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Autore: yonoi    03/06/2019    8 recensioni
Una notte limpida al largo delle coste dell’Indonesia. Il primo sole di giugno sui lidi della Riviera Romagnola, tra il delta del Po, le orchestrine che suonano il liscio, le antichità vendute da una casa d’aste. Un messaggio di SOS, una leggenda di marinai e la misteriosa passeggera di una nave che forse non è naufragata del tutto.
Prima classificata al contest "Vizi capitali" indetto da Ghostmaker sul Forum di EFP.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2. Un volto nella notte

 
L’immagine della Gabbianella ridotta a uno scheletro annerito e croccante campeggiò per giorni su “Il Porto” e sulle altre prime pagine di cronaca locale. Come si appurò in seguito, l’incendio era scaturito da un’avaria in sala macchine, cosa ben strana perché, come precisò il capitano nel corso dell’inchiesta che seguì alla vicenda, minuziosi controlli venivano eseguiti prima di ogni imbarco. La gente del posto non aveva alcun dubbio: intere generazioni avevano lavorato a bordo senza un problema al mondo, tutti conoscevano la Gabbianella e a tutti sarebbe mancato l’appuntamento quotidiano sulle spiagge, dove la motonave era solita far capolino ogni mattina per invitare i bagnanti alla gita sul delta del Po, con grigliata di pesce e serata danzante compresa nel prezzo. Nel tempo, l’unico cambiamento erano state le varie orchestrine che si erano susseguite per allietare la mini crociera dal palco. Da ultimo, lo spazio riservato alle Opere eterne e al Mortacci in cilindro e marsina.  
Trascorso qualche giorno necessario a sbollire clamori e malumori, Benedetta si fece viva alla casa d’aste per restituire il quadro. Ci aveva pensato a lungo, combattuta tra il dovere di riportarlo e l’idea di tenerselo senza dir nulla a nessuno: al di là delle stranezze che circolavano riguardo alla Ourang Medan, quel quadro continuava a suscitarle sentimenti contrastanti. Nel volto della donna appoggiata alla balaustra le pareva di scorgere qualcosa che c’entrava poco e nulla con la rabbia: era piuttosto una muta domanda rivolta proprio a lei, Benedetta Valentini. Qualcosa di molto simile a una richiesta di aiuto.
Era un’idea così assurda che Benedetta faticava ad ammetterla con se stessa. In ogni caso era intenzionata a saperne di più, sicché quella mattina, col quadro sul portapacchi e le infradito che rischiavano di sfuggire a ogni pedalata, si avviò sul lungomare per stanare il Mortacci dal suo loculo e spremergli tutte le possibili informazioni.
Trovò l’amico indaffarato a occupare una buona porzione di marciapiede con una vetrinetta in cui erano esposte candide figurine in pasta di sale, del tipo che cambia colore dal blu al rosa a seconda del tempo. L’ombra dei pini e un festone di aghi caduti nascondevano in parte l’insegna della casa d’aste. Benedetta osservò la parata di sirenette e conchiglie, delfini e damigelle, prima di pronunciarsi:
“Se passa di qua un burdel[1] con lo skateboard ti tira giù tutto…”
“Dopo quello che è capitato l’altro giorno, non ho più paura di niente”, dichiarò il Mortacci, continuando a cavare souvenir da uno scatolone. Aveva la faccia dello stesso colore delle statuette, bianco straccio tendente al viola perché quel giorno era nuvolo.
“Ti ho riportato il quadro dell’ultima passeggera.”
Il colorito già esangue del Mortacci virò al bianco sudario, come se un fantasma si fosse palesato sul serio e in quel preciso momento: “Non farmelo vedere neppure da lontano. Ho già avuto abbastanza rogne, a causa di quell’orrore. Il padrone ha preteso il prezzo intero dei pesci e vai tu a spiegargli che l’articolo non era alla casa, ma veniva dalla cantina di zia Felicina.”
“Il quadro mica c’entra,” osservò Benedetta. “Se fosse così, dovresti ripagare per intero anche la Gabbianella. Comunque, sul web ho trovato tutta la storia dell’Ourang Medan. Kereny, e non Kerly, era il centralinista a bordo della nave che rispose all’SOS lanciato prima dell’esplosione. Un messaggio stranissimo che diceva tutti morti, io tra breve…”
“Appunto. Tra breve si celebreranno i miei funerali, se quel quadro maledetto varcherà ancora la soglia della mia casa d’aste. Proprio adesso che stiamo raggiungendo un accordo con quelli del Mandrillo per poter presentare nel loro locale. I Gatti ci hanno messo una buona parola e adesso arrivi tu a portarmi scalogna.”
“Quindi, non lo vuoi indietro?” azzardò Benedetta, speranzosa.
“Scherzi? Tra l’altro, neanche quello appartiene alla casa. L’ho prelevato nello studio del maestro Canello, che tra l’altro intendeva liberarsene al più presto. Si può dire che gli abbia fatto un favore e adesso, se vuoi, puoi farne uno a me: sparisci con quel bagai[2] e anche in fretta.”
“Vado a restituirlo al maestro. Magari mi darà qualche notizia in più.”
“Vai, vai. Vedrai come sarà contento.”
Fuori dall’atelier di pittura, un pezzo di cartone con scritta in bella grafia avvisava “sono alla pieve”, sicché a Benedetta toccò pedalare fino a un gruppo di casolari sperduti tra i campi, il fruscio dei canneti e il lungo serpeggiare sonnolento dei canali.
Il sole fece in tempo a uscire e a cominciare a scaldare.
Il nubifragio recente aveva cancellato quel velo di foschia che saliva perennemente dall’acqua e scemava i contorni del paesaggio. Lungo la strada si apriva la distesa dei poderi con le messi già alte e macchie di papaveri. Colpi d’ala improvvisi di anatre selvatiche si alzavano dagli argini.
La presenza del mare s’intuiva remota, nella consistenza salina dell’aria, nei canali che tremavano minute schegge di luce.
Il centro del paese era costituito dall’antica pieve romanica, dalla canonica abbandonata e da un’osteria senza insegna. Poco più in là, una pompa dell’Agip imbiancava nel lento volteggiare dei pappi della cicoria selvatica.
Immerso in una penombra da scantinato, il maestro Canello  era impegnato nel restauro di un affresco con cui la Soprintendenza intendeva attirare i turisti nell’entroterra. Dipinto probabilmente da un artigiano del posto, raffigurava una grande Madonna del mare di cui erano rimaste solo le braccia aperte e alcune vele che cercavano rifugio sotto al manto stellato. In corrispondenza del volto, l’intonaco mostrava una fila di mattoni polverosi.  
Il maestro era arrampicato sull’impalcatura e lì rimase, a debita distanza da Benedetta e dall’ultima passeggera. “Ero convinto che fosse rimasto a bordo a bruciare,” esordì, dando una rapida occhiata alla visitatrice e al suo fardello. “O al massimo che se lo fosse preso il mare, quel quadro della disgrazia.”
“È soltanto un disegno.”
“Questo lo pensi tu. Mica ci sono nato, pittore fallito, che credi? Ero a bordo della Division Bell, in pieno Oceano Indiano, quando ci capitò di avvistare quella nave fantasma, la Ourang Medan di Sumatra. Che poi, in realtà, non era registrata da nessuna parte, neppure quand’era in vita…”
“Division Bell?”
“Sissignore. Un cargo americano che trasportava merci dal Giappone. Residuati dell’ultima guerra, dicevano alcuni. Roba che doveva servire in Vietnam, secondo altri. Fatto sta che i ragazzi si sono talmente spaventati che dopo l’apparizione hanno buttato a mare l’intero carico. Non ci crederai, ma appena quella roba ha sfiorato l’acqua è partita un’esplosione che ha fatto saltare i pesci nel raggio di un chilometro. Ovunque ti giravi vedevi pesci morti, a perdita d’occhio.”
A Benedetta lacrimavano gli occhi, non per la triste sorte degli abitanti dei mari tropicali ma per le nubi di polvere che il Canello scartavetrava, febbrile, dall’affresco: “E poi, cos’è successo?”
“Pare che l’armatore abbia fatto bancarotta e si sia suicidato. Quanto a me, me ne sono tornato sull’Adriatico, a portare a spasso i turisti quando è iniziata la moda della villeggiatura ai lidi. Ho lavorato a bordo della Gabbianella per dieci anni, quante volte ho spazzato quel ponte non lo saprei dire. Vuoi sapere la verità?” Il maestro continuava a sfregare la patina che copriva l’affresco, come se il segreto dell’ultima passeggera fosse nascosto sotto agli strati di muffa. “La Division Bell, trasportava armi chimiche messe a punto dai giapponesi in tempo di guerra. Gli americani volevano utilizzarle in Vietnam. Quando l’ho saputo mi trovavo a Sumatra. A quel punto ho preso la mia decisione e ho detto tanti saluti ai mari del sud. Io sono un marinaio, mica un contrabbandiere. Lo sono ancora adesso che al porto ci vado solo per disegnare i gabbiani - non posso neanche dire dipingere.”   
“Quindi il quadro proviene davvero da Sumatra?” domandò Benedetta, cercando di sottrarsi a un’altra bordata di fuliggine e polverone.
“Anch’io mi ero messo in testa di fare delle ricerche, così lo acquistai dal suo autore, un certo Jan Kereny, che sosteneva di essere stato il primo - dovrei dire, l’unico - a vedere la passeggera la notte del naufragio della Ourang Medan”. Non senza difficoltà, per via degli anni e dell’instabilità del ponteggio, il maestro Canello scese dal trespolo e offrì a Benedetta un sorso di limonata da una caraffa.
“Quel tale, Kereny, andò a finir male,” mormorò, porgendo il bicchiere. Il liquido paglierino era dolce e pungente. “Continuò ad avere incubi di giorno e di notte, finché non si decise a dare via la passeggera. Aveva realizzato il quadro sperando di imprigionare quella specie di spirito nella carta, o almeno così diceva. Non gli servì a molto,” aggiunse, soprappensiero. “Era già fuori dai coppi e un giorno si è buttato dopo aver detto esco a comprare le sigarette. In tasca gli trovarono una quantità di pietre sufficienti ad affogare un elefante.”
Dal portale della pieve entrava a fiotti la luce del tardo pomeriggio. Sul piazzale, l’osteria apriva i battenti con un gran cigolio di tende che si abbassavano, versando un po’ d’ombra sui tavoli e su un biliardino decrepito. Una locandina dell’Algida mostrava vari tipi di gelati e semifreddi, tutti ugualmente cancellati col pennarello.
“Buttalo via, quel bagai,” insistette il maestro Canello. “Hai visto cos’è successo quando quel pataca[3] del tuo amico s’è messo in testa di venderlo. Finché è rimasto nel mio studio ha portato scalogna solo a me, che per campare dipingo croste su commissione.”
“Ora però ha ricevuto un incarico mica male,” osservò Benedetta, versando un altro bicchiere.
“Solo perché sono l’unico che sa tenere un pennello in mano da qui fino a Comacchio, e la Soprintendenza non vuole spendere. Va là, ragazzina, e salutami il Maurizio: gli voglio bene, anche se è uno che capess la mità d’un c’un capess gnint[4].”
Sulla via del ritorno, Benedetta forò una gomma. Cercò di proseguire con la ruota che sobbalzava nei solchi della sterrata, finché il copertone non si afflosciò del tutto, costringendola al doppio della fatica e del sudore. A quel punto, si arrese all’idea di farsela a piedi fino al lido.
Arrivò ch’era già buio. Dall’entroterra immerso nella quiete della campagna, il passaggio allo scintillio di luci del litorale era quasi traumatico. Le zanzare, quelle ancora ingenue di inizio stagione, erano le prime a sentirsi disorientate: attratte dal calore dei molti corpi accalcati davanti alle rivendite di piadine e gelati, inciampavano puntualmente contro ai neon incandescenti, con uno scoppiettio da popcorn a cui nessuno prestava attenzione.
La brezza recava l’odore forte del mare di notte. Sul lungomare rumori di stoviglie dalle cucine, chiacchiere di turisti a cena negli hotel. Altre voci provenivano da un cinema all’aperto, echi di sparatorie si smorzavano appena girato l’angolo, lasciando spazio al respiro della risacca. Gli ultimi turisti salivano dalla spiaggia trascinando gli zoccoli e gli asciugamani sulle spalle.
Davanti alle cabine del bagno Pino, Benedetta legò la bici al tronco dell’alberello striminzito che aveva avuto in sorte di dare il nome a quella cittadella di docce, sedie a sdraio e ombrelloni al momento deserti.
Abbandonò le infradito ridotte a sottilette e proseguì scalza, con l’intenzione di concedere una pausa alle gambe gonfie e ai pensieri. 
A quell’ora, la sabbia aveva già smaltito il tepore del primo sole di giugno e sgranava sotto i piedi la stessa frescura fertile della terra dopo un temporale. Il vento della battigia ripuliva l’aria dal chiasso. Rimaneva soltanto, in lontananza, il rimbombo di una discoteca che iniziava a martellare i suoi ritmi e sarebbe andata avanti per tutta la notte. Il mare sollevava il suo respiro tranquillo, sotto a una luna che non era mai stata così vicina e grande. Anche la luna aveva i suoi mari, pianure silenziose che nelle notti limpide risaltavano come i chiaroscuri del maestro Canello e si potevano scorgere persino a occhio nudo.
Chissà se sul bagnasciuga dei mari della luna si può immergere il piede nella polvere delle stelle, pensò Benedetta. Stava per annotare quell’assurdità sul suo taccuino, per ricavarne una poesia che una volta tanto non parlasse di cimiteri e di zombie, quando uno sciabordio attirò la sua attenzione. La risacca scavava attorno ai suoi piedi e lei restò con la mano infilata a metà nella borsa di pezza, completamente immersa nella visione che in quel preciso istante le si parava dinanzi.
Dal vapore che aleggiava sul pelo dell’acqua si levò una forma dapprima indistinta, un fuoco fatuo che si modellava verso l’alto e che con successivi, rapidi, aggiustamenti si trasformò nell’immagine di una donna che la fissava con grandi occhi sgranati, colmi d’ira e al tempo stesso di angoscia.
Benedetta si trovò catapultata fuori dalla realtà, sulla spiaggia di un altro mondo dove non contavano le regole della logica, ma quelle del mistero.
Già era stupefacente trovarsi di fronte a una creatura scaturita, come una scintilla, dalla semplice tensione dell’aria: ma ciò che più di tutto stupì Benedetta fu il volto della donna, che le era parso dapprima infuriato, poi immerso in una tristezza così priva di scampo da lasciarle non solo le lacrime agli occhi, ma una stretta nell’anima per tutti i giorni a venire.  
Anche quando l’apparizione si era dissolta, lasciando una scia di incandescenza sull’acqua, Benedetta era rimasta ferma sulla battigia, la mano nella borsa a cercare un taccuino perduto chissà dove, la frase sulla luna ormai sfuggita per sempre e al suo posto il dubbio di aver appena avuto un’allucinazione coi fiocchi.
Di lì a poco, tornò a farsi sentire il senso di pesantezza alle caviglie, il formicolio della sabbia che la risacca le risucchiava da sotto i piedi. Fu in quel momento che il tempo riprese il suo corso, insieme al brusio dei passanti sul lungomare.
Benedetta si avviò sul breve marciapiede che costeggiava le file di ombrelloni chiusi. Le infradito le sfuggirono più di una volta prima di riuscire a infilarle come si deve. Dopo molti tentativi per aprire il lucchetto con le chiavi di casa, riuscì a slegare la bici e a montare in sella.
Dalle siepi che costeggiavano il bagno Pino si agitavano ombre inquiete e lo scricchiolio lieve dei grilli.  
 
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Università di Bologna, Dipartimento di lingue e letterature orientali
 
Sotto alle volte della cittadella universitaria, la sessione estiva fremeva sulle ginocchia degli studenti intenti al ripasso dell’ultimo minuto, su pagine fitte di appunti, sottolineature a matita incise al limite della perforazione e ribattute da strati di evidenziatori azzurri, gialli e arancioni. Il risultato era una deriva multicolore che equivaleva più o meno a ciò che gli studenti sentivano di avere in testa in quel momento: brandelli di concetti erranti come fantasmi nel vuoto più totale.
Presso il Dipartimento di lingue orientali la scena era la stessa, con l’unica differenza che il salone in cui erano radunati gli studenti, a succhiare con gli occhi le ultime nozioni, si trovava al piano nobile di un antico palazzo e godeva di un’umidità polverosa che poteva essere addirittura scambiata per frescura.
Alle sei e mezza di sera, la folla si era notevolmente diradata. Qualcuno restava ancora a commentare i risultati degli esami, ad aspettare un compagno, a telefonare a casa. Quando gli assistenti cominciarono a uscire alla spicciolata, Benedetta colse l’occasione per stanare il professor Picchio, docente di letteratura giapponese, in quel momento impegnato a siglare gli ultimi verbali prima di raccattare borsa, giacca e cravatta e svignarsela da quell’aula, dove la ressa aveva bruciato fino all’ultima particella di ossigeno. Un donnone in grembiule rimestava col mocio un detersivo acre, che odorava di cloro ed evocava il refrigerio delle piscine.
“Buonasera, professore.” Benedetta fece capolino dalla soglia, senza azzardarsi a entrare un po’ per educazione, un po’ per non scivolare sulla bava del mocio. “Permette una domanda?”
Il professor Picchio sollevò un sopracciglio dalle carte che ingombravano il tavolo. È quella delle poesie, si salvi chi può. “È tardi, signorina, la sessione è finita. Torni la prossima volta.”
Il treno per Ravenna sarebbe partito esattamente alle otto e venti, l’ultima corriera per Porto Garibaldi alle nove e venticinque, sicché neppure Benedetta aveva tempo da perdere. “Non sono qui per l’esame, volevo solo farle vedere…”
“Se è per i suoi haiku, ne discuteremo in un altro momento,” tagliò corto il professore. L’idea di leggere anche soltanto una di quelle terrificanti poesie sulla morte era ciò che di più devastante si potesse concepire a quell’ora, dopo un’intera giornata trascorsa ad ascoltare risposte sbilenche, lacunose e talvolta francamente raccapriccianti.
“Non si tratta degli haiku,” assicurò Benedetta, in fondo un po’ risentita. “Vorrei sapere qualcosa su un argomento che riguarda il folklore. Antiche leggende come quella sull’onryō, per esempio.” 
“È un po’ presto per pensare alla tesi. Prima dovrebbe almeno passare il mio esame.”
“Non si tratta della tesi, ma di questo dipinto.”
Con un sospiro tirato su fin dalle scarpe, dove i piedi sudavano invocando le pantofole da più di otto ore, l’anziano professore si aggiustò gli occhiali sul naso, mise a fuoco il ritratto dell’ultima passeggera e fece sapere immediatamente il suo parere:
Mortacci, che crosta! Ma dove l’ha trovato?”
“È un pezzo di antiquariato,” barò Benedetta, “non so se ha mai sentito parlare della vicenda della Ourang Medan.”
“Medan si trova a Sumatra. L’onryō, invece, è uno spettro del folklore giapponese. Posso sapere che c’entra?” domandò il professor Picchio, abboccando all’amo. In fondo era uno studioso, appassionato di leggende antiche e moderne, e questo Benedetta lo sapeva fin troppo bene. Quando Picchio si rese conto di essere caduto nella rete, era già troppo tardi.
“Sapevo che avrei riscontrato il suo interesse, professore,” lo stuzzicò Benedetta. “Per questo sarei lieta di invitarla a mangiare un buon sushi in centro, così potrà raccontarmi tutto quello che sa sull’onryō. Niente haiku, promesso.” Al diavolo il diretto delle otto e venti e anche la coincidenza, che più di una volta le aveva fatto lo scherzo di partire in anticipo, costringendo il Mortacci ad andare a recuperarla con quell’auto scassata che filava più lenta della sua bicicletta.
 
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“Allora sei riuscita a risolvere il mistero?”
Nell’oscurità intervallata da lampioni che spandevano a terra una foschia giallastra, il Mortacci era un’ombra irsuta al posto di guida. Una vecchia autoradio grattava interferenze e spezzoni di canzonette, che si perdevano in un frastuono di pistoni e cilindri non appena il Mortacci spingeva più a fondo il pedale del gas, che pareva ogni volta sul punto di saltar via.
“Quando ti deciderai a cambiare macchina?”
“Scherzi? Io sono un antiquario e il Maggiolone vintage ci sta una meraviglia. Ringrazia piuttosto che ti ho lasciato salire insieme a quel bagai, a mio rischio e pericolo. Solo per questo meriteresti di fartela tutta a piedi. Per non parlare del fatto che non hai ancora risposto alla mia domanda.”
“Il professor Picchio conosce tutti i piatti della cucina giapponese, a momenti divorava anche il tavolo ma quanto all’onryō ho trovato molte più notizie su Internet.”
Dal sedile posteriore Benedetta recuperò una coperta e se la tirò addosso: “Puzza di cane marcio,” commentò. “È vintage anche questa?”
“Per la prossima volta ti consiglio una Mercedes con autista,” si risentì il Mortacci, “ammesso che tu riesca a trovare un pataca disposto a scarrozzarti all’una di notte.”
“Giorni fa, sulla Gabbianella, avevi parlato di un resoconto scritto da quel Kereny. Cosa aspetti a passarmelo?” sbadigliò Benedetta, affossata da una digestione che si prospettava difficile.
“In realtà, non esiste nessun resoconto,” sghignazzò il Mortacci. “Quello che so, me l’ha raccontato il maestro Canello e se vuoi il mio parere, si tratta della solita storia da marinai un po’ troppo propensi ad alzare il gomito. Fatti un giro per il porto e ascolterai di meglio.”
“A quanto mi risulta, il maestro beve soltanto limonata. Comunque, qualcosa di interessante Picchio l’ha detta: sembra che la figura dell’onryō sia tornata a far parlare di sé dopo l’ultima guerra. Si raccontano molte storie di apparizioni, in genere legate a eventi particolari. Hiroshima, ad esempio. Si dice che le anime che non hanno avuto una cerimonia funebre non riescano a trovare la via per l’al di là. Oppure possono tornare per vendicarsi.”
“Hai voglia far funerali a tutti, in tempo di guerra,” osservò il Mortacci, trafficando con la manopola dell’autoradio alla ricerca di una frequenza stabile. “Se fosse così, qua da noi avremmo in giro più morti che camminano che gente viva e vegeta.”
Dopo molti tentativi per sintonizzarsi, la manopola restò in mano al Mortacci e nell’abitacolo cadde un silenzio assoluto, interrotto soltanto dal fruscio dei pini bassi sulla statale.
“Domani torno a Bologna per fare qualche domanda alla professoressa Yoshihara di storia del Giappone,” mormorò Benedetta, sul punto di appisolarsi. “Voglio saperne di più sulla faccenda delle armi chimiche.”
“Ricorda di prenotare la Mercedes per il ritorno. Domani debuttiamo al Mandrillo, abbiamo a disposizione due ore che alle Opere eterne sono costate un rene. Uno dei miei, naturalmente. Devo recuperare almeno il prezzo di quei pesci, per cui se resti a piedi non contare su di me.”
Benedetta rispose con un russare leggero e a quel punto il Mortacci si decise a cacciar fuori l’idea fenomenale che aveva preso forma nel suo cervello sghembo durante il viaggio d’andata.
“Lo vuoi un consiglio da amico?” sussurrò nella penombra, che era così fitta da spingere persino lui a parlare sottovoce. “Lascia perdere la Yoshihara, che se non sbaglio ti ha già bocciato due volte. Per robe di questo genere, io chiederei allo Spettro.”
“Lo Spettro è mezzo matto,” replicò Benedetta, in sogno.
“Appunto. Vi intenderete.”
 
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Probabilmente, quella del Mortacci non era stata neppure una cattiva idea. Forse valeva davvero la pena di restarsene in quel locale affumicato, dove una compagnia di scalmanati con la cresta di gallo si dimenava al ritmo imposto da una musica forsennata e dal pieno di alcool, che faceva volare qua e là lattine vuote e bottiglie. Chi le beccava in testa si trovava già in un tale stato di anestesia che neanche se ne accorgeva: scuoteva le appendici multicolori e riprendeva a saltare più convinto di prima. 
Il volume che rimbombava contro ai pilastri del capannone era quello di un jumbo in fase di decollo. A debita distanza, con nelle orecchie i tappi che usava per studiare, Benedetta era immersa nei suoi pensieri. Un poco rimpiangeva di non trovarsi al Mandrillo a far da valletta al Mortacci in tutta sicurezza, sempre che alla passeggera non saltasse in mente di dar fuoco anche alla vecchia balera. Quando lo vide prender posto sul palco, con la solita aria triste e dinoccolata, pensò che lo Spettro non avrebbe potuto scegliere posto peggiore per proporre le sue ballate malinconiche. Lo accolse una bordata di fischi che crebbe mano a mano d’intensità, in proporzione alla sbornia generale, alla rabbia per l’interruzione di quei ritmi da manicomio e al fatto che agli ultimi punk di Porto Garibaldi tutto poteva interessare fuorché una serie di canzoni lamentose che avevano come unico tema la morte. In questo, non erano diversi dal professor Picchio, perennemente in fuga dai suoi haiku.
A Benedetta, i testi ad alto tasso di depressione dello Spettro non dispiacevano, così come lui era di fatto l’unico estimatore della sua produzione poetica. In un certo senso, il Mortacci ci aveva azzeccato. 
Lo Spettro divorava libri come un tarlo del legno, trascorreva intere giornate in biblioteca dove era soprannominato l’arredo e possedeva una cultura letteraria così sterminata che se i suoi testi fossero stati al medesimo livello avrebbe vinto il Nobel. Solo della Ourang Medan non aveva mai sentito parlare. Benedetta ebbe occasione di raccontare fatti, antefatti e misteri dopo la miserabile conclusione della serata, mentre era intenta a tamponare l’occhio nero con cui un fan aveva omaggiato lo Spettro, durante la rissa che si era scatenata poco dopo l’inizio.
“Che dici, li ho colpiti?”
“Direi piuttosto che sono stati loro a colpire te. Perché continui a esibirti in posti del genere? Tra essere masochista e comportarsi da scemo c’è una bella differenza.”
“Il locale costa poco,” si giustificò lo Spettro, lasciandosi accompagnare sul tratto di spiaggia libera antistante il locale. Là non regnava la disciplina del bagno “Pino”, con gli ombrelloni piantati a distanze regolari e la sabbia pettinata ogni sera dagli addetti, che rastrellavano conchiglie e piste per le biglie e impedivano alle alghe di marcire sulla riva.
“Armi chimiche e fantasmi dell’ultima guerra,” rifletté lo Spettro dopo aver visto il quadro. “Questa donna è cinese, si capisce dall’abito tradizionale che indossa. Se i marinai la considerano un onryō, ciò può significare molte cose.”
“Quali cose?” domandò Benedetta, che zampettava schivando gusci rotti e alghe putride. La risacca, in quel punto, era coperta da chiazze di mucillagine.
“In Cina, i giapponesi hanno fatto il diavolo a quattro durante l’ultima guerra. Esperimenti su cavie umane per testare armi chimiche e batteriologiche. Questa è la prima cosa che mi viene in mente. Unità 731, in Manciuria.”
“Sarebbe?” Benedetta scrutava l’orizzonte del mare. Non volava un gabbiano, e non solo perché era notte. Dal porto, il faro proiettava una pellicola di luce sull’acqua limacciosa.
“L’Unità 731 era un progetto, ma soprattutto un campo di prigionia. Migliaia di detenuti, soprattutto cinesi. Nel dopoguerra, gli americani sono entrati in possesso di buona parte dei risultati di quelle ricerche. In cambio dell’impunità dei responsabili, naturalmente.”
“Pare che la Ourang Medan trasportasse un carico clandestino.” Benedetta continuava a fissare lo sguardo sul breve tratto di mare chiuso dalla scogliera, come se si aspettasse di vedere apparire la passeggera da un momento all’altro. “Da quanto ho letto sul web, una fuga di gas avrebbe causato la morte dell’intero equipaggio e in seguito l’esplosione. Forse c’era una falla in una delle stive e il contatto con l’acqua ha scatenato una reazione.”  
“Questa è la spiegazione ufficiale. Tu invece sei convinta che dietro a tutto questo ci sia quella misteriosa donna.”
“Non lo dico soltanto io. Si dà il caso che tutte le navi a cui la passeggera ha fatto visita siano colate a picco.” Benedetta evitò di rivelare la fonte di quell’informazione, ossia Maurizio Ballarini detto il Mortacci. Quasi sicuramente, il Mortacci se l’era inventata. Però il maestro Canello aveva riferito di aver visto l’Ourang Medan in versione nave fantasma, durante un trasporto al tempo della guerra del Vietnam.
Poi c’era stato l’incendio della Gabbianella, che non stivava armi ma un’innocua comitiva di turisti americani, seguito da quel pazzesco incontro sulla spiaggia. Benedetta era rimasta frastornata per giorni. Fosse realtà o illusione, lo sguardo della donna continuava a perseguitarla. Ciò che trovava assurdo non era neppure il fatto di aver visto un fantasma, quanto l’idea che la passeggera, vagabondando per i mari del mondo, fosse riuscita a giungere fino in Romagna.
“Secondo me, si è persa,” mormorò, rivolgendosi allo Spettro in carne e ossa che le camminava al fianco, un occhio aperto e nero nel buio, l’altro ancora più nero e semichiuso.
“Secondo me, dai i numeri.” Tra le innumerevoli qualità dello Spettro c’era anche quella di credere nel soprannaturale, però ci teneva a non darlo a vedere per non passare definitivamente per matto. Quella sera decise di fare un’eccezione: tutt’al più, avrebbe dato la colpa a quel cazzotto che avrebbe fatto sragionare chiunque.
“Per quello che ne so, in Giappone si crede che durante l’annuale festa dei morti, gli spiriti degli antenati tornino a visitare le loro case. Durante la cerimonia, si accendono delle lanterne che vengono affidate alla corrente dei fiumi o del mare, per aiutare i defunti a ritrovare la via dell’al di là. Non saprei dirti altro.”
“Direi che è sufficiente,” sussurrò Benedetta. Dal locale giungeva un rimbombo di bassi e batterie furibonde, o forse erano i punk che smaltivano le ballate dello Spettro saltando indiavolati, tra cocci di bottiglia che volavano anch’essi, sulle creste e sul pavimento. 
 
******
 
“Com’è andata la serata?”
Sul marciapiede di fronte alle Opere Eterne, il Mortacci munito di scopa e paletta era intento a raccogliere i cocci delle statuette che un burdel aveva scaraventato giù dall’espositore, passando a razzo con lo skatebord. 
Brot baghen[5].”
A Benedetta non era chiaro se il Mortacci si riferiva ai ragazzini o ai clienti della sera prima al Mandrillo. Nell’incertezza, decise di attendere in un rispettoso e compunto silenzio.
“A quegli ignurantaz interessava solo il liscio e me l’han fatto capire subito. La presentazione non è durata più di mezz’ora, ma mi farò dare indietro fino all’ultimo centesimo.” Il Mortacci era furibondo. Per di più, esibiva un occhio ancora più gonfio di quello dello Spettro. “Questa volta, pretendo il risarcimento. Mi hanno rotto anche una serie di quattro pesci, Boemia originali, che avevo trovato nella cantina di zia Vincenzina.”
“Coi pesci non hai fortuna, ti conviene cambiare segno zodiacale,” sorrise Benedetta. “Io però sono qui per proporti un affare. Quelle lanterne di carta di riso in vetrina: le compro tutte.”
Il Mortacci trasecolò: “Sono pezzi originali che vengono da Shangai.”
“In realtà, sono uguali a quelle che vendono i cinesi giù al porto, ma tu ovviamente mi farai un prezzo da amico.” 
Quella sera, la spiaggia del bagno Pino pareva vestita di seta. Dalla riva saliva il mormorio della risacca e di nuovo la luna esibiva i suoi mari visibili a occhio nudo, oceani pietrificati ma capaci di muovere le maree sulla terra, forse per nostalgia dell’acqua.
Quando Benedetta lasciò andare la prima lanterna, la luce della candela illuminò uno strato di vapore – probabilmente il caldo assorbito durante il giorno – che di lì a poco si trasformò nella prua di una nave di nebbia. La seconda lucerna si avviò traballando verso quel relitto che restava sospeso su mezzo metro d’acqua, come se stesse veleggiando in alto mare. Lo scafo mostrava uno scheletro dissestato, e l’intera struttura emanava una luce propria, spettrale e lattiginosa. Benedetta accese la terza lucerna e fu allora che apparvero i bagliori dei corpusants sulle sartie e una figura di donna si affacciò alla balaustra.  
L’accendino, cortese omaggio delle Opere Eterne, tremava nelle mani di Benedetta mentre era intenta ad accompagnare sul pelo dell’acqua quelle fragili luminarie. Quando si decise a levare lo sguardo, fece appena in tempo a vedere il profilo della Ourang Medan dissolversi lentamente e a bordo la passeggera che sorrideva, chinando appena il capo. Forse il suo era un gesto di ringraziamento, oppure solo un saluto.
Probabilmente era tutte e due le cose insieme, pensò Benedetta. A lungo restò sulla riva ritornata deserta e limpida, osservando il tremolio dell’ultima candela che si allontanava fino a scomparire all’orizzonte. Tra le siepi del bagno Pino, soltanto allora i grilli ripresero a cantare.
 
 
 
 

[1] Ragazzino, in dialetto romagnolo.
[2] Oggetto, in senso generico e dispregiativo.
[3] Figura quasi mitologica in Romagna, il pataca è un fanfarone puntualmente smascherato dai risultati.
[4] “Capisce la metà di uno che non capisce niente”.
[5] Il maiale, in Romagna, è il baghen.
  
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