Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Moonlight_Tsukiko    18/05/2019    1 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Go Ahead and Cry, Little Boy
Capitolo 8

 
Levi

Domenica, mio padre chiama.

Ha cominciato a chiamare quattro mesi fa. Per il mio stesso bene, fingo che le sue telefonate non abbiano nulla a che fare con la morte di mia madre. È solo una coincidenza che casualmente ha avuto inizio nello stesso periodo.

Il pensiero, però, mi conforta e non riesco a non sentirmi un po’ triste. Di mio padre so solo che si chiama Michael, è sposato e ha un figlio di dieci anni di nome Samuel. Sua moglie mi odia e il ragazzino si avvinghia sempre a me quando mi vede. Mi sento sempre spossato dopo averlo visto.

Michael dice che mi vuole vedere e ignoro le grida emozionate di Samuel in sottofondo. Sento la voce della moglie, liscia come il miele, e digrigno i denti.

Le mani tremano durante tutto il tragitto fino a casa sua. Accosto a metà strada per riprendermi. Premo la testa contro il sedile dell’auto e prendo dei respiri profondi per calmarmi. Quando credo che l’imminente attacco di panico sia svanito, grido.

Quando arrivo, la moglie di Michael apre la porta. L’ho vista solo tre volte, quindi non mi preoccupo del fatto di non ricordarmi il suo nome.

“Ciao,” dico bruscamente e sbircio da sopra la sua spalla verso la casa. “C’è Michael?” Non l’ho mai chiamato papà. Per quanto mi riguarda, io non ho un padre.

“È nel suo ufficio,” risponde, anche lei brusca.

Annuisco ed entro in casa. Non mi tolgo le scarpe. Sono fottutamente ricchi, dopotutto. Non importa se sporco i loro immacolati tappeti bianchi.

“Levi!”

Prima di potermi muovere, un paio di braccia mi circondano strette la vita. Mi irrigidisco alla presa, fissando un ammasso di capelli scuri contro il mio stomaco. Mi muovo a disagio, ma Samuel non sembra afferrare il concetto.

“Ehi, ragazzino,” mi sforzo di dire. Mi accovaccio un po' in modo che le nostre facce siano allo stesso livello. Gli arruffo i capelli e gli dedico un sorriso sforzato. “Come stai?”

“Bene-”

“Sammy? Perché non lasci che tuo fratello si accomodi? Dopo potrai parlargli quanto vuoi,” la moglie di Michael afferra protettivamente di piccole spalle di Samuel e lo allontana da me.

Resisto al bisogno di correggerla. Samuel è il mio fratellastro. Ma so che Samuel ci rimarrebbe male se dovessi specificarlo, quindi assottiglio le labbra e mi rialzo.

“Ci vediamo dopo, okay?” Dico, sorridendogli. “Te lo prometto.”

Il broncio di Samuel non sparisce. Mi sforzo di guardare altrove e mi dirigo verso le scale silenziosamente. Entro in molte stanze differenti visto che non ho mai visto l’ufficio di Michael prima d’ora. Dopo un altro paio di tentativi, lo trovo alla fine del corridoio.

“Ehi,” stacca gli occhi dal computer per dedicarmi un distratto sorriso. “Sei venuto.”

Sollevo le spalle e resto fermo sulla soglia della porta, i miei occhi si soffermano sulle fotografie incorniciate di lui e la sua… famiglia. Un sapore amaro mi riempie la bocca.

“Me l’hai chiesto tu,” mormoro. Michael si agita sulla sedia. Questa scricchiola e lo guardo.

“Oh, giusto,” annuisce, indicando una delle sedie di fronte alla sua scrivania. “Siediti.”

Mi siedo rigidamente e scivolo all’indietro, le gambe distese di fronte a me.

“Samuel è ancora piuttosto piccolo,” dico tanto per fare conversazione. “Tua moglie mi odia ancora. Immagino il mondo vada avanti alla perfezione, dopotutto.”

“Di cosa stai parlando?”

“Andiamo,” mi avvicino con il busto, assottigliando gli occhi. “Non mi hai chiesto di venire perché volevi vedermi. Mi hai chiamato perché mia madre è morta e stai fingendo che te ne importi qualcosa.”

Michael mi lancia un’occhiataccia.

“Mi è sempre importato.”

“Cazzate,” sbotto, appoggiando la schiena sulla poltrona. È comoda, ma per qualche motivo è scomoda. “Una cazzata enorme.”

“Sembri Kenny,” dice Michael. Il suono dei tasti della tastiera riempiono la stanza. Mi fa infuriare, ma mi mordo l’interno della guancia.

“Fottiti. Non sono per niente come lui.”

“Perché sei così arrabbiato, Levi?” Michael finalmente chiude il computer, intreccia le dita e ci appoggia sopra il mento, guardandomi. “Perché ti comporti così?”

Mi si forma un nodo in gola. Cerco di deglutirlo e fingere che le mie emozioni non abbiano preso il sopravvento. Anche se è troppo tardi. Michael ha già visto abbastanza.

“Nessun motivo,” dico con tono piatto, spostando l’attenzione sulle mie scarpe. “Sono a posto.”

“Okay,” risponde, schiarendosi poco dopo la gola. “Come stai gestendo la situazione?”

“Bene.”

“Vai in terapia?”

“No.”

“Il dottore ha detto che ti farebbe bene.”

“Dottore?” Alzo lo sguardo su di lui a questa frase. “Come cazzo hai-”

“Kenny mi ha contattato.”

“E per quale cazzo di motivo? Non abbiamo soldi per cose del genere,” mormoro. “Perché avrebbe dovuto chiamarti? Non ti è neanche mai importato. Sei salpato su una nave prima ancora che io nascessi. Perché diavolo dovrebbe coinvolgerti?”

Michael si agita sulla sedia.

“Sono comunque tuo padre,” dice a voce bassa. “Non ero pronto al tempo, Levi. Non potevo-”

“Non volevi fare da padre al figlio di una puttana,” sputo, scuotendo la testa. “Perché non lo ammetti e basta, invece di rifilarmi le stesse futili scuse?”

Se fossi stato in uno stato mentale migliore, non avrei imprecato così tanto. Ma non lo sono, ed è molto più facile così rendere chiaro il mio comportamento, facendo capire che non voglio essere qui e fingere che tutto vada a meraviglia.

“Non è una scusa, Levi,” Michael sembra stanco, ma non mi importa minimamente. “Questo è ciò che ho provato allora. Avevo solo vent’anni. Frequentavo ancora l’università. Riuscivo a malapena a mantenermi e pagare l’affitto ogni mese.”

“Nemmeno mia madre ci riusciva,” ribatto. “Riuscivamo a malapena a sopravvivere. Ha perso molto clienti visto che sembrava così malata e nessuno vuole scoparsi qualcuno pelle e ossa.”

Mi fermai, cercando di ricordarmi come respirare. Non ne ho mai parlato con nessuno, nemmeno con Kenny, visto che non abbiamo quel tipo di legame dove ti apri ed esponi le tue insicurezze ed emozioni.

“Tu lo sapevi, però… vero? Voglio dire, quanto può essere benestante una prostituta?”

“Volevo aiutare,” dice Michael, il suo tono sembra spezzarsi sempre di più e il retrogusto del trionfo mi invade il palato. “Tua madre era orgogliosa, però. Non volle accettare il mio aiuto. Ci ho provato per tanto tempo. Dopo un po’ ha bloccato il mio numero e non l’ho più sentita.”

Alzo le spalle.

“È facile ora starci male,” dico. “Ti fa sentire meno schifoso, vero? Scommetto che riesci a trovare sempre una nuova scusa che giustifichi il tuo abbandono. Mia madre avrebbe potuto fare lo stesso, sai. Avrebbe potuto dire che era troppo giovane e lasciarmi morire sul ciglio della strada. Ma non l’ha fatto. Si è presa le sue responsabilità. Immagino fosse troppo chiederti di farlo anche tu.” A questo punto mi alzo in piedi. Non c’è altro da dire. Non ho alcun motivo per stare qui un minuto di più. “Non richiamare,” aggiungo. “Non ho alcun interesse nel rivederti. Stammi lontano, hai capito? Tanto sappiamo entrambi che ti riesce a meraviglia.”

Non resto per vedere la sua espressione. Cerco di ignorare le mani tremanti e mi dirigo al piano di sotto. Samuel è seduto sul primo scalino. Sta giocando con una piccola palla tra le mani; solleva lo sguardo quando mi sente avvicinarmi.

“Hai finito?” urla contento, gli occhi spalancati e luminosi. “Vuoi giocare con me ora? Ho un nuovo videogioco e-”

“Non posso,” sussurro. Parte di me vorrebbe odiare Samuel, considerando che la sua vita è piena di affetto e ogni possibile comodità con un padre che non lo ha mai abbandonato, ma non ci riesco. È solo un bambino. Non c’entra nulla in tutto questo. Mio padre è il problema, non lui.

“Levi,” la moglie di Michael parla con voce atona. “Puoi restare un’ora. Dopo puoi andare.”

“Non so se sia una buona idea,” dico. Sento le scale scricchiolare e capisco che mio padre è dietro di me.

“Solo per questa volta,” interviene Michael. Non mi giro per guardarlo.

“Okay,” borbotto. Samuel sta praticamente vibrando dalla contentezza.

“Davvero? Grandioso!” Grida. Si lancia verso di me correndo su per le scale. “Possiamo andare in camera mia!”

Lo seguo seccamente. Samuel apre la porta della sua stanza e salta sul suo grande e comodo letto.

“Che tipo di giochi ti piacciono?” Chiede. Scuoto la testa.

“Non gioco molto ai videogiochi,” ammetto. Samuel sbatte gli occhi, curioso.

“Perché no?”

“È difficile con scuola, impegni e tutto il resto,” mento. Non posso dirgli che non ho mai avuto i soldi per comprare dei giochi.

“Oh,” risponde Samuel. “Che classe fai?”

“Sono all'ultimo anno,” rispondo. “Il prossimo autunno cominciò l’università.”

“Wow,” Samuel sembra esserne colpito. Non resisto alla tentazione di allungare la mano e scompigliargli i capelli. Ridacchia e riesce a schivare l’imminente arruffata. “Quindi sei quasi un adulto, giusto?”

“Presto,” rispondo, annuendo.

Samuel si concentra sul gioco poco dopo. Cerca di farmi prendere in mano il controller e giocare un paio di volte, ma scuoto la testa. Non ho il desiderio di perdere contro un ragazzino di dieci anni.

“Levi?” Chiede dopo che siamo stati seduti in silenzio per un po’. Lo guardo.

“Mhm?”

“Perché non piaci alla mia mamma?” Chiede. Abbandona il gioco così da potermi guardare dritto in viso. Deglutisco con fatica.

“Cosa vuoi dire?” evito la domanda. “Alla tua mamma piaccio.”

“Non penso sia vero,” dice Samuel, sedendosi sulle ginocchia. “Quando te ne vai, lei e papà urlano. Lo fanno spesso.”

“Urlare?” Samuel annuisce.

“È spaventoso. L’ho detto a una mia amica e lei ha detto che quando i suoi genitori urlavano spesso, poi hanno divorziato. Ha dovuto trasferirsi per vivere con sua mamma.”

“I tuoi genitori non divorzieranno,” rispondo, cercando di rassicurarlo. “Magari possono arrabbiarsi ogni tanto, ma si amano.”

Fa male dire queste parole, ma devo respingere qualsiasi emozione per il bene di Samuel. Dopo un po’, sembra essersi calmato.

“Okay,” sussurra, guardandosi le mani.

“Samuel?” lo chiamo, ma non risponde. “Ehi, Sammy. Guardami.”

Alza lo sguardo.

“Cosa c’è?”

“Non preoccuparti, va bene?” Dico. “Non ha nulla a che fare con te. È qualcosa che devono risolvere loro due. La cosa migliore che puoi fare è mantenere la testa alta e non lasciare che tutto questo ti travolga.”

“Va bene,” risponde. Afferra un filo scucito della coperta. “Levi?”

“Dimmi.”

“Perché non vivi con noi? Sei mio fratello, no?”

“Sì,” confermo. “Ma ho una famiglia mia. Devo stare con loro così non si sentono soli.”

“Davvero?” Annuisco.

“Già. Ma se potessi scegliere, mi piacerebbe vivere con te,” dico, sorridendogli.

“Potremmo giocare insieme ai videogiochi!” risponde, emozionato all’idea.

“Puoi scommetterci,” affermo. “Sarebbe divertente.”

Il mio sorriso comincia a scomparire. Samuel mi guarda negli occhi e si acciglia.

“Levi,” comincia a parlare lentamente. “Io non ti rivedrò più, vero?”

“Huh?” chiedo. Lui si chiude su sé stesso.

“Scusa,” dice d’un fiato. “Ci stavi mettendo tanto in ufficio e volevo sapere perché. Quindi sono venuto a chiamarti e ti ho sentito litigare con papà.”

“Oh, Sammy,” borbotto con voce soffocata. Lacrime invadono i suoi occhi e improvvisamente mi sento uno stronzo. “Sammy, mi dispiace che tu abbia dovuto sentirlo.”

“Il mio papà è una cattiva persona?” Chiede velocemente.

“No, piccolo,” rispondo, deglutendo. “Ha solo fatto un errore, ecco tutto. Non è una cattiva persona.”

“Le persone cattive fanno cose cattive, però,” sostiene.

“Anche le persone buone,” continuo. “Anche se questo non vuol dire nulla.”

Asciugo delicatamente le lacrime con il pollice e lui accompagna la testa al tocco della mia mano, il suo corpo trema quando singhiozza.

“Ascoltami, okay?” insisto. “Come hai sentito, non verrò più qui. Ma non è a causa tua, di tuo padre o di chiunque altro, hai capito? È qualcosa che devo fare per me stesso.”

“Non voglio che te ne vada,” dice cercando di soffocare i singhiozzi. “I miei genitori non vogliono un altro figlio. Papà dice che uno è sufficiente, ma mi sento sempre così solo.”

Un figlio, huh? In realtà ne ha due, ma scuoto la testa in rassegnazione.

“Ma hai degli amici, giusto?”

“Non è la stessa cosa,” risponde lui. “Quando torno a casa loro non possono venire con me. Sono da solo. Papà è sempre impegnato e mamma non vuole mai passare del tempo con me. Non ho nessuno.”

Si avvicina e nasconde il viso contro il mio petto. Mi blocco, poi avvolgo la sua piccola e tremante figura con le braccia. Percepisco le sue lacrime bagnarmi la camicia e mi sento un incapace.

“Sammy?” Lo chiamo. “Mi ascolti?”

“S-sì.”

“Tornerò per te,” comincio. “Un giorno, tornerò per te e andremo a prendere un gelato o qualcos’altro, ti va? Passeremo un’intera giornata solo io e te.”

“Prometti?” Samuel si ritira dal mio abbraccio, stringendomi le maniche, non ancora pronto a lasciarmi andare completamente.

“Sì,” rispondo onestamente.

“Giurin-giurello?” Allunga il suo piccolo mignolo da bambino verso di me.

“Giurin-giurello,” confermo, stringendo il dito al suo.

“Ora non puoi rimangiarti la promessa,” dice, tirando su col naso. “Devi tornare.”

“Lo farò,” rispondo. “Hai la mia parola, okay?”

“Okay,” sussurra. Sorrido e gli asciugo il viso con la manica della felpa che ho tolto prima.

“Niente più lacrime,” mormoro. “Va tutto bene.”

Annuisce rapidamente.

“Mi dispiace,” dice ancora. Scuoto la testa.

“Non hai fatto nulla di male,” lo rassicuro. Mi metto in piedi, il letto scricchiola al movimento. “Ora devo andare.”

Non dice nulla e mi segue fuori dalla sua stanza. Al piano di sotto, Michael e sua moglie stanno guardando la televisione. Gli occhi di entrambi sono su di me quando raggiungo la fine delle scale.

“Devo andare,” dico, grattandomi il retro del collo. “Devo fare delle cose.”

“D’accordo,” Michael si alza dal divano. “Ti accompagno all’entrata.”

“Non ce n’è bisogno,” sostengo, scuotendo la testa. Cammino verso la porta con Samuel dietro di me. Mi inginocchio alla sua altezza. “Ricorda quello che ho detto, va bene?”

“Contaci,” risponde e avvolge di nuovo le sottili braccia attorno la mia vita. Gli accarezzo la testa prima di allontanarmi.

“Ciao,” dico e mai nella mia vita questa parola mi era sembrata così irrevocabile.

Non guardo Michael o sua moglie quando esco. Rimangono in piedi dietro la porta come una perfetta foto di famiglia da incorniciare. Se montassero una staccionata bianca attorno al perimetro della casa, sembrerebbe uscita da un film.

Samuel mi saluta ampiamente col braccio mentre entro in auto. Evito di guardare indietro a ogni costo e faccio partire la macchina, allontanandomi dal vialetto. La mia mente viaggia un chilometro al minuto. Accosto a un certo punto della strada e appoggio la testa contro il volante.

Penso a Isabel e Farlan e non cerco nemmeno di fermarmi. Più di qualsiasi altra cosa, vorrei fossero qui con me ora. Mi avrebbero aiutato. Isabel se ne sarebbe uscita con uno dei suoi elaborati e pazzi piani per rapire mio padre mentre Farlan le avrebbe ricordato che passare il resto dei nostri giorni in prigione non era un opzione da prendere in considerazione. Poi, probabilmente, saremmo andati a vedere un film al cinema oppure avremmo semplicemente parlato di tutto e niente per ore.

È facile fare finta di essere rimasto intoccato dalla fine della nostra amicizia. Ma in realtà, non è così. Mi avevano visto faticare a stare in piedi perché non mangiavo da tre giorni, ma non mi hanno mai giudicato. A loro non interessava cosa faceva mia madre per vivere. A loro non è mai importato se non avevo l’ultimo videogioco uscito o vestiti firmati. A loro importava solo di me.

“Fanculo,” sussurro, anche se sembrava l’avessi detto a voce più alta nel silenzio della macchina.

Improvvisamente, realizzai qualcosa. Strinsi il volante e mi concentrai abbastanza per portarmi alla mia destinazione tutto intero. Salgo gli scalini sotto il portico e suono il campanello, spostando il peso da un piede all’altro.

La porta si apre e vedo lo stesso ragazzo dell’altra volta. Jean, o qualcosa di simile, credo. Indosso il mio miglior sorriso, quello affascinante che tutti amano, e provo a fingere di non star cadendo a pezzi.

“Eren è in casa?”

“Dovrebbe,” risponde e riesco a sentire un lieve tono amaro nella sua voce. Decido di non chiedermi il motivo. “Entra.”

Faccio un passo avanti e pulisco le scarpe sullo zerbino. Jean va al piano di sopra e posso sentire la camuffata conversazione che stava avendo luogo. Poi Eren scende le scale seguito da Jean.

“Ehi,” saluta Eren, sembrando sorpreso.

“Ehi,” saluto anch’io. Sposto lo sguardo su Jean. “Abbiamo un progetto di fisica da completare. Avevo detto a Eren di incontrarci, ma immagino se ne sia dimenticato.”

Rimango sorpreso da quanto facilmente la bugia mi esce dalle labbra. Jean assottiglia gli occhi e lancia un’occhiata a Eren, che mi sta guardando con stupore.

“Già,” scuote la testa velocemente, sembrando dispiaciuto. “Scusa, amico.”

“Tranquillo,” dico. Poi guardo di nuovo Jean. “Se per lei va bene, preferirei andare in biblioteca. Ci sono alcuni libri che vorrei consultare. E ho pensato che avremmo lavorato meglio lì.”

“Certo, credo,” mormora Jean. I suoi occhi si fermano di nuovo su Eren. “Torna a casa per cena, ci siamo capiti?”

“Sì, papà,” Eren borbotta seccato.

“Sono serio.”

Va bene,” brontola Eren. “Cavolo.”

Jean sospira e annuisce una volta.

“Grazie,” gli sorrido. “Mi assicurerò di farlo tornare per all’ora.”

“Okay,” replica Jean. “Sta attento.”

“Lo sono sempre,” cinguetta di rimando Eren.

Usciamo di casa e faccio per aprire l’auto quando noto che Eren si è fermato sul marciapiede con le mani in tasca.

“Ho voglia di camminare,” spiega. Assottiglio gli occhi.

“Fa un freddo cane e tu vuoi camminare?”

Non sta nevicando,” insiste, come se il suo ragionamento avesse senso. “Camminare fa bene.”

“Porca miseria,” borbotto, ma metto in tasca le chiavi e lo accontento, cominciando a seguirlo.

“Non stiamo andando in biblioteca, vero?” Chiede Eren, le sue labbra si piegano in un ghigno. “Devo darti credito, eri parecchio convincente là dentro. Chi avrebbe mai immaginato potessi essere così bravo?”

“Oh, ma per favore,” mormoro. “Non era nulla di speciale.”

“Era qualcosa,” continuò Eren. “Devi insegnarmi i tuoi segreti.”

Sbuffo.

“D’accordo,” dico, solo per farla finita.

“Quindi dove stiamo andando?” Chiede Eren. Mi dà una gomitata sul braccio quando non rispondo. “Andiamo, dimmelo.”

“Hai fame?” Chiedo, ignorandolo.

“Uh, sì. Non ho ancora pranzato,” risponde. “Grazie comunque. Mia madre stava per fare le fettuccine con il pollo.”

“Ops,” rispondo di rimando, ridacchiando. “Ti piace il cibo cinese, vero?”
 
 ***
 
Finiamo allo stesso ristorante dell’altra volta. Eren ha ordinato gli gnocchi di maiale, mentre io ho scelto il pollo in agrodolce. Ci sediamo al mio solito tavolo e aspetto che Eren cominci a mangiare per farlo anch’io.

“Allora,” inizia, masticando lentamente. Beve un sorso dalla sua bevanda gasata e mi guarda. “Cos’è successo?”

“Perché credi sia successo qualcosa?” Chiedo di rimando, fingendo di essere interessato nel mettere del riso in bocca.

“Sei venuto a casa mia senza invito e ora stiamo mangiando cibo cinese,” dice, sollevando un sopracciglio. “È piuttosto strano.”

“Questo cibo è buono,” sostengo, incontrando i suoi occhi. “E poi, pensavo ti piacesse la mia compagnia.”

“Sicuro,” alza le spalle. A questo, mi acciglio.

“Cosa vuoi dire con sicuro?”

“Nulla,” mi dedica uno strano sguardo. “Qualcuno è permaloso, huh?”

“Scusa,” borbotto. Mi sento di cattivo umore tutto d’un tratto. Gioco con il cibo sul mio piatto per evitare il suo sguardo.

“Così male?”

“Huh?”

“Qualsiasi cosa sia successa, intendo,” spiega Eren. “Era così male?”

“No,” scuoto la testa. “È solo che… non lo so. Non volevo stare da solo.”

Gli occhi di Eren si spalancano. Mi accascio sulla sedia, osservando la sua reazione. Scuote la testa e ricomincia a mangiare.

“Quindi sei venuto da me.”

“Sì.”

“Anche se non siamo amici?” Sta ghignando di nuovo. Aggrotto la fronte e gli do un calcio sotto il tavolo.

“Esatto.”

“Mh,” annuisce, pensieroso. “Perché?”

“Non lo so,” dico velocemente. “Ma sto cominciando a pentirmene.”

Eren ride di cuore alla battuta. Un sorriso si fa strada sul mio viso e per una volta non è forzato.

“Penso di piacerti più di quanto tu voglia ammettere,” dice, fiducioso delle sue parole. “Per quale altro motivo cercheresti la mia compagnia?”

“Dammi tregua,” borbotto secco, ruotando gli occhi per enfatizzare il concetto.

“Allora,” striscia la parola Eren. “Hai intenzione di dirmi esattamente cos’è andato storto o no?”

“Ho rivisto mio padre,” dico. “Non lo vedevo da parecchio. Immagino abbia fatto riaffiorare sensazioni che non provavo da tempo.”

Non entro nei dettagli. Eren non insiste per averne altri.

“I padri hanno questo effetto sulle persone,” risponde.

“Dici?” Chiedo, sollevando un sopracciglio.

“Sì,” annuisce. “Il mio cerca di rimanere il meno coinvolto possibile. Si interessa solo quando va bene a lui.”

“Huh,” dico, sbuffando. “Mi suona familiare.”

Eren ghigna e solleva la sua lattina di Pepsi.

“Ai padri orribili,” dice.

“Ai padri orribili,” ripeto e faccio scontrare la mia lattina con la sua. Ne bevo un sorso e mi appoggio di nuovo allo schienale della sedia. “Ho un fratello.”

“Fratello?” Solleva un sopracciglio. “Non lo sapevo.”

“È il mio fratellastro, in realtà,” specifico. “È il figlio di mio padre e la sua nuova moglie.”

“Ah,” annuisce Eren. “E lui non ti piace?”

“Non vorrei,” rispondo onestamente. “Ma è solo un bambino. Non ha fatto nulla di male. Ho detto a mio padre che non volevo vederlo mai più e lui mi ha sentito. È rimasto parecchio sconvolto.”

“E cosa hai fatto?”

“Gli ho detto che sarei tornato per lui,” dico. “Non la smetteva di piangere e mi sono sentito una merda.”

“Eri serio quando gliel’hai detto?” 

“Penso di sì,” rispondo. Faccio scorrere le dita tra i capelli. “Mi ha detto che si sentiva solo, Eren. Mi ha detto che i suoi genitori non gli dedicavano abbastanza attenzioni e io… cazzo, mi sono rivisto in lui.”

“Cavolo,” replica Eren. “È difficile.”

“Ho odiato la sua confessione,” continuo. “Mi ha fatto arrabbiare. Ha dieci anni, per l’amor del cielo. Non dovrebbe sentirsi così.”

“Ti sei sentito come se fosse tuo dovere aiutarlo, giusto?” Chiede Eren. “Anche se vorresti odiarlo, non volevi che sentisse una cosa del genere.”

“Esatto,” dico, faticando a deglutire. “So com’è sentirsi in quel modo. Prima delle superiori, non ero nessuno. Avevo solo Isabel e Farlan. E loro mi facevano sentire importante.”

“Ma ora loro non ci sono più,” interviene, capendomi alla perfezione. “E per questo, ti senti come ti sentivi prima di cominciare la scuola.”

“Già,” rispondo, scuotendo la testa. “E sinceramente? Fa fottutamente schifo. Ma è tutta colpa mia. Quindi che ragioni ho per sentirmi così male?”

“Ti sbagli, sai,” dice Eren. Io assottiglio gli occhi.

“Cosa vuoi dire che mi sbaglio?” Lui solleva le spalle, indifferente.

“Non sei solo,” dice. “Sei circondato da persone tutto il tempo. Diavolo, ti basta guardare la tua squadra. Quei ragazzi non funzionano senza di te.”

“Beh, hai ragione. Ma non è quello che voglio dire. Nel senso… prendi noi due, per esempio. Avrei potuto chiamare chiunque della squadra e dire che volevo uscire o cazzate del genere. E per quanto strano, loro avrebbero comunque acconsentito.”

“Quindi, di nuovo,” Eren si avvicina un po’, poggiando i gomiti sul tavolo. “Perché io?”

“Sei l’unico a cui interessa,” gli rispondo. “Se dicessi di aver avuto una giornata di merda, saresti l’unico che me ne farebbe parlare per farmi stare meglio. Noi siamo amici, Eren.”

“Lo so,” dice, autocompiacendosi. Mi alzo dalla sedia, mettendo le mani sul tavolo e avvicinandomi a lui.

“Cosa vuoi dire?” 

“Lo sapevo già,” sbuffa Eren. “Volevo solo sentirtelo dire.”

“Sei un fottuto idiota,” ringhio. Lui annuisce serenamente.

“Lo so. Ma puoi biasimarmi? Ho bisogno di alimentare il mio ego.”

“Cavolo, quanto ti odio,” dico. “Mi fai dire un sacco di cazzate solo perché tu possa sentirti appagato.”

“Ops,” dice Eren. “Ma sul serio, grazie. Non è che le persone facciano a botte per fare amicizia con me. È un cambiamento gradito.”

“Bene,” rispondo, tirando la testa indietro per osservare il soffitto. Mi sento esausto tutto d’un tratto. “Non puoi lasciarmi.”

“Huh?”

“Non puoi lasciarmi,” ripeto, guardandolo negli occhi. Non specifico nulla, ma so che Eren è in grado di capire ciò che intendo.

“Non lo farò,” mi assicura. “Chi altro mi offrirebbe il pranzo, sennò?”

“Devi prometterlo.”

“Te lo prometto,” sospira Eren, scuotendo la testa. “Sono disposto anche a fare giurin-giurello.”

“Ti conviene.” Allungo il dito verso di lui e, dopo aver roteato gli occhi credendomi infantile, aggancia il mignolo al mio.

“Ecco. Meglio?”

“Sì,” rispondo. “Possiamo smetterla con questa conversazione sdolcinata ora?”

“Ti prego, sì,” mormora Eren, ridendo. “Per un momento mi sono preoccupato. Non sembravi nemmeno tu.”

“Ha!” Quasi urlo e poi torno a mangiare.

Mentre metto del cibo nello stomaco, penso alle parole di Eren. Un calore improvviso che non riesco a descrivere mi avvolge. Le promesse sono qualcosa di molto fragile. Possono essere spezzate facilmente e senza pensarci due volte. Diavolo, sono sicuro di aver infranto delle promesse persino io.

Ma una piccola ed egoista parte di me spera che questa sia una promessa che non verrà mai infranta.
   
 
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