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Autore: CHAOSevangeline    20/05/2019    4 recensioni
{ Apollo/Giacinto | Modern!AU | Questa storia partecipa alla "Challenge delle Parole Quasi Intraducibili" organizzata da Soly Dea sul forum di EFP. }
In un afoso pomeriggio estivo, Giacinto potrebbe aver avuto un'idea un po' pericolosa e un po' troppo romantica.
«Facciamo così: ognuno prende un colore, e coloriamo con la tempera la parte preferita del corpo dell’altro al mio via.»
Apollo lo fissò. Sentì il cuore sciogliersi, perché come sempre Giacinto era stato in grado di sorprenderlo con tutta la propria spontaneità.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Apollo e Giacinto'
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Ciao a tutti e grazie per aver aperto la mia storia!
Senza trattenervi troppo, ci tengo a fare una precisazione: l'ambientazione moderna in cui si muovono i protagonisti e la caratterizzazione di Apollo e Giacinto si rifà alla mia mini-long "A Giacinto".
Non è necessario averla letta per comprendere questo missing moment, ma ci tenevo a sottolinearlo nel caso qualcuno fosse incuriosito da questa shot.
Buona lettura!

 



Di tempere, sole e giorni d’estate
 
 

 
«Facciamo un gioco!»
La voce di Giacinto era limpida come il cielo di quell’afosa giornata estiva.
Cielo che lo aveva spinto a voler uscire. Li aveva spinti, perché Apollo era tanto responsabile quanto lui, suo eterno complice; il sole lo chiamava come una sirena sarebbe stata chiamata dall’acqua e un marinaio dal suo canto o come, senza allontanarsi troppo con la fantasia e le allegorie, lui si sentiva chiamato da Giacinto ogni volta che non erano insieme.
Erano nella sua caotica stanza, disseminata di quadri incorniciati – non suoi: diceva che voleva prendere ispirazione dagli altri e non essere narcisista – e suoi bozzetti incastrati sotto le cornici, in quel provvisorio tentativo di mantenerli al muro senza usare qualcosa di definitivo come lo scotch. Lo aveva fatto una volta, gli aveva raccontato Giacinto. «Poi è venuto via un pezzo di muro e mia madre mi ha quasi ucciso.»
E quindi infilava i fogli dei bozzetti con l’estremità superiore sotto una cornice perché così, forse, a furia di vederli li avrebbe conclusi. Magari il vento li faceva cadere, magari lo faceva la gravità, ma almeno li vedeva a terra e li raccoglieva, ricordandosi di loro. Se non era troppo coinvolto da altre ispirazioni da non notarli nemmeno, ovvio: il fascino di Giacinto stava nel suo avere mille idee; talvolta erano spaparanzati insieme sul letto a guardare un film, una serie, Giacinto del tutto concentrato sullo schermo e poi di botto schizzava in piedi in preda a un’epifania.
«Ah!» esclamava, come se stesse per intraprendere un discorso che stavano aspettando di condurre.
Si gettava verso il tavolo, recuperava un album da disegno e tornava ad accoccolarsi fra le braccia di Apollo, composto come prima, ma con la mente ormai lontana, mentre schizzava lo studio di una prospettiva che poi avrebbe dipinto, o mentre dava vita a un viso di cui magari poi non si sarebbe più nemmeno curato, a cui non avrebbe dato una storia da raccontare.
Era per questo che la maggior parte delle serie che guardavano su Netflix rimanevano inconcluse: quando Giacinto finiva di disegnare alzava il capo e ripresosi da quella momentanea trance chiedeva al fidanzato cosa fosse successo mentre lui era distratto. Peccato che nemmeno Apollo si curasse più del sottofondo della televisione. Nemmeno le esplosioni attiravano la sua attenzione: affacciarsi alla spalla di Giacinto per osservare la matita che si muoveva, i polpastrelli mentre si macchiavano di grafite o la sua espressione concentrata era uno spettacolo ben migliore.
L’arte era un flusso, una marea che trasportava Giacinto lontano da lui. Ad alcuni disegni non tornava, ma fra le sue braccia in qualche modo faceva sempre ritorno.
Poteva scordarsi di passate idee, dei bozzetti, ma di Apollo no. Di Apollo mai nella vita.
«Ti sei incantato?»
Apollo registrò quelle parole, ma non prima di trovarsi la visuale coperta. Si trattava di stoffa, quella bianca della maglietta a maniche corte che Giacinto gli aveva rubato ormai all’inizio dell’estate. La indossava quando Giacinto era stato a dormire da lui per il compleanno e poi non l’aveva indossata più perché era diventata il pigiama di Giacinto per quella notte e la sua compagna fidata per i mesi a venire. Non poteva portarla sempre, ma la teneva vicina anche quando non la indossava; Apollo l’aveva vista appesa a una gruccia quasi fosse un’opera da esporre.
Ad Apollo stava bene: Giacinto era così adorabile in quella maglietta enorme che, fosse stato per lui, avrebbe rinunciato ad ogni vestito pur di vederlo indossato dal fidanzato.
Ma se quella maglietta lui l’aveva in faccia, si stava perdendo uno spettacolo che stava ad appena una trama di cotone di distanza.
Di nuovo il presente.
Erano nella caotica stanza di Giacinto, madidi dopo una lunga passeggiata sotto il sole cocente di luglio, la pelle salata di sudore.
Si stavano sbarazzando dei vestiti per condividere una bella doccia rinfrescante, complice la casa vuota.
Ma Giacinto era così instancabile da voler fare un gioco.
Non che Apollo non lo fosse, instancabile: era pur sempre stato anche lui a voler uscire sotto il sole. Gli faceva solo comodo rifiutare quella natura allora, scegliere di essere indolente per gettarsi sotto il getto fresco dell’acqua con Giacinto stretto fra le braccia e la sua pelle e il suo corpo contro i suoi, di pelle e di corpo.
«Non possiamo giocare dopo? Sono veramente accaldato.»
E a riprova di questo anche la maglia di Apollo finì a terra.
«In senso lato?» chiese Giacinto, un sorrisetto divertito. «Perché a prescindere, lo sei sempre.»
Apollo non soffriva il caldo d’estate così come non soffriva il freddo d’inverno. Era dal sole che dipendeva: sembrava quasi i suoi raggi fossero la sua privata fonte d’energia, capace di renderlo una comoda stufa ambulante anche nei mesi più freddi dell’anno. Questi ecco li pativa, pareva appassire se d’estate non aveva fatto sufficiente scorta di sole. Non era mai troppo spento, però: «d’inverno il sole potrà anche mancare, ma c’è sempre Apollo». Aveva origliato Giacinto confessare quelle parole ad Artemide e da allora l’inverno per lui non era più stato troppo un problema.
Come tutti gli esseri umani, però, patire meno il caldo non significava non sentirlo affatto. Giacinto avrebbe rischiato il collasso molto più di lui, ma sapeva bene che Apollo non poteva essere così spossato.
E non era quello il calore a cui si riferiva Giacinto.
Il sopracciglio dorato di Apollo si incurvò. Quella fragile creatura che tanto all’inizio s’era mostrata innocente amava torturarlo quando ne aveva l’occasione. E spesso Apollo non riusciva a prevederlo.
«Lo intendevo in senso lato, ma ora che mi ci fai pensare…»
Fu una benedizione se anche i bermuda del suo fidanzato non si scontrarono dolorosamente con la sua faccia: un bottone in mezzo alla fronte avrebbe lasciato uno stampo antiestetico.
Giacinto gli si fece vicino e, ancora una volta contro le aspettative di Apollo, lo liberò dell’impaccio dei suoi, di bermuda.
«Avanti, sono sicuro che ti piacerà la mia idea!» insistette Giacinto.
Apollo stava pensando a tutto fuorché al suo gioco.
«Dai, dai, dai!»
Si alzò in punta di piedi gettando le braccia intorno al suo collo.
Lo stava mettendo a dura prova, perché Apollo stava provando esattamente ciò che avrebbe voluto da quella doccia: la pelle di Giacinto, il suo calore ben più gradito rispetto a quello infernale che si alzava dalla strada…
Ma c’era una grande verità, ineluttabile e severa quasi come quelle profezie mitologiche che tanto Artemide si divertiva a studiare e a raccontargli applicandole ad ogni contesto della vita reale – e alcune si prestavano sorprendentemente bene: lui non avrebbe mai saputo dire di no a Giacinto.
Si sarebbe potuto vestire nel cuore della notte, intorpidito dal sonno, per raggiungere il fast food più vicino e comprargli del cibo, se lo avesse voluto.
Si sarebbe gettato da un burrone, per lui. Ma per fortuna Giacinto non avrebbe mai messo alla prova il suo amore in tal modo. Forse il primo non era così impossibile, ma era troppo altruista per costringerlo.
«D’accordo… che gioco?»
Giacinto illuminò Apollo con il suo sorriso, gli schioccò un bacio sulla guancia e si precipitò verso la propria scrivania. Un po’ come quando l’ispirazione lo coglieva d’improvviso.
Apollo lo vide trafficare con i cassetti, frugandovi con attenzione. Poi Giacinto estrasse vittorioso un astuccio di stoffa sul punto di esplodere. Una volta di fronte ad Apollo, l’oggetto rivelò il suo contenuto: tubetti di tempera. Tanti, troppi, e di tutti i colori possibili. Apollo nemmeno credeva esistesse la tempera tinta champagne. Oh beh.
«Sono colori vecchi, dovrei buttarli», cominciò. «Facciamo così: ognuno prende un colore, e coloriamo con la tempera la parte preferita del corpo dell’altro al mio via.»
Apollo lo fissò. Sentì il cuore sciogliersi, perché come sempre Giacinto era stato in grado di sorprenderlo con tutta la propria spontaneità.
«Amore, se vuoi sapere qual è la mia parte preferita di te basta che tu me lo chieda.»
«Ma così è più speciale!» protestò Giacinto.
Ed era vero. Perché anche se si sarebbero pasticciati con le tempere, sarebbe sempre stato un modo per sentirsi coinvolto nel magico mondo fatto d’arte e colori che era proprio di Giacinto.
«Posso farti un cerchio tutto intorno?» indagò Apollo.
«Certo che no!»
Giacinto stava ridendo, indice – almeno per Apollo – che comprendeva perfettamente quanto fosse serio e che, con ogni probabilità, lui si trovava nella stessa difficoltosa situazione: l’indecisione.
«Ma non posso sceglierne solo una!»
«Nemmeno io, ma dobbiamo sforzarci!»
«Allora me ne devi concedere cinque.»
«Addirittura?! Te ne concedo tre!»
Apollo lo strinse per i fianchi, lamentandosi teatrale.
«Almeno quattro!»
«Tre è la mia ultima offerta, Apollo», lo rimproverò Giacinto.
Apollo stava tentando di corromperlo a suon di baci fra i capelli, talvolta sulle spalle. Ma Giacinto era perentorio.
«D’accordo, vada per tre», borbottò Apollo quasi offeso dal proprio stesso fallimento.
Giacinto iniziò a scavare con le dita fra le tempere e ne estrasse di due colori: una verde e una rossa. Il secondo colore preferito di Apollo, il rosso: il giallo non sarebbe stato troppo appariscente sul corpo latteo di Giacinto.
«Facciamo attenzione a non sporcare o mamma mi ammazza…» sussurrò Giacinto, già pronto a svitare il tappo del proprio tubetto.
«Sì beh, penso che trovare una macchia di tempera e scoprire che tuo figlio e il suo fidanzato si stanno colorando a vicenda sia una delle maggiori cause d’espatrio dei giovani…» scherzò. «Ho la macchina qui fuori, possiamo sempre scappare.»
Rise, Giacinto.
Non gli diceva mai che era sciocco o che scherzava troppo. Apollo smetteva d’essere composto con chi meritava di vederlo così e di ridere per le sue battute talvolta pietose. Ma Giacinto amava anche quelle.
Sul punto di spremersi il colore verde sulle mani, Apollo parlò.
«Aspetta, mi devo togliere i boxer.»
«… Perché i boxer?»
Giacinto sembrava del tutto confuso.
«Perché non voglio sporcarli.»
«Presuntuoso da parte tua pensare che voglia sporcarli.»
Era Apollo che un tempo prendeva Giacinto in contropiede, con le proprie battutine, i propri baci nei corridoi deserti del campus e una mano un po’ troppo curiosa mentre erano in biblioteca.
«Non è per questo!» brontolò Apollo. «Sono di Calvin Klein, non voglio dei boxer di Calvin Klein sporchi di tempera.»
«Apollo, non ti sporco i boxer di Calvin Klein!»
«Non mi fido di te, i tuoi attacchi d’arte sono pericolosi», protestò. «Hai scordato la volta in cui mi hai chiesto la maglietta come tela in assenza di fogli?»
«Te l’ho ricomprata! E poi il risultato ti piaceva!»
«Questo è vero, ma mi ricompreresti dei boxer di Calvin Klein?!»
«Me lo chiedi dopo quella volta in cui a senso tuo era ottimo che non avessi un costume perché così sarei venuto in piscina senza?»
Apollo avrebbe stretto la mano al se stesso del passato, che aveva già calcolato tutto: in fin dei conti erano a casa da soli, la piscina era nel suo giardino. Genitori fuori città e Artemide a dormire da un’amica. Le siepi altissime erano un’idilliaca barriera naturale da vicini e denunce per atti osceni in luogo pubblico. Lo erano, atti osceni, se qualcuno li vedeva dal marciapiede?
Era il momento di guadagnare terreno.
«Allora li tengo, così ti farò l’enorme regalo di non portare biancheria intima.»
«Bravo ragazzo», fece Giacinto, ridacchiando subito dopo.
Per la cronaca il bagno in piscina l’avevano fatto e Apollo aveva convinto Giacinto prendendo la solidale decisione di non indossare il costume a propria volta.
«… Davvero non hai nemmeno pensato di sporcarli?»
«Chi lo sa.»
Giacinto amava il broncio di Apollo, motivo per cui amava il suo viso in quel momento.
Spremette un po’ di tempera rossa sulle mani di Apollo e mentre il ragazzo le sfregava per distribuirla, Giacinto ripeté l’operazione con quella verde. I tubetti vennero abbandonati sulla scrivania.
«Ok allora al mio tre. Uno…»
«Aspetta, Giacinto ci devo pensar-»
«Duetre!»
Apollo si ritrovò in balia degli eventi. Le mani di Giacinto erano oltre le sue spalle, sulle scapole. Curiosa scelta, avrebbe voluto chiedergli la ragione.
«… Apollo.»
«… Sì, amore mio?»
«Mi stai toccando il culo.»
Rimasero in silenzio qualche istante. Se Apollo avesse potuto cerchiare l’intera figura di Giacinto era indubbio che anche quella parte di lui sarebbe stata compresa.
«Avevo fretta e sono andato in panico.» Apollo era mortalmente sincero. «Volevo prenderti le mani, ma non ci arrivavo.»
Era vero, terribilmente vero. Ma nel trovare un’alternativa non si era affatto trattenuto data la decisa forma di due mani sull’intimo bianco di Giacinto.
«Puoi farti perdonare se la motivazione per le mani è buona!»
Giacinto non era arrabbiato. Fingeva di essere severo, ma poi non riusciva mai a tenere il broncio ad Apollo. Apollo cedeva prima di lui e nella coppia era Giacinto a darsi una parvenza più seria, ma ciò non toglieva che ad Apollo perdonava tutto.
«Beh…»
Apollo prese con delicatezza i suoi polsi e strinse entrambe le mani, colorandone i dorsi.
«Sono una delle prime cose che ho notato di te. E amo guardarle, perché sono il mezzo più diretto che hai per esprimerti», sussurrò, baciando la punta di un polpastrello non troppo sporca. «E considerando quanto sono importanti per te, mi sento lusingato ogni volta che le usi per toccarmi.»
Giacinto divenne purpureo fino alla punta delle orecchie. Apollo avrebbe potuto di diritto sovvertire le convinzioni degli storici e degli studiosi d’arte circa la nascita del color porpora: che i Fenici usassero i molluschi, lui era in grado di crearlo solo a parole sulle guance di Giacinto.
I suoi occhi brillarono d’emozione, le labbra si schiusero.
Si punzecchiavano, si provocavano, ma Apollo sapeva essere romantico come mai Giacinto avrebbe osato chiedere o immaginare. Meritare. Apollo parlava e gli diceva cose di cui Giacinto nemmeno credeva di poter aver bisogno fino a prima di averle udite dalla voce calda del fidanzato. Non gli aveva detto che amava le sue mani perché erano belle: gli aveva spiegato perché le amava, meno riduttivo e più profondo. Non era un complimento, quello: era una dichiarazione. Perché con le sue mani amava ciò che facevano, fosse importante per lui o per Apollo.
Belle lo diventavano, a fronte di questo.
Giacinto distolse lo sguardo per un istante, gli occhi lucidi. Poteva fingersi tanto provocatore, faceva parte di lui tanto quell’animo sensibile che si stava affacciando in quel momento.
«Tesoro, ho appena cominciato… come faccio a continuare se ti faccio commuovere?»
Apollo pigiò il naso contro la sua guancia mentre le riservava un bacio.
Giacinto ridacchiò, un po’ imbarazzato da quelle emozioni che non riusciva mai a controllare. Si ritrovò rintanato contro il petto di Apollo, inspirando il suo profumo d’ambra inasprito dal caldo estivo.
Non gli rispose, attese qualche istante come accadeva tutte le volte che si commuoveva, perché non c’era davvero nulla da dire o da fare se non attendere che quelle emozioni rientrassero come una piena di primavera.
«Ti ho colorato le scapole perché sono il mio punto d’appoggio. Tu lo sei. Cioè con le spalle e la schiena le persone sostengono e--» Non era bravo come Apollo, a parole. «Dicono che le scapole sono le nostre ali, no? Servono per sorreggere, ma voglio anche che ti ricordino che pure io sono qui per questo. Per sostenere te.»
Avrebbe dovuto spiegarglielo con un dipinto. Sapeva che Apollo aveva capito: aveva interpretato disegni e disegni, dipinti e dipinti sulla loro storia cogliendo ogni dettaglio.
Apollo aveva il volto affondato nei capelli di Giacinto. Gli aveva dato ogni istante e ogni istante era stato per lui vitale come un respiro; ogni esitazione nella voce, ogni tremore, indecisione. Ciascuna di quelle inflessioni di Giacinto gli aveva fatto apprezzare la sua confessione.
Anche se non si erano guardati negli occhi.
«Vuoi che mi commuova anche io? È questo che vuoi?»
Giacinto riuscì a ridere e scosse il capo.
«No che non voglio!»
«Vuoi che faccia io il conto alla rovescia questa volta, allora?»
Erano stretti uno all’altro, in piedi in mezzo alla stanza. Quel gioco chiassoso era divenuto un rituale privato, che non aveva nulla da invidiare al ballo di un lento; era intimo e persino la voce di Apollo si era abbassata perché nessuno oltre a Giacinto doveva nemmeno osare credere d’avere il diritto di ascoltarli.
Contò lentamente e barò, perché mentre contava iniziò a tracciare il profilo delle labbra di Giacinto solo con la punta dell’indice, tenendo l’altro braccio saldo intorno ai suoi fianchi.
Il ragazzo non si mosse.
Apollo stava fissando le sue labbra mentre contava, il tempo fra un numero e l’altro dilatato; si era scordato dei secondi e quei tre istanti divennero tutto il tempo che gli era necessario a colorare quelle labbra carnose, schiuse sotto il suo passaggio.
Apollo le guardava con le ciglia bionde basse sugli occhi, concentrato quasi le stesse venerando. Tanto era preso da quel rituale non s’accorse che Giacinto ancora non l’aveva toccato a sua volta.
Almeno fino a quando non ebbe finito.
«Perché starei ad ascoltarti per ore.»
Non erano parole meno significative delle prime e Giacinto era tanto innamorato, i suoi occhi erano tanto persi in quelli di Apollo che provò l’istinto di prendergli il volto fra le mani e baciarlo. Stampò il rosso delle proprie labbra su quelle del ragazzo, che ricambiò incurante della tinta: importavano solo le labbra di Giacinto, la sua bocca che si muoveva e il respiro caldo.
Apollo aveva bisogno del calore, anche di quello che solo i baci di Giacinto riuscivano a dargli. Così aveva iniziato a sopravvivere agli inverni. Anche per questo.
Lo sollevò di poco per attirarlo a sé, seppur chinato su quel boccale traboccante d’amore e tutto ciò di cui aveva bisogno. Non sapeva cos’era, quel tutto; magari era semplicemente Giacinto, ma c’era.
Giacinto riusciva a malapena a muovere le labbra, ad avviluppare la lingua intorno a quella di Apollo senza che in ogni loro movimento ci fosse fretta. Le ginocchia gli tremavano come ai primi baci e questo era il suo segreto: le sue ginocchia tremavano sempre quando lo baciava. Ed era alle scapole di Apollo che si aggrappava. E questo Apollo lo sapeva.
Se allora non lo fece fu solo perché le dita presero a tracciare i lineamenti cesellati, marmorei di Apollo. Le impronte delle mani divennero un percorso che circondava l’arcata sopraccigliare, marcava il ponte del naso e l’arco di cupido. Esattamente l’arma che aveva mietuto entrambi come vittime.
Si allontanò dalle labbra di Apollo per parlare, ma il ragazzo non gli permise di farlo e lui non si permise di opporsi, baciandolo ancora e ancora. Ora che non doveva più colorare il suo viso si aggrappò a quelle scapole muscolose, intrecciò le dita con quei capelli biondi raccolti. Se avesse dovuto trovare un paragone poetico, il più poetico a cui avesse mai pensato, avrebbe detto che Apollo era al contempo il suo veleno e la sua medicina: avrebbe potuto tutto su di lui. Lo rendeva vulnerabile, ma anche forte, e solo il meglio avrebbe riservato per lui. Avrebbe potuto ucciderlo, invece lo rendeva la versione migliore di sé. Ed era la contraddizione più romantica al mondo, per Giacinto.
Il fiato corto e le palpebre pesanti come se stesse vivendo un sogno a cui il suo cuore non voleva far altro che tornare, Giacinto poggiò due dita sulla sua bocca tinta di tempera, per fermarlo e darsi il tempo di parlare.
Il viso di Apollo era color della speranza.
«Perché è la prima cosa di te che ho visto.»
Giacinto ripensò a prima di conoscere Apollo, a quando il suo volto non era che un sogno ad occhi aperti, tanto nitido da sembrare un ricordo. Lo vedeva da sveglio e lo vedeva quando dormiva, avvolto in quell’aura di luce che era sua, autentica, propria del ragazzo che lo stringeva fra le braccia. La sua pelle dorata d’abbronzatura sembrava splendere.
Entrambi provati dalla sfiancante battaglia di combattere la volontà di baciarsi, quando ogni movimento dell’altro sembrava implorare e suggerire solo questo, Apollo sorrise.
«Contiamo insieme?» chiese Giacinto.
Un cenno di Apollo e le loro voci si unirono in quelle brevi parole, in quei numeri.
Una mano di Giacinto lasciò le spalle di Apollo, una mano di Apollo lasciò i fianchi dell’amato.
Entrambe. Una rossa, una verde, sul cuore altrui.
S’erano guardati ogni secondo, quasi si stessero suggerendo con la mente, gli sguardi, con ogni fibra del loro corpo, le loro intenzioni.
E non servì una spiegazione, non servirono parole.
«Ti amo.»
«Ti amo.»
Fronte contro l’altra, pelle contro pelle.
Rimasero lì secondi, minuti. Poi Apollo gli suggerì di scattarsi una foto perché insieme lo sembravano un po’, un quadro ed era un peccato non averne una prova.
Mentre Apollo lo guidava verso il bagno, le dita intrecciate, Giacinto parlò.
«Siamo riusciti a non commentare il fatto che sembriamo truccati, siamo stati bravi.»
«Non puoi incolparmi d’aver rovinato l’atmosfera, ora.»
Giacinto rise.
Le ultime barriere di stoffa caddero e il getto fresco dell’acqua fu su di loro, scivolò fra i loro corpi.
Le mani di Apollo presero a scorrere sul corpo di Giacinto, portando via con sé il rosso con cui gli aveva ricordato il proprio amore insieme ai suoi sospiri.
«Beh, non ti ho potuto colorare tutto, ma ora posso pulirti tutto!»
«Davvero mi avresti colorato tutto, Apollo? Ogni centimetro?»
«Tu non l’avresti fatto con me, se avessi potuto?»
«Certo che l’avrei fatto, ma…»
Giacinto esitò. Sapeva quanto Apollo l’amasse, lo percepiva sempre. La verità era che Giacinto ancora credeva fosse un sogno. Che Apollo fosse il suo sogno.
Apollo l’amava, Giacinto lo sentiva forte come il rosso gridava sulla sua pelle candida. Questo gli ricordava che era reale. E questo, gli sembrava incredibile. Lo amava abbastanza per entrambi.
Apollo vide le sue insicurezze in quegli occhi verdi, su quel viso circondato dai capelli bagnati che contro il getto della doccia tentavano d’arricciarsi ancora.
«Avrei colorato ogni millimetro di te», cominciò, due dita sotto il suo mento. «Perché Giacinto, non sai quanto sei bello.»
Apollo aveva ragione: Giacinto non lo sapeva.
Lo dimenticava, ma lui glielo ricordava sempre.
L’acqua portò via verde e rosso, i loro colori. Lasciò che si mescolassero prima di scomparire. Lavò via ogni tinta.
Ma non una delle parole d’amore che si erano detti.



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Eccoci qui.
Prima di tutto vi ringrazio per essere giunti fino alla fine di questa one-shot, che spero davvero vi sia piaciuta. Come specificato nelle note iniziali sta partecipando alla challenge delle Parole Quasi Intraducibili indetta da Soly Dea. Vi invito a darci un'occhiata, perché ci sono moltissimi spunti!
Nello specifico, questa storia è nata dalla parola Agastopia, un termine inglese intraducibile che a spanne significa "osservare e apprezzare una particolare zona del corpo dell'altro".
Come specificato prima della storia non è la prima volta che scrivo di Apollo e Giacinto, e non sarà nemmeno l'ultima: ho in mente una raccolta e da poco, molto poco ho nuove cose da dire su di loro. Questa storia si colloca in un momento imprecisato della relazione di Apollo e Giacinto nella mia mini-long "A Giacinto". Se la shot vi avesse incuriositi e voleste passare a leggerla mi farebbe estremamente piacere essendo anche fresca di revisione. Sarei davvero felice di avere vostri pareri, su questa ma anche l'altra storia!
Siccome ho sempre fin troppe cose da dire su Apollo, su Giacinto e sulla scrittura, vi invito a seguirmi ai link riportati nel mio profilo.
Intanto colgo l'occasione per ringraziare Rika, che probabilmente meriterebbe una maglia con su scritto "Apollo e Giacinto supporter #1" per tutto l'entusiasmo che mi trasmette dopo aver letto le mie piccole creazioni in anteprima o per le nuove idee. E meriterebbe anche una maglia con scritto "Eva supporter #1". Grazie, splendore <3
Ringrazio ancora chi avesse letto e spero davvero di sentirvi nei commenti.
Alla prossima!
   
 
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