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Autore: gold_pebble    01/06/2019    3 recensioni
Chiedo umilmente pietà ai lettori, e vi è poco d’altro che possa fare.
Chiedo umilmente pietà ai lettori, affinché schiudano i loro cuori e attingano alla più profonda bontà che alberga in essi, perché ciò possa portarli a comprendere le azioni e tribolazioni cui la fanciulla protagonista del racconto va incontro.


Nell'estate 1845, Ottilie Barret fa la conoscenza di Frederick Wrentmore, gentiluomo tanto più anziano di lei da essere sposato da più anni di quanti lei ne abbia avuto l'occasione di viverne.
Frederick possiede il fascino del gentiluomo inglese, le conoscenze del viaggiatore che ha camminato sulle terre oltreoceano, l'assennatezza del saggio che ha imparato a superare ogni ostacolo con il solo uso della parola.
Agli occhi di Ottilie, Frederick è un sogno divenuto realtà tramite il mortale mezzo della carne; lui non la tratta come una sciocca ragazzina, e non ritiene che le sue emozioni siano causate da pochezza morale.
Tuttavia, l'uomo è ben lontano dalla creatura senza macchia e peccato che Ottilie figura nella sua mente, e la ragazza dovrà presto iniziare a crescere, se vuole abbandonare le sue grinfie.
[Si aggiorna un sabato sì, e l'altro si spera.]
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Età vittoriana/Inghilterra
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Aggiorno adesso, in quello che è un prestissimo sabato notte italiano, perché l'altro giorno sono caduta mentre mi allenavo con i pattini e ho sbattuto la testa contro l'asfalto, facendo risultare il tutto in una terribile emicrania, muscoli della mascella irrigiditi al punto che mi è quasi impossibile parlare, e un bel colpo della strega che, dal collo, sta andando a prendere pure il resto della schiena. In compenso, ho avuto tempo questa mattina di andare in giro per i vari mercatini dell'usato e sprecare quel poco di contanti che mi sono rimasti.
Comunque, mi è stato fatto notare, giustamente, che il capitolo precedente era cortissimo, appena diciassette righe, così eccone uno più lungo, di 4001 parole. È ancora introduttivo, perché i due personaggi principali dovevano pur essere presentati, in qualche modo, perciò non è ancora della lunghezza dei miei soliti capitoli.
Ringrazio alessandroago_94 e gynevere che hanno recensito, e RosaEmme93 che l'ha inserita tra le seguite.
Buona lettura,
gold_pebble


 
Capitolo Primo
La Magione in Campagna
 
La magione nella campagna del Sussex apparteneva alla famiglia Barret da ormai sei generazioni, e prima di queste era stata la tenuta estiva di un distante cugino della reale famiglia degli Stuart. Tuttavia, la sua deliziosa costruzione in pietra portava alla mente l’immagine del nobile castello di Hever, facendo comprendere a chiunque la guardasse che era ben più antica di quanto il suo stato di conservazione volesse far sembrare, e che nessuna modifica, per quanto estesa essa fosse, avrebbe mai potuto privarla di quell’innata fantasia di dame e cavalieri che le sue pietre sbiancate dal sole portavano appresso.
A differenza del nobilissimo castello, la magione offriva una pianta a U, e non v’era alcun fossato che avrebbe necessitato dell’abbassamento del ponte levatoio, perché si potesse entrare. Invece, in fronte a essa vi era null’altro che una grande distesa erbosa, dolcemente collinare e punteggiata da billeri dei prati bianchi e rosa, e sul retro di essa un folto bosco, talmente fitto che pure nel momento in cui il sole era più alto pareva sera inoltrata. V’era, ovviamente, spazio per un campo da tennis, un labirinto i cui corridoi erano formati da siepi di bosso e al cui centro era possibile trovarvi una fontana con putto che ne decorava il piatto più alto, stalle per numerosi destrieri, uno stagno di abbondanti dimensioni che faceva da casa a oche e papere, e per chi amava passare le giornate giocando con i propri amici, la dolce inclinazione del terreno forniva un perfetto campo per il gioco del croquet. Numerosi vialetti di ciottoli lisci permettevano alle dame di passeggiare per i giardini senza doversi sporcare le gonne e le scarpette, e v’era un ruscelletto, poco più che un rigagnolo d’acqua, che scorreva fresco e scivolava verso il mare. A circondare la proprietà non v’era un alto muro, ma secolari piante che si ergevano verso il cielo in una continuazione della fitta foresta menzionata prima.
Nella stanza le cui finestre davano su quello che forse, un tempo, era stato il chiostro, erano nati tre dei sette figlioli del signor Franklin Barret e di sua moglie.
In una stanzetta di dimensioni più modeste, con i pannelli di legno atti a coprire le mura delle pareti rivestiti di una carta da parati celeste decorata con uccellini dalle ali distese, erano invece stati esalati gli ultimi respiri di due di questi pargoletti. Due gemelli, un bimbo e una bimba che avevano da poco compiuto dieci anni, e che erano stati colpiti da un male dalla fame vorace e l’appetito insaziabile, che li aveva lasciati privi di ogni energia e brucianti di una febbre che, nonostante tutte le cure la loro buona madre applicasse sulle loro fronti e che facesse loro inghiottire, non accennava ad andarsene. Coraggiosamente, Bram e Briar avevano combattuto per sette dì e sette notti, forse nella speranza che gli fosse concesso un ultimo Natale con i loro cari, ma avevano poi trovato rifugio nella gloria del Signore cinque giorni prima dei festeggiamenti.
Una volta imparata quest’informazione, possono venire alla mente le mille emozioni che la più piccola dei Barret, una bimbetta di soli sei anni e mezzo battezzata col nome di Ottilie, potesse aver provato, vedendo i suoi più cari amici e compagni di gioco sopperire a un malanno incurabile. Ricordi di indicibile tristezza erano andati quindi formandosi nel cuore della bambina, la quale aveva vissuto come un terribile incubo la giornata del venticinque dicembre; alla cena che avrebbe dovuto essere guidata da un’atmosfera leggera e festante, la sala da pranzo illuminata e addobbata allegramente, avevano seduto invece persone che non potevano che rammentare la recente perdita, e gli scuri abiti indossati dalle signore non facevano che ricordare il lutto.
Dal fatidico avvenimento in questione, avvenuto nell’anno del Signore 1835, la magione era divenuta dimora estiva della famiglia, cosicché la povera signora Barret e le sue figlie tutte, oramai maritatesi e madri loro stesse, tranne che la più piccina, non dovessero più sedere alla tavolata natalizia e portare con loro la tremenda memoria con ogni boccone.
 
*
 
Ottilie Barret sedeva alla finestra che dava sull’ampia distesa verde del giardino, le braccia conserte sul davanzale e il mento posatovi sopra. La gentile aria del primo mattino, così fresca e limpida, le baciava le guance arrossate dalle molte ore di sonno, carezzando il delicato punto dove la federa del guanciale aveva lasciato il solco.
Si era levata presto, quel mattino, e in punta di piedi aveva lasciato le comodità del letto, s’era arrampicata sull’alta seduta in legno della finestra, ne aveva aperto i vetri, e s’era allungata il più possibile perché il suo sguardo ingordo potesse osservare il giardino venire illuminato dai primi, rosei raggi di sole. Abituata alle giornate londinesi, così tetre e grigie che pure nell’ora di mezzogiorno parevano essere scure come la notte, avere dinanzi quel semplice splendore pareva un sogno divenuto realtà.
Come accadeva ogni estate, quasi non riusciva a credere che, per i mesi successivi, avrebbe vissuto nel tepore del sole, e non avrebbe più dovuto spazzolarsi i capelli più volte al giorno perché questi non si impastassero con le ceneri e i fumi provenienti dalle fabbriche, né cambiarsi d’abito perché gli orli avevano raccolto il sudiciume che riusciva sempre a trovare modo di depositarsi sul pavimento e sui mobili.
Di fatto, non si era neppure vestita, prima di andare a guardar fuori, e aveva ancora indosso la camicia da notte, un lungo abito bianco e privo di trine che, un tempo, era appartenuto alla sorella maggiore, Harriet, e che prima di essere donato a lei era stato indossato anche dall’altra sorella maggiore, Sylvia. Persino la chioma, che avrebbe dovuto spazzolare perché la cameriera personale di sua madre potesse poi acconciarla, era ancora raccolta nelle lunghe, arruffate trecce in cui le portava durante la notte, dalle quali spiovevano ciocche vagabonde e che avevano perduto uno dei nastri di seta che le teneva allacciate.
Così svestita e con i piedi nudi infreddoliti, rimaneva appoggiata alla cornice della finestra, le dita di una mano che carezzavano giusto con la punta dei polpastrelli una delle sbarre protettive poste perché, siccome quella era una nursery, non vi fosse alcun tragico incidente. Seppure il suo primo istinto fosse stato quello di premervi contro il viso perché la vista del panorama non fosse rovinata dalle inferriate, Ottilie aveva presto imparato a ignorarle senza dover cercare di forzare la propria testa attraverso esse; però il pensiero che il suo capo potesse apparire come se stesse fluttuando nell’aria, apparentemente staccato dal collo e dal corpo tutto, la divertiva molto.
Con gli occhi scuri ben aperti, cercava di inghiottire con lo sguardo tutta quella verde e fresca novità, facendo vagare lo sguardo fino a dove immaginava esserci l’orizzonte, seppur nascosto dalle rigogliose chiome degli alberi. Più in là, e lo sapeva senza che l’avesse mai visto lei stessa, c’era il grande spazio blu del mare.
Suo padre le aveva raccontato numerose volte come questo fosse, e le aveva spiegato che nulla aveva a che vedere con le acque velenose del fiume Tamigi, accanto al quale, di tanto in tanto, dovevano passare per poter tornare a casa dopo una serata mondana. Più volte suo padre l’aveva incoraggiata a chiudere gli occhi, nei pochi attimi in cui riusciva ad abbandonare il controllo materno e riusciva a trovare rifugio insieme a lui all’ombra delle querce inglesi e dei faggi, e a inspirare profondamente, perché il profumo dell’acqua salmastra e delle alghe potesse riempirle il torace.
Nonostante Ottilie non fosse mai stata pienamente convinta di aver poi odorato tale meraviglia descritta dal padre, non aveva mai osato confessarglielo; volgeva il capo in direzione del genitore e gli offriva un sorriso, annuendo con tale forza che la cuffietta che le copriva i capelli scivolava un po’ indietro, e poi tornava a passi veloci dentro casa, silenziosa e guardinga, nella speranza che la madre non l’avesse notata uscire e che, di conseguenza, non l’avrebbe punita facendole saltare la cena.
Chiuse le palpebre e inspirò a fondo, concentrandosi a tal punto che la sua fronte si aggrottò e una profonda piega si formò tra le sopracciglia scure, ma non riuscì a fiutare altro che il resinoso odore degli alberi, il fumo dei primi caminetti accesi per fare bollire l’acqua, e l’olezzo intenso e pungente che proveniva dalle stalle, dove suo padre teneva una mezza dozzina di cavalli e quindici cani da caccia.
Rimase alla finestra finché il sole non fu a metà del cielo, e quest’ultimo aveva ormai preso una brillante colorazione azzurra. Una fetta di calda luce bianca le brillava sulla guancia, giungendo poco più sotto delle ciglia inferiori.
Era troppo lontana per riuscire a distinguere con certezza i singoli filamenti d’erba che si agitavano al vento fresco, ma poteva vederne il movimento uniforme, e trovava una strana consolazione nel vederli ondeggiare, quasi trovarsi nella casa in campagna potesse colmare un vuoto che aveva preso affitto nel centro del suo petto. Era una nostalgia strana, simile a quella che l’assaliva quando vedeva sua madre indossare il prezioso pendente che un tempo era appartenuto alla nonna, donna della quale aveva ben poche annebbiate memorie, ed era già conscia che in nessuna maniera sarebbe stata in grado di scacciarla via, e che essa l’avrebbe lasciata a pensieri più allegri solamente quando l’avrebbe ripetuto opportuno.
Spostando lo sguardo al bosco che circuiva la proprietà per intero, Ottilie si trovò a pensare che sarebbe stato un posto perfetto, dove crescere un bambino. Poteva immaginare Sylvia, che alla metà dell’estate avrebbe dovuto partorire il primo figlio, giungere alla magione con indosso un abito bianco, cappellino con appuntate roselline estive, e un neonato grassoccio e rubicondo fra le braccia.
Il rumore di passi la strappò dalle felici fantasie riguardanti la sorella preferita, e immediatamente la fanciulla riconobbe le due andature che suonavano sul pavimento in legno del corridoio: quella pesante e forte sul tallone che apparteneva alla cameriera di sua madre e, un poco più indietro, quella claudicante che apparteneva a sua madre stessa.
Se l’avessero colta alla finestra così conciata, svestita, scalza, e tutta arruffata, l’avrebbero sicuramente punita. Il calore dell’umiliazione le era già salito alle guance nonostante non fosse ancora accaduto nulla, e rimase col collo teso e gli occhi scuri bene aperti, prima che la realizzazione di avere abbastanza tempo per salvarsi potesse colpirla.
Così, si mise sulle ginocchia e s’allungò per chiudere la finestra, poi, velocissima seppure in punta di piedi, tornò a letto, badando bene a non calciare accidentalmente le scarpette di raso azzurro che aveva lasciato nel mezzo della stanza la sera precedente. Si arrampicò sul letto e si adagiò sul guanciale, tirando le coperte fino al mento e aggiustandosi perché sembrasse che, da quel materasso, non si fosse alzata sin dalla notte precedente.
Con le labbra appena dischiuse e la luce diurna che colorava l’interno delle palpebre di un rosso quasi sanguino, Ottilie attese che la madre e la cameriera facessero il loro ingresso.
 
*
 
La routine mattutina voleva che fossero recitate due preghiere, prima che i membri della famiglia potessero dedicarsi alle proprie attività. La prima preghiera era celebrata nella saletta per la colazione, il pasto caldo già servito in tavola, e Ottilie doveva inginocchiarsi sul folto tappeto insieme a tutti i domestici mentre la signora Barret li guidava attraverso il rito. Lei, Blanche Barret, sedeva accanto al caminetto acceso, siccome da quando era rovinosamente caduta dalla stretta scala della casa di Londra, incidente avvenuto poco dopo la morte dei gemelli, aveva perennemente danneggiato uno dei ginocchi e trovava grandi difficoltà nel genuflettersi. Terminata la preghiera, i membri della servitù si disperdevano, e Ottilie consumava il pasto mentre sua madre le dava indicazione su cosa avrebbe dovuto svolgere nel corso della giornata. Poi, una volta terminata la colazione, dovevano attendere che il signor Barret scendesse dalla camera da letto, e le accompagnasse alla cappella privata perché potessero dire la preghiera per la famiglia e poi dedicarsi alle proprie attività.
Solitamente, il primo passatempo a cui suo padre si dedicava, una volta giunta l’estate, era cacciare, e Ottilie l’aveva salutato con la mano, mentre lo guardava spronare il suo destriero verso il bosco, seguito da un nugolo di cani abbaianti e qualche domestico.
La fanciulla sarebbe voluta andare con lui: sapeva cavalcare abbastanza bene, e la vista degli animaletti catturati non le dava inaspettate nausee, ma quando era andata a cercare la madre perché le desse il permesso di cambiarsi d’abito e raggiungere il padre, lei le aveva semplicemente messo tra le mani il cerchio da ricamo, un uovo d’argento contenente aghi e spilli, e un rocchetto di filo di seta verde. Prima che potesse cercare di convincerla a lasciarla libera di andare, la madre le aveva detto che il lavoro doveva essere svolto, ma che avrebbe potuto dedicarsi a esso stando seduta all’ombra dell’antica quercia che cresceva non troppo distante dalla magione.
Seppure insoddisfatta, cercando di trattenere il broncio che voleva distorcerle i lineamenti, Ottilie era giunta all’ombra della quercia e, con gli occhi colmi di sfida puntati in quelli della madre che, appoggiata al bastone col manico in avorio, non aveva potuto mantenere il suo passo, si lasciò cadere seduta sull’erba, nonostante proprio dietro di lei vi fosse una panchetta in marmo. Voleva far sapere alla madre che i doveri casalinghi non erano ciò di cui voleva occuparsi, e non v’era modo migliore che farglielo comprendere se non rischiando di macchiare la gonna bianca. Non era altro che un piccolo gesto di ribellione, poco più che una scaramuccia che non avrebbe turbato la donna più del dovuto, in quanto l’abito era vecchio – era stato l’abito da sposa di Harriet, dopotutto, e lei s’era maritata diciassette anni addietro – e, una volta giunto il giorno in cui avrebbero dovuto lavare la biancheria, sarebbe stata Ottilie stessa a dover faticare per rimuovere le macchie.
Ancora imbronciata, la fanciulla aveva iniziato il ricamo sul delicato lino bianco, sul quale avrebbe composto il versetto dei Proverbi “Le mani pigre sono la fucina del diavolo*”, che le sue sorelle le avevano ripetuto sin dal primo giorno in cui aveva preso tra le dita un ago. Se Sylvia avesse partorito una bambina, pensiero che andava contro l’idea che tutti s’erano fatti riguardo la questione, in quanto tutte le donne Barret avevano avuto primogeniti maschi e v’era già la convinzione che sarebbe nato un bel bimbo, avrebbe potuto appendere il ricamo nella nursery. Se, invece, Ottilie fosse stata nel torto e Sylvia avesse partorito un maschio, allora avrebbe potuto mettere il ricamo da parte ed esporlo solamente una volta avuta una pargoletta.
Con orecchio pigro, ascoltava poi la madre, intenta a leggere ad alta voce la Bibbia. Ogni estate leggevano una diversa sezione delle Scritture, e di pomeriggio sedevano a uno scrittoio per analizzarne i temi e scrivere annotazioni, così che potessero trovarvi argomenti da conversazione. Era un lavoro tedioso e che richiedeva molta dedizione, ma sua madre diceva spesso che era stato proprio grazie alle Sacre Scritture che era riuscita a trovare posto nel cuore di Franklin Barret, per cui non v’era modo di sfuggire a quella mansione.
In lontananza, era possibile sentire le campane della chiesa di Chichester, città vicina, scoccare i loro rintocchi ogni quarto d’ora, ma Ottilie non badava troppo a contarli: era consapevole dello scorrere del tempo grazie alla stanchezza che le aveva seccato gli occhi, e grazie all’irrigidimento delle dita dovuto al movimento ripetuto.
  «Allora Gesù fu condotto nel deserto, per essere tentato dal Diavolo,» sentì la madre leggere, la voce forte e cristallina, il tono solenne. «Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe --.»
Le sue parole vennero interrotte dal forte e vicino rumore di cavalli al galoppo dall’abbaiare dei cani. Sotto di sé, Ottilie poteva quasi sentire il terreno tremare, ma non posò il ricamo: suo padre era di ritorno dalla caccia, ma non si sarebbe mostrato prima di essersi svestito del completo da cavallerizzo e aver indossato qualcosa di più adatto al passare tempo in casa, per cui non v’era motivo per lei di drizzarsi e sistemarsi.
Stava giusto per iniziare a comporre l’ultimo punto, che sua madre le toccò la spalla per avere la sua attenzione.
Non appena Ottilie alzò lo sguardo, si pentì di essere rimasta seduta sull’erba.
Accanto a suo padre camminava un uomo dal portamento elegante, le spalle ben dritte nella giacca scura lasciata aperta perché si potessero vedere la camiciola inamidata e il panciotto grigio, e le gambe lunghe avvolte in pantaloni neri decorati da righe grigie. Ottilie non riusciva a distogliere lo sguardo dal collo dell’uomo, dove era stata stretta una cravatta rosso brillante, un colore così inusuale che però sembrava donare moltissimo a chi lo stava portando.
Dovette attendere che i gentiluomini fossero più vicini, perché potesse vedere i lineamenti dello sconosciuto, e quando fu in grado di scorgerli, il respiro le rimase fermo nel torace, come agguantato da una mano furfante.
Ottilie non aveva mai avuto occasione di incontrare un grande numero di signori: conosceva per bene suo padre e i suoi fratelli, Ives e Charley, i suoi cognati e i suoi nipoti – seppure due di questi fossero più anziani di lei –, e aveva persino potuto rivolgere parola a qualche amico e collega di suo padre, perché invitati alle cene e ai balli che si tenevano a casa Barret nel periodo autunnale, ma era certa che quell’uomo fosse il più perfetto essere del Creato. Egli aveva occhi scuri e leggermente infossati nel capo, sormontati da un paio di sopracciglia folte e dritte; un naso lungo e diritto, e una fronte alta e spaziosa; il resto del volto era nascosto da una barba folta e bruna, che tuttavia non riusciva a nascondere la severa curva della mascella, la tonalità olivastra della pelle, né la rosea piega che era il labbro inferiore.
Il cuore palpitava in modo selvaggio contro il rigido bustino, e il torace sembrava incapace di respirare abbastanza aria. Scioccamente, si trovò a domandarsi se non sarebbe svenuta, stretta come si sentiva nelle stecche di ferro.
  «Carissima moglie,» la voce di suo padre le giungeva come ovattata alle orecchie, le parole seguite da un’eco simile a quella che si poteva udire durante le giornate di nebbia più fitta. Ottilie sbatté le palpebre e scosse appena la testa, sperando che quella sensazione la abbandonasse. «Volevo presentarvi il signor Frederick Wrentmore.»
Il signor Wrentmore si tolse il cilindro, rivelando capelli ben pettinati e corvini, seppure nella colorazione scura vi fossero già presenti ciocche argentee, e sorrise calorosamente a sua madre, prima di dire: «Lieto di fare la vostra conoscenza, signora Barret.», e parlando mosse il capo quel poco che bastò perché un brillante raggio di sole, riuscito a infiltrarsi tra le foglie della quercia, si depositasse sulla metà sinistra del suo viso. Così illuminate, le ciocche schiarite dall’età parevano brillare d’argento, e i suoi occhi, che in un primo momento erano parsi neri, rivelarono in realtà di essere della più calda tonalità di castano. In quel momento, Ottilie perse il respiro.
  «Ma certo,» fu la risposta di sua madre. «Incantata.»
Suo padre sfoggiò un sorriso soddisfatto, e la indicò con un gesto della mano guantata. «E la fanciulla così scompostamente seduta è mia figlia Ottilie, la più piccola.»
Fu così che la gelosia le riempì il petto, calda tanto che ebbe l’impressione che un velo di sudore le andò a coprire la pelle. Sua madre aveva oramai cinquantacinque anni e affetta da zoppia, ma non v’era dubbio alcuno che fosse una stupenda signora, bella oltre ogni dire: la sua figura era snella e alta, le spalle esili, il collo lungo, la vita sottile; i suoi lunghi capelli biondi erano folti e del colore del grano, e aveva grandi occhi celesti. Non v’era una singola pecca, sul suo viso, e avrebbe potuto essere sporca e in disordine, come appena svegliata, e avrebbe sempre mantenuto l’aspetto di una dama d’alto rango. Se l’avesse desiderato, sua madre avrebbe potuto affascinare il signor Wrentmore, incantarlo senza bisogno di acquistare i filtri d’amore che le vecchie che vivevano per le strade di Londra a volte si toglievano dalle tasche in cambio di una ghinea. L’avrebbe potuto rendere il suo schiavo d’amore, incatenato per sempre al suo dito e al suo volere.
Ottilie non avrebbe mai potuto ammaliare un uomo come lui, né alcun uomo, e provò un momentaneo istante di sollievo quando rammentò che i suoi genitori avevano già selezionato un buon numero di pretendenti cui darla in sposa una volta raggiunta l’età che avrebbero ritenuto più adeguata. Tuttavia, i prevalenti sentimenti della vergogna e della gelosia, rossi come la cravatta del signor Wrentmore, tornarono a tormentarla: Harriet era stata data in sposa a un Lord alla mera età di sedici anni, e Sylvia s’era sposata per amore con un avvocato che aveva preso a corteggiarla nel momento stesso in cui aveva ne aveva compiuti quindici. Perché, allora, lei non aveva ancora una fede al dito o un pretendente alla porta?
Fu allora che realizzò cosa realmente avesse detto suo padre: lei era la più piccola della nidiata, con l’avanzare degli anni i suoi genitori non sarebbero diventati più giovani di quanto non fossero stati in quel momento, e avrebbero avuto bisogno di aiuto, ché delle signore che svolgevano questo servizio non v’era mai da fidarsi troppo. Le si strinse il cuore nel petto, al ricordo di ciò che le aveva raccontato zia Audrey, sorella minore di suo padre: quando i loro genitori s’erano ammalati, i maschi avevano prematuramente intascato parte dell’eredità e avevano viaggiato per il mondo, mentre lei era stata costretta a rimanere alla magione, a servire brodo e sprimacciare cuscini. No, non voleva passare così gli ultimi anni della propria giovinezza, sprecando quel poco di bellezza che le sarebbe rimasta, e al contempo… si guardò le mani, una delle quali stringeva ancora l’ago, e rammentò che s’era seduta sull’erba per capriccio, e che aveva indosso un abito più vecchio di lei stessa, che seppure fosse stato adattato alla sua figura, non le era mai calzato troppo bene, e una cuffia male allacciata sotto al mento. Nessuno avrebbe voluto legarsi dinanzi a Dio con tale figura, e non v’era genitore che avrebbe lasciato il proprio figlio fare tale gesto, anche se il figlio in questione fosse stato il più scellerato.
Mentre le salivano le lacrime agli occhi, gonfiandoli in modo quasi doloroso, Ottilie levò il capo, e le fu impossibile ignorare che l’intenso sguardo del signor Wrentmore era puntato proprio su di lei.
 
 
*Proverbi 16:27-29. Nella traduzione inglese della Bibbia c’è scritto: Idle hands are the devil’s workshop; idle lips are his mouthpiece. An evil man sows strife; gossip separates the best friends. Wickedness loves company – and leads others into sin; nella versione italiana è tradotto come: L’uomo perverso produce la sciagura, sulle sue labbra c’è un fuoco ardente. L’uomo ambiguo provoca litigi, chi calunnia divide gli amici. L’uomo violento seduce il prossimo e lo spinge per una via non buona. Come si può vedere, non c’è la stessa traduzione da me offerta, che è più letterale che interpretativa. Questo perché “Idle hands are the devil’s workshop” era un versetto molto usato durante l’epoca vittoriana, in quanto non si riferiva a un sesso specifico ma dava un’indicazione ben precisa: lavorate con quelle mani, che se non lo fate date spazio al diavolo. Purtroppo non ho potuto usare la traduzione perché, seppure alla fin fine voglia dire la stessa cosa, mi serviva proprio il concetto di lavoro.
 
Precisazione storica: sebbene la famiglia Barret sia ricca, tutti i vestiti che la protagonista ha indossato nel corso del capitolo sono di seconda, se non terza, mano. Questo perché in epoca vittoriana tutte le casalinghe erano spinte a riciclare tutto, e a risparmiare il più possibile; ogni cosa veniva usata più e più volte: i vestiti si passavano di figlio in figlio, le lenzuola consunte nel mezzo si tagliavano a metà e poi erano ricucite in nuove lenzuola, le teste e le pelli di pesce venivano buttate nell’acqua, fatte bollire, e tramutate in brodo.
   
 
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