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Autore: Alyss Liebert    27/05/2019    1 recensioni
[ POV!Senritsu; pre!Dark Continent arc; Missing Moments ]
"Quando perdi i contatti con le persone che ti sanno tenere a freno, il tuo io impietoso esce allo scoperto.
Non ho perso le speranze: ho messo da parte pregiudizi e timori, ti ho teso la mano, ti ho offerto una spalla su cui sfogarti.
"
"Da quanto non apri il tuo cuore a qualcosa che non sia il tuo nocivo scopo di vita? Da quanto non contempli la bellezza della vita, dei paesaggi rigogliosi di un giorno di primavera? Da quanto sei così pretenzioso da non riuscire a riconoscere e abbracciare la semplicità dei piccoli gesti?"
Prima classificata a pari merito al contest “Il miglior difetto” indetto da Ile_W sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Kurapika, Senritsu
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Disclaimer
I personaggi e le ambientazioni sono proprietà di Yoshihiro Togashi.
Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

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«Senritsu, aspetta!», mi chiamò Leorio. Non feci in tempo a voltarmi che si era già accovacciato a fianco a me. Tossicchiò.
«Per favore, abbi cura di Kurapika», mi sussurrò, «In genere è un tipo calmo, ma può diventare imprudente. È intelligente, ma non sempre riflette sulle sue azioni. Sembra che con te si sia aperto molto, perciò… potresti frenarlo quando serve?»
Mi venne spontaneo sorridere a quel giovane così premuroso, dal battito del cuore ameno.
«Lo farò. Non temere».

 
 
 

Let me down slowly

 
 

“This night is cold in the kingdom,
I can feel you fade away
from the kitchen to the bathroom sink and
your steps keep me awake”

 

Conto ogni passo che faccio, ogni gradino che scendo.
Cerco di focalizzarmi sul rumore delle mie suole che poggiano sulla superficie marmorea dell’angusta rampa di scale conducente al seminterrato. È un suono penetrante, pastoso, lievemente riecheggiante; fastidioso per le mie orecchie, ma necessario a stroncare sul nascere ogni pensiero scomodo.
Odo sempre più nitido il battito del cuore che da tempo ho imparato a riconoscere, studiare, amare, temere; il battito che presto diverrà impazzito a causa mia.
Guidata dalla fioca luce delle candele che sagomano il breve corridoio, mi fermo sull’uscio della tua stanza.
«È permesso?», parlo. La voce mi trema. So che sei qui, Kurapika: lo percepisco forte e chiaro.
Di fronte a me si smuove un’ombra; quest’ultima non è altro che la tua divisa scura che si mimetizza perfettamente con il buio circostante, attenuato dal bagliore emanato dagli occhi scarlatti da te trovati e disposti su un altarino.
Raddrizzi la schiena e ti volti piano verso di me, come restio ad intrattenere qualsiasi tipo di conversazione, mostrandoti seduto su uno sgabello. I tuoi capelli sono spettinati, il tuo viso stanco e pallido. Reggi in mano il tuo cellulare.
I tuoi occhi spenti e infossati mi guardano; mi domandano, senza che tu apra bocca, il motivo della mia presenza in quello che io definisco ‘il tuo cantuccio’.
Prendo fiato e parlo.
«Capo, come avevi previsto, l’artista Ikeda si interessa spesso a certe merci di scambio che circolano unicamente nelle aste sotterranee; è, infatti, alleato con Higashimura, uno dei più acerrimi nemici dei Nostrade, con il quale ha un rapporto do ut des. Ieri sera, mi ha riferito Basho, era presente alla cessione nella quale vi erano gli occhi scarlatti che stai cercando. Se li è aggiudicati probabilmente grazie a qualche patto stipulato con Higashimura. Tuttavia, nel corso del pedinamento notturno, si è scoperto dell’altro».
Continuo a fissarti. Colgo i lineamenti del tuo volto accigliarsi di poco, come qualunque volta in cui accadono imprevisti o sorprese che non hai previsto.
«Dove risiede Ikeda, egli tiene esposti oggetti che crediamo possano risalire ad altre tribù. Sembra un fanatico di queste cose; dipinge, tra l’altro, diversi motivi tribali e figure anatomiche incomplete».
Ecco, scorgo le tue pupille rimpicciolirsi, le tue labbra dal colorito cianotico schiudersi, il tuo essere riprendere vita. Sento il molesto battito cardiaco della consapevolezza, del cattivo stupore, dell’apprensione che torna a serpeggiare nella tua coscienza.
«Il suo obiettivo non è soltanto tenere i suoi tesori come mero oggetto da esposizione: egli punta a trovare un esperto di Nen che possa compiere in lui un incantesimo di trasmutazione». Aggrotto la fronte, sentendo un senso di nausea travolgermi. «Lui li vuole… come parte integrante di se stesso».

 

*

 

“Don't cut me down, throw me out, leave me here to waste;
I once was a man with dignity and grace;
now I'm slipping through the cracks of your cold embrace,
so please, please…”

 

Nessuno di noi è veramente sorpreso qui dentro, nel salotto della nostra attuale residenza. Il profilo psicologico di quell’artista rappresenta solo una delle molteplici sfaccettature che caratterizzano le persone addentro alla malavita, con le quali noi abbiamo sempre a che fare.
Tuttavia, il tuo cuore, Kurapika, è ancora troppo vulnerabile perché te ne faccia una ragione. Tali notizie comportano uno squilibrio nel tuo già trepidante mondo interiore; ti sconvolgono, ti alterano, poiché in fondo non riesci ad accettarle totalmente. Sai che non puoi permetterti di essere così affettivo e rancoroso, ma è questa la tua persona; perciò, sfrutti disperatamente queste tue debolezze per incrementare la tua ambizione. Fai di ogni dilemma una causa personale.
Ora ti vedo come cerchi di combattere questi tuoi demoni interiori, mentre metabolizzi l’esistenza di quell’individuo. Studio ogni angolo, lineamento del tuo volto provato dallo stress; un volto comunque grazioso e giovanile, che per nulla si addice al posto che occupi in questo ambiente corrotto; un volto alquanto sfiorito dei suoi vividi colori naturali, delle sue morbide forme, deturpato dai vizi, dalle ossessioni e privazioni che ti imponi. Squadro tutta la tua figura esile ma autorevole che fa avanti e indietro per la stanza, che riflette e concretizza paranoie sicuramente non necessarie. I tuoi occhi sono lucidi e socchiusi per la stanchezza; chissà da quanto non riposi.
Aspettiamo tutti che tu proferisca parola, che cominci a ragionare con noi e prenda le prime decisioni; io e il resto dei tuoi sottoposti siamo al tuo servizio anche oggi.
«Posso andare un attimo in bagno?», rompe il silenzio Basho, che tiene le gambe incrociate in maniera alquanto buffa.
Gli altri tentano di celare risolini. Io raggelo. Kurapika, ti hanno risvegliato dal tuo flusso di coscienza, ed ora pianti i tuoi occhi a mandorla e scuri – hai imparato a portare le lenti come fossero lembi della tua pelle – sul nostro collega con aria inquisitoria.
C’è così tanta rabbia in te che a momenti non riesci a riconoscere chi ti sta davanti. Siamo così insignificanti nei tuoi progetti per la missione ventura?
Somatizzi sempre il tuo dolore con incredibile maestria, lasciando che ti roda il fegato. Se io fossi una totale estranea e non avessi la capacità di spogliarti della tua corazza, forse non mi avvedrei dei tormenti che celi dietro la tua espressione flemmatica.
«Siete già a conoscenza dei pessimi rapporti che la nostra famiglia ha con Higashimura. Di egli, purtroppo, non mi sono ancora potuto occupare per stipulare qualche accordo e rimediare ai danni del mio predecessore Light Nostrade, rivelatosi incompetente sotto troppi punti di vista; o fare in modo di sbarazzarmi direttamente di questo nostro avversario, nel caso dovesse intralciarmi oltremodo», cominci a parlare poggiando le mani sulla scrivania di fronte alle nostre poltrone, ignorando la richiesta di Basho.
Nessuno osa dissentire.
«La sua accertata alleanza con Ikeda, colui che mi deve una sua proprietà per diritto, è dunque un problema». Strizzi un attimo gli occhi; ho l’impressione che la vista ti vacilli e che fatichi a metterci a fuoco. «Una parte di me continua a dirmi che forse attendere il suo recupero degli occhi non è stata la scelta più conveniente; nondimeno, la presenza di ciascuno di noi all’asta di ieri sarebbe risultata impropria per ragioni analoghe alla precedente: sulla nostra famiglia gravano ancora vecchie responsabilità e circolano dicerie che mettono tante persone contro di noi. Ora che io mi ritrovo in questa situazione, azzardare una qualsiasi prima mossa decisiva è rischioso, poiché Ikeda potrebbe preparare trappole di qualunque genere mentre finge la più blanda diplomazia; e noi non siamo ancora a conoscenza di eventuali suoi scagnozzi o affiliati che potrebbero saper usare discretamente certi tipi di Nen».
Smetti di parlare e osservi tutti vagamente spaesato. Ti sei appena reso conto di stare affrontando più un monologo con te stesso anziché un discorso con noi.
Ti accorgi di Basho e della sua ormai angosciata smorfia; chiudi gli occhi, tenti di riacquisire lucidità e il tuo battito diviene più pacato.
«Per farla breve…», riprendi, «… la priorità va comunque al conseguimento degli occhi scarlatti, e mi aspetto l’ausilio di tutti voi».
Assottigli lo sguardo e chiami per nome uno dei tuoi nuovi sottoposti: un ragazzo basso ma corpulento, di indole abbastanza audace.
«Adam, mi avevi chiesto di concederti un giorno per andare a trovare tuo fratello».
«Sì, capo».
Ce ne ha parlato una volta in privato: un severo caso di mononucleosi.
«Non posso più concedertelo», sentenzi, mettendo a tacere persino le nostre menti. Adam impallidisce.
«Ma…»
«Ti ricordo che hai la mia fiducia da riacquistare da quella volta in cui hai rivelato di proposito informazioni delicate sulla mia persona all’uomo d’affari di Nagoya. Devo stabilire se mi conviene continuare a tenerti», asserisci, «Inoltre, non sappiamo se l’alleanza tra Ikeda e Higashimura comporterà un probabile attacco a sorpresa; non possiamo stare singolarmente fuori dalla mansione e sprovvisti di difese. Ti incaricherò, dunque, di svolgere un lavoro molto importante per ottenere maggior informazioni».
Lo sento forte e chiaro, il battito frenetico, convulso, rimbombante del cuore di quel giovane ora agitato e pieno di frustrazione.
Per la prima volta in diversi anni prendo la parola. Mi alzo dalla poltrona.
«Capo, Adam non è mentalmente predisposto per affrontare altre missioni, ora come ora. Il timore per la salute vacillante del fratello è troppo grande. Ha bisogno di stargli vicino, altrimenti i sensi di colpa rischiano di attanagliarlo».
Tengo lo sguardo fisso sul tuo di ghiaccio. Spero tu colga il senso di queste mie ultime parole, perché non rappresentano altro che un sentimento che sta logorando soprattutto te da anni, e che per primo dovresti intendere.
Non mi sono mai azzardata a ribattere, ma tu non sembri affatto sorpreso; è come se te l’aspettassi.
Con una calma che stona con la pesantezza di quell’atmosfera, di avvicini di più a me, sufficientemente prossimo per sottolineare in qualche modo la tua ormai consolidata superiorità, e dici: «Senritsu, non sei nella posizione giusta per contestare le mie scelte».

 

*

 

La pioggia di quel tardo pomeriggio scrosciava incessantemente, picchiando sul marciapiede ormai sgombro e sulle nostre teste. Essa bagnava la mia pelle, la penetrava; scorreva nelle mie viscere come lacrime, dando un senso concreto alla metafora “piangere il cuore”.
Tu, Kurapika, mi eri accanto infreddolito, fremente di gelo e rabbia; dai tuoi grandi occhiali, che appartenevano al meticoloso travestimento, osservavi impotente la gente da te ciecamente odiata portare via i tuoi amici, la nuova famiglia che avevi trovato il coraggio di rifarti.
«Non possiamo avvicinarci a loro: la Brigata ha già innalzato la sua barriera difensiva, e sono molto più cauti di prima», spezzai il silenzio.
«Merda», ti sentii inveire quasi impercettibilmente.
Dovevo mantenere il sangue freddo; per te, me, tutti.
«Non puoi permetterti di stare in apprensione», iniziai a consigliarti, scrutando ogni centimetro teso del tuo volto con una certa austerità. Per quanto io percepissi il tuo profondo dolore, in quel momento mi era impossibile giustificare appieno il tuo atto impulsivo ed egoista. Non potevo negare di esserne alquanto delusa.
«Lo so benissimo», sbottasti con insofferenza.
A quel punto non ero riuscita a reggere. Era evidente che non volessi capire.
«No, tu non lo sai!», alzai lievemente il tono, aggrottando la fronte, «Gon e Killua sono in pericolo per colpa del tuo insensato inseguimento. Sai perché si sono sacrificati e fatti catturare? Se tu fossi stato scoperto qui, non ci sarebbe stato più nessuno in grado di fermare la Brigata!»
Udite le mie parole, tu, con mia sorpresa, ti calmasti quasi subito, dandomi prova che in fondo avevi bisogno di essere spronato.
Chiudesti gli occhi per concentrarti e smettere di tremare, poi mi rivolgesti un flebile «Mi dispiace».
Ti sorrisi; non riuscii a metterti il broncio per neanche un minuto. «Ognuno di noi sperimenta momenti di sconsideratezza. Contrattaccheremo insieme. Non essere ansioso».
Già, non aveva senso esserlo, perché sarei rimasta sempre al tuo fianco.

 

*

 

“Don't cut me down, throw me out, leave me here to waste;
I once was a girl with dignity and grace;
now I'm slipping through the cracks of your cold embrace,
so please, please…”

 

Da quanto tempo non riesco ad essere spontanea in tua presenza? Da quanto tempo mi menti su ogni cosa e pretendi di essere forte, nonostante tu sappia che io riesco a leggere il tuo cuore?
Da quanto ti sei fatto così distante da me, da tutti i tuoi amici, impedendoci di lenire anche con una sola parola le ferite del tuo animo?
Da quanto non apri il tuo cuore a qualcosa che non sia il tuo nocivo scopo di vita? Da quanto non contempli la bellezza della vita, dei paesaggi rigogliosi di un giorno di primavera? Da quanto sei così pretenzioso da non riuscire a riconoscere e abbracciare la semplicità dei piccoli gesti?
Queste domande mi tormentano ogni notte, quando le mie paure e la solitudine che la mia mente cova per tutta la giornata si schiudono, accolte dalla placida ma pesante quiete che regna e dalle tenebre che gettano nel sonno ogni creatura sfinita.
Io non ci riesco perché non sono come gli altri, perché la mia ipersensibilità viola – mio malgrado – le coscienze di chi mi è vicino; così le loro sofferenze diventano anche le mie.
In realtà c’è tanto rumore. Ciò che per gli altri è silenzio, per me non lo è affatto: i nostri timori più profondi ci parlano proprio in questi momenti in cui siamo più vulnerabili, poi noi li soffochiamo la mattina seguente per non distrarci dagli impegni della giornata.
E tra le aure più tormentose, la tua ha sempre quella nota amara e inconfondibile.
Il tuo sonno non è tranquillo, oppure non riesci ad addormentarti. Le vulnerabilità che reprimi quando lavori imperversano proprio quando dovresti recuperare le forze; sembra l’ennesima punizione che hai deciso di infliggerti, o in alternativa sono ore in cui ti concedi di lasciarti andare, e in un certo senso consolarti. Un attimo catartico che possiamo comprendere solamente noi due, paragonabile all’agognato sollievo, benessere che si ricerca nei massimi momenti d’intimità.
Quante grida di rabbia o dolore stai soffocando sul tuo cuscino? Quanto ti stai maledicendo per le lacrime che ti rendi conto di essere ancora capace di versare come un debole? Quante preghiere stai levando ai tuoi cari chiedendo costantemente la forza necessaria per perseguire i tuoi fatali obiettivi?
Davvero la tua gente desidera questo da parte tua? Che non ti goda la vita e ti immoli perché convinto di avere colpe da espiare, di non avere il diritto di sorridere?
Ed io cosa mai posso fare per te, oltre a disperarmi al tuo stesso modo e desiderare invano di abbracciarti? Ora che hai preso il comando, nessuno può più permettersi queste cose con te. Ci hai elusi dalla tua vita, credendo di ragionare col cervello ma affidandoti invece alla tua egoistica dipendenza.
Eppure sai, mi ricordi sempre di più il mio defunto migliore amico, caparbio e sensibile come pochi, che non sono riuscita a proteggere perché ai tempi ero immatura.
Lui è in te; lui è te. Ne sono certa. È un richiamo a non commettere lo stesso errore. Altrimenti come spiegherei un sentimento, una connessione così forte?

 

*

 

“I hold on to little pieces of what we were;
I know we're long gone, but take it easy
because it hurts”

 

Quando eri ancora un nostro collega – seppur leader della squadra –, nella tua aura vi era una risolutezza più pacata, più facilmente malleabile, che ti esortava a tenere a freno certe pericolose ambizioni, specialmente perché non avevi ancora scavalcato il gradino che rappresentava la tua dipendenza dal capo.
Forse è vero che spesso, quando è impossibile avere la piena libertà, si diventa molto più sensibili e attaccati alle poche cose preziose che rimangono.
Per tutto il periodo in cui Light Nostrade ha comandato, sebbene ci estenuasse con le sue folli richieste, io, te e Basho abbiamo legato ulteriormente tra una missione e l’altra che ci obbligava a lavorare sempre insieme.
Ricordo con affetto un giorno in cui ci è stata concessa una serata libera. Io e Basho abbiamo optato per un aperitivo al pub; volevamo invitare anche te, ma temevamo che quel genere di svago non fosse nelle tue corde. Invece, quando te l’abbiamo proposto, hai accennato un sorriso e risposto «D’accordo».
Non abbiamo potuto intrattenere conversazioni ridondanti all’interno di quel locale alquanto caotico dalle luci bluastre, ma ci siamo rilassati, seduti al nostro tavolo con i cocktail in mano e le orecchie tese verso i brani al pianoforte suonati da un musicista. Quest’ultimo ha invitato sul palco chiunque sapesse suonare quest'ultimo, e Basho non ha esitato ad indicarmi nonostante il mio imbarazzo; poi, quando le mie dita allenate hanno cominciato a scivolare con leggiadria sui morbidi tasti del piano, che richiamava al mio elemento naturale, ogni incertezza è svanita e mi sono ritrovata ad improvvisare, concretizzare sotto forma di note la melodia che sentivo scaturire dal mio battito spumeggiante. Quando mi giravo verso il pubblico rapito dalla mia performance, ti vedevo così concentrato in ciò che suonavo che tenevi gli occhi chiusi e sorridevi, e cercavi forse di scoprire quale incantevole duetto potesse venirsi a creare tra esso e la rilassata melodia del tuo cuore.
 
Ricordo, purtroppo, anche gli episodi più sconfortanti: i campanelli d’allarme manifestati per la tua tendenza a strafare e sfruttare oltremodo i tuoi poteri Nen. Non mi hai mai voluto spiegare bene come funzionino, nemmeno ai tuoi più cari amici, ma in cuor mio sento che tralasci i particolari più importanti: l’arma a doppio taglio che quelle catene in realtà sono, che in qualche arcano modo risucchiano la tua linfa vitale.
I tuoi frequenti svenimenti dopo mansioni particolarmente estenuanti ne sono un esempio. E non si tratta di semplici mancamenti dettati dalla stanchezza, ma molto di più a me tuttora ignoto; la febbre che ti sale ciascuna di quelle volte, talmente alta e anomala da far divenire inefficaci i miei tentativi di mitigare il tuo animo col mio flauto, è la prova più terrificante.
Sei arrivato a delirare in maniera nettamente peggiore di quando io, Leorio e gli altri lo abbiamo sperimentato con te a York Shin.
Una volta in particolare sono rimasta a vegliarti tutta la notte. Light non riteneva ancora necessario esporti e portarti in ospedale, e ammetto che in quel momento ho provato verso di lui i sentimenti più crudeli. Egli non tollerava più nemmeno che io ti suonassi qualcosa, come tu stesso, con voce roca, mi chiedevi.
Ti divincolavi nel letto, preda dei peggiori incubi e allucinazioni; eri sudato e paonazzo in viso. Il tuo battito oscillava forsennato tra una cadenza fiacca e sommessa ad una repentina, vertiginosa, come se il tuo cuore fosse sul punto di scoppiare.
Mi sentivo impotente mentre passavo con delicatezza un panno pulito sulla tua fronte per asciugarla, prima di depositarvi l’ennesimo impacco di acqua fredda. Ti ero vicina fisicamente ma non mentalmente; eravamo più fragili di quanto avessimo mai potuto immaginare.
 
Nei momenti migliori, però, ti insegnavo il più possibile a dare priorità alle azioni necessarie per la tua salute psicofisica, e alla cura dell’ambiente al quale appartieni. Se tu non fossi più stato capace di ammirare il mondo con gli occhi di un bambino curioso e altruista, allora io sarei stata quegli occhi, i tuoi occhi.

 

*

 

Era dicembre dell’anno scorso quando hai rimpiazzato il nostro precedente capo. Tale opportunità ha fatto scattare in te un’irrefrenabile bramosia che ti ha portato a rifilare subito ordini ed elaborare i primi piani intricati per il conseguimento del prossimo paio di occhi; così come ricerche e addestramenti Nen per diventare sempre più forte, quasi invincibile, indipendentemente dal prezzo psicofisico da pagare.
Ti toccavano, però, anche altre questioni lasciate in sospeso da Light; ciò ti riempiva ulteriormente di stress e nervoso, che sfogavi prima di tutto su te stesso. Come un autolesionista digiunavi, passavi giornate intere ad allenarti fino a svenire e talvolta a rimettere; maltrattavi il tuo corpo – divenuto scarno nel giro di poche settimane – e la tua mente già psicolabile.
Gli altri bersagli erano i nemici della mansione, e soprattutto pezzi grossi che tu ribattezzavi “questioni personali”, poiché interessati alle tue stesse cose.
Tu non ci volevi mai nei paraggi quando dovevi contrattare con loro, ma io immaginavo cosa facessi una volta rimasto insieme a loro.
È così che hai cominciato a perdere frammenti della tua dignità: minacciando, ricattando, torturando con apparente cinismo, nonostante il tuo cuore piangesse sangue scarlatto, poiché non è nella tua natura provare piacere ad abusare di qualcuno o togliergli la vita.
Quando perdi i contatti con le persone che ti sanno tenere a freno, il tuo io impietoso esce allo scoperto.
Non ho perso le speranze: ho messo da parte pregiudizi e timori, ti ho teso la mano, ti ho offerto una spalla su cui sfogarti.
Tu questo lo hai capito eccome, e i tuoi sentimenti al riguardo sono sempre stati contrastanti. Nei tuoi sguardi spesso torbidi riuscivo a percepire paradossalmente un “grazie per la pazienza”.
Un esempio di ciò risale ad una di quelle sere, nella quale ognuno si riposava o badava ai propri affari dopo una faticosa mattinata. Io sedevo sulla poltrona del salotto e pulivo il mio adorato flauto traverso mentre canticchiavo. Tu mi hai raggiunto, uscendo dal tuo dormitorio. Avevi ancora in dosso la tua divisa, segno che non ti eri ancora dato una rinfrescata e coricato. La tua cera era terribile, ma nei tuoi occhi avvertivo una certa rara vigoria.
«Hai qualche minuto?», mi hai chiesto.
«Sì, certo».
«Seguimi. Voglio mostrarti una cosa».
Potevo tirare un sospiro di sollievo: non mi volevi assegnare altri incarichi. Tuttavia, la tua richiesta insolita mi stupiva.
Ti ho seguito fino alla tua stanza sotterranea, dove custodisci il tuo prezioso tesoro ed unico ricordo materiale del tuo popolo. Mi hai condotto proprio di fronte al mucchio di occhi scarlatti disposti ordinatamente sull’altarino ornato di statuette, fiori e candele accese. Avevi preparato due sgabelli su cui sederci; ho supposto che il tuo ipotetico discorso dovesse durare un po’.
Mi hai invitato ad osservare un paio di occhi in particolare, gli ultimi da te recuperati: risplendevano di un vermiglio cangiante, e le sue pupille erano così vivide da sembrare che mi stessero scrutando viso e anima.
«Appartengono a mia madre».
Mi è mancato il respiro. Ho sbattuto diverse volte le ciglia prima di avere il coraggio di guardarti di nuovo. Dalla tua espressione sempre criptica non traspariva alcuna emozione; ma i tuoi occhi certamente scarlatti dietro le tue lenti a contatto erano fissi su quelli di fronte a te. Li ammiravi rapito, con rispetto.
Il tuo cuore ti tradiva come sempre, emettendo battiti paragonabili alla risacca di un mare in tempesta, micidiale ma inconsistente.
«Oh», ho emesso. Temevo che anche un semplice “mi dispiace” o “capisco il tuo dolore” avrebbe potuto peggiorare il tuo stato d’animo. «Ne sei certo?»
Hai annuito. «Osserva bene l’occhio destro».
In effetti vi era una quasi impercettibile macchia di un rosso più scuro che copriva una parte sottile dell’iride.
«Mia madre aveva il mio stesso colore chiaro degli occhi, ma in quello destro presentava eterocromia settoriale. Quella parte che vedi era marrone», mi hai confessato, «Ne sono più che certo».
Poi non mi hai più rivolto la parola; io ero talmente affranta ed emozionata che per la prima volta ogni saggio consiglio o conforto mi moriva in gola.
Non potevo, però, lasciarti così. Tu mi avevi aperto il cuore, fidandoti di me, e avevi condiviso quel segreto così intimo, rendendomi spettatrice della tua immensa sofferenza. Non avevi secondi fini, né una logica ragione per farlo; l’hai fatto e basta.
«Puoi andare, se vuoi. Non sei obbligata a restare. Scusami se ti ho disturbata», mi hai detto.
«Kurapika», ti ho chiamato rivolgendoti un sorriso rassicurante. Ho giunto le mani e ti ho chiesto: «Posso pregare insieme a te?»
Hai posato subito il tuo sguardo visibilmente sorpreso sul mio.
«Sempre se non ti dispiace. Spero che ai tuoi cari sia gradita la mia presenza», ho aggiunto, e senza esitare ho chiuso gli occhi per concentrarmi.
Ho sentito una melodia tutta nuova provenire da te; un tintinnio dolce che mi ha rammentato la leggerezza delle gocce di pioggia che si depositano e imperlano i delicati petali dei fiori. Esso era quieto e inondato di sensazioni, colori, musiche meravigliose, plasmate di gratitudine, gioia, affetto.
Ho percepito il bene che ti avevano fatto le mie parole, e ne ho gioito così tanto da provare il tuo stesso orgoglio di stare rendendo onore al tuo popolo, da invocare su di te la protezione dei tuoi stessi cari.
Dopo un po’ ho rivolto di nuovo lo sguardo verso il tuo. Tu eri sempre lì a vegliare con me in silenzio, con gli occhi chiusi, il volto concentrato, le labbra che sussurravano sommessamente preghiere, e la tua guancia destra solcata da una lacrima che aveva tradito la tua solenne compostezza.

 

*

 

“Could you find a way to let me down slowly?
A little sympathy, I hope you can show me;
if you wanna go then I'll be so lonely,
if you're leaving baby let me down slowly”

 

Uno scontro ad armi pari causato da una trappola tesaci in uno dei nostri rifugi destinati agli interrogatori: è ciò che stiamo vivendo ora.
Ikeda nascondeva molti più segreti. È addentro alla mafia da tanto tempo, così come il suo rapporto di convenienza con Higashimura. Si coprivano malefatte e si scambiavano merci d’interesse mettendo l’uno una buona parola all’altro. Non è un caso che Ikeda abbia avuto inaspettatamente una scalata sociale, nonostante il suo discutibile stile artistico.
La questione della sua ossessione per macabre operazioni chirurgiche e il fascino per gli occhi scarlatti ci ha portato a riscoprire un vecchio conto in sospeso con lui non indifferente: macchiarsi del delitto di un nostro collega vari mesi fa, per un piano di sabotaggio organizzato dal suo stesso capo.
Ci troviamo di fronte ad uno psicopatico carente di intelletto ma lesto in ambito di azioni, manovrato dall’altra mansione, che quindi doveva essere immediatamente tolto di mezzo. L’abbiamo rapito per interrogarlo, ma nonostante la nostra sorveglianza armata e utilizzatrice di Nen, siamo stati comunque scovati grazie a peculiari abilità di altri suoi scagnozzi che hanno percepito non solo la presenza di Ikeda ma anche quella degli altri occhi scarlatti che conserva Kurapika a distanza di qualche chilometro.
All’improvviso, in un momento in cui ho la schiena appoggiata al muro, quest’ultimo si smuove assumendo una consistenza tutt’altro che solida. Un braccio spuntato da dietro mi circonda il collo; sento qualcosa di appuntito puntare contro la mia gola.
Resto paralizzata. Capisco a grandi linee cosa sta succedendo.
«Fermi tutti, o la vostra amica ci rimette le penne!», urla proprio Ikeda, materializzatosi accanto a me.
Tu, Kurapika, ti volti subito nella nostra direzione, insieme agli altri. Il tuo viso ha diversi graffi, e un rivolo di sangue sta colando dalle tue labbra. È sempre arduo combattere con altri esperti facendo affidamento solo ad un quarto dei tuoi poteri.
Mi guardi esterrefatto.
Come ha fatto Ikeda a materializzarsi qui da dove era prigioniero? La risposta ci arriva all’istante, quando lui ci rivela di appartenere alla specializzazione dalla sua nascita, e di possedere semplicemente un fisico capace di adeguarsi a qualsiasi tipo di potere Nen venga usato su di lui come ausilio; difatti, un suo affiliato gli aveva dapprima trasfuso la capacità di plasmare la solidità del proprio fisico.
«Tu», si rivolge poi a te, «Sei il loro capo, giusto? E il detentore di ciò che mi interessa, no? Perché non me lo dai e la facciamo finita? Non costringermi a darti un dispiacere con la morte di un altro tuo sottoposto. Non te ne fai niente di quegli occhi. Li collezioni e basta. Io so come usarli; io li devo usare. Per me, per essere più forte, speciale… Ne ho bisogno!», farfuglia. Riesco a scorgerlo con la coda dell’occhio: ha un aspetto davvero orripilante.
Tu lo fissi con occhi colmi di collera.
«Guardami! Lo capisci? Vedi il mio fisico orrendo e deforme? Voglio il meglio per me! Quello che non ho mai avuto! Sono stufo di essere sminuito e schernito da tutti! La bellezza, la rarità intrisa nelle mie opere ugualmente incomprese deve essere anche propria della mia persona!»
Passano diversi interminabili, dolorosissimi secondi.
Non cessando di fissare con aria minacciosa colui che rischia di strapparti via la tua unica soddisfazione, che ti vuole costringere a barattare un tuo affetto per un altro, sollevi la tua mano destra, fai apparire le catene e punti il mignolo verso il tuo petto. E ti sento pronunciare con tono sfacciato: «Uccidi me, piuttosto. O provvederò io direttamente».
Sgrano gli occhi, la vista mi si annebbia per lo shock. Hai davvero pronunciato quella condanna a morte a mente lucida? Il tuo battito è terribilmente regolare, seppur pullulante d’ira.
Stai anteponendo te stesso allo scambio poiché ritieni il tuo sacrificio migliore di ogni altra eventualità a quella scelta che non avresti mai il coraggio di fare.
Se succedesse qualcosa ai tuoi occhi o ai tuoi compagni, e tu ne fossi cosciente, non te lo perdoneresti mai. In alternativa al peggio inevitabile, porresti prima fine alla tua vita, senza voler pensare alla nostra sofferenza perché in fondo non ti sei mai sentito totalmente accettato e compreso.
È questo il tuo nefasto, aberrante difetto: egoismo nell’altruismo, una spiccata sensibilità verso il mondo che paradossalmente ti porta a focalizzarti su te stesso, poiché conscio di non essere altro che una ruota dentata di un ciclo della vita crudele che a malapena puoi controllare in funzione dei tuoi desideri.
«Tsk, non mi è chiaro se hai in mente qualche trucco o sei semplicemente uno sprovveduto», commenta Ikeda alle mie spalle, «Mi stai dicendo che i tuoi stessi poteri possono ucciderti?»
«Sto aspettando una sola risposta da parte tua. Hai intenzione di uccidermi o aspetti che sbrighi io il lavoro?», reiteri, «Posso utilizzare la mia calibro, se ciò può renderti meno scettico».
«Non ti posso uccidere! Tu mi servi per recuperare il bottino!», ringhia Ikeda, realizzando insieme a me il pericoloso trucco.
«Certo. Io sono l’unico che sa come accedere al mio antro protetto dal mio Nen. So bene come ho realizzato il tutto, e posso assicurarti che ci vorrebbe parecchio tempo per scoprire come scardinare ogni cosa, se ci riesci», riveli con furbo sorriso, «Se proverai a fare scherzi con la mia sottoposta o chiunque altro, io mi toglierò la vita. Bada bene, non mento; la morte è una possibilità che mi accompagna fedele dal giorno in cui ho smesso di vivere».
È il tuo cuore di ghiaccio a parlare. Ogni cosa da te detta, persino la più enigmatica, è vera; la tua serena accettazione della morte porta lo stesso Ikeda a tremare.
«Ti do dieci secondi per decidere», lo avverti.
«C-Chi mi dà la certezza che manterrai la parola se la libererò?»
«Devi fidarti del tuo istinto. Hai libertà di scelta, ma devi anche saper scegliere».

 

*



Quasi un mese dopo

 

La notte a Manhattan non regna quasi mai completamente: le luci delle strade trafficate e dei palazzi risplendono eccessivamente, come diamanti, ed emanano bagliori a intermittenza. È come se il manto di stelle del cielo - ora fosco - si fosse manifestato sulla nostra terra, accanto alle fonti di vita.
Io, che osservo l’immensità della metropoli – pregna di movimento e colori nonostante il tardo orario – dall’ottavo piano dell’edificio in cui alloggio, non posso ignorare tale curioso fenomeno.
Tuttavia, questo crepuscolo così vivace e caotico non tange alcuna delle mie ormai sopite emozioni, e per la prima volta osservo lo spettacolo in cui sono immersa come una distaccata spettatrice che sente, stavolta, di appartenere alla triste volta celeste, contaminata dallo smog e quasi spoglia di astri.
Siedo nel balcone sulla mia sedia ad ammirare un paesaggio che, seppur affascinante, non sento mio; vestita con una nuova, attillata, scomoda divisa che non sento mia; attraversata da un senso di solitudine che non dovrebbe appartenermi.
Kurapika, non mi hai nemmeno dato la possibilità di salutarti, parlarti, domandarti tante cose, guardarti in faccia un’ultima volta, quando ho appreso per mezzo di un nostro collega divenuto leader la tua decisione di licenziarmi dalla mansione e trasferirmi da un tuo affiliato. La stessa sorte è toccata a Basho, che risiede attualmente a Detroit.
Non hai avuto il coraggio di affrontarci per una scelta che probabilmente avevi preso da diverso tempo e che stavi cercando di attuare tramite una scusa.
Non potevi più sopportare che altri tuoi cari corressero pericoli a causa tua, e non riuscivi più a tollerare che questi ultimi ti sviassero dai tuoi obiettivi di vita; perché noi siamo la tua debolezza più grande, e non puoi accettare di anteporci alle tue necessità egoistiche.
Ti sei sbarazzato di chiunque avessi a cuore, magari facendoti odiare di proposito, per essere poi libero da vincoli, rimpianti, e poter così scivolare nell’abisso della perdizione.
E mi ritrovo qui, da sola, a ricominciare una nuova vita a causa di un tuo capriccio, lontana dai rapporti che ero riuscita a intrecciare in precedenza. Tu non vuoi pensare a come possiamo sentirci in questo momento, strappati ai nostri affetti, al nostro habitat esattamente come è successo a te.
Eppure, chi mi manca di più adesso sei proprio tu, l’unico che paradossalmente può colmare il senso di vuoto da te stesso causato. Non posso fare a meno di richiamare alla mente quella notte di settembre, di tanto tempo fa, in cui entrambi ci siamo rivolti la parola in un terrazzo, mentre osservavamo le variopinte luci cittadine di York Shin e il cielo quella volta stellato, cullati dalla brezza che ci carezzava la pelle e ci spingeva a dare voce alle nostre emozioni più profonde.
Ecco, questa vista analoga, i palazzi imponenti, la desolazione interiore: tutto mi ricorda te, che ora non mi sei accanto perché hai rifiutato la mia spalla. Fa male.
Ti conosco a sufficienza per immaginare che anche tu, in questo istante, sei fuori dal tuo balcone ad osservare il mondo esterno per consolare i tuoi affanni. O almeno, un tempo eri solito farlo; ora chissà.
Da quanto non apri il tuo cuore a qualcosa che non sia il tuo nocivo scopo di vita? Da quanto non contempli la bellezza della vita, dei paesaggi rigogliosi di un giorno di primavera? Da quanto sei così pretenzioso da non riuscire a riconoscere e abbracciare la semplicità dei piccoli gesti?
Tiro fuori il mio cellulare e, senza riflettere troppo, osservo la nostra chat, ossia l’unico mezzo che può ancora permettermi di raggiungerti. Controllo il tuo ultimo accesso: tre minuti fa. Un po’ mi sorprende, sebbene ritengo tu non l’abbia usata per contattare qualcuno al di fuori del tuo lavoro.
Ciò, però, non mi frena.
“Come sono le stelle del tuo cielo?”, ti scrivo soltanto.

 

“And I can't stop myself from falling, down;
And I can't stop myself from falling, down;
And I can't stop myself from falling, down;
And I can't stop myself from falling, down

 

La tua risposta non arriva, né dopo dieci minuti, né dopo mezz’ora. Forse ti pè apparsa la notifica, e per questo non hai visualizzato. Agisci così anche con i tuoi vecchi amici, suppongo.
Mi sfugge un sorriso mesto, e accetto la situazione.
Anche il silenzio è una risposta, e il tuo in particolare vale più di mille parole.

 
© Alyss Liebert
 
 

•••

 

{Note e curiosità}
I contest e le challenge del forum mi permettono spesso e volentieri di mettere su carta idee in cantiere da tempo immemore, e di tenere attivo questo profilo.
Volevo tanto (tornare a) cimentarmi in un racconto su Kurapika e Senritsu, specialmente perché mi interessava interpretare il motivo dell’apparente “separazione” constatata negli ultimi capitoli del manga tra Senritsu e la famiglia Nostrade presieduta da Kurapika. Lei era andata a visitare Gon insieme a Leorio, e non sembrava avere la minima idea di dove si trovasse Kurapika (altrimenti Leorio non avrebbe tentato di contattarlo disperatamente e non si sarebbe scervellato ad immaginare la sua posizione). Quindi Senritsu non era più accanto a lui da un po’ di tempo, sebbene quest’ultimo l’avesse poi “assunta” di nuovo per la questione dei principi, e tra i due sia tuttora rimasta una certa amichevolezza.
In questo scritto ho dato una personale interpretazione, e devo ringraziare mille volte il contest a cui sto partecipando. Quest’ultimo si incentra su un difetto da applicare al personaggio principale (in questo caso Kurapika agli occhi di Senritsu); vi posso assicurare che non è stato facile eleggere l’egoismo fra molti altri.
La citazione del pacchetto è stata inserita non letteralmente ma nel suo significato, applicato soprattutto a certe riflessioni di Senritsu e alle azioni di Kurapika.
La scena bonus si ha nel momento in cui Kurapika è costretto a scegliere se salvare lei o meno, e ho complicato la questione inserendo come oggetto dello scambio proprio gli occhi scarlatti, i suoi “affetti” più grandi insieme ai suoi amici. Decisione che lui è praticamente incapace di prendere e che, come avrete letto, ha rigirato sapientemente (con una buona dose di follia).
Mi interessava anche fare confronti con momenti passati, alcuni accaduti davvero nell’opera originale, dove i cambiamenti di Kurapika sono più evidenti.
Per quanto riguarda la fine della vicenda di Ikeda, potete interpretarla a vostro piacimento. Che tipo di baratto ha fatto Kurapika per liberare Senritsu, se l’ha fatto? Che ne è stato degli occhi da lui fino a quel momento collezionati? E di Ikeda? Avrà architettato dell’altro? It’s up to you. Non l’ho voluto approfondire perché mi avrebbe sviato dal fulcro principale della storia.
Riguardo al rapporto tra i due personaggi, anche qui vi lascio campo libero (non a caso ho inserito entrambi i tipi di coppia “nessuna” e “het”). C’è qualcosa di particolarmente profondo fra loro o si tratta di un rapporto più “materno”? Io ho le mie idee, ma non vi influenzerò.
Il titolo, le citazioni e – se vogliamo – l’altra metà dell’ispirazione provengono dal brano “Let me down slowly” di Alec Benjamin e Alessia Cara, che penso riassuma perfettamente il tutto (link per ascoltarlo).
Spero davvero di aver fatto un buon lavoro, e vi ringrazio per essere arrivati fin qui. Non esitate a lasciarmi i vostri pareri, anche di poche righe: essi sono sempre stimolanti per uno scrittore.

 

Jā ne,
Alyss

  
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