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Autore: LionConway    29/05/2019    6 recensioni
Forse c'è stato davvero un tempo in cui l'America era grande. Ma ormai gli eroi se ne sono andati tutti e noi poveri ratti di città non sappiamo più a cosa aggrapparci. Cosa ci resta più che macerie, più che detriti? Il cielo è grigio sopra New York.
Raccolta di one shot ispirate alla mia long Bridge Over Troubled Water. Credo si possa leggere anche senza conoscere la storia principale, anche se è tuttavia consigliato farlo.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Where there is ruin, there is hope for a treasure'
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Another head hangs slowly
Child is slowly taken
And the violence caused such silence
Who are we mistaken?
But you see, it’s not me
It’s not my family
In your head, in your head
They are fighting
With their tanks and their bombs
And their bombs and their guns
In your head, in your head
They are crying
 
  • The Cranberries, “Zombie”
 
# 1. Del mio Corpo sono sempre fier
 
Il motivo per cui si trovava in una camerata di reclute dei Marines a Parris Island era perché, qualche giorno prima della partenza, nell’esatto momento in cui aveva preso coscienza della stronzata fatta nell’arruolarsi volontariamente, Johnny aveva fallito nel lanciarsi dalla scala antincendio del suo palazzo. Sperava di rompersi una gamba o, nel peggiore delle ipotesi, ammazzarsi.
Era stato Michael, il suo migliore amico, a fermarlo.
Michael che gli aveva urlato di non fare cazzate.
Michael che in quei giorni si trovava senz’ombra di dubbio seduto nel silenzio di un’aula universitaria, circondato da figli di papà ai quali venivano finanziati gli studi che li avrebbero protetti dall’essere spediti in Vietnam. Immerso in un test d’ammissione a chissà quale facoltà, su un innocente foglio di carta, mentre i test di Johnny si svolgevano alla sbarra o su un campo a ostacoli di circa cinque miglia da percorrere in meno di venti minuti, che strappava i tendini delle gambe alle reclute, portava in fiamme i loro petti, li massacrava fisicamente e psicologicamente.
Michael che, fondamentalmente, avrebbe dovuto farsi i cazzi suoi.
Perché se al college qualcuno lasciava un armadietto aperto – c’erano poi gli armadietti al college? Johnny non lo sapeva di certo- il problema sarebbe stato suo, suo soltanto, solo dell’idiota che avrebbe pagato le conseguenze di quella mancanza d’attenzione.
In una camerata, invece, avrebbe potuto trattarsi di qualunque stronzo, qualsiasi imbecille incapace di girare la chiave in un lucchetto, ma il problema sarebbe stato di tutti. Non esisteva individualità nei Marines, non c’era nessun “io”. Esisteva solamente la squadra, esisteva il prendersi la responsabilità di una stronzata per cui tutti quanti ci avrebbero rimesso. Non vi erano scuse, non vi era redenzione, vi era soltanto il Sergente Maggiore Raymond Donovan che si sgolava per rivolgere alle reclute i peggiori insulti mai ascoltati dalle loro orecchie molestate dalle urla e dalle vessazioni.
Era stato Beaufort a dimenticare di chiudere quel cazzo di lucchetto.
Nessuno ne fu sorpreso, anzi: tutti si chiedevano come diavolo facesse Beaufort a essere ancora lì. Era grosso, stupido, sovrappeso. Faticava negli allenamenti e beccava i punteggi più bassi nei test a cui i soldati venivano sottoposti. Era sempre, costantemente distratto, e quasi esclusivamente la causa maggiore delle punizioni inflitte a tutta la camerata. Prima o poi, Johnny ne era sicuro, i compagni non si sarebbero accontentati di assistere alla strigliata e alla sua pubblica umiliazione da parte del Sergente Donovan: un giorno o l’altro gli avrebbero dato una gran saccagnata di botte e lui non sapeva se il pensiero lo rendesse triste o meno. Beaufort era uno stupido, ma era un bonaccione, un ragazzo di campagna incapace di fare del male a una mosca. Decisamente fuori posto in un corpo militare che si premurava di distruggere la personalità degli uomini per plasmarli in armi da guerra micidiali e scattanti. Certo però, come tutti, anche Johnny era stufo di essere punito per le disattenzioni del contadino.
Inevitabilmente, si domandò cosa Donovan avesse in serbo per loro, questa volta.
Accanto a lui, come se gli avesse letto nel pensiero, il soldato Robinson, un ragazzo nero dalle spalle possenti, gli diede un leggero colpo di gomito, attirando la sua attenzione.
“Guarda Riley” gli sussurrò all’orecchio. “Ci gode come un matto.”
Johnny volse lievemente la testa di lato, incrociando gli occhi del Caporale Riley, un vero stronzo di qualche anno più grande di lui la cui specialità era tirarsela come se avesse avuto il cazzo d’oro. Se ne stava a riposo, le gambe divaricate, con ai piedi un grosso contenitore di plastica dal contenuto ignoto. Quando il suo sguardo incontrò quello di Johnny, Riley gli rivolse un ghigno e, approfittando del Sergente che dava loro le spalle, il Caporale passò un dito sotto il proprio mento, facendo cenno di recidersi la gola.
Per tutta risposta, Johnny gli mostrò il dito medio della mano sinistra, ma non la riportò dietro la schiena abbastanza in fretta: Donovan si era appena voltato e lo aveva beccato in flagrante.
“Hai qualche problema, Castelluccio?” tuonò la voce del Sergente, allorché Johnny scattò sull’attenti.
“Signor no, signore!”
“Balle, secondo me ne hai parecchi di problemi, soldato!”
Donovan lasciò perdere Beaufort e fece qualche passo in sua direzione, piazzandosi ad appena qualche centimetro da Johnny, tanto che il suo alito caldo investì in pieno il volto della giovane recluta. “Avanti, spara, moccioso, confidati! Cosa c’è? Mammina non è venuta a salutarti alla stazione? Ti manca la fica fradicia della tua ragazza?”
“Signor no, signore!”
Dopo quattro settimane che si trovava lì, Johnny aveva imparato a trovare Donovan quasi comico quando sbraitava a quel modo: la larga bocca del Sergente si contraeva furiosamente in smorfie grottesche, quasi vignettistiche, e sputacchiava gocce di saliva in faccia al malcapitato di turno; i suoi penetranti occhi glaciali si incrociavano per via della vicinanza dei volti, rendendolo quasi ridicolo, e le vene sul collo e sulle tempie si facevano così evidenti che parevano sempre sul punto di scoppiare da un momento all’altro. 
“Allora, esattamente, qual è il motivo per cui sentivi così tanto bisogno di tirare su un dito medio, eh, Castelluccio? Ti piace metterti le dita nel culo, per caso?”
Johnny non resistette. Non era nella sua natura e, in ogni caso, avrebbe comunque pagato le conseguenze di qualcun altro se non le sue.
“Signore, a volte, signore!” esclamò in risposta, e i suoi occhietti vispi si mossero sul volto paonazzo di Donovan, sostenendo il suo sguardo truce. “Ho sentito dire che la stimolazione prostatica è consigliata dai medici, signore!”
Udì Robinson accanto a sé soffocare un suono strozzato a metà tra un singhiozzo e una risata. Per sua fortuna, Donovan era troppo incazzato con Johnny per accorgersene. Quella sua sfrontatezza, gli costò una ginocchiata nelle palle, così ben assestata che si ritrovò piegato in avanti per via del dolore.  
“In ginocchio, soldato!” gridò Donovan sopra di lui. “In ginocchio con i palmi a terra, brutto insignificante pezzo di prosciutto decomposto! Te la faccio vedere io la stimolazione prostatica!”
Johnny eseguì, imprecando tra i denti per il colpo ricevuto ai testicoli. Tuttavia, anche quando prese posizione, non volle dare a Donovan la soddisfazione di credere di averlo umiliato. Sulle sue labbra, restava quel sorrisetto impertinente che gli aveva donato ormai la fama di recluta insubordinata.
Gli stivali di Donovan scomparvero dal suo campo visivo e il calcio del Sergente arrivò così energico al suo didietro che dovette soffocare un’altra imprecazione.
Sentì una mano del suo superiore afferrargli saldamente la spalla destra e il suo respiro solleticargli l’orecchio.
“Ti piace così, soldato?” ringhiò Donovan.
Johnny sapeva che avrebbe dovuto starsene zitto. Invece, lo provocò per l’ennesima volta: “Credo che possa fare di meglio, Sergente.”
“Come ti pare.”
Donovan gli diede un altro calcio così forte che dei minuscoli lampi di luce colpirono gli occhi di Johnny e danzarono per un tempo indefinito davanti a lui: ecco cosa significava vedere le stelle.
“Allora, ne hai abbastanza?”
“Sì” gemette, contraendo i muscoli dello stomaco. “Sì, signore.”
“Terrai chiusa quella boccaccia?”
“Sì, signore”
“E le mani al loro fottuto posto dietro la schiena?”
“Signor sì, signore.”
“Rialzati, stronzetto!”
Johnny eseguì, tornando a riposo, le dita della mano destra che stringevano saldamente il polso della sinistra.
Donovan si allontanò e passò in rassegna i volti di tutte le altre reclute.
“C’è qualcun altro che vorrebbe prenderle nel culo come Castelluccio?” li minacciò.
In risposta, vi fu un coro di “Signor no, signore!”
“Bene, mi pare di aver capito che posso andare avanti, allora, e darvi quello che vi meritate tutti quanti per essere incapaci di assicurarvi che il soldato Beaufort qui presente compia il suo dovere!”
Gli occhi di tutti tornarono a muoversi in simultanea su Beaufort che, dal canto suo, aveva lo sguardo vitreo puntato su un punto impreciso davanti a lui e visibili gocce di sudore gli imperlavano la fronte e la testa rasata. A Johnny faceva una gran pena, ma al tempo stesso covava il profondo desiderio di prenderlo a pugni per quelle sue continue distrazioni. Gli ricordava un po’ suo fratello, incapace di concentrarsi per più di qualche minuto su qualunque cosa non rientrasse nel suo limitato campo d’interesse.
“Soldati!” urlò Donovan “Estraete i vostri fottuti lucchetti! Caporale Riley, proceda!”
Riley gongolava. Sollevò il coperchio della scatola ai suoi piedi e l’afferrò saldamente, mentre le reclute tiravano fuori dalle tasche dei pantaloni marroni i lucchetti che Donovan aveva fatto loro rimuovere dai rispettivi armadietti.
Quando il Caporale si piazzò con la scatola davanti a Johnny, sogghignò sprezzante: “Allora, preferisci dare o ricevere, Castelluccio?”
“Come mai le interessa, Caporale?” rispose Johnny, inserendo una mano nel recipiente che, come scoprì, conteneva palline di decorazione per l’albero di Natale. “Sta per caso valutando la merce? Le piace la carne giovane? Non potrei di certo biasimarla, eh.”
Riley digrignò i denti e le sue narici si dilatarono come quelle di un toro rabbioso.
“Ti consiglio di darti una regolata, Castelluccio” sibilò, mentre si spostava verso Robinson che prese anche lui una pallina. “O giuro su Dio, non ti faccio arrivare alla fine dell’addestramento.”
“Sono terrorizzato” bisbigliò Johnny, mentre l’altro si allontanava con un’occhiata rabbiosa.
Scosse la testa, osservandolo distribuire palline decorative a tutta la camerata, prima di incrociare i grandi occhi inquisitori di Robinson accanto a lui: “Che c’è?”
“Devi sempre fare il gradasso con tutti?”
“Cosa? È lui che fa lo spaccone con me.”
“No. Riley fa lo spaccone con gli altri. A te, invece, odia proprio. Perché sei insubordinato.”
“Che parolona” bofonchiò Johnny, rigirandosi la pallina rossa tra le dita. “Secondo te a che servono? Per punizione, vogliono farci decorare l’albero? Non è un po’ tardi?”
“Non credo si tratti di questo.”
Difatti, non lo era. Quando lo stronzo terminò di distribuire le palline, Donovan prese a camminare avanti e indietro tra le due file di reclute, spiegando loro che dovevano applicare i lucchetti al piccolo gancio della pallina, farle cadere sul pavimento e ritrovare la propria in meno di trenta secondi. Chiunque non sarebbe riuscito nell’impresa, sarebbe stato punito con cinque giri di campo completi.
Dalle reclute, si levò un coro di lamenti contrariati, che Donovan mise subito a tacere con altri spolmonamenti.
“Silenzio!” gridò “SILENZIO! O vi ci sbatto tutti subito a correre un numero indefinito di giri fino a quando non sorge il sole, è chiaro? Infilate subito quei cazzo di lucchetti in quel fottuto gancio!”
Tutti eseguirono di malavoglia. Johnny chiuse saldamente il proprio il lucchetto e si tastò nelle tasche, assicurandosi di avere con sé la piccola chiave per riaprirlo. Fece appena in tempo a tastarla che Donovan soffiò nel fischietto che portava al collo.
Johnny tentò disperatamente di seguire con gli occhi il percorso della propria pallina, ma quella rimbalzò più volte sul pavimento, mischiandosi a un’altra trentina di piccole sfere rosse, tutte identiche. Il giovane soldato si unì ai propri compagni sul pavimento, in mezzo al caos dove regnavano grida e imprecazioni. Attorno a sé non vedeva altro che teste rasate e sfumature militari verdi e marroni. Alla fine, prese in mano la prima pallina che trovò e si separò dalla mischia, strisciando verso la propria cuccetta.
Johnny infilò la mano in tasca, estrasse la chiave e, pregando tutti i Santi che conosceva di aver afferrato la pallina esatta, provò a inserirla dentro il lucchetto. Ovviamente, le sue preghiere non furono esaudite.
“Fanculo!” esclamò, mentre il suono acuto del fischietto di Donovan, odioso tanto quanto le sue urla, minacciava di fargli sanguinare le orecchie.
I soldati si misero nuovamente in riga, tutti visibilmente contrariati del proprio risultato. Johnny cercò con lo sguardo qualcuno che avrebbe potuto essere salvato dal proprio destino, ma sui volti che passò in rassegna riuscì a intravedere solamente rabbia e scontento.
Donovan e Riley si scambiarono un cenno e presero a controllare i risultati di ognuno di loro. Tutti, Sergente e Caporale compresi, quasi morirono quando Beaufort si mostrò l’unico ad aver avuto successo nell’impresa.
“Sìììììì!” esclamò il contadino, il sorriso sulle sue labbra raggiante per la prima volta dopo settimane.
Attorno a lui, invece, gli animi si stavano rapidamente infervorando. A Johnny parve quasi di sentire qualcuno scalciare, come un toro nell’arena che prendeva la rincorsa contro il suo matador.
Ci pensò Donovan a rimettere in stallo la situazione.
“Soldato Beaufort!” tuonò, portandosi nuovamente di fronte a lui. “Credi davvero che questa botta di fortuna spacciata completamente a caso possa salvarti dalla tua punizione? Sei l’artefice di tutto questo casino, grosso sacco di lardo penzolante, e la tua punizione era già decisa anche senza che ti portassi a fondo tutto il resto della nave! Se non esistesse il concetto di cameratismo tu a quest’ora staresti provando a portare il tuo mastodontico culo flaccido oltre il più semplice degli ostacoli completamente da solo! Ringrazia che i tuoi compagni siano indisciplinati quanto te, ridicolo sacco di merda!”
Johnny trattenne il respiro, mentre ogni singola parola che fuoriusciva dalla bocca sputacchiante di Donovan colpiva dritta alla faccia e al cuore di Beaufort, costringendolo a perdere il primo sorriso dopo tre settimane di duro allenamento e scarsi risultati. Si domandò se il Sergente non stesse esagerando con gli insulti nei confronti di quel povero Cristo, colpevole solamente di aver lasciato l’armadietto aperto. Tuttavia, si disse che, se il suo superiore avesse punito tutta la camerata salvando il culo a chi aveva scatenato il castigo, su Beaufort si sarebbe senz’altro scatenata la vendetta morale dei compagni d’arme. Pestato da una trentina di saponette avvolte negli asciugamani. A confronto, percorrere cinque volte il percorso a ostacoli era come andare al luna park.
 
 
 

A quell’ora, il percorso a ostacoli del bootcamp era illuminato da alti faretti che circondavano i lati del tragitto. Faceva un freddo schifo, il vento che soffiava e infastidiva le teste rasate delle reclute che procedevano due a due nel superare gli impedimenti, l’umidità che penetrava nelle ossa.
Johnny era consapevole che il clima e il training erano solamente una gita in villeggiatura rispetto a quello che lo avrebbe accolto in Vietnam. Una volta sbarcate, le nuove truppe sarebbero state spedite direttamente a Khe Sanh in supporto per la difesa della base militare assediata dai Vietcong proprio in quei giorni, sempre se fosse ancora esistita al momento del loro arrivo. Lo avrebbero circondato, gli avrebbero sparato addosso. Sarebbe stato ferito, forse sarebbe pure morto. Beaufort, con cui era stato accoppiato per correre i giri di campo, senz’altro non ce l’avrebbe fatta.
Guardandolo dall’alto delle travi di legno su cui si era appena arrampicato, Johnny pregò con tutto sé stesso che cadesse e si sfasciasse una caviglia, costretto dall’infortunio a tornare a casa o a essere spedito in un plotone destinato allo scarico merci degli elicotteri. Che cazzo ci era venuto a fare nei Marines? Non era particolarmente grasso: era solo molto alto e tarchiato, la sua mole avrebbe dovuto terrorizzare chiunque, specie quei Charlie musi gialli che si nascondevano nella giungla vietnamita in attesa di riempire di piombo le chiappe del nemico. Il problema di Beaufort era l’essere goffo, lento. Faticava a correre, figuriamoci arrampicarsi su una corda tesa per arrivare in cima a una costruzione di travi di legno.
Riley, che doveva assicurarsi che tutti completassero i giri di campo richiesti, era nel suo elemento: se c’era una persona che detestava più di Johnny, che non si lasciava sempre infinocchiare dalle sue vessazioni, quello era Beaufort. Tutti potevano scaricarsi su di lui: d’altronde, era scemo e non rispondeva mai.
“Beaufort, mia nonna non ci metterebbe nulla a batterti nell’arrampicarsi su quell’affare!” si sgolò il Caporale. “Ed è morta! Pensi di riuscire a muoverti più velocemente del cadavere della mia amata nonnina, soldato?”[¹]  
“Sì… signore”
Beaufort aveva il fiatone.
Con le mani saldamente strette alla corda, cercò di spingersi con il piede destro sulla trave di legno, ma scivolò goffamente e il suo petto e la sua pancia si schiantarono pesantemente sulla superficie dell’ostacolo. Lui rimase penzoloni a qualche centimetro da terra, con Riley che si spanciava dal ridere nel guardarlo faticare.
Mentre rideva in quel suo sguaiato e irritante modo, gli occhi del Caporale incontrarono per un attimo quelli di Johnny, e lui vi lesse un’espressione di sfottò che avrebbe tanto voluto cancellargli con un calcio in faccia.
“E nel frattempo Castelluccio si è preparato un piatto di spaghetti con le polpette!” annunciò Riley, rivolto a Beaufort che, con una fatica sovrumana, tornò a puntellare i talloni contro le travi. “Scommetto che se ci fossero un po’ di spaghetti con le polpette lassù, a quest’ora ti ci saresti già arrampicato, Beaufort! Avanti, vai a conquistarti il diritto di essere grasso, soldato! Aspettano solo te per essere mangiati! Forza, così!”
Per quanto stronze, quelle motivazioni sembrarono stimolare il giovane contadino, che riuscì finalmente a tirarsi su piano piano.
“Avanti, su quel culone!”
Esasperato, quando Beaufort fu finalmente a portata di mano, Johnny si sporse e gli afferrò il braccio, aiutandolo a issarsi sull’ostacolo.
“Coraggio, amico, sei arrivato.”
Inspirando ed espirando con intensità, Beaufort gli lanciò un sorriso a mo’ di ringraziamento. Quella premura, tuttavia, gli costò cara perché, ovviamente, Riley ebbe da ridire.
“Castelluccio!” esclamò “Torna subito giù! Vieni qui!”
Johnny sospirò, afferrò la corda e saltò giù, piazzandosi sull’attenti di fronte al suo Caporale. Aveva proprio una faccia da stronzo, scarna ma perennemente incattivita dagli zigomi pronunciati, da quegli occhietti truci e dai denti scheggiati che parevano le zanne appuntite di uno squalo. Alla fine, comunque, era solo apparenza: Riley era un bullo, gli piaceva bacchettare le reclute ed ergersi su di loro forte della sua posizione nella gerarchia militare, ma alla fine lui e Johnny stavano ad appena uno scalino di distanza. Donovan era un vero pezzo grosso, un Sergente con anni di esperienza alle spalle. Riley era solo un pezzo di merda e l’unica cosa che poteva fare per punirlo era riportare i suoi comportamenti a un altro superiore.
“Che cosa pensavi di fare, Castelluccio?” ringhiò il Caporale, a mezzo centimetro dalla sua faccia.
Johnny sostenne il suo sguardo e rispose: “Caporale, stavo solo dando una mano al soldato Beaufort.”
“Ed esattamente, chi ti avrebbe detto di farlo?”
“La mia coscienza, Signore. Nessun compagno viene lasciato indietro nel momento del bisogno.”
La risatina che provenne dalle labbra sottili di Riley fu di puro scherno. Sollevò l’indice e lo puntò su Beaufort, in piedi sull’ostacolo in attesa di poterlo scavalcare.
“Mi stai dicendo che ti faresti ammazzare per questa palla di lardo, Castelluccio?” sghignazzò.
Johnny si costrinse ad affondare le unghie nel palmo delle proprie mani per impedire a sé stesso di dare a Riley un pugno che gli avrebbe rivoltato la faccia.
“Non ho detto questo, Caporale” ribatté “Ma senz’altro gli guarderei le spalle. Non lo lascerei ferito e sanguinante, in pasto al nemico, se venisse colpito. Non esiste alcun io all’interno del plotone.”
Riley inspirò profondamente. Indietreggiò di un passo e sollevò il mento, come per guardarlo meglio. Johnny non mosse gli occhi da lui.
Il ghigno sul volto del Caporale non diede segno di voler scomparire.
“Che animo nobile!” esclamò, prima di afferrargli saldamente il mento tra pollice e indice. “Di me, invece, è meglio che tu sappia questo, Castelluccio: di te non me ne frega proprio nulla. Se ci trovassimo insieme nel folto della giungla e tu ti trovassi sotto il tiro di un fottuto muso giallo qualsiasi, io non alzerei un dito per salvarti. Sceglierò sempre il mio culo al posto del tuo, è chiaro? Quindi prega di non essere mai mandato in missione con me, fottuto negro mangia-mozzarella[²], perché l’unico modo in cui onorerei il tuo cadavere sarebbe pisciandoci sopra.”
Johnny si scostò malamente dalla sua presa, il volto contratto in un’espressione furibonda. Lo odiava. Cazzo, se lo odiava, lo detestava e non aveva la più pallida idea perché, tra tutte le reclute, dovesse per forza prendersela con lui. Di una cosa, però, era certo: il sentimento era completamente ricambiato.
“Allora forse dovrebbe cambiare corpo militare in cui servire, Caporale” sibilò, guadagnandosi un’occhiata furiosa da parte dell’altro. “Dal momento che mi sembra ovvio che non abbia ben compreso il concetto di cameratismo. Solo quello di egocentrica stronzaggine.”
Quelle parole gli fecero guadagnare un pugno al petto così potente che Johnny temette che quel bastardo gli avesse sfasciato lo sterno. Si piegò in avanti, dolorante, portandosi una mano al torace e cercando di prendere più aria possibile: lo stronzo gli aveva mozzato il fiato.
Le mani di Riley gli afferrarono saldamente le spalle e, quando si sporse su di lui, le sue labbra solleticarono per un attimo il lobo dell’orecchio di Johnny.
“Spero che tu muoia” soffiò il suo Caporale “E ora vedi di finire questo giro, fottuto pezzo di merda.”

 
 
**********
 
[¹] Citazione tratta da un episodio di Teen Wolf. Un sentito omaggio al coach Finstock durante gli allenamenti di lacrosse e vero protagonista della serie.
 
[²] So che è brutto da dire, ma per rispettare il clima fin troppo razzista che si respirava all’epoca –ma ancora adesso- all’interno del Corpo dei Marines, inserirò qualche slur decisamente offensivo. Questo, ad esempio, era un insulto particolarmente usato in America per chiamare gli italiani.

 
NdA: Salve, amici. Non so cosa mi abbia portato a iniziare questa raccolta di one-shot, che fa un po’ da spin off alla mia storia originale, Bridge Over Troubled Water. Se siete familiari con il personaggio di Johnny, sapete sicuramente che è un ex-marine, che soffre del Disturbo Post-Traumatico da Stress e che è praticamente il personaggio che più adoro all’interno della storia principale. Questa sarà una raccolta dove racconterò alcune delle sue esperienze vissute in Vietnam che lo hanno segnato fortemente. Non credo vi saranno particolari spoiler della storia principale, ma in tal caso vi avvertirò all’inizio dei capitoli.
Dal momento che si tratta di una raccolta, non so ogni quanto tot di tempo aggiornerò. Non voglio darmi deadline fisse, preferisco scrivere queste shot quando mi sento più ispirata, quando magari ho bisogno di una piccola pausa dalle mie long che, invece, hanno la priorità assoluta.
Mi sono informata il più possibile sulla Guerra del Vietnam, sul sistema di arruolamento e sulle tecniche di addestramento utilizzate dai Marines negli anni ’60, tuttavia alcune informazioni erano difficilmente reperibili e ho fatto in modo di ispirarmi il più possibile a tutti i film sul tema che mi è capitato di vedere. Perciò, lo svarione è sempre prepotentemente dietro l’angolo. Qui, in particolare, ho fatto continuo riferimento a Full Metal Jacket (a cui ho dedicato il titolo di questa prima shot. Inoltre, Beaufort potrebbe essere giusto un po’ ispirato a Palla di Lardo), oltre che ad alcune punizioni utilizzate realmente durante l’addestramento dei Marines –parlo dei lucchetti attaccati alle palline di Natale.
Al momento ho messo alla storia un rating arancione, anche se credo che, a una certa, sarò costretta ad alzarlo al rosso perché, parlando di guerra (soprattutto questa guerra) le scene di violenza saranno inevitabili. In generale, comunque, la storia vuole concentrarsi sull’evoluzione del rapporto tra Johnny e Riley, un personaggio che, in qualche modo, sarà presente anche in BOTW. Sta a voi continuare la lettura di entrambe le storie se volete scoprire come.
Spero che questa prima one shot vi sia piaciuta, in tal caso (o in caso contrario) fatemelo sapere con una recensione, mi farebbe più che piacere.
  
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