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Autore: evelyn80    16/05/2019    7 recensioni
Seconda classificata, a pari merito con "He loves me not" di Kim WinterNight, al contest "Music is my best disaster" indetto da Soul_Shine sul forum di EFP
Peter Cetera, vinto dalla nostalgia per la sua città natale, Chicago, si lascia andare ai ricordi più dolorosi che rendono per lui Los Angeles una città quasi invivibile.
Soltanto il suo amico e collega Robert Lamm riuscirà a tirarlo su di morale.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Peter Cetera, Robert Lamm, Terry Kath
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seconda classificata, a pari merito con "He loves me not" di Kim WinterNight, al contest “Music is my best disaster” indetto da Soul_Shine sul forum di EFP.

https://it.wikipedia.org/wiki/Chicago_(gruppo_musicale)  Pagina Wikipedia sui Chicago in italiano.
https://en.wikipedia.org/wiki/Chicago_(band) Pagina Wikipedia sui Chicago in inglese.
https://www.pinterest.it/pin/524176844123483899 Un'immagine dei Chicago sulla copertina di People del'ottobre 1978. In alto da sinistra: Lee Loughnane, Walter Parazaider. Subito sotto da sinistra: Robert Lamm, Danny Seraphine, Laudir de Oliveira (percussionista aggiuntivo dal 1974 al 1981). Ancora più sotto da sinistra: James Pankow, Donnie Dacus, Peter Cetera.



Disclaimer: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, né offenderle in alcun modo.




 

Take me back to Chicago



 

In memory of Terry Alan Kath, 31.01.1946 - 23.01.1978


 

Los Angeles, giugno 1978



Peter Cetera fece rombare per un’ultima volta il motore della Harley Davidson prima di spegnerlo. Tolse il casco, scese dalla moto e mise il cavalletto, lasciandola posteggiata nel vialetto d’accesso della sua villetta di Hollywood.
Scosse i capelli biondi umidi di sudore, passandovi una mano in mezzo per scollarseli dal viso. Aveva caldo, molto caldo, ed era solo giugno. Quella era una delle tante cose che odiava di Los Angeles: il caldo. Durante l’estate non pioveva mai e, oltretutto, spesso – e quel giorno non faceva eccezione – la città era flagellata da un vento torrido proveniente dal deserto che faceva alzare le temperature fino a livelli insopportabili. O almeno per lui, che era nato e vissuto fino a dieci anni prima a Chicago.
Continuando a scuotere la testa, si incamminò verso la porta di casa, iniziando a sbottonarsi la camicia: aveva bisogno di una doccia formato “Cascate del Niagara”. Una volta all’interno dell’abitazione si buttò a sedere sul divano, scalciò via a fatica gli stivali di pelle e chiuse gli occhi per un istante, godendosi l’aria più fresca del salottino in penombra. Per fortuna la sua villetta guardava verso le colline, ed era più riparata dal sole inclemente del tardo pomeriggio.
Vincendo la tentazione di spaparanzarsi si alzò con un gemito, andò in cucina per prendersi una birra fredda e poi si spostò in bagno, concedendosi una doccia lunga e rilassante. Mentre l’acqua fresca scorreva a rivoli sulla sua pelle accaldata si carezzò intimamente, con rudezza, fino a raggiungere il piacere. Era solo da troppo tempo, ormai: da quando sua moglie, Janice, lo aveva lasciato cinque anni prima. Non gli era mai piaciuto approfittarsi delle groupie, benché ne avessero a frotte, e la sua mano destra era diventata ben presto la sua unica amante.
Lasciò che il forte getto della doccia lavasse via i resti del suo seme, poi chiuse il rubinetto e ne uscì, tamponandosi con un asciugamano. Nel rivestirsi decise di rimanere a torso nudo. Il vento caldo proveniente dal deserto continuava a soffiare, cominciando già ad insinuarsi con fastidiosi spifferi all’interno della villetta.
Lasciando che i capelli, ancora umidi, gli rinfrescassero il collo, uscì sul terrazzino al primo piano e si mise a sedere sulla poltroncina di vimini. Davanti a lui, su un tavolo basso e riparato dal vento, c’era quello che considerava il suo tesoro, l’unica cosa in grado di calmarlo quando era stressato e stanco – proprio come in quel momento – dopo una lunga sessione di prove con la band. Un puzzle da duemila pezzi raffigurante lo skyline di Chicago visto dal lago Michigan. Era a due terzi del lavoro, ormai. Aveva completato tutti i palazzi e il loro riflesso nelle acque del lago, ma gli rimaneva ancora buona parte del cielo da portare a termine. Con un lungo sospiro si mise comodo a rovistare nella scatola, frugando tra i pezzi rimanenti in cerca di una nuvola dalla forma insolita.
Mentre procedeva nella sua ricerca col pensiero corse alla splendida città che lui e i suoi amici, gli altri membri del gruppo che ne portava il nome, avevano lasciato nel 1968 inseguendo il miraggio del successo.

Era stato il loro produttore, James Guercio, a convincerli – obbligandoli quasi – a lasciare Chicago per trasferirsi a Los Angeles, dove avrebbero avuto maggiori possibilità di realizzarsi. E quindi ecco che tutti e sette – lui, Robert, James, Walter, Lee, Danny e Terry – avevano preso strumenti e bagagli ed erano volati nella città degli angeli, dove Guercio aveva già preso in affitto per loro sette villette, tutte nella stessa strada, perché potessero lavorare insieme alle loro nuove canzoni.

Peter sospirò ancora, scartando un pezzo dopo l’altro. In effetti, il successo l’avevano trovato, eccome. Nel giro di dieci anni avevano pubblicato nove album registrati in studio, due live e una raccolta, che avevano fruttato loro diversi dischi d’oro e di platino, e si erano esibiti dal vivo in un gran numero di concerti e perfino in tv. Ma a che prezzo…
A lui era costata una mandibola frantumata, e al povero Terry… la vita.
Si carezzò il mento, alla ricerca della cicatrice ormai quasi del tutto appianata.

Ricordò che era stato Jimmy a proporre di andare a vedere quella partita di baseball. Vivevano a L.A. da poco, e non avevano gran ché da fare, quindi tutti avevano accettato con entusiasmo. Quale buon americano non ama il baseball, dopotutto? Purtroppo per loro, però, la squadra locale – i Los Angeles Dodgers – quel giorno gareggiava contro gli White Sox di Chicago, e il gruppo di tifosi in mezzo ai quali si erano seduti non aveva apprezzato molto il loro entusiasmo nei confronti della squadra ospite. Ne era scaturita una rissa di proporzioni epiche in cui Peter aveva difeso, letteralmente con le unghie e con i denti, l’onore della sua amata squadra. Era stato portato via a braccia, da Terry e Walt, con il viso tumefatto. In ospedale gli avevano diagnosticato la frattura della mandibola in tre punti differenti, e gli avevano applicato altrettanti perni per ricomporre la rottura. E, per fortuna, non gli avevano fatto saltare tutti i denti…
Per alcuni mesi era stato costretto a tenere la bocca semichiusa, e questo aveva dato origine al suo particolare modo di cantare, quella specie di mezzo falsetto che lui odiava con tutto il cuore. Il loro successo, però, a quanto diceva Guercio, era dovuto anche grazie a quel suo particolarissimo tono di voce e, quindi, era stato costretto a continuare ad usarlo anche una volta guarito. Non che gli fosse stato poi tanto difficile, in effetti, dato che da allora non era più stato in grado di spalancare la bocca.

Emise un altro, lunghissimo sospiro, subito seguito da una piccola esclamazione di vittoria: aveva finalmente trovato il pezzo che cercava. Lo incastrò con delicatezza, poi si rimise a frugare nella scatola in cerca di un pezzo veramente particolare, uno dei pochi che avevano tutti e quattro i lati forati.
Ben presto il suo sguardo si offuscò di nuovo, vinto dai ricordi. L’immagine del pacifico lago Michigan fu sostituita da quella del faccione di Terry, la bocca atteggiata a un sorriso timido. Terry, il loro straordinario chitarrista, un virtuoso delle sei corde. Rude come un orso e, allo stesso tempo, puro e semplice come un bambino. Aveva sempre ostentato una baldanza che non aveva mai avuto, e che usava solamente per nascondere la sua immensa timidezza. Era sempre stato veramente un ragazzone, il tipico “grande, grosso… e coglione”.  
«Oh… Terry… Forse, se fossimo rimasti a Chicago, tutto questo non sarebbe mai successo», esalò Peter, lasciandosi cadere contro la spalliera della poltroncina di vimini. Chiuse gli occhi e seguì il filo dei suoi pensieri. Ormai si era inoltrato talmente a fondo nelle sue memorie che nemmeno il suo amato puzzle sarebbe stato in grado di farlo tornare alla realtà. Tutto ciò che gli rimaneva da fare era continuare a pensare al povero Terry, e maledire Guercio per averli fatti diventare così famosi.

Il successo aveva dato subito alla testa, a Terry. Alle feste si ubriacava di brutto, compiendo spesso pazzie inimmaginabili. Una di queste gli era costata la vita.
L’ultima festa cui il chitarrista aveva partecipato, a casa di Don Johnson – loro amico e assiduo roadie – aveva avuto luogo esattamente sei mesi prima, il 23 gennaio. Terry aveva bevuto fino all’inverosimile, mischiando birra e whisky, poi si era messo a giocherellare con le sue pistole. Che cosa se le fosse portate dietro a fare se lo erano chiesto tutti, dopo; ma solo Peter era a conoscenza di uno dei segreti più sconvenienti del suo amico: amava giocare alla roulette russa, scommettendo migliaia e migliaia di dollari sulla propria vita. Gli piaceva il rischio, diceva, il brivido che provava nel sentire il click del grilletto che scattava a vuoto.
Una volta, Peter stesso aveva assistito a una di quelle scommesse. Terry era su di giri, rideva come un matto mentre agitava il revolver in aria, facendo ruotare il tamburo con la mano sinistra. Non appena la rotazione era terminata, il chitarrista si era puntato la pistola alla tempia.
Peter lo aveva afferrato per la spalla e lo aveva costretto a voltarsi verso di lui.
«Che cazzo stai facendo, Terry?», gli aveva chiesto, fissandolo implorante. «Vuoi ammazzarti?!».
Il ragazzone aveva sorriso, un sorriso talmente dolce e ingenuo che a Peter si era stretta la bocca dello stomaco.
«Tranquillo, Pete. Ho sempre una fortuna sfacciata, a questo gioco!», aveva risposto, poi aveva premuto il grilletto, scoppiando di nuovo a ridere nello scoprirsi ancora vivo.
Al bassista era venuto da vomitare. Aveva lasciato di corsa la stanza e si era precipitato in giardino, a rimettere dietro un cespuglio. Poi si era accasciato sulla ghiaia, appoggiando la schiena contro un grosso vaso ornamentale, ed era scoppiato a piangere. Terry lo aveva trovato due ore dopo, ancora fermo nella stessa posizione. Il chitarrista aveva visto le lacrime negli occhi del suo amico e, finalmente più lucido, gli aveva chiesto scusa per come si era comportato. Ma non per questo aveva rinunciato al suo gioco proibito. Anzi, aveva chiesto al bassista di mantenere il massimo riserbo, in merito. E lui, come un idiota, gli aveva dato retta.

I nodi nei vimini della spalliera pungevano la pelle nuda della schiena di Peter, ma lui non accennò comunque a muoversi. Il vento caldo del deserto gli scompigliò i capelli e la peluria dorata che gli copriva il petto, e lui neanche se ne accorse.
Aveva ancora ben chiara in mente la telefonata che aveva ricevuto da Don, subito dopo che Terry si era ucciso.

«Peter!… Peter, è successo un casino!».
Il tono di voce dell’amico lo aveva subito allarmato. Aveva sentito il sangue ghiacciarglisi nelle vene. Sapeva che Terry era andato alla sua festa. Era stato invitato anche lui ma aveva rifiutato perché, da quel codardo maledetto che era, aveva avuto paura di vedere il loro ragazzone compiere un’altra delle sue cazzate. E si era reso conto di sapere già quello che era successo, lo aveva chiaro nella mente. Questa volta, la fortuna di Terry si era esaurita.
«Peter…», aveva ripreso Don, incurante del suo silenzio, «Terry si è messo a giocare con le sue pistole… Si è messo a pulirle e poi ha cominciato a farsene girare una sull’indice e se l’è puntata alla tempia. Gli ho detto di non fare lo stronzo: mi stava mettendo paura. Ma lui mi ha risposto di non preoccuparmi. Ha preso l’altra, mi ha detto che era scarica, mi ha fatto vedere il caricatore vuoto. Poi ha premuto il grilletto e…».
Le sue ultime parole si erano confuse nella mente di Peter. Era riuscito solo a pensare al fatto che Terry non c’era più, e che non gli sembrava neanche vero. Non aveva voluto crederci.
«C’è anche sua moglie, qui, ed io non so come cazzo fare a dirgl…». Un grido acuto e isterico aveva interrotto Don. Camelia, la moglie di Terry, aveva appena scoperto il cadavere del marito.
Era stato in quel momento che Peter aveva capito quanto avesse sbagliato nel tacere sul vizio dell’amico. Se avesse detto agli altri ciò che il loro ragazzone faceva in quelle feste, forse avrebbero potuto salvarlo. E, invece, aveva fatto finta di niente, aveva nascosto la testa nella sabbia come il peggiore degli struzzi. Uno struzzo stronzo. Bell’amico del cazzo, che era stato…
Era scoppiato a piangere, lasciandosi sfuggire la cornetta del telefono. Era caduto in ginocchio e aveva battuto i pugni a terra, invocando il nome del suo amico, fino a scorticarsi le nocche. Poi aveva arrancato fino al frigorifero, aveva preso una confezione da sei di birra e se l’era scolata tutta.
La sua morte era stata fatta passare per un incidente, ma Peter era certo di come fossero andate esattamente le cose: alla fine, Terry aveva perso la sua scommessa.

«Terry…», esalò Peter, le lacrime che gli scorrevano lungo le guance. «Terry, perché…». Colse una fugace immagine dello skyline di Chicago e, per un istante, fu tentato di mollare un calcio al tavolo, buttando all’aria il puzzle. «Voglio tornare a casa…», singhiozzò, scosso dai singulti del pianto. «Mamma, voglio tornare a casa…».
Il vento caldo del deserto lo investì di nuovo portandogli un profumo di fiori, quasi fosse un segno della presenza eterea del suo amico. Spalancò gli occhi azzurri e fissò il cielo. «È stata tutta colpa mia… Mi manchi da morire, Terry…».
Trasportato dal vento, un grosso petalo rosso, forse di ibisco, si posò sul suo petto all’altezza del cuore. Peter lo raccolse con delicatezza nel palmo della mano. Pareva quasi che Terry gli stesse dicendo che non era stata colpa di nessuno. Un nuovo accesso di pianto gli scosse il petto e lui lo assecondò, fino a rimanere senza più lacrime. A quel punto baciò il petalo e se lo lasciò scivolare nella tasca dei pantaloni.
«Grazie, amico mio…», sussurrò al vento, per poi rimettersi a rovistare nella scatola del puzzle.
Dieci minuti dopo il rombo di un motore sfiatato lo costrinse ad alzare lo sguardo. Si alzò dalla poltroncina appena in tempo per vedere la vecchia Chevy 210 azzurra di Robert Lamm entrare nel suo vialetto.
Il tastierista parcheggiò accanto alla moto e, non appena sceso, alzò lo sguardo al terrazzino.
«Ehi, fratello, cosa combini qui tutto solo? Non ti ho già detto un sacco di volte che hai bisogno di compagnia?», disse, apostrofando l’amico che gli fece cenno con la mano di raggiungerlo.
Robert salì al primo piano e uscì sul balcone, appoggiandosi al basso muretto di cemento bianco.
«Ehi… che stai facendo?», chiese, curioso.
«Un puzzle», rispose Peter, provando a incastrare un pezzo a caso.
«Ah…», sospirò il tastierista, prendendo in mano il coperchio e ammirando l’immagine. «Il lago pacifico. Cos’è, hai nostalgia di casa?».
«Un po’».
Robert si chinò per frugare tra i pezzi rimanenti, ne scelse uno e lo incastrò al volo. Poi alzò gli occhi e fissò l’amico in faccia. «Hai pianto, per caso?», chiese, notando i suoi occhi gonfi.
Peter sospirò e annuì, voltando il capo. «Stavo pensando a Terry. Mi manca da morire».
«Manca a tutti noi, Pete. Lo sai quanto è stata dura continuare senza di lui».
«A volte, vorrei tanto che ci fossimo sciolti. I veri Chicago non esistono più, senza il nostro ragazzone».
Robert si accucciò accanto alla poltroncina e strinse la mano del bassista.
«Non dire così, amico. Terry vive ancora, attraverso di noi. Se non sarà dimenticato, allora non morirà mai».
Peter si sforzò di sorridere alle parole del tastierista che sorrise a sua volta, rimettendosi in piedi.
«Bene, credo proprio di essere arrivato al momento giusto, allora», riprese subito Robert. «Urge immediatamente cancellare questo istante di sconforto con un’uscita a quattro. Ti ho mai detto che mia moglie ha una sorella niente male?».
«Almeno un centinaio di volte», ghignò Peter, suo malgrado.
«E allora forza, mandibola bionica. Lascia perdere il tuo puzzle, mettiti la tua migliore camicia hawaiana e andiamo a folleggiare con due splendide pupe!».
Peter fissò l’amico con un cipiglio scherzoso. «Mandibola bionica?! Attento a come parli, sporco broccolino!».
«Piano con i complimenti, così mi fai arrossire», replicò Robert, ammiccando.
Il bassista non riuscì a trattenere una risata. Si infilò la prima camicia che trovò, lasciandola sbottonata sul petto.
Robert lo imitò. «Vuoi forse fare a gara di villosità? Guarda che non mi batte nessuno!», esclamò, mettendo in mostra il petto coperto da fitti peli neri.
Peter rise ancora, di gusto. Il passato, per il momento, era stato accantonato, la nostalgia relegata in un angolino. Dopotutto, Bobby aveva ragione: era solo da troppo tempo, ormai.


 

Fine




Angolo autrice: E qui abbiamo bisogno di un po’ di storia, per facilitare sia il lavoro della giudicia sia la comprensione da parte di tutti gli altri lettori.
I Chicago – Lee Loughnane alla tromba, Walter Parazaider al sassofono e flauto, James Pankow al trombone, Terry Kath alla chitarra, Robert Lamm alle tastiere, Danny Seraphine alla batteria e Peter Cetera (si pronuncia Setère) al basso – si formano nel 1967 proprio a Chicago, città natale di tutti quanti tranne Robert (che è nato a Brooklyn, New York, ma vi si è trasferito all’età di 15 anni). Il loro produttore, James William Guercio, l’anno dopo li convince a trasferirsi a Los Angeles, dove crede che avranno più possibilità di avere successo. Li sistema tutti nella stessa zona, a Hollywood, perché possano lavorare insieme a canzoni nuove che siano tutte loro (mentre prima suonavano cover).
Il successo, in effetti, non tarda ad arrivare però, in molte delle loro canzoni, specie dei primi anni, si trova – a volte manifestamente, a volte in modo più velato – la loro repulsione per la città degli angeli. Per esempio, in “Goodbye”, canzone del 1972 contenuta nell’album “Chicago V”, dicono chiaramente che L.A. è noiosa (‘cause L.A. was so boring); mentre in “Take me back to Chicago”, canzone del 1977 che da il titolo a questa mia storia, contenuta nell’album “Chicago XI”, esprimono tutta la loro nostalgia per la città natale (viene citato il “Lake of peacefulness”, concetto che ho ripreso anch’io relativamente al lago Michigan) e dichiarano che L.A. è un po’ troppo difficile (L.A. was just a bit too hard) e che vorrebbero molto tornare alle origini.
In altre canzoni ancora, manifestano il loro disagio in modo più leggero, per esempio lamentandosi perché tutti lì a Hollywood vanno di fretta, oppure perché non trovano la marca della loro colazione preferita. Ce ne sono parecchie, in effetti, su questo tenore.
Ecco perché ho deciso di far provare a Peter Cetera, protagonista della mia storia, questa forte nostalgia che lo spinge a ricordare il passato.
I particolari episodi che ricorda, ahimè, sono veri.
Nel 1969, Peter viene coinvolto in una rissa durante una partita di baseball dei Los Angeles Dodgers. Non so se giocassero effettivamente contro una squadra di Chicago, questa è una mia licenza poetica, ma effettivamente il buon bassista si ritrova con la mandibola spaccata in tre punti diversi, la frattura viene ricomposta tramite l’ausilio di perni e per alcuni mesi è costretto a tenere la bocca semichiusa e a imparare a cantare nel modo che poi diventerà il suo marchio di fabbrica. Quello che ho definito un “mezzo falsetto”, perché, in effetti, non è che canti come i “Cugini di Campagna”, tanto per capirci, a volte usa la sua vera voce, però per le note alte ci si avvicina parecchio. Sinceramente, tempo addietro, quando avevo già fatto ricerche in merito, mi sembrava di aver capito che questa frattura lo avesse portato ad una limitazione nell’apertura della bocca, di cui però, attualmente, non ho trovato traccia. Guardandolo mentre canta, però, pare di notare che, in effetti, abbia difficoltà ad aprirla oltre un certo limite e quindi ho mantenuto questa idea che mi ero fatta all’interno della storia.
Per quanto riguarda la tragica morte di Terry Kath, scomparso 7 giorni prima del suo trentaduesimo compleanno, ufficialmente è stata fatta passare per un incidente, così come ha dichiarato Don Johnson, il roadie a casa del quale si svolse la festa in cui il povero chitarrista perse la vita. In molti, però, hanno supposto l’ipotesi che Terry stesse giocando alla roulette russa. Pare infatti che amasse molto le pistole, e che amasse ancora di più bere, e che quando era ubriaco… L’ipotesi che mi sono fatta io, e che ho messo in bocca a Peter – altra mia licenza poetica, come anche il fatto che il bassista abbia assistito di persona ad uno di questi “giochi con la morte” – è che si sia trattato effettivamente della roulette russa, perché che senso ha portarsi dietro due pistole ad una festa e mettersi a pulirle, ubriaco marcio, seduto ad un tavolo davanti all’amico roadie e alla moglie? (Sì, era presente anche lei, a quanto pare).
Vero è che tutti gli altri membri della band sono rimasti molto scossi dalla morte del loro amico chitarrista e sono stati sul punto di sciogliersi, anche se poi sono stati convinti dal loro nuovo produttore (nel frattempo avevano dato il ben servito a Guercio) a continuare, prendendo come nuovo chitarrista Donnie Dacus.
Da qui in avanti inizia la seconda fase dei Chicago, in cui il loro sound cambia moltissimo. Produrranno ancora molte belle canzoni, ma a partire dalla metà degli anni ’80 cadranno in declino. Si dedicheranno a un ritmo molto più commerciale che non ha mai convinto appieno i puristi.
Per la cronaca, nel 1985 Peter Cetera lascerà il gruppo per dedicarsi alla carriera solista, e verrà sostituto dal giovane Jason Scheff.
Ultime precisazioni doverose: nel 1978, anno in cui si svolge la mia storia, Peter e Robert hanno entrambi 34 anni. Peter è single dal 1973 mentre Robert è sposato, già da due anni, con Julie Nini. Nel 1982, il bassista effettivamente sposerà Diane Nini, sorella di Julie, quindi è molto probabile che il tastierista abbia incentivato i loro incontri.  
Riguardo ai nomignoli che i due si rivolgono alla fine – e che sono una mia licenza poetica – “mandibola bionica” credo sia abbastanza intuitivo, dato tutto quello che ho raccontato sopra; mentre “sporco broccolino” è un riferimento al fatto che Robert è nato a Brooklyn; parola che, italianizzata, somiglia un po’ a broccolo. Tra l’altro, non ne sono certa perché non ho trovato fonti attendibili, pare che Peter abbia origini siciliane. Più accertate, invece, sono le sue origini dell’est Europa, Polonia e Ungheria.
Ultimissima annotazione: l’accenno alla doccia formato “Cascate del Niagara” è un piccolo omaggio al film “Nati con la camicia” con Bud Spencer e Terence Hill.
Spero di aver detto tutto quanto il necessario, e visto che le note sono quasi più lunghe della storia stessa, direi che è meglio se mi fermo qui.
Spero di avervi intrattenuto piacevolmente.
Evelyn.

  
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