sorrise con una schiera di denti dritti ma leggermente ingialliti, qualcosa che Jonas aveva già visto e che, con una certa curiosità, gli fece sorgere spontaneo il dubbio di potersi fidare o meno di un giovane che doveva esser stato un accanito bevitore, in vita.
Chissà se si poteva bere alcolici anche da morti, chissà se ai Campi Elisi c'erano spacci come nella sua vecchia e cara Berlino.
L'altro continuava a fissarlo, in attesa di una sua mossa forse, o di altre parole. Aveva un'aria un po' crucciata e aprì anche la bocca per dir qualcosa prima che un tonfo e delle grida lo facessero girare verso la direzione da cui erano venuti.
Jonas si alzò in fretta, avvicinandosi al rosso senza rendersene conto, mentre quello allungava la mano verso di lui, schermandolo in parte con il braccio ed in parte facendogli cenno di non muoversi.
Un lungo attimo di silenzio seguì quel suono, nessuna delle altre anime fece un solo fiato, mentre un altro rumore cresceva lento e costante.
Era uno stormir di foglie, un fruscio fine e massiccio, consistente, come se del vento stesse soffiando in un bosco, muovendo tutte le fronde in una sinfonia di crescendo sempre più intensi.
Malgrado di foreste in vista sua ne avesse viste poche, Jonas non ci mise molto ad accorgersi che era proprio quello il rumore che andava diffondendosi tra i vicoli bui del labirinto, ma cosa poteva provocarlo?

<< Cos'è?>> non riuscì ad impedirsi di chiedere all'altro.
Il giovane drizzò meglio le spalle, la logora giacca scura parve tendersi, cercare di opporsi a quella dilatazione improvvisa dovuta forse al gonfiare dei polmoni dell'anima, un'azione inutile che però Jonas non poté certo criticare visto che, anche lui, tendeva ancora a prendere respiri profondi malgrado gli anni di prigionia e tortura.
<< Nulla di buono.>>
Il sussurro dell'altro strappò la sua attenzione dalla schiena ampia alla testa scompigliata di quello.
<< È vento?>>
<< No. No, non è vento. Il vento non fa così.>> disse sicuro.
<< Perché ne sei così certo?>> domandò guardingo. Quella situazione non gli piaceva, non era un grande esperto di lettura del comportamento umano ma era palese che il giovane si fosse irrigidito, che fosse in ansia.
Jonas sentiva la tensione pizzicargli sulla pelle, l'avvertiva nei peli rizzati delle sue braccia, sulla nuca improvvisamente coperta di brividi, su quel frescore fastidioso che gli giungeva alle caviglie. Le spine d'argento del suo collare gli parvero improvvisamente più aguzze, spinte verso la sua carne fredda e morta da una pressione maggiore di quella terrena, come se gli avessero puntato addosso un getto d'acqua invisibile ed impalpabile.
I capelli del ragazzo iniziarono a muoversi inquieti quanto lui, quanto pareva esserlo anche l'altro, animato dalla stessa identica impellenza che Jonas sentiva contrargli i muscoli, pronti a scattare al minimo segnale. Un segnale che, si accorse con sgomento, aspettava proprio dal giovane dai capelli rossi e che questo non tardò a dargli.

<< Riesci a correre?>> soffiò in un fil di voce che gli giunse alle orecchie come un segreto.
Jonas annuì.
<< Allora quando te lo dico io, corri indietro, non ti fermare e segui le mie indicazioni, arriveremo in un punto salvo in poco tempo. Rimani concentrato però, l'ultima cosa che ci serve è sbagliare direzione.>>
Leggermente piccato da quell'affermazione, come se fosse un moccioso che poteva confondere la destra dalla sinistra, Jonas arricciò il naso. << Non sono sordo e nemmeno stupido.>> sputò innervosito da tutta quella situazione.
Il ragazzo si voltò leggermente verso di lui, il naso dritto a dividere il volto pallido nella morte come forse lo era anche nella vita. I capelli rossi parvero improvvisamente più scuri, più pesanti malgrado il vento fantasma continuasse a muoverli. Il sorriso si aprì come uno squarcio tra le labbra morbide.
<< Certo che non lo sei, germanico, ma vorrei evitare che il mio amabile accento Irlandese fosse incompreso proprio in un momento del genere. Non ti sei accorto che non ti sto parlando nella tua lingua, figlio degli Déi?>>
Jonas sgranò gli occhi, fissando a bocca aperta il suo interlocutore senza parole.
<< Tu- cosa? Come- ?>>
<< Come so che sei un semidio? Diciamo che tra simili ci si riconosce?>> disse ammiccando.
<< Sei un semidio anche tu?>>
<< No, mi capita di fluttuare in giro per i labirinti quando sono sovrappensiero.>> sogghignò ironico. Non gli diede neanche il tempo di replicare che immediatamente tornò serio, << Sei pronto a correre?>>
Il biondo tornò rigido e sull'attenti, guardandosi attorno con apprensione ed annuendo debolmente.
<< Credo di sì.>>
<< Perfetto, alle brutte ti do una spintarella, non ti dispiace no?>> l'Irlandese fece un passo indietro, rivolgendo di nuovo il viso avanti a sé e poggiando con delicatezza la mano sul polso di Jonas.
Un brivido lo scosse, quel tipo lo toccava come se fosse una cosa normale, come se si conoscessero da una vita, e Jonas si ritrovò a chiedersi se facesse così con tutti o se si stesse prendendo quelle libertà perché era anche lui un semidio. Ciò che era certo era che la sensazione che il suo tocco gli trasmetteva aveva un ché di elettrico, di fluido e di freddo, uno spiraglio di vento che tira per una stanza chiusa e ti colpisce in pieno mentre il resto del mondo è fermo.
La corrente che tirava per il corridoio divenne improvvisamente nulla a confronto con quella scossa e Jonas si sentì come un uccello che dopo anni rimasto chiuso in una gabbia può finalmente rispiccare il volo e tornare a solcare i cieli con i suoi compagni, con uno storno che non l'ha mai abbandonato, mai, fino alla fine, fino a quanto il sole non è tramontato anche su di loro.
L'aria umida e satura d'edera s'impregnò di polvere da sparo, di fumo, di fogna, di pelle conciata e di pane appena sfornato, il mix di una strada di città sporca ma piena di vita. E pieno di vita si sentì anche lui, colmo di una sicurezza e di una famigliarità che gli era sempre mancata, che solo una persona era riuscita a dargli, un senso d'appartenenza che non aveva mia provato prima. Forte sopra tutto e contro tutti, che non doveva soddisfare aspettative, non doveva adeguarsi ad un'idea di perfezione impossibile da raggiungere, pregno di una forza che non conosceva, pregno di libertà.

 

E rimorsi, rimpianti, la consapevolezza di aver abbandonato chi si amava in uno dei momenti più delicati della loro vita, in un momento in cui sarebbe dovuto esser lì e da nessun'altra parte.

 

<< Anois!>>
Che lingua fosse quella, Jonas lo sapeva solo ed unicamente perché il giovane glielo aveva detto, ma non gli servì alcuna traduzione per capire che doveva muoversi e che doveva farlo anche in fretta.
Si slanciò in avanti eseguendo gli ordini proprio come gli avevano sempre insegnato a fare, con efficienza, senza chiedere perché senza porre ad alta voce tutti quei quesiti che si agitavano nella sua mente.
Il suono distorto di un ramo che si spezzava gli fece alzare gli occhi sulla parete alla sua sinistra, dove l'edera aveva iniziato a muoversi come una massa informe, come i tentacoli di un polipo che si aggrovigliano gli uni sugli altri.
Grida strazianti si alzarono dalle mura, così simili a quelle che aveva sentito nei Campi di Pena che per un attimo Jonas neanche vi fece caso.
Il terreno parve tremare sotto i movimenti improvvisi delle pareti di quel dannato labirinto, pezzi d'osso rotolavano per terra e Jonas rischiò quasi di metterci un piede sopra e cadere rovinosamente se solo un'improvvisa ventata non lo avesse rimesso in piedi. Si sarebbe voluto girare per sincerarsi che fosse stato il ragazzo con i capelli rossi a salvarlo – di nuovo – ma ne era convinto e per di più non poteva permettersi distrazioni.
Da quel poco che era riuscito a capire dai discorsi degli altri, da quelli di Cicno soprattutto, i semidei avevano dei poteri particolari ereditati dai loro genitori divini, che potevano usare a loro piacimento quando più credevano opportuno. Il risvolto della medaglia era la stanchezza fisica che ne derivava se si abusava di questo potere, e per quanto Jonas fosse abbastanza sicuro che da morti fosse difficile stancarsi, anche se a lui era capitato visto che era svenuto, non avrebbe voluto scoprire quanto ci metteva il rosso per finire i suoi poteri, per lo meno non in quella situazione.

<< A destra!>>
Il grido del ragazzo non servì a molto, Jonas abbassò la testa prima che i rami delle due pareti si chiudessero schiacciandolo in mezzo e fu con estremo sollievo che sentì il rumore del suo compagno di corsa che scivolava agilmente sotto l'arco erboso.
Non fece in tempo a girarsi per vedere come stesse l'altro che quello lo riafferrò per un braccio e lo spinse ancora una volta a destra.
<< Di qua, di qua!>> disse con una strana eccitazione nella voce, come se si stessero avvicinando alla maledetta uscita di quel labirinto. I suoi occhi brillavano così tanto che Jonas non poté far a meno di chiederglielo, ricevendo però in cambio uno scuotere di testa.
<< No, non c'è l'uscita, per quella ci vuole ancora molto.>> si piegò sulle ginocchia e fece un salto avanti, afferrandolo da sotto le braccia e tirandolo su per fargli superare con più facilità i muri che si stavano chiudendo, questa volta da basso.
Jonas gli lanciò solo un'occhiata fugace ma fu abbastanza interrogativa per far ridere l'altro di gusto.
Era assurdo: due minuti prima era serio e gli diceva di rimanere concentrato, poi ghignava divertito, poi era di nuovo serio e pronto all'attacco, concentrato come non mai, e poi di nuovo a ridere.

Dio, sono finito con un matto?
Aspetta, ma perché lo sto seguendo?

Se solo avesse potuto si sarebbe fermato nel mezzo del corridoio per prendersi a schiaffi da solo. Un tipo che volava lo salvava da un frontale con un gigante e lui lo seguiva senza problemi per i meandri di un labirinto ideato da una mente sicuramente malvagia e superiore a loro.
<< Non ci pensare ragazzino!>> gli gridò affiancandolo, quel sorriso beffardo ancora ben ampio sul viso. << Pensa solo a correre, non è bellissimo?>>
<< Correre come disperati perché un cazzo di muro d'erba ci si sta chiudendo addosso? Oh, ma sì, certo, è una delle mie attività preferite, ho sempre sognato di morire schiacciato da una massa di foglie!>>
Il rosso rise di nuovo, più forte di prima, i suoi piedi sfiorarono a mala pena il terreno mentre lui gettava la testa indietro e chiudeva gli occhi, neanche fosse in grado di vedere dove andasse.
<< Sarcastico e schietto, mi piaci!>> riaprì gli occhi, un verde accecante, troppo forte, troppo vivo, troppo splendente. Verde come i prati sconfinati dei dipinti, proprio come quelle colline Irlandesi che venivano descritte nei libri di storia, un verde più chiaro e fresco di quelli che poteva scorgere sulle vallate fuori dalla città, dalla zona industriale. Per un attimo a Jonas parve quasi di poter vedere l'Irlanda intera in quegli occhi vivi e felici, eccitati solo per il semplice fatto che il loro proprietario potesse correre. Come se per troppo tempo gli fosse stato proibito farlo.
Jonas perse un attimo per guardare di nuovo i suoi vestiti, per cercare di capire cosa vi fosse disegnato sul risvolto del bavero della giacca consunta, scorgendo macchie di colore crepato e le forme stilizzate di alcuni uccelli in volo, per capire se anche lui era un dannato che per tutta la sua morte era stato condannato all'immobilità, se magari fosse giunto in suo soccorso perché l'aveva riconosciuto anche come compagno di pena.
Alzando lo sguardo sul volto del giovane lo trovò intento a fissarlo di rimando, ignorando completamente il percorso davanti a loro ma evitando ugualmente tutti quegli ingombri che capitavano.
Allungò la mano destra verso la sua e Jonas non poté far a meno di stringergliela, con una naturalezza ed una semplicità che un poco lo lasciarono sconcertato: perché era così facile assecondare le parole e le azioni di quel ragazzo?
<< Hai anche un nome assieme a questo bel caratterino?>> gli chiese tirando giù la mano e facendogli schivare un paio di rami.
Annuì. << Jonas, Jonas Friedrich.>> disse con il suo marcato tedesco. << E tu? Ai pazzi si da ancora un nome?>>
L'irlandese rise ancora. << Stai davvero dando del pazzo a me? Che ti ho salvato la vita e ti sto portando al sicuro, quando sei tu quello che sta seguendo uno sconosciuto? Ne hai di cose da imparare ancora.>> sorrise in modo accondiscendente ma non come facevano tutti gli adulti che incontrava, come se si stessero relazionando con un bambino che non poteva ancora capire: sembrava che si stesse rivolgendo ad un fratello minore che aveva fatto una cavolata, magari anche a fin di bene, e che sapeva per certo si sarebbe reso conto di quanto fosse stato stupido, non sbagliando una seconda volta.
Da quando aveva iniziato quella gara Jonas si sentì per la prima volta libero di parlare, come se invece di aver un ragazzo di vent'anni e passa davanti avesse un ragazzino della sua età, quasi un amico. Non sapeva da dove provenisse l'altro, forse dal futuro, o forse no vista la foggia dei suoi vestiti, ma di certo, dovunque fosse quel luogo, non si faceva distinzione d'età, non come da lui per lo meno.
Si ritrovò a sorridere anche lui ironico. << Cosa vuoi che ti dica? Sono di buona fede e già morto, seguirti pare meglio di niente.>>
Altre risa gli sfiorarono le orecchie, Jonas non si era neanche reso conto che le urla si erano interrotte, tanto era abituato a sentirle, che ora c'era solo il rumore delle foglie d'edera che strusciavano le une contro le altre come serpi nel loro covo.
<< Non mi pari né uno che si fida di tutti, né uno morto, ma neanche io mi sento morto, quindi va bene così. Ad ogni modo, piacere di conoscerti Jonas, io sono Cade Griffith, ma mi chiamavano anche Grifone.>> concluse quello orgoglioso.
Il biondo alzò un sopracciglio, pronto ad una battuta pungente sui suoi dubbi che qualcuno lo avesse davvero mai chiamato così e soprattutto su quale sarebbe dovuto essere il motivo del soprannome, quando Cade gli strinse con più forza la mano destra e gli passò il braccio sinistro attorno alla vita, avvicinandoselo e stringendolo a sé.
<< Pronto a volare di nuovo? Facciamo un salto a prendere una cosa e poi filiamo all'uscita, ho un paio di amici da aspettare per sbattergli in faccia che ce l'ho fatta prima di loro.>>
Non gli lasciò di nuovo il tempo di dir nulla, si diede una forte spinta con le gambe e in un attimo si ritrovarono proiettati nel mezzo di un muro che si stava chiudendo.
Il salto fu di una potenza sorprendente, di un'agilità incredibile, e mentre il vento spingeva indietro i loro capelli, modellandosi attorno alle loro figure come se si stesse aprendo per loro, come quando ci si tuffa in acqua scavandosi un posto a forza in quel liquido denso e leggero al contempo, Jonas ebbe quasi la vaga sensazione che al suo nuovo conoscente fossero spuntate un paio d'ali , che il suo volto proteso in avanti fosse concentrato e sicuro come quello di un'aquila in picchiata, che le sue gambe avessero avuto lo stesso slancio di quelle di un leone.
Non sapeva quale fosse il motivo del soprannome di Cade, se fosse vero o inventato, non sapeva se quelle azioni, quelle “magie”, lo sorprendessero tanto perché non ne aveva mai viste prima d'allora o perché vi sentiva una profonda, incredibile ed intrinseca affinità; quello di cui era certo Jonas era che, in quel momento, la parola Grifone calzasse a pennello al giovane affianco a lui.

 

Quindi è questa la potenza di un figlio degli Dei?
Quindi è questo un semidio?

 

Una voce, dal fondo della sua mente, rise bonaria.

Oh, ragazzo mio, non ne hai idea. Non ne hai idea.

 

 

 

*

 

 

 

 

Il corridoio era vuoto, l'erba schiacciata dal peso di piedi morti che vi erano passati poco prima.
Aveva smesso di gemere, il labirinto, e di muoversi e contorcersi e di reclamare vite passate che si erano aggirate per le sue strade.
Silenzioso era tornato al suo posto, una nuova mostruosa formazione di dedali che aveva gettato nello sconforto anche chi, poco prima, aveva creduto di poter comprendere come uscire di lì.
In quella stasi solo un rumore di passi affrettati rompeva la quiete.
Un ragazzo di circa diciotto anni correva a perdifiato, gettando di tanto in tanto occhiate spaventate alle sue spalle. Il volto giovane era tirato, segnato da qualcosa che aveva visto forse in vita o forse nella morte e che non l'avrebbe mai più abbandonato. Sporco di terra, macchiato del verde della linfa delle foglie, così come lo erano i suoi indumenti, come le snekers usurate, i jeans strappati sul ginocchio e la maglia arancione, arrancava ora zoppicando, ora correndo con più decisione.
Dietro di lui passi secchi e lenti lo seguivano.
Il giovane batté le palpebre per scacciare quelle lacrime che gli offuscavano la vista, non avrebbe mai creduto prima che anche da morti si potesse piangere, ma evidentemente gli Inferi non erano così lontani dalla realtà.
Aveva paura, ne aveva sempre avuta quando andava in missione, ma ci si abituava, si cominciava a capire che quel brivido freddo che ti percorre la schiena è la cosa migliore che ti possa capitare, perché ti rende vigile, perché ti rende attento, perché tira i muscoli pronti a scattare al minimo rumore e mette in allarme quell'iperattività latente che ogni semidio cova in sé. Quando aveva deciso di partecipare, di tornare indietro nella vana speranza di riabbracciare i suoi genitori, pregando che non fosse passato troppo tempo, aveva pensato che sarebbe stato come una missione, come quando il Campo era stato attaccato, come quando aveva visto i suoi fratelli cadere uno dopo l'altro e si era reso conto che aveva mentito a sua madre, che non sarebbe tornato per il prossimo Ringraziamento. Sarebbe stato come allora, solo che questa volta era già morto, non rischiava di ripetere tutta la trafila, la sua sconfitta non avrebbe decretato la morte di altre persone. Doveva solo lottare per tornare su, per vedere di nuovo la sua famiglia, per vedere di nuovo il sole, sentire il calore sulla sua pelle, festeggiare un altro Ringraziamento e litigare con suo cugino su chi doveva prendersi il pezzo di torta più grande. Solo tornare ad una vita che gli era stata strappata troppo presto per colpa di una guerra che non era neanche sua, che lui non avrebbe mai dovuto conoscere, non a diciotto anni.
Ma non stava andando come credeva, ovviamente non stava andando tutto bene, quando mai la vita – o la morte – di un semidio andavano per il verso giusto? E ora rischiava di rovinare tutto, di esplodere in mille scintille, disintegrato dai colpi di un'arma che non avrebbe dovuto ferirlo, non da morto.
Doveva uscire al più presto da lì, se quel pazzo l'avesse raggiunto… lui voleva solo tornare sulla terra, voleva solo tornare da sua madre, dai suoi abbracci soffocanti e dalle pacche divertite di suo padre che lo rimpinzava di caramelle proprio come faceva la nonna.
Un singulto gli sfuggì dalle labbra: non doveva far rumore, ne faceva già fin troppo correndo, se anche altri l'avessero sentito… e non aveva neanche nulla con cui difendersi, cosa avrebbe fatto?
Abbassò la testa per trattenere un altro singhiozzo, doveva resistere a tutti i costi, doveva uscire di lì, doveva farcela, doveva uscire, doveva uscire.
Con un colpo secco però la sua corsa s'arrestò, facendolo cadere a terra.
Il ragazzo rimase immobile, congelato dal terrore. Non aveva sentito nulla, non lo aveva sentito arrivare, neanche un suono, neanche un passo.

<< Stai bene, ragazzo?>>

La voce calma che gli rispose aveva un sottotono roco, caldo, quasi vivo.
Alzò lo sguardo con titubanza, trovandosi davanti la figura alta e scura di un uomo vestito di nero, con una lunga palandrana da becchino. Il bavero alto era chiuso fino al mento, proprio sopra il bordo, neanche fosse poggiato a quello stesso, un sigaro bruciava appena, pigro.
Ma non era il completo dell'uomo a lasciarlo senza parole, non era il volto dai lineamenti decisi, il portamento rilassato, non erano i capelli gonfi e curati, l'altezza invidiabile e neanche il sigaro fumante. Il giovane semidio rimase a fissare l'uomo dritto negli occhi, come una povera vittima di Medusa, impossibilitata a distogliere lo sguardo. Forse, tutti i malcapitati che nel corso dei tempi avevano incontrato lo sguardo maledetto avevano provato la stessa identica sensazione che stava provando ora lui.


Annichilimento.


Non riuscì a parlare, a dire una sola sillaba, non seppe neanche per quanto rimase a fissarlo inebetito ma quando si riscosse era probabilmente già troppo tardi.
Il ritmico rumore di passi che l'aveva inseguito fino a quel momento era giunto sino a lui.
Un terzo uomo comparve nel corridoio d'edera, vestito con abiti quasi moderni, forse degli anni '20, forse dei '30, di sicuro era qualcuno che malgrado non avesse visto l'avvento di fucili come quelli che stringeva in mano, sapeva ugualmente come usarli.
Si fermò davanti ai due, gli occhi opachi di morte scintillarono di una follia che probabilmente gli era appartenuta anche in vita, rimasta marchiata nei proiettili che ancora laceravano la sua carne, che avevano sporcato la sua camicia di rosso ora tetro e terroso.
Non disse nulla, non ce ne sarebbe stato bisogno, erano due persone disarmate contro un pazzo con un fucile semiautomatico in braccio.
Il suono del grilletto fu l'unica cosa che risuonò prima della carrellata di colpi.
Il semidio chiuse gli occhi ormai conscio del suo destino: no, non ci sarebbe stato al prossimo Ringraziamento.



 

*



 

Erano letteralmente secoli che non si trovava più in una situazione del genere, schiena a schiena con un compagno, intenta a sopportare un attacco più violento degli altri.
Eliza si guardò attorno con attenzione, tenendo d'occhio quei muri che parevano quasi rallentare il loro continuo muoversi senza però volersi fermare.
Dietro di sé sentiva Nathan tendersi ad ogni schiocco di ramo, lo poteva quasi vedere sporgersi in avanti e poi tornare in posizione, infermo sui suoi stessi piedi per colpa di un fermento interno che non gli dava pace.
Non aveva la più pallida idea di come fosse la guerra ai tempi moderni, sempre che quelli di Nathan potessero definirsi davvero moderni o fossero già passati in secondo piano soppiantati da nuove invenzioni e nuove scoperte, ma ciò che aveva capito alla perfezione era l'incapacità del suo compagno di star fermo. Nathan aveva bisogno di muoversi, aveva bisogno di buttarsi nella mischia e le ricordò molti dei suoi ex commilitoni, uomini che in un primo momento le erano sembrati solo estremamente battaglieri ma che forse, invece, erano figli di Ares proprio come il ragazzo alle sue spalle.
Usciti di lì avrebbe chiesto al giovane come potesse riconoscere uno dei suoi fratelli, magari gli avrebbe descritto un paio d'azioni eroiche, alcuni loro comportamenti e Nathan avrebbe potuto dirle se erano semplici ma valorosi uomini o dei semidei, ma per il momento quei pensieri non dovevano disturbarla.
Eliza aveva passato settimane e settimane in marcia, aveva dormito in una tenda che era poco più di un panno appeso ad un'asta, aveva condiviso il freddo delle notti e la stanchezza delle giornate con persone che credevano in qualcosa di più grande di loro. Eliza aveva atteso, aveva atteso per tutta la vita, prima di poter esser abbastanza grande da esser rispettata, poi di poter imbracciare un'arma, aveva atteso suo padre di ritorno da qualche battaglia, aveva atteso che gli desse la sua benedizione e poi aveva atteso il ritorno del suo corpo. Aveva atteso il momento in cui nessuno si sarebbe più curato di lei, in cui si sarebbe potuta tagliare i capelli, metter abiti maschili ed imbracciare finalmente un fucile per difendere la sua patria e la libertà che vi regnava sovrana: che fossero Dei o demoni non le interessava, dell'edera maledetta non l'avrebbe tratta in inganno, non sarebbe stata colei che l'avrebbe fatta vacillare.

Sono morta, ho atteso in vita, posso attendere anche il doppio.

E ne era convinta, era convinta fino in fondo che sarebbe potuta rimanere lì, in posizione difensiva, finché l'edera non avesse smesso di muoversi e di contorcersi come vermi in un barattolo, ma così come aveva imparato a star immobile nell'attesa aveva imparato anche ad acuire la vista e scorgere cose che gli altri non riuscivano a vedere.
A posteriori aveva capito che anche quel tratto così sviluppato l'aveva ereditato dalla sua divina madre, il fatto che vedesse più lontano dei suoi ufficiali a cavallo l'aveva sempre resa orgogliosa. In quel momento però si domandò se forse non sarebbe stato meglio per lei veder come tutti gli altri comuni mortali.
Alla sua destra qualcosa si spostò, un movimento diverso da quello dei rami d'edera, che non aveva nulla di sinuoso o di ipnotico, niente del covo di serpi che le erano sembrai quei muri. Pareva quasi che vi fosse qualcosa al loro interno e non le banali ossa secche di qualche povera vittima rimasta lì intrappolata, ma qualcosa di più consistente, di più grande, come… un corpo?
Eliza sgranò gli occhi, la testa scattò di colpo nella direzione del movimento anomalo e non ebbe neanche il tempo di pensare che già il suo corpo si era slanciato verso le mura.
Sentì indistintamente Nathan urlarle ingiurie e domande scioccate ma non si fermò a fronteggiarlo, a spiegarli cosa avesse visto, sapeva per certo che in momenti del genere fermarsi equivaleva a perdere ogni possibilità di vittoria.
Si accucciò a terra, rimanendo in equilibrio sulle caviglie, pronta far leva, a far da contrappeso con il suo stesso corpo pur di tirarne fuori un altro lì intrappolato. Le sue mani si strinsero su qualcosa di freddo ma morbido, così simile alla carne da macello che per un attimo le vennero i brividi: aveva preso in mano tanti arti strappati da bombe e cannonate, riconosceva perfettamente la sensazione di un braccio morto. Ma questo non era come gli altri, era attaccato ad una spalla, ad un busto ed Eliza ci pensò, pensò seriamente che non aveva la più pallida idea di chi stesse tirando fuori, di chi era quella persona, che sarebbe potuto esser un dannato, un mostro, un assassino, uno dei suoi nemici, magari il bastardo che aveva ucciso lei o quello che aveva ucciso Nathan, ma c'era qualcosa che le diceva di impegnarsi con tutta sé stessa e di salvare quell'anima: perché lei aveva sempre combattuto per la parte giusta, aveva salvato vite e non avrebbe smesso di farlo neanche nella morte.
Con uno sforzo non indifferente strinse la presa su quel braccio ed infilò più in profondità il suo tra l'edera per poter prendere anche l'altro e tirar fuori quella persona il più velocemente possibile.
Ignoto o meno non sarebbe rimasta con le mani in mano a vedere un'altra anima mangiata da quel labirinto dannato.
Uno strano formicolio le si diffuse per tutto il corpo, una sensazione che aveva provato anche altre volte nella vita, come quando aveva preso in mano la sua prima spada, quando aveva imparato a sparare, quando sua madre le aveva donato quel ciondolo tanto importante e ora perso. Era la forza degli Déi che le scorreva nelle vene, era la potenza della Vittoria che le gonfiava i muscoli e la rendeva più resistente, più veloce, più divina che umana, la stessa potenza che le aveva permesso di alzare di peso Nathan e scaraventarlo via, la stessa che l'aveva tenuta in vita così tanto, che le aveva permesso di continuare a combattere malgrado le ferite finché non aveva sentito il crono suonare ed annunciare la resa del nemico. Una battaglia vinta, l'ultima a cui lei avrebbe partecipato senza mai poter veder vinta anche la guerra.
Da dietro di lei venne un singulto sorpreso, Nathan si era avvicinato intenzionato a strapparla di lì prima che l'edera divorasse anche lei ma si era fermato a qualche passo di distanza, ancora una volta ammaliato da qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere.
Una nebbiolina dorata avvolse Elizabeth, sprigionata direttamente dalla sua stessa pelle, ora più luminosa e viva di quanto non apparisse da secoli. L'edera parve quasi ritrarsi a quella presenza, mentre la giovane donna stringeva finalmente la presa sul corpo catturato e lo tirava fuori di forza, facendo leva sulle gambe e trascinando fuori dalle mura una figura esanime, svenuta ed un poco sfocata.
Si chinò per prenderla in braccio e allontanarla il prima possibile da lì e rivolse uno sguardo d'intesa a Nathan che si era immediatamente ripreso ed era corso ad aiutarla.

<< Portiamola via da questo cazzo di muro.>> disse con quel suo solito tono nervoso. << Anche se credo che la tua aura funzioni da deterrente per quella merda di edera. Che c'è stronza? Non ti piace la luce? Cresciuta per troppo tempo al buio?>> continuò decisamente più divertito.
Suo malgrado Eliza sorrise a quelle stupide battute, alzando gli occhi al cielo e sistemandosi meglio la ragazza in braccio.
<< Smettila di provocare l'edera.>> lo sgridò comunque.
Nathan alzò un sopracciglio e sogghignò. << Che sei, mia madre? Mi sculacci se continuo a “provocare l'edera”?>> la sfidò beffardo. Malgrado le sue parole però il suo comportamento diceva tutt'altro: la postura era rigida, all'erta, un braccio allungato dietro la sua schiena, senza toccarla, ma comunque pronto a spingerla via se ce ne fosse stato bisogno.
Eliza increspò le labbra in un minuscolo sorriso: quel ragazzo era una rottura di scatole, volgare e pieno di sé, si comportava come se nulla potesse interessarlo ma poi il suo corpo lo tradiva con azioni palesemente protettive.
<< Non so come ti hanno cresciuto, damerino, ma ai miei tempi più che sculacciate ti picchiavano con il bastone o con la cintura, e non si faceva certo attenzione ad evitare la cinghia.>>
Depositarono delicatamente la giovane a terra, facendo attenzione a non farle sbattere la testa, come se potesse ancora darle fastidio.
Era una ragazzetta di forse una ventina d'anni, con la pelle sbiadita come molte altre anime, i capelli castani corti alle spalle e sporchi proprio come i suoi vestiti, strappati e sfilacciati. Portava una paio di logore scarpe di cuoio, le caviglie fine erano macchiate e livide, i segni dell'edera parevano bruciature violacee.
Con uno sguardo i due soldati videro riflesso nel volto dell'altro la stessa domanda: era forse una dannata, viste le condizioni pessime in cui versava il suo abbigliamento e lei stessa? O forse era stato il muro a ridurla in quel modo?
Eliza alzò lo sguardo sulle pareti erbose che li circondavano, cercando una risposta che quelle mai avrebbero potuto darle. Le foglie avevano smesso di muoversi, il suono lamentoso andato a scemare lentamente. Così come tutto quel caos era arrivato se ne era andato ed ora non rimaneva null'altro che una nuova, mostruosa ed intricata rete di canali che aveva divorato anime di ogni tipo e lasciato nello sconforto tutte le altre.
 

<< Secondo te chi è?>>

La voce di Nathan la fece sospirare e tornare a prestare attenzione alla giovane.
Aveva un viso giovane ma proprio come il suo era segnato da qualcosa che l'aveva ferita profondamente.
Scosse la testa. << Non so proprio cosa risponderti, lo sapremo solo quando si sveglierà.>>
Nathan annuì. << Non possiamo aspettare qui però, dobbiamo muoverci.>> si chinò vicino alla giovane e la tirò su per le braccia. << Aiutami a mettermela sulla schiena, la porto io.>>
Eliza sorrise, sorreggendo l'altra. << Mi pare il minimo visto che sono stata io a tirarla fuori.>>
<< Ehi!>> saltò subito su Nathan. << Eri dritta davanti a lei, io non l'avrei mai vista, le davo le spalle.>>
<< Continua a cercare giustificazioni.>> sogghignò divertita dall'aver trovato qualcosa con cui punzecchiarlo.
Quel piccolo scambio di battute stava alleggerendo un aria pesante di troppe cose, e non era solo lo zolfo e la mancanza di una finestra aperta a lasciarli senza fiato, in senso metaforico e non. In poco tempo, quanto non avrebbero saputo quantificarlo, si erano ritrovati chiusi in un labirinto, avevano capito che gli Déi volevano dividerli, si erano divisi a loro volta, si erano persi, la dannata edera si era svegliata neanche fosse uscita dal letargo e avevano trovato una ragazza tra i rami. Quello, almeno per Eliza, era abbastanza per metterla in tensione. Per Nathan, almeno da quello che la mora poteva vedere, era abbastanza per fargli saltare i nervi. Quindi se prendersi per il culo a vicenda sarebbe servito a farli rilassare un minimo, per quella volta Eliza avrebbe tollerato anche le battute più inopportune.
Ora dovevano solo trovare la via per uscire di lì.

 

Piccoli sobbalzi ed un lieve movimento. Un appoggio solido e ampio, qualcosa di ruvido ma resistente sotto la guancia. Le sue mani oscillavano nel vuoto, le braccia poggiate su un appiglio morbido ma sodo. Sentiva qualcosa solleticarle la fronte, i suoi capelli probabilmente, ma le parevano più duri, più corti.
Con fatica Jane aprì gli occhi, la pesantezza che sentiva alla testa le ricordò terribilmente i suoi risvegli in solitaria, dopo quegli incubi terribili o quei malori ingestibili. Lasciò solo per poco che l'ironia di quel pensiero – ricordo – le solleticasse la mente, prima di tornare ad impiegare tutte le sue energie nel capire cosa stesse succedendo.
C'era un brusio di sottofondo, il chiacchiericcio basso di due voci che si ponevano domande e davano risposte a vicenda, la conversazione di qualcuno che si trovava a proprio agio con l'altro. Era con qualcuno dunque? Ma chi mai l'avrebbe raccolta da dovunque si trovasse per portarla con sé? Non conosceva nessuno, o per lo meno non aveva mai incontrato nessuno che tenesse così tanto a lei da preoccuparsi della sua incolumità. Ma poi, quale incolumità? Cos'era successo?
Chiuse forte gli occhi, la testa le doleva come non succedeva da troppo tempo, girava tutto e quel continuo muoversi non l'aiutava per niente.
Cercò di ricordare, di far mente locale: era entrata nel labirinto, non aveva trovato nessuno per le strade e la cosa l'aveva sconvolta. Poi… aveva incontrato degli altri partecipanti forse? No, aveva sentito dei rumori? Si era accostata al muro perché era spaventata da qualcosa, qualcosa che le sfuggiva, che non riusciva proprio a visualizzare. Aveva paura, questo lo sapeva per certo e poi aveva sentito l'abbraccio di sua madre, le sue rassicurazioni… solo che non era sua madre quella che l'aveva stretta, non erano le sue braccia morbide e protettive.
Con un sussulto Jane si mosse rischiando di precipitare a terra.
L'edera. L'edera l'aveva presa, l'aveva trascinata nel muro! Poteva ancora sentire quei rami fini e lisci avvolgersi attorno alle sue gambe, li sentiva risalire il polpaccio e stringere la coscia, serrarsi attorno alla sua vita, comprimerle il petto e legarsi attorno al suo collo, alla sua bocca, impedendole di urlare, di muoversi, di scappare.
Il brusio s'interruppe di botto ma Jane non se ne curò, tenendo gli occhi spalancati nel tentativo di vedere qualcosa, di mettere a fuoco il mondo attorno a lei.
Qualcosa la teneva ancora, non era un ramo, era più consistente, qualcosa come- come delle braccia. Qualcuno al stava tenendo in braccio?
Lo spavento di quella realizzazione le diede la forza necessaria per premere le mani contro quella che ora, a rigor di logica, sembrava una schiena, e spingersi via da quell'uomo sconosciuto che la stava tenendo ferma.
Un grido le proruppe con forza dalle labbra, l'uomo cercò di trattenerla, lo sentì dirle qualcosa che parve molto uno “stai ferma” inframmezzato da imprecazioni che non aveva mai sentito ma che, se non fosse stato per il terrore che l'animava in quel momento, probabilmente l'avrebbero fatta arrossire e lasciata senza parole.
Si rese conto d'aver la gonna tirata su fino alle ginocchia, le braccia del ragazzo erano intrecciate sotto il suo sedere, le sue gambe ora nude e pallide a penzoloni oltre i fianchi del giovane.
Una paura che mai aveva avuto le serrò lo stomaco, la vergogna d'esser così esposta, di trovarsi in simili condizioni, in simili vicinanze con uno sconosciuto la fece agitare con ancora più impeto finché non riuscì a scappare dalle mani dell'uomo e cadere rovinosamente a terra.
Si girò verso il terreno, incapace di alzarsi sulle gambe inferme e fiacche ma del tutto intenzionata ad allontanarsi da quell'individuo, anche a costo di strisciare via.
I polsi le tremarono, poi le braccia ed in fine la forza le venne meno e cadde definitivamente al suolo, la faccia contro l'erba schiacciata ed umida del labirinto.
C'era solo odore di terra bagnata e di linfa, quell'odore opprimente e dolciastro che aveva sentito anche nel bosco, che un tempo le era piaciuto così tanto e che ora invece le faceva solo venir voglia di vomitare, solo voglia di scappare, di morire ancora ed il più velocemente possibile.
Il buio l'avvolse di nuovo e Jane ebbe a mala pena il tempo di distinguere, assieme alla voce alterata dell'uomo, una seconda voce seria e decisa.

 

 

 

*

 

 

Jonas non voleva crederci, gli veniva davvero da ridere in quel momento e non avrebbe mai pensato di poter fare una cosa del genere lì nel labirinto, o anche solo all'inferno.
Si lasciò andare contro il muro d'edera, per poi ritrarsi di colpo. Meglio star attenti, neanche dieci minuti prima quelle stesse mura si erano animate e avevano cercato di ucciderli, magari poteva anche evitare di cascarci in mezzo di proposito.
Riportò lo sguardo sulla scena davanti a sé e non riuscì ad impedirsi di ridacchiare.

<< Fammi questo favore, dai, sii collaborativo amico.>>
La voce cantilenante di Cade era palesemente divertita, almeno tanto quanto lo era Jonas e sicuramente molto di più di quanto non lo fosse l'uomo appeso a testa in giù davanti a loro.
<< Non lo so! Ti ho detto che non lo so!>> ripeté quello con uno strano accento che il ragazzo non riuscì a distinguere.
Cade intanto aveva alzato gli occhi al cielo. << Se, se, come no.>>
Se ne stava poggiato con il braccio alla parete, ignorando il buon senso che aveva detto a Jonas di non toccarle più, una gamba piegata, la caviglia incrociata a quella che sosteneva il peso di tutto il corpo. Stretto nella mano aveva un piccolo coltellino da intaglio che faceva roteare attorno alle dita, lanciava in aria e riafferrava al volo, fregandosene la pericolosità di quella lama che brillava nel cono di luce che pareva seguire ogni singola anima.
Jonas fissò per un attimo il coltellino e poi abbassò lo sguardo su l'arma che aveva consegnato a lui, che gli aveva “prestato” per così dire.
Quando Cade gli aveva detto che avrebbero dovuto fare una piccola deviazione, che c'era qualcosa che dovevano prendere prima di andare dritti all'uscita, Jonas aveva seriamente pensato stesse parlando di un'altra anima, di qualcuno a lui caro. Gli era ancora del tutto ignaro il modo in cui il giovane irlandese riuscisse a spostarsi con così tanta facilità in giro per il labirinto, ma c'era da dire che finché lo portava al sicuro e gli faceva evitare gli scontri diretti con gli altri contendenti, era più che disposto a seguirlo. Certo, c'era quel leggero fastidio di dover sempre e costantemente star dietro a qualcuno per trovare luoghi o uscirvene, ma Cade era completamente diverso dai suoi vecchi compagni d'avventura e questo lo rendeva molto più tranquillo e leggero di quanto non fosse stato in precedenza.
Rimaneva ancora da capire se fosse un dannato come lui o un eliseo, ma chiederglielo avrebbe implicato il sentirsi porre la stessa domanda e per di più, a meno che non li avessero bellamente rubati, il ragazzo aveva delle armi proprie.
Anche se un coltellino a serramanico non era proprio definibile come arma.
Ciò che invece aveva consegnato a lui erano una sottospecie di guantoni metallici, fatti a placche sul dorso della mano come i guanti dei cavalieri medievali. Sulle nocche erano saldati degli spuntoni un po' ammaccati ma che avrebbero sicuramente rotto uno zigomo con facilità; le dita culminavano in affilate riproduzioni di artigli dall'aria vagamente inquietante. Probabilmente i motivi per cui in vita l'avevano chiamato “Grifone” erano svariati e magari c'entravano anche quei guanti dal curioso colore ramato.

<< Con cosa hai detto che sono fatti?>> domandò sovrappensiero, dimentico dell'uomo bloccato per le gambe, sino alle ginocchia, nel muro d'edera, appeso a testa in giù come un salame.
Cade si sporse in avanti per guardarlo meglio, alzando un sopracciglio cercando di ricordare se l'avesse effettivamente informato o meno della cosa.
<< Bronzo celeste, roba utile per ammazzare i mostri, le armi normali non gli fanno niente.>>
<< E perché il tuo coltellino non è fatto dello stesso materiale?>> chiese ancora più incuriosito.
<< Perché ci devo intagliare il legno, non sgozzare manticore.>> disse quello ovvio, stringendosi nelle spalle e tornando poi a guardare l'appeso. << Sai, nei tarocchi saresti una carta vincente. O quello era l'impiccato? Non me lo ricordo proprio, la memoria mi gioca brutti scherzi ultimamente. Quindi, tornando a noi: un uomo con un vestito strano, fatto a righe, che si aggirava con un fucine strano, grosso, che sparava tanti proiettili assieme - >>
<< Si chiama semiautomatico.>> interruppe Jonas mentre giocava con i guanti metallici, chiudendo ed aprendo la mano per sentire che rumore facessero.
<< Sì, sì, quella roba lì. Era grigio ma anche color sabbia. Era grosso, aveva una cinghia e il tipo vestito a righe lo teneva in spalla.>>
<< Ma era vestito a righe grandi o fine?>>
<< Scusa amico, ma ce ne frega qualcosa?>> Cade lo guardò con una buffa espressione in volto, il naso arricciato e le sopracciglia aggrottate.
Joans annuì convinto. << Certo: se erano righe grandi era un carcerato, quindi un dannato sicuro, se invece era a righe piccole magari viene dagli anni venti.>>
<< Gli anni venti del tuo secolo?>> domandò questa volta il rosso incuriosito dalla piega che stava prendendo il discorso.
Jonas annuì una seconda volta. << Sì, 1920. Anche se non so quanto sia meglio, potrebbe essere un mafioso. Sai, credo che esistesse anche la mafia irlandese.>>
Cade gli regalò un sorriso accecante, che fece serrare le labbra al ragazzo per l'imbarazzo: come poteva avere una faccia così palesemente da schiaffi ma al contempo mantenere un aspetto affascinante? Probabilmente se ci avesse provato lui sarebbe solo sembrato ridicolo, magari era perché Cade aveva venticinque anni e lui solo sedici? Magari era dovuto a quello, sì, alla differenza d'età. Ciò che era certo era che Jonas non avrebbe mai scoperto come sarebbe stato una volta cresciuto… o forse sì.
<< Se c'è la mafia irlandese siamo di sicuro i migliori.>>
<< Non saprei.>> disse cercando di ritrovare un minimo di contegno. << Sottovaluti quella italiana.>>
<< Smettetela di parlare dannazione! Tiratemi fuori di qui!>>
L'uomo appeso si agitò senza pace, senza ottenere il minimo risultato se non quello di beccarsi un pugno su una spalla dal rosso.
<< Vedi di starti fermo, mi fai venire il mal di mare cazzo.>>
<< Righe grandi o righe piccole quindi?>>
<< Ce ne frega davvero qualcosa? A me interessa solo sapere da che parte è andato, se quello che aveva con sé era il fucile di Nathan quello stronzo mi dovrà pregare in ginocchio e ringraziarmi fino alla fine della competizione.>>
Jonas avvicinò la mano all'orecchio e mosse ancora le dita, il suono tintinnante del metallo gli ricordava un qualche strumento sentito in passato, così come gli ricordava il rumore del gancio che collegava il suo collare alle catene dell'ottava terrazza.
Rimase a fissare i riflessi rossicci ma al contempo freddi che risplendevano sul guanto di ferro, di bronzo celeste… ed in effetti, contro ogni logica, sul metallo lucido ballavano ombre azzurrognole, qualcosa di magico, di divino.
Rialzò lo sguardo su Cade, impegnato a spremere il tipo e lo studiò con attenzione: la sua posa era rilassata, le spalle larghe morbide, solo le sue mani si muovevano tradendo un nervosismo che Jonas scoprì esser simile al suo. Aveva pensato per molto tempo di essere “agitato”, che fosse un problema suo e di nessun altro, ma forse, invece, era un problema che accomunava tutti i figli degli Déi. Cade, a differenza sua, era solo più bravo a nasconderlo.
Continuò a guardarlo, ad esaminare ogni sua mossa, ogni espressione. Non si fidava ciecamente di lui, questo no, ma gli trasmetteva una sicurezza del tutto diversa da quella che emanava Cicno.
Cade era sicuro di riuscire a trovare un modo per affrontare qualunque situazione, anche se ignorava ancora quali queste fossero.
Cicno era sicuro di riuscire a salvarsi perché sapeva come muoversi, cosa aspettarsi.
Chissà che fine aveva fatto il greco, se avevano trovato un modo per uscire tutti loro o se invece era ancora disperso per quelle mura. Un poco gli dispiaceva per lui, lo incuriosiva terribilmente una persona che era vissuta in un epoca in cui gli Déi erano parte integrante della vita di ogni giorno, ma c'era qualcosa che non lo convinceva, che lo attraeva tanto quanto lo respingeva. Che fossero quei scintillanti bracciali donatigli da Thanatos?

<< Ehi?>>
Cade si staccò dalla parete avvicinandosi a lui, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni logori e quasi camminando sulle punte.
<< Ti ha detto qualcosa?>> chiese sforzandosi di lasciar perdere bracciali o collari magici.
L'altro si strinse nelle spalle, << Sì, ma non credo sia molto utile, il deficiente si è dimenticato di dirci che ha incontrato il pazzo con il fucile prima che si muovessero i muri. Quindi, a meno che tu non abbia qualcosa o qualcuno da recuperare, direi di uscire fuori di qui il prima possibile.>>
Gli batté una mano sulla spalla e poi si voltò verso uno dei corridoi che si aprivano da quello spiazzo.
Per un attimo un vento leggero mosse l'erba, una brezza che non aveva nulla a che vedere con quella fantasma che si aggirava per il labirinto ma che neanche si avvicinava a quella che aveva sentito durante la loro folle corsa.
Jonas osservò ammaliato quel venticello risalire da terra sino a carezzare i capelli rossi del giovane, vide la tela della giacca tendersi sulla schiena, come quando si prendere un respiro profondo, e poté sentire l'aria stessa entrare dritta nei polmoni dell'altro per uscirne con un sospiro pesante.
<< Allora? Hai qualcosa da prendere?>> chiese di nuovo girandosi verso di lui.
Il ragazzo lo guardò perso, battendo le palpebre per cercare di riprendersi, senza riuscire ad impedire ad un velo di tristezza di calargli sul volto.
<< No, non ho niente e nessuno, sono solo.>> lo disse con molta più amarezza di quanto non avrebbe voluto ed il suo sguardo basso gli impedì di notare quello intenso e scintillante di verde del compagno.
Cade strinse le labbra ed annuì, inclinando la testa per poi gettarla indietro.
L'aveva capito, non gli ci era voluto molto per rendersi conto che quel ragazzo era solo e che, a conti fatti, doveva venire dritto dai Campi di Pena. Cosa avesse fatto, perché fosse finito alla tortura eterna non lo sapeva proprio ma neanche gli interessava saperlo, tenendo lo sguardo fisso sul soffitto lontano e buio Cade si disse che se non fosse stato per quella dannata rivolta forse anche lui avrebbe cominciato la gara dai cancelli neri, forse tutto il bene che aveva fatto nel corso della sua vita non sarebbe bastato a sopperire quelle azioni deplorevoli, quei crimini di cui si era macchiato. Sua madre gli aveva sempre detto che ciò che più contava era la motivazione che ci spinge ad agire in un dato modo, ma in cuor suo Cade, per quanto fingesse di crederle e che non gli importasse, sapeva che c'era sempre stata un'altra opzione, che avrebbe potuto agire diversamente, che avrebbe potuto far altre mille cose. Solo… con quelle altre mille cose, sarebbe riuscito a sopravvivere? Sarebbe riuscito a proteggere sua madre e sua sorella? Sarebbe riuscito ad aiutare i suoi amici, quel gruppo completamente mal assortito che era diventata la sua famiglia, la sua banda?
Continuando a tenere il volto rivolto verso l'altro Cade abbassò lo sguardo spiando con attenzione i tratti tesi del viso di quel ragazzino, appena sedicenne, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, con il viso ancora delicato, poco marcato, ancora un bambino che aspetta di diventare uomo. Era piccolo, Jonas, per quanto la sua testa gli dicesse che non doveva sottovalutarlo, che aveva conosciuto bambini molto più piccoli di lui in grado di cavarsela anche meglio di lui stesso, Cade non riusciva a far a meno di pensarlo: era piccolo. Era piccolo ed era finito all'inferno, letteralmente.
Ma cosa poteva aver fatto di tanto male per meritarselo?
Ad esser completamente onesti con sé stessi, Cade si rese conto che non gli interessava. Aveva passato la vita con persone che, proprio come lui, sarebbero stati definiti più criminali che altro, scoprendo un lato umano, una bontà di cuore, una giustizia morale, che spesso neanche i più alti officiali e lord avevano dimostrato d'avere. Se quindi lui era finito nei Campi Elisi per una singola decisione giusta, Jonas poteva esser finito nei Campi di Pena per una singola decisione sbagliata.
Ora era lì, aveva deciso di intraprendere quel viaggio, quella sfida, per poter tornare a riveder le stelle e certo, Cade non l'avrebbe lasciato vincere perché, andiamo, c'erano di sicuro migliaia di anime con storie più tristi e dolorose delle loro e che avrebbero meritato più di ogni altra persona di tornare in vita, ma forse… forse poteva almeno aiutarlo ad andare avanti, a dimostrare quanto fosse forte, a dimostrarlo a sé stesso.
Cade non era mai stato questo gran ché di empatia, era schietto, attento, ironico, alle volte un pizzico cinico e troppo portato a dire ciò che pensava con furbizia, a fidarsi della sua parlantina, mascherando le sue vere parole, ma persino per uno come lui era chiaro che Jonas avesse qualcosa da dimostrare, che avesse bisogno di capire da solo quanto valeva. E, modestia a parte, Cade era sempre stato bravo ad aiutare i suoi uccellini a volare con le loro ali. Era sempre stato bravo a mostrare agli altri un assaggio di libertà, a raccontargli quanto fosse bella sino a spingerli a voler volare con le loro stesse ali. Era sempre stato bravo a dirigere un stormo.
E, cosa da non sottovalutare, Cade era pur sempre un fratello maggiore.

<< Beh, allora sei libero!>> Disse sorridendo e mettendoci forse anche più entusiasmo del dovuto.
Jonas lo guardò accigliato, rialzando il volto da terra e aprendo la bocca per dire qualcosa, qualunque cosa che però non gli riuscì di dire.
Che diamine voleva dire?
<< Io- cosa?>>
Cade rise. << Su, su, ti facevo più spigliato ragazzino! Sei libero! Non devi recuperare nessuno, non hai amici che ti aspettano o cose simili. Io ne ho due, di amici che mi aspettano intendo. Oddio, magari c'è anche qualche mio amico dei tempi d'oro ma non ne ho ancora incontrato neanche uno quindi non so se il calcolo sia al momento giusto, e ad essere sinceri non sono neanche mai andato a scuola, però! Resta il fatto: io ne ho due di amici che mi aspettano e sono abbastanza sicuro che al biondastro andrà il sangue al cervello quando ti vedrà con me!>>
Il ragazzo lo fissò completamente confuso, quel pazzo stava dando ancor più prova della sua scarsa sanità mentale. << Aspetta, che vuol dire?>>
Cade lo afferrò per un braccio e lo trascinò verso l'uscita giusta, ignorando del tutto l'uomo ancora appeso al muro.
<< Hai detto di essere solo, no? C'è questo tipo, Nathan, figlio di Ares, un rompi palle di quelli davvero notevoli, che si crede dio sceso in terra e tutte quelle cose lì. Ecco, già gli rode il culo perché la guardia reale gli ha detto di portarsi me e Elza in giro, poi crede pure di avere le risposte a tutte le domande del mondo e non credeva che io fossi in grado di uscire di qui da solo. È un soldato, non fidarti di lui- >>
<< Tranquillo, vengo da un'epoca in cui i soldati non erano proprio questo gran ché… >> commentò amaramente Jonas.
<< Come in tutte le epoche a parer mio. >> annuì l'altro. << Quindi, non credeva che io fossi in grado di uscire di qui e pensa che io sia un peso o cose simili. Ma quando mi troverà fuori ad aspettarlo allora dovrà rimangiarsi quello che ha sempre detto e non potrà evitare in nessun modo che io ti porti con me!>>
<< Ehi!>> Jonas si fermò discostandosi di colpo da lui. << Non sono un pupazzo che va preso e portato dove si vuole! Chi ti ha detto che ti seguirò?>> chiese sulla difensiva.
Ma Cade, proprio come aveva fatto fino a quel momento, si limitò a sorridergli e allungargli la mano. << Hai completamente ragione, certe cose vanno chieste! Vuoi seguirmi fuori da questo schifo di labirinto e affrontare le prove assieme a me finché non saremo rimasti solo noi per la resa dei conti finale?>> domandò serio. Poi aggrottò le sopracciglia. << Cazzo, sa tanto di proposta di matrimonio… >>
Non appena ebbe detto quelle parole Jonas si sentì la faccia andare in fiamme, come non gli succedeva da troppo, come gli aveva sempre dato fastidio e come la sua pelle bianca aveva sempre fatto veder troppo.
Dio… com'era possibile che si cacciasse sempre in situazioni così imbarazzanti con gente che non conosceva?
<< Sì, è inquietante, evita.>> si limitò a borbottare, almeno finché anche lui non ebbe una mezza illuminazione. << Aspetta, hai detto “figlio di Ares”? Il dio della guerra?>>
Cade annuì, riprendendo la sua solita aria malandrina. << Mh-mh, una rottura di palle, l'ho già detto? Dai! Sarà più divertente affrontare la Death Race con altri semidei! Il biondastro è un pozzo di storia, sa tantissime cose e potrà rispondere a tantissime domande. Allora? Che dici? Ci stai?>>
La mano bianca era tesa verso di lui, il polsino logoro della giacca lasciava intravedere il bordo sfilacciato di una manica di camicia. Cade aveva le dita un po' tozze, classiche di chi ha lavorato per tutta la vita, con le unghie corte e piatte, i polpastrelli pieni di minuscoli taglietti, il palmo pieno di cicatrici e di qualche macchiolina, forse bruciature, forse lentiggini.
Jonas l'osservò per un po', incerto sul da farsi, animato da mille dubbi, da mille domande. Poteva davvero fidarsi? Non stava facendo altro che passare da una compagnia all'altra, tutte piene di gente assolutamente sconosciuta, tutte accomunate dalla presenza di qualcuno che, come lui, condivideva sangue divino.
Però… però Cade gli aveva offerto il suo aiuto in modo disinteressato, non l'aveva trattato come un bambino, o almeno non come avevano fatto gli altri. Gli aveva dato un'arma per difendersi da solo, non gli aveva assicurato che l'avrebbe protetto da tutto e tutti come aveva fatto il gigante nero. Non l'aveva guardato con quello sguardo ammaliatore e curioso come quello di un felino, come quello di Cicno. E soprattutto gli stava offrendo la possibilità di scegliere. Quando gli sarebbe ricapitata un'occasione simile?
Scacciando con forza i suoi dubbi, dicendosi forte e pronto anche ad affrontare in un secondo momento qualcuno in grado di volare proprio come Cade, dicendosi pronto a lottare contro tutto e tutti, Jonas afferrò quella mano e la strinse con vigore, come suo nonno gli aveva insegnato facessero i veri uomini.
Si sentiva un po' confuso, i suoi pensieri si accavallavano gli uni sugli altri, la sua diffidenza raschiava contro le pareti della testa ricordandogli che non c'era da fidarsi di uno con quella faccia, che poteva essere un dannato anche lui, che poteva esser una cattiva persona. Ma c'era anche quell'altra sottile vocina, quell'istinto che tante volte aveva prevalso in lui come una bestia selvatica, che gli diceva di buttarsi e di provare, non a fidarsi completamente, ma ad intraprendere un nuovo viaggio, una nuova avventura, di scegliere di sua spontanea volontà.
Forse stava sbagliando, ma se così fosse stato, per una volta, Jonas avrebbe potuto dire di aver fatto la sua scelta.

<< Usciamo di qui, allora. Sono curioso di vedere la faccia di quel soldato quando ti vedrà fuori di qui prima di lui.>>
Il ghigno di Cade gli sembrò solo la prima di una lunga serie di vittorie.

 

 

*

 

La lucciola volava veloce come una scintilla che rimbalza fuori dal braciere. Lea la teneva sotto controllo il più possibile ma la verità era che si sentiva come un aquilone in balia del vento: tra lei e la lucciola era teso un filo invisibile ed ogni volta che lei vi si avvicinava questa aumentava la sua velocità e la distanziava di nuovo. Come un circolo vizioso era sempre più calamitata verso di lei, sempre più obbligata a seguirla ma di nuovo, non appena succedeva, non appena guadagnava quella vicinanza, la sfera di luce schizzava via.
Se fosse stata ancora viva quella corsa l'avrebbe uccisa, ora che era morta le metteva solo una grande stanchezza addosso, il ché era quasi ironico.
Dietro di lei Ùranus correva facilitato dalle sue gambe lunghissime, il suo volto però pareva quasi più affaticato di quanto non lo fosse lei e ciò era probabilmente derivato dallo scontro con il pellerossa.
Non aveva la più pallida idea di cosa fosse successo, come avesse fatto a sconfiggerlo, ciò che era certo era che da quel momento si era portato dietro una pesantezza, una freddezza, che l'aveva lasciata innervosita e ansiosa.
Lea non lo era, non era minimamente una persona ansiosa, aveva assistito suo fratello durante operazioni normali e cure a semidei sull'orlo della morte, la sua stessa dipartita era stata in un qualche modo frutto di quei nervi saldi che le avevano impedito di scappare, di quella ragione che le aveva ripetuto che si sarebbe tutto potuto concludere al meglio, che bastava solo far ragionare le persone.
Ovviamente si era sbagliata ed era morta, ma questo non significava che la sua capacità di rimaner calma fosse svanita con l'entrata agli inferi.
Si sarebbe voluta girare per vedere come stesse l'altro, per chiedergli se andasse tutto bene, ma ogni volta che incrociava il suo sguardo, che lo fissava per un momento di più, spiacevoli ricordi le tornavano in mente, voci dimenticate a cui non sapeva dare un nome tornavano a darle il tormento. Cosa diamine aveva fatto Ùranus? Perché si sentiva in quel modo? Era ovvio che fosse colpa sua, Lea ne sapeva abbastanza sui semidei da intuire che quello fosse un effetto collaterale di qualche potere, ma la sua conoscenza del panteon greco non era poi così ampia da permetterle di formulare un'ipotesi.
Con uno sforzo non indifferente decise di rimandare a dopo i suoi dubbi e di concentrarsi sull'uscire di lì.
La lucciola era un incantesimo abbastanza semplice ma al contempo molto dispendioso d'energie: consisteva nel raggruppare tutte le “scintille” di luce presenti in un ambiente ed indirizzarle verso una fonte di luce, di calore o di magia, più forte, diversa dalla propria. Non sapeva che altre applicazioni avrebbe potuto avere, una fiammella che cerca disperatamente di ricongiungersi alla sua fiamma madre, ma suo fratello le aveva insegnato che quello era il modo migliore per uscire dai guai.

 

<< Mi porta ovunque?>>
<< No, non ovunque, ti porta vicino ad un fuoco, vicino ad una grande fonte di magia, al sole. Ricordatelo bene Lea, siamo figli di Apollo, è la luce il fulcro del nostro potere, al sole siamo più forti, quando nostro padre ci guarda e brilla sopra le nostre teste siamo in grado di far cose che gli altri neanche immaginano. Qualunque cosa emani luce darà sempre forza ad un figlio di Apollo.>>
Lea lo guardò accigliata, le gambe penzoloni dalla sedia sfioravano il pavimento oscillando lente.
<< Quindi al buio non funziona?>> chiese dubbiosa.
L'uomo le sorrise divertito poggiandole una mano sulla testa.
<< Siamo figli del Sole, Elena, se la luce non c'è la creiamo noi.>>

 

Non avrebbe mai immaginato di dover utilizzare quell'incantesimo da morta e men che meno avrebbe mai immaginato che un'anima passata oltre potesse emanare luce.
Gettando un'occhiata di traverso al suo compagno di corsa Lea deglutì a vuoto: chissà se un figlio del Sole fosse in grado di portare un po' di luce anche negli animi delle persone.

 

 

*

 

 

Nathan imprecò per l'ennesima volta, distante almeno quattro passi dalla ragazza con il vestito medievale e la faccia sporca.
La stavano portando via dal labirinto, perché nessuno avrebbe mai convinto Nathan Wrigth a lasciare sola una ragazza priva di sensi ed indifesa in un posto di merda come quello, quando lei si era svegliata ed aveva iniziato ad agitarsi come un'ossessa finendo per caderle di braccia e schiantarsi a terra. Per un attimo aveva temuto quasi di sentir il suono di vetri infranti, tanto sembrava pallida e quasi trasparente la sua pelle, ma per fortuna il rumore che ne era derivato era stato quello di un sacco di patate crollato al suolo.
Eliza gli aveva dato uno scappellotto fortissimo quando se n'era uscito con quel paragone.
E pace, aveva ragione lei, pure sua madre l'avrebbe picchiato per quella frase così maleducata.
La mora ora era chinata vicino alla giovane sconosciuta, un ginocchio poggiato a terra come un dannato cavaliere e la mano poggiata sul braccio dell'altra. Quella aveva iniziato a muoversi, come qualcuno nel pieno di un sogno, forse di un incubo visto dove si trovavano, ma almeno sembrava si stesse svegliando poco a poco.
 

Con un tremolio di ciglia la giovane aprì a fatica gli occhi scuri, ad Eliza parve quasi di star scrutando dentro un pozzo pieno di nebbia. Si sporse un poco indietro, per lasciarle lo spazio necessario e non opprimerla con la sua presenza, vista la reazione avuta prima con Nathan probabilmente doveva essersi spaventata nel ritrovarsi in braccio a qualcuno che non conosceva. Dalla foggia dei suoi abiti doveva esser vissuta prima di lei e se già per Eliza era assurdo che una donna venisse presa in braccio a quel modo da un estraneo non voleva neanche immaginare cosa avesse provato la poverina.
Quando la vide mettere a fuoco lo spazio circostante si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo e sorridendo gentilmente le si rifece un poco più vicina.

<< Vi sentite bene, signorina?>>
 

Jane batté le palpebre, l'ambiente attorno a lei prese consistenza e colore, una marea verde cupo illuminata solo fiocamente da una soffusa luce calda che non si allontanava di più di tre metri dal suo stesso corpo. Dal suo e da quello della persona al suo fianco.
Era stesa a terra, la testa poggiata su qualcosa di morbido. Sentiva l'erba pungerle sulle caviglie ed una lieve pressione sul braccio. Con un po' di fatica si tirò a sedere, la mano che aveva posata addosso si spostò veloce e sicura dietro la sua schiena e la sostenne anche una volta che si fu sistemata meglio.

<< Signorina?>>

A parlare era stata una voce dall'inflessione seria ma gentile, qualcosa a cui non riuscì immediatamente a dare un genere e che la costrinse a voltarsi per poter dare almeno un volto a chi, da quel che presumeva, l'aveva salvata dal muro d'edera.
Inginocchiato affianco a lei vi era un soldato, o almeno quello che aveva tutta l'aria d'esserlo.
Il volto asciutto era pallido come quello di ogni morto, i corti capelli neri risaltavano ancor di più su quel candore mortifero, accentuando lo sconvolgente e cupo verde smeraldo dei suoi occhi.
Jane non ne aveva mai visti di così vividi e al contempo scuri, non aveva mai visto uno smeraldo in vita sua e associava quel nome a quel colore solo ed unicamente per sentito dire. Eppure era convintissima che se qualcuno le avesse mostrato la pietra preziosa sarebbe stata della stessa identica sfumatura di quegli occhi.
Il giovane indossava una camicia bianca, con i colletto rigido e sporco di quello che forse era fango, forse erba, non avrebbe saputo definirlo con certezza. I bicipiti pronunciati si potevano vedere con chiarezza da sotto le maniche della camicia e in quella posa Jane non poté far a meno di paragonarlo ad un cavaliere.
Il soldato accenno un sorriso ed inclinò la testa, le labbra piccole e fini si tesero leggermente impallidendo ancor di più.

<< Riuscite a sentirmi? Vi sentite bene?>>

Jane annuì, pronta a rispondergli, quando una terza voce si intromise.
<< Sarebbe un miracolo se con la craniata che ha dato fosse ancora vigile.>>
A parlare era stato un altro giovane uomo, dalla stazza più massiccia ma non imponente, indossava degli strani abiti dai colori sabbiosi, quasi in tinta con i capelli biondi. Il naso affilato ed il volto squadrato lo fecero classificare immediatamente come una persona scontrosa e da come le si era rivolto doveva esserlo davvero.
Il moro fulminò il suo compagno con lo sguardo. << Vedi di comportarti come si deve.>> lo ammonì.
Quello alzò gli occhi al cielo scocciato. << Se può camminare dobbiamo andarcene di qui il prima possibile. Ce la fai?>> domandò poi rivolto direttamente a lei.
Jane storse in naso ma ugualmente fece leva sulle mani per cercare di alzarsi. Immediatamente il soldato dalla camicia bianca la sostenne, come aveva già fatto, e per quanto Jane apprezzasse quell'atto di cavalleria, quel comportamento così educato e delicato, aver le mani di qualcuno addosso la rendeva fin troppo nervosa.

<< Posso fare da me, vi ringrazio.>> disse ugualmente rivolta al moro.
Il giovane la scrutò per un attimo, valutando le sue parole, poi annuì, si riabbassò per afferrare qualcosa a terra e lo sgrullò con decisione. La giubba blu, perché questo era, doveva esser servita per farle da cuscino ed il proprietario se la rinfilò con un movimento fluido e consumato, facendo scivolare velocemente tutti i bottoni dorati nelle asole.
Jane osservò quei movimenti con attenzione, cercando nel mentre di ricordare cosa stesse facendo prima che quel muro la inghiottisse, prima che quei due la trovassero e… che cadesse a terra?

<< Mi avete liberata… >> disse a voce bassa, evitando lo sguardo del moro ed ignorando del tutto il biondo.
Il soldato annuì. << Vi abbiamo trovata tra i rami delle mura, non potevamo certo lasciarvi lì. Vi sentite bene? Ce la fate a star in piedi o volete un aiuto?>>
Jane scosse la testa. No, l'avevano aiutata già abbastanza. << Grazie, ma perché sono finita a terra?>>
<< Perché a quanto pare farsi portare in giro da qualcuno è più spaventoso di un frontale con l'asfalto.>> grugnì il biondo.
L'altro gli rivolse un'espressione impassibile. << Smettila di fare il deficiente, e poi cosa sarebbe l'asfalto?>>
<< Roba che fa più male di una facciata sull'erba, sicuro come pochi. Se ce la fa a camminare allora muoviamo il culo e usciamo di qui.>> ripeté ancora avviandosi verso il cunicolo di destra.
Jane osservò l'altro ragazzo chiudere per un attimo gli occhi e fare una smorfia schifata, forse per via della scurrilità del suo compagno.
<< Tu ed il tuo magnifico linguaggio… >> ringhiò infatti, << Almeno la bussola ha ricominciato a funzionare?>>
<< E che cazzo ne so? Ti pare che l'abbia in mano?>>
<< E allora dove diamine stai andando?>>
<< Uh, “diamine”, ti sto facendo di nuovo saltare i nervi?>>
<< Ringrazia tuo padre che c'è la signorina o ti avrei già preso a calci nel sedere.>>

Mentre i due discuteva Jane sfruttò quel momento per studiarli meglio: il biondo era più alto del moro, forse anche più grande, o almeno la sua espressione dura suggeriva questo. Dovevano venire da epoche diverse, sicuramente più recenti della sua perché mai aveva visto o sentito parlare degli abiti del biondo, a meno ché invece non fosse incredibilmente più vecchio, ma ne dubitava.
Avevano un buon affiatamento, si punzecchiavano rispondendosi per le rime ma dovevano essere una squadra e non due che si erano ritrovati per caso nel labirinto.
Ma tutto ciò non aveva importanza, ogni idea che si poteva fare sui due era inutile perché di certo non sarebbe rimasta con loro e se credevano che li avrebbe seguiti solo perché l'avevano salvata…

<< Oh, bruna. Di qui.>>

La voce rude del biondo le fece storcere il naso: il suo amico era gentile ed educato ma lui già la stava infastidendo.
<< Non sono tua sorella.>> sputò velenosa tra i denti, guadagnandosi un'occhiata sorpresa, ma anche divertita?, da parte del moro ed una accigliata dall'altro.
<< Come?>>
<< Ho detto che non sono tua sorella. Presumo che tu sia solito rivolgerti a lei così.>> sfidò alzando un sopracciglio.
Il biondo sogghignò. << Oh, alle mie sorelle mi rivolgevo anche in modi peggiori, ma se ci provassi ora la giubba blu qui mi prenderebbe a calci in culo fino a fuori il labirinto e vorrei evitare di metterci così tanto.>>
<< I miei calci sono abbastanza forti da farti saltare una parete, tienilo a mente.>>
<< Quando usciamo di qui facciamo una gara a chi calcia più forte?>>
<< Stai davvero sfidando una figlia di Nike, ragazzino?>>
<< Il ragazzino è più grande di te, ti vorrei ricordare.>>
<< Di soli due anni e poi io sono morta due secoli prima di te, non mi batti su questo.>>
<< Sono morto da eroe io.>>
<< Perché, secondo te io stavo lucidando gli stivali?>>
<< Eri una contro cinque?>>
<< Ero nel mezzo di un assedio, ero anche una contro venti.>>
<< Scusate?>> li interruppe Jane allibita, << State davvero facendo a gara a chi è morto nel modo peggiore?>>
Il silenzio li avvolse per un minuto, il tempo necessario per far annuire i due senza la minima vergogna.
<< Capisco. Perfetto. Grazie per avermi salvata da quei rami, buon duello.>> gracchiò sempre più sconvolta, girando i tacchi ed allontanandosi nella direzione opposta.
<< Aspettate!>> gridò il ragazzo moro.
<< Aspetta, dove corri! Da quella parte non si passa!>> gli fece eco il biondo.
Ignorandoli bellamente Jane marciò spedita verso la sua direzione. Non voleva crederci: prima incontrava il gigante rosso e la fastidiosa biondina, poi quando riusciva a liberarsene finiva in mezzo all'edera e poi si ritrovava con un soldato moro ed un cretino biondo. Fosse che il Fato le stava suggerendo ti tenersi lontano da persone con i capelli chiari? E poi era lei la pazza che aveva passato tutta la morte nelle Praterie? Quei due parevano messi bene, dovevano essere senza dubbio dei beati visti anche i temi delle loro discussioni, ma erano di certo più folli di lei se si mettevano a far gara per una cosa così futile.
Non era possibile, il moro aveva anche detto d'esser-

 

Figlia di Nike?

 

Inchiodò di colpo, fermandosi davanti ad un bivio e battendo le palpebre confusa. Come sarebbe a dire “figlia” di Nike? Era la dea della vittoria, su questo non vi erano dubbi, era la stessa che Ade aveva citato alla fine del suo discorso ma… figlia?

<< Aspettate!>>

La ragazza si voltò verso la fonte di quella voce che solo ora, alla luce della sua realizzazione, riusciva a sentire come femminile. Guardò di nuovo con attenzione i soldato ed allora vide la curva del fianco un po' più morbida, il bacino un po' più ampio, la mascella meno marcata, le ciglia più lunghe. Aveva il portamento fiero e inflessibile di un soldato, un soldato qualunque ma… era una donna.

<< Da quella parte non troverete nulla di buono, ci sono stati degli scontri per tutto il labirinto e questo si è anche mosso, riorganizzandosi nella sua intera struttura.>>
<< Come fate a saperlo?>> riuscì solo a domandare.
Il soldato, la ragazza, accennò una smorfia con le labbra. << Perché ci siamo finiti in mezzo e la bussola del mio compagno, una bussola divina, ne è uscita del tutto sconvolta. Sappiamo però che direzione mantenere e possiamo scortarvi fuori di qui.>>
Diffidente Jane si ritrasse di un passo, stringendosi le braccia la petto come se dovesse difendersi da qualcosa.
<< E perché mi accompagnereste fuori di qui?>>
Con sua sorpresa la soldatessa- Dio, ma da quando anche le donne potevano imbracciare le armi e servire nell'esercito?- la guardò per la prima volta con un sentimento che le parve estremamente umano: confusione.
<< Perché siete sola e rischiate di incontrare anime dannate, bellicose, mal intenzionate ed armate. Siamo entrambi soldati, non potremmo mai permetterci di lasciare una donna da sola in un luogo così pericoloso, senza la minima possibilità di difendersi.>>
Al silenzio che ne seguì la mora capì che doveva sforzarsi di più se voleva convincerla ad andare con loro e Jane non avrebbe fatto nulla per semplificarle la cosa.
<< Ascoltatemi, non dovete temere per la vostra sicurezza, Nathan, il mio compagno, per quanto possa esser rozzo è un uomo d'onore, non vi sfiorerà con un dito a meno che non sia assolutamente necessario e in ogni caso, se preferirete, potrò esser io ad aiutarvi qualora ve ne fosse bisogno. Usciremo fuori di qui e poi sarete libera di fare ciò che più vi aggrada ed andare ovunque vogliate, non avrete alcun debito nei nostri confronti.>> poi inaspettatamente sorrise. << Il mio nome è Elizabeth Reed, sono- ero, un soldato di fanteria dell'esercito Americano. Nathan ha servito la stessa bandiera anni dopo di me.>>
Le porse la mano come Jane aveva visto fare sempre tra gli uomini, quella ragazza, quella donna, l'aveva fatto con la stessa naturalezza con cui si era messa la giubba blu e sebbene Jane ignorasse quando e come si fosse formato un esercito Americano, se con esso le donne erano state ammesse o meno alla battaglia e se fosse stato loro permesso d'indossare i pantaloni, sentiva anche una vaga sensazione di fiducia, d'appartenenza. C'era un'aura forte e calda che avvolgeva la giovane, una scia di potere, di vittoria che Jane non aveva mai provato in vita sua e da cui si sentiva mortalmente attratta.

 

Vittoria.

 

<< Jane Parris, figlia di Oliver Parris. Anche io sono Americana, di una delle tredici colonie almeno, non so se ai vostri tempi lo fosse ancora.>> rispose con lentezza, cercando di calibrare bene le parole.
Elizabeth annuì. << Ditemi la città. >>
<< Salem.>>

<< Ah! Dove bruciavano le streghe?>>

Jane si irrigidì di colpo, Elizabeth si volse a guardare l'ultimo arrivato in cagnesco.
<< Cosa di “stia fermo qui e non ti muovere” non ti era chiaro?>>
<< La parte in cui scegli per me.>>
<< Era una scelta sensata visto che ogni maledettissima volta che apri bocca fai danni! Era più facile parlare con Cade!>>
<< Eh no, il rosso meglio di me no!>> brontolò Nathan infastidito dalla sola idea. Poi si rivolse a Jane. << Comunque la caccia alle streghe non c'è più, è stata condannata da secoli, almeno tre. Sono Nathan Wright, Marina degli Stati Uniti d'America.>>
Non le porse la mano e Jane non ne fu minimamente infastidita: non l'avrebbe comunque stretta, non dopo quelle parole così scomode dette in modo così leggero.
Ma per quanto non gli piacesse il biondo, proprio come Elizabeth, anche lui aveva un'aura diversa dagli altri, solo che la sua non sapeva di vittoria, di rivalsa, di oro, era ferrosa, pesta, sanguinolenta e si portava dietro una scia di brutale forza e spirito bellico. Guerra.
<< E hai una bussola magica?>> domandò alzando il mento, quasi a sfidarlo.
Nathan alzò un sopracciglio. << Perché a me dai del tu e a lei del voi?>>
<< Perché lei è stata educata con me e si merita altrettanta educazione.>> ed era una mezza verità perché da quando Jane era caduta nella sua spirale grigia ben poco dell'educazione che le aveva dato sua madre era rimasta in lei. In qualche modo però Elizabeth era riuscita a ritirarle fuori quella vecchia abitudine che era tanto cara a suo padre.

 

<< Tratta tutti con educazione e bontà, non farti influenzare da chi ti tratta male, e soprattutto abbi sempre attenzione per chi ti tratterà con riguardo indipendentemente dalla situazione in cui ti trovi o da come appari. È rara la gente che ti sorriderà gentile e sincera anche quando sarai coperta di fango, è molto più semplice sorridere ad un bel principe che ad un mendicante, ma se troverai qualcuno disposto a sorridere allo stesso modo ad entrambi allora sorridigli anche tu.>>

 

Nathan la fissò non troppo convinto, ma alla fine parve non importargli più di tanto.
<< Come ti pare. E la mia bussola è divina, non magica, non sono un illusionista da quattro soldi.>> rispose stizzito.
Elizabeth dal canto suo si limitò a sospirare. << Verrete con noi quindi?>>
Dopo un attimo di esitazione Jane annuì. << A patto che mi diate del tu.>> sentirsi chiamare signorina, per quanto fosse piacevole e le desse un certo senso di importanza, le stonava totalmente.
“Signorina” era uno dei modi in cui Tituba chiamava lei, in cui chiamava Abby.
Un brivido di fastidio le scosse la schiena, mentre Eliza le diceva che l'avrebbe fatto a patto che anche lei l'avesse chiamata per nome.

<< Tutto molto bello, ora che abbiamo finito con questa puttanata possiamo andare, che dite?>>
<< Dico che tua madre non ti ha dato abbastanza schiaffi da piccolo. >> lo fulminò la mora fronteggiandolo senza paura.
Jane la vide inclinare leggermente la testa verso di lei e capì che probabilmente temeva che le ingiurie del biondo la infastidissero.
<< Non preoccuparti, ho sentito di peggio.>> disse con voce piatta.
<< Questo non- >>
<< Magnifico. Quindi non cagare il cazzo, non le da fastidio. Muoviamoci, da questa parte.>> Nathan si voltò senza dar loro il tempo di replicare, lasciandosi alle spalle una Elizabeth estremamente infastidita dal suo poco tatto ed una Jane puramente indifferente.
Lo seguirono in silenzio, Elizabeth la fece passare avanti a lei, chiudendo la retrovia di quella piccola ed improvvisata compagnia. Accelerando di poco il passo, pur mantenendosi ad una certa distanza dal soldato, Jane allungò il collo per osservare quella famosa bussola divina. Non era altro che un riquadro di uno strano materiale scuro, del colore del fango, al cui centro vi era un quadrante di vetro da cui si potevano vedere le tacche, i punti cardinali e l'ago rosso che girava all'impazzata.
Se quella cosa era davvero un dono degli Déi significava che anche il ragazzo ne era figlio, proprio come la soldatessa mora, come lo era il ragazzo dai capelli rossi e la bionda figlia di Apollo, proprio come lei. Che fosse una congiura? Era destinata ad incontrare solo semidei dopo una vita intera passata ad ignorarne l'esistenza?

<< Chi ti ha dato quella bussola?>> domandò attenta.
Il biondo neanche la guardò, troppo concentrato sul cercare di stabilizzarla. << Me l'hanno data al Campo Mezzosangue, un luogo dove si riuniscono i figli degli Déi, perché se non te l'avessero detto gli Déi della mitologia Greca esistono e si divertono a far figli. Andavo in missione per loro conto.>>
<< Quindi tu sei un figlio degli Déi?>>
Quello annuì. << Sei capitata bene, hai beccato i figli di due divinità più che propense alla lotta.>>
<< E alla vittoria.>> aggiunse Elizabeth.
Jane fissò il terreno erboso, aveva la vaga sensazione che con quei due non si sarebbe potuta comportare come con gli altri, ma la cosa non le interessava neanche troppo. Al biondo sembrava fregarne ancor meno e forse solo l'altra sarebbe rimasta infastidita dal suo solito bel caratteraccio. Si sarebbe potuta impegnare un minimo per sembrare gentile ma non le andava, voleva solo delle risposte, voleva esaurire ogni dubbio e quell'accenno alla vittoria… che la ragazza potesse aiutarla nel suo intento?
<< Posso chiedervi di chi siete figli?>> si risolse a domandare come prima cosa.
<< Ares. Guerra.>> rispose secco il giovane.
<< Nike, Dea della Vittoria.>>
<< E questo Ares è anche bravo a destreggiarsi con il senso d'orientamento? Perché mi pare che la tua bussola sia rotta.>> disse scettica.
Elizabeth sogghignò divertita, forse quella schiettezza piaceva anche a lei, mentre Nathan si bloccò di colpo guardandola in cagnesco.
<< Senti un po', ragazzina, >>
<< Ho 24 anni.>> sputò infastidita.
<< Cosa? Ma che cazzo dici, non puoi avere la mia età, sembri una mocciosa.>>
<< Sono comunque più grande di te, a quanto pare.>> Dio, non poteva credere che si stesse davvero mettendo a discutere di una cosa così futile con quel tipo.
<< La data di morte non batte gli anni vissuti.>>
<< Sì che li batte, non ricominciare con questa storia, accetta di essere il più piccolo e fai funzionare quel dannato affare.>> s'intromise Eliza mettendogli una mano sulla spalla e spronandolo a tornare al lavoro.
<< Facile per te, non hai la bussola impazzita.>>
<< Se non ci riesci con la tua ci provo con la mia.>>
<< E come pensi possa esserci utile una fottutissima bussola comune?>>
<< Per capire dov'è il dannato nord?>>
<< Ed una magica?>>
I due soldati si volsero verso Jane, che li fissava a braccia conserte con un'espressione divisa tra l'annoiato e l'infastidito.
Nathan strinse la presa attorno allo strumento. << Senti, so che ti abbiamo convinta noi a seguirci, so che sei una ragazza e mi hanno insegnato a non litigare con voi, ma te lo ripeto per l'ultima volta, questa è una bussola divina, non è magia da quattro soldi.>>
La ragazza assottigliò lo sguardo, facendo un passo avanti ed accogliendo quella palese sfida.
<< Non sto parlando di te o della tua bussola, ti hanno insegnato anche che non sei il centro del mondo?>>
Il verso strozzato che si lasciò sfuggire Eliza, palesemente impegnata a non scoppiare a ridere, arrivò solo lontanamente alle orecchie di Nathan.
<< Cosa proponi di fare, allora? La mia bussola è la nostra unica possibilità.>>
Malgrado Nathan fosse più che sicuro delle sue parole un'ombra di dubbio passò sul suo volto quando su quello della ragazza si aprì un sorriso sinistro. Non sapeva se Eliza l'avesse visto o meno ma per un momento quella piccola e malconcia donnetta in abiti medievali le parve spaventosa come uno degli incubi di Ipnos, come i fantasmi di Ade, come i demoni di Ecate.
Jane si tirò indietro, allungò le mani davanti a sé e fissò gli occhi in quelli di Nathan. Un accenno di luce brillò nelle sue iridi cupe, come una torcia lasciata cadere in un pozzo. Poi quella stessa scintilla brillò tra le dita sporche e rovinate della ragazza ed una nebbiolina verdastra roteò su sé stessa sino a stabilizzarsi in quella che aveva tutta l'aria di essere una lancia di piccole dimensioni.
Come l'ago di una bussola iniziò a ruotare e puntò verso la loro sinistra.
Forse Nathan non si era sbagliato poi così tanto.

<< Ares può fare una cosa del genere?>> domandò tronfia Jane.
Eliza si avvicinò guardinga, il volto una maschera impassibile, mentre studiava l'apparizione in verde.
<< Sei come noi.>> disse Nathan scrutandola serio.
<< È… è magia? >> domandò in un soffio la ragazza.
Jane ghignò ancora. << Forse dovrei ripresentarmi come si deve. Sono Jane Parris, figlia di Ecate.>>

 



*

 

 

<< Vola uccellino! VOLA!>>
<< Cade, chiamami di nuovo uccellino ed è la volta buona che mi tolgo un guanto e te lo tiro in testa!>>
<< Non puoi! Se no con cosa ti difendi? Sulla destra! Gancio! GANCIO!>>
<< Invece di dirmi dove colpire potresti renderti utile!>>
Jonas si abbassò per schivare la mazza di legno che un uomo pallido come la morte, gioco di parole a parte, stava facendo roteare sulla sua testa. Poco distante Cade saltellava da un punto ad un altro schivando i colpi di un lottatore di sumo dalla faccia mezza escoriata, facendolo crollare contro il muro in cui sparì in pochi secondi.

<< Uhg…brutta fine… però c'è tanto da mangiare!>>
<< Non fare il cretino e aiutami!>> urlò il ragazzo richiamando la sua attenzione.
Cade sorrise e si diede la spinta per cadere esattamente alle sue spalle.
<< Sai, un tipo che ho conosciuto ai Campi raccontava in continuazione delle sue glorie passate, era tipo un pugile credo, e diceva sempre “vola come una farfalla, pungi come un'ape”. Il ché, se me lo chiedi, è davvero un modo di dire giusto ed intelligente, se non fosse che le farfalle durano tipo cinque giorni e poi schiattano e se beccano una folata di vento sono finite. La api pure, sia ben chiaro, anzi, loro se ti pungono muoio pure. Quindi è una cosa forte da dire ma estremamente stupida. Oh, salta!>> lo afferrò per la vita e saltò via, giusto in tempo per evitare una freccia lanciata da un arciere vestito di viola.
Jonas imprecò a mezza voce, facendo ridacchiare Cade che lo ripoggiò a terra con delicatezza.
<< Da questa parte!>>
<< Perché mi hai fatto combattere fino ad ora se potevamo scappare!?>> domandò infastidito.
<< Perché così impari un minimo a fare a pugni.>>
<< Io SO fare pugni!>>
<< No, sai fare le risse da damerini, guarda che l'ho capito che sei un figlio di papà, sai? Però qui non ti basta, devi imparare a fare le risse da strada.>> lo prese per un polso e lo trascinò a sinistra.
Jonas ormai aveva rinunciato a seguire i ragionamenti del suo compagno, limitandosi ad alzare gli occhi al cielo e non ridere troppo spesso, aveva la vaga sensazione che l'ego di Cade fosse già abbastanza grande di per sé.
<< Ora andiamo fuori di qui però, vero?>> chiese stanco, maledicendosi subito dopo per la voce lamentosa che gli era uscita. Dio, sembrava un dannato moccioso che si lamenta con la madre.
Ma Cade, di nuovo, parve non notare minimamente la cosa, o se lo fece non gli diede contro in alcun modo.
<< Sì, sì, te l'ho detto che dobbiamo uscire prima delle due guardie!>>
<< E sei sicuro che questa sia la strada giusta?>>
<< Non ti fidi di me!? Oh, Jonas! Così ferisci i miei sentimenti!>>
Il ragazzino si ritrovò a ridacchiare per l'ennesima volta, probabilmente la maggior parte della sua stanchezza era a causa di questo, Cade che lo faceva ridere come non faceva da prima della sua morte. Aveva trovato un giullare, altro che un compagno d'avventure.
Il rosso iniziò a saltellare da un piede all'altro, aumentando il passo e continuando a parlare del più e del meno, i suoi argomenti salterini come i suoi passi.
Jonas sorrise, pareva la rappresentazione vivente del Bianconiglio mischiato al Cappellaio Matto di Alice, non si sarebbe affatto stupito nel vedergli tirar fuori dalla giacca un orologio a cipolla e nel sentirlo urlare che fossero in ritardo.
<< Bisogna muoversi!>> disse neanche l'avesse sentito.
Jonas annuì ed accelerò il passo per stargli vicino, << Allora fa strada, uccellino.>>

 

 

*

 

 

Le tessere si mossero veloci, una azzurra come il ghiaccio ed una verde come i prati primaverili si sovrapposero alle tessere cupe dello sfondo, cancellando per un attimo la curva e rallentando il loro incedere quando si trovarono in un lungo corridoio rettilineo. Subito dopo le tessere schizzarono verso la fine del tunnel, facendo saltar via le piccole maioliche verde scuro, irrompendo oltre l'argine ed uscendo fuori dal Labirinto di Persefone.

 

 

<< Ed eccoli usciti! Le due anime che hanno appena varcato le soglie del labirinto solo altri due figli degli Déi! La nostra progenie va alla grande signori, come era ovvio che fosse! Se volete portarvi in vantaggio sugli altri correte subito a scommettere su quante anime riusciranno a terminare la prima prova, quante si arrenderanno e quante invece punteranno dritte alla seconda!>>

 

 

 

Un riquadro rosso ed uno giallo arrivarono da un condotto di destra, davanti a loro un puntino dalle sfumature color sabbia si estinse con una piccola esplosione, ma le due tessere non rimasero troppo sorprese della cosa e si precipitarono verso l'uscita.


 

 

 

<< È una delle tue figlie, vero Apollo?>>
Il giovane, sdraiato sul suo triclinio porpora, annuì mestamente. << E lui è il tuo presumo.>>
L'uomo di fianco neanche si voltò. << Sì, sono lieto che sia riuscito ad uscire di lì. Tu non pari altrettanto felice.>> notò con voce pacata.
Apollo sospirò. << Sono felice per lei.>>
<< Ma c'è altro che ti preoccupa.>> non era una domanda.
<< Sì. L'hai visto anche tu, scommetto.>>
L'altro annuì. << Se temi per l'incolumità dell'altro tuo figlio… >>
<< Ne ho parecchi, ne ho avuti parecchi, ma che mi odiassero come mi odia lui… no, non così tanto.>>
<< Ma nonostante ciò la cosa ti turba.>>
<< È molto più potente di quanto tu non possa immaginare.>>
<< Ed è sparito.>>
<< Ed è sparito.>>

 



 

Una freccia verde acido si disegnò sul mosaico verde, dietro di lei una tesserina violacea, una bianca ed una rossa come il sangue la seguivano veloci, occupando tutto lo stretto corridoio che portava all'uscita. Quando furono fuori la freccia scomparve e la tesserina rossa tremò.

 

 

<< Cazzo!>> ringhiò Nathan schiaffandosi le mani in faccia.
Jane ed Eliza lo guardarono senza capire, l'espressione accigliata della mora fu spazzata via da un ridacchiare conosciuto.
<< Ciaaaaao!>>
Seduto su di un basso muricciolo che contornava le aiuole fiorite se ne stava seduto un ragazzo dalla pelle pallida ed i capelli rossi, un sorriso, un ghigno, enorme ad ingoiargli il viso, pieno di orgoglio e di una punta di sadico godimento.
Eliza non riuscì ad impedirsi di restituirgli quel sorriso sghembo. << Cade.>> disse facendo un cenno con la testa. << Ritrovato il tuo coltellino?>>
Il ragazzo annuì entusiasta, saltando su e sporgendosi per afferrare per la manica un ragazzino biondo di non più di sedici, diciassette anni.
<< Ehi!>> protesto quello debolmente.
<< Coltello, guanti e pure Jonas! Dici che papà me lo fa portare con noi?>> disse muovendo le sopracciglia con fare eloquente. << Aspetta. Sono io il più grande, e lo sei anche tu! Quindi devo chiedere il permesso a mamma? >>
Eliza roteò gli occhi e sospirò, avvicinandosi al giovane e porgendogli una mano.
<< Elizabeth Reed, mi spiace tu ti sia imbattuto proprio in lui.>>
<< Jonas Friedrich. Mi ha salvato, se non fosse stato per Cade sarei stato asfaltato.>>
<< Asfaltato? Gli Déi non vogliano, nella tua immensa stupidità hai trovato qualcuno della mia epoca? >> Nathan si intromise come al solito nella discussione, allungando anche lui la mano e scrutando il ragazzo con quella sua aria inquisitoria che metteva sempre in soggezione.
Jonas avrebbe quasi voluto ritirarsi davanti a lui, gli ricordava terribilmente lo sguardo freddo di suo nonno, la postura rigida dei soldati del regime. Ma poi qualcosa gli sfiorò la schiena, distraendolo dalla sua dannatissima propensione ad abbassar la testa davanti a chi era più grande, a chi si poneva come suo superiore.
Cade gli aveva poggiato la mano sulla schiena, esattamente tra le scapole, come a volerlo sorreggere, ad incoraggiarlo. Gli trasmetteva le stesse sensazioni della prima volta che l'aveva toccato, quel misto di libertà, di spensieratezza e di sensi di colpa, di affetti perduti per sempre senza aver la possibilità di dirgli addio. Ma anche supporto, un silenzioso “tranquillo, puoi fidarti di loro, ci sono io qui” che malgrado Jonas si ripetesse continuamente non gli servisse, che non aveva bisogno dell'appoggi di sconosciuti che lo trattavano come un bambino, gli allargò un calore ormai dimenticato nel centro del petto.
<< Sono del ventesimo secolo, tu anche?>> si forzò di rimanere amichevole mentre gli stringeva la mano e fu soddisfatto nel sentirsi rispondere con altrettanta tranquillità.
<< Sì, sono del '42.>> annuì Nathan.
Jonas si morse un labbro, cercando di non ridergli in faccia. << Ah, quindi sei più piccolo di me.>>
Se Eliza ebbe la buona decenza di volarsi Cade non fece il minimo sforzo ed esplose in una risata sguaiata ed alta.
<< Oddio! Sei il più piccolo! Non ti preoccupare, piccino, ci siamo noi qui a difenderti, papà Cade ti terrà la manina per tutto il tempo.>>
<< Sto per tirarti un pugno in bocca così forte da farti cadere tutti i denti.>>
<< Credimi, posso ridere anche senza!>>

Jonas lasciò perdere i due giovani, intenti a bisticciare come mocciosi, e si rivolse ad Eliza, sorridendo impacciato. << Non voglio causare disturbi, so che è una gara, non vi rallenterò.>>
Lei annuì. << Tranquillo, sono sicura che se sei arrivato fino a qui da solo devi sapertela cavare. Per di più sei stato fortunato, sia io che Nathan veniamo da un vissuto in cui anche i ragazzi della tua età dovevano rimboccarsi le maniche e fare il loro, non verrai trattato come un bambino da proteggere. >> lo rassicurò neanche avesse intuito i suoi pensieri, o forse, in passato, aveva condiviso quello stesso tormento.
La ragazza si voltò poi verso una giovane castana, che si era tenuta in disparte fino a quel momento.

<< Cosa ne dici, Jane? Siamo un bel gruppo, l'unione fa la forza, potremmo arrivare lontano e poi, una volta rimasti solo noi, gareggiare di nuovo l'uno contro l'altro.>>
Jane alzò lo sguardo, osservò Nathan e Cade con un curioso interesse, poi fissò Jonas, abbassando gli occhi sul collare lucido che portava al collo.
Se l'era quasi dimenticato, aveva scordato la sua condanna, le sue catene e gli occhi penetranti e scuri di quella ragazza gli davano un senso d'inquietudine che non sapeva spiegare.
Eppure, a pelle, senza neanche essersi mai rivolti la parola, Jonas seppe per certo che in quel curioso e raffazzonato gruppo, lei era di certo quella che gli somigliava di più. Che fosse una dannata, proprio come lui?
La giovane si mosse, annuì leggermente e gli fece un cenno con la testa.
<< Jane Parris, Jonas, giusto?>>
Annuì anche lui, non azzardandosi a porgerle la mano vista la distanza che aveva volutamente apposto tra di loro.
<< Bene, adesso che abbiamo deciso direi che possiamo anche avviarci per la prossima prova, sono tredici e noi ne abbiamo a mala pena superate due.>> sentenziò Eliza dando un sonoro scappellotto agli altri due ragazzi. << Smettetela di fare i cretini e muovetevi!>>
<< Ha cominciato lui!>>
<< Visto? Sei proprio un bambino!>>
<< Ho detto di smetterla! Cade, lei è Jane, non comportarti come tuo solito.>>
<< Come mi comporto di solito? Elza, sono a mala pena un paio di giorni che ci conosciamo e già sai quali sono i miei comportamenti?>>
<< Madre, dammi la forza… è Eliza.>>
<< E io che ho detto?>>
<< Hai detto Elza. >> gli fece notare Jonas.
<< Ma è comunque un bel nome!>> sorrise tirando fuori il coltellino dalla tasca e iniziando a giocarci.
Nathan di fianco a lui grugnì qualcosa di incomprensibile e scandagliò con attenzione tutti i presenti, individuando di sfuggita qualcuno di sua conoscenza.
<< Cazzo, ce l'ha fatta anche lei?>> borbottò fra sé e sé.
Jane, di fianco a lui, intercettò lo stesso obiettivo. << Lea? La figlia di Apollo? La conosci?>>
Accigliato l'altro fece una smorfia. << Cosa? È una semidea pure lei?>>
<< Anche il tipo con i capelli rossi che le sta vicino. È inquietante e sa moltissime cose.>>
<< Detto da te poi… dev'essere davvero inquietante allora.>>
<< Lo siete anche voi?>>
I due si voltarono verso Jonas, che costretto nella presa salda di Cade, che lo teneva sotto braccio malgrado Eliza continuasse a prenderlo a pugni sulla spalla per farlo smettere, girò la testa per guardarli, forse cercando di trovare qualche tratto particolare in loro.
<< Ma dai, anche tu?>>
<< Siamo un'allegra combriccola di semidei allo sbaraglio!>> proruppe Cade felice.
Sul viso di Nathan si tese un sorriso. << Ti sbagli rosso, a questo punto, siamo una squadra da missione.>>
Il ragazzo gli sorride di rimando, lanciando il coltellino e riafferrandolo fin troppo vicino al volto di Eliza, che gli diede un altro pugno rischiando di fargli volare la lama di mano.
<< Sto per relegarti in fondo al gruppo e smettila di giocare con quel coso.>>
<< Scusa mamma.>> disse alzando le mani in segno di resa e rinfilandosele poi in tasca.
Liberò Jonas dalla sua presa e si guardò attorno curioso, cercando un cartello o qualcosa che gli indicasse dove andare. Non ascoltò i ragionamenti dei suoi nuovi compagni, le domande su dove fossero le loro armi, se le avrebbero potute recuperare, le ipotesi su quale sarebbe potuta essere la prossima gara.
C'erano moltissime altre anime li attorno, uscite prima o dopo di lui, ma quelle che attirarono di più la sua attenzione furono un ragazzo di forse diciotto anni, vestito con dei jeans sicuramente più moderni di lui ed una maglia arancione, qualcosa che gli fece subito tornare in mente i racconti di Nathan su come fosse il Campo Mezzosangue. Il giovane stava parlando con un altro ragazzo, sempre vestito con la maglia del famoso Campo, ed impugnava una lancia della stessa sfumatura bronzea dei suoi guanti, quelli che ora pendevano dalla cinta di Jonas.
Si voltò ancora, a destra e sinistra, cercando altre persone, provando a capire se la sua sensazione fosse giusta, se dopo la prima scrematura della passeggiata nelle Praterie non ne fosse stata fatta un'altra nel Labirinto, volta a lasciare in gara solo i figli degli Déi.
Il suo sguardo si fermò però su qualcuno che non somigliava in niente all'idea di semidio che si era fatto fino a quel momento, un uomo alto, vestito di nero, con un lungo cappotto che gli arrivava sino alle caviglie, il bavero alzato a coprirgli il mento. I capelli scuri erano curati, dalle labbra dalla piega dura pendeva un sigaro acceso, unica nota di colore assieme agli occhi di cui però non riusciva a distinguere la sfumatura.
L'uomo lo guardava di rimando, le mani sprofondate nelle tasche proprio come lui. Gli fece un cenno con la testa e mimò qualcosa con la bocca, una frase distorta dalla lontananza e dal sigaro che però, in qualche modo, arrivò dritta alla sua testa.
 

Attento alla lama.


Fece appena in tempo a pensarlo che un dolore acuto e fastidioso gli colpi la mano, qualcosa che sapeva riconoscere fin troppo bene e che lo congelò sul posto.
Con movimenti rigidi estrasse la mano dalla tasca, osservandola di sottecchi, perché finché non l'avesse visto con i suoi stessi occhi non sarebbe stato vero. Invece lo era e sul palmo tremante era aperta una ferita dritta e pulita, una di quelle che si era fatto centinaia di volte da piccolo, quando ancora non sapeva maneggiare bene il coltello o gli si apriva per sbaglio di colpo come in quel momento. Ma a sconvolgerlo più di tutti non era la ferita, non era la voce dell'uomo dritta nella sua testa: era il sangue rosso, caldo e vivo che ne stava uscendo fuori.

 

Non è possibile…

 

Un brivido di terrore si insinuò in lui, distruggendo quella convinzione che ormai nulla avrebbe più potuto ucciderlo.
Era già morto, cosa sarebbe potuto andare peggio?

 

Non fatevi ammazzare e che Nike sia con voi…

 

Cazzo!

 

<< Cade! Ci sei o vuoi rimanere a fare la bella statuina lì?>>
Con uno scatto fulmineo si rimise la mano in tasca, voltandosi per sorridere ad Eliza e dirle che stava arrivando.
Cercò con lo sguardo l'uomo in nero ma di lui non vi era più alcuna traccia, era svanito nel nulla come nebbia.
Deglutendo Cade si voltò tentennante e raggiunse gli altri.
Quella storia non gli piaceva per niente ed erano solo all'inizio.

 

 

 

*

 

 

Il ragazzo riaprì gli occhi, chiedendosi perché non avesse avvertito nessun colpo.
Poi un tonfo sordo, quello classico di un corpo che cade a terra. Davanti a lui l'uomo degli anni '20 era riverso al suolo in una pozza di sangue scuro che gorgogliava dalle decine di fori sparsi sul suo petto.
Girò lentamente la testa verso l'uomo in cui si era imbattuto, trovandolo esattamente com'era prima, senza il minimo graffio. Accennò addirittura un sorriso e gli porse la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi.

<< Ripeto la domanda: tutto bene ragazzo?>>
<< S-sì… sì, sto bene grazie… ma- quell'uomo… >>
<< Non ti darà più alcun fastidio, tranquillo. Per di più, aveva qualcosa che non era suo.>>
L'uomo si avvicinò al corpo e gli sfilò il fucile d'assalto, infilandoselo in spalla e voltandosi di nuovo verso il giovane.
<< Come ti chiami?>>
L'altro deglutì. << Michael, sono- >>
<< Figlio di Apollo, lo so, ce ne sono tanti dei tuoi fratelli qui in giro.>> poi si frugò nel giaccone e ne estrasse qualcosa che lasciò il giovane Michael a bocca aperta.
<< Questa è tua, vero?>>
<< Sissignore. Voi… >>
<< Vedi di non perderla di nuovo.>>
<< Grazie. Cosa- c'è qualcosa che posso fare per sdebitarmi?>> chiese stringendo le mani sulla sua amata lancia, gli occhi chiari serissimi e puntati dritti in quelli cangianti dell'uomo.
Il sigaro si sporse in basso, obbligato dalla piega divertita presa dalle labbra del suo proprietario.
<< Qualcosa ci sarebbe, in effetti.>





















   
 
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