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Autore: jakefan    05/06/2019    1 recensioni
Cos’hanno in comune Heath e Buck, il suo cane? Molte cose: entrambi sono giovani, pieni di energia e vivono sul confine tra due mondi. Buck è per metà lupo, Heath appartiene alla riserva Lakota e anche al mondo «di fuori», bianco e tecnologico. Ma c’è di più, anche se i due non lo sanno: un’eredità sconvolgente sepolta dentro a ricordi lontani.
Quando il richiamo della vita adulta diventa perentorio, per entrambi si prospettano scelte difficili, rivelazioni e incontri che cambieranno loro la vita.
E la scoperta di un terzo mondo nascosto, governato dalla magia che permea tutte le cose.
Ho ucciso sua madre. E' mio.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4.

 
 
 
 
 
– Porta una coperta a Howakhan.
– Pa’. Ci sono trenta gradi.
– Vuoi per favore portare una coperta al nonno?
Heath posò il forchettone e si avviò sbuffando verso la casa. Buck, accoccolato ai suoi piedi, si alzò e lo seguì ciondolando.
Sono cresciuti ancora. Tutti e due.
L’orgoglio percorse Isaias come una corrente.
Certo, quel suo ragazzo non era sempre facile. Da qualche mese, ogni volta che gli parlava, Isaias avvertiva attorno al figlio come un muro invisibile, contro il quale le sue parole rimbalzavano. E pensare che una volta Heath lo disegnava con la S di Superman sulla divisa da guardaparco.
È giusto così.
Certo che era giusto. Heath stava diventando un uomo e quella era l’ultima estate prima che... Che prendesse la sua strada, qualunque cosa decidesse di fare.
L’ultima estate.
Dovevano trovare il tempo per andare a caccia prima che partisse, una volta ancora, e doveva essere una giornata da ricordare. Dovevano prendere il cervo e doveva essere Heath a farlo; doveva assolutamente avere quel ricordo.
Isaias sentì come un pugno colpirlo forte al centro del petto, restò per un attimo paralizzato dalla paura e poi si rese conto che no, non stava avendo un infarto. Dopo le ultime analisi il dottore gli aveva intimato di smettere di fumare. Neena lo aveva messo alle strette e lui si era spaventato, quindi aveva obbedito senza discutere; e da allora ascoltava i propri sintomi con l’attenzione che riservava al bollettino meteo della mattina. Comunque, non era il cuore. Il dolore veniva da dentro, molto più dentro.
 
Heath e Buck riapparvero portando una coperta di cotone e intanto altre due auto avevano parcheggiato nel vialetto davanti al cottage. I Riley festeggiavano l’arrivo dell’estate con un barbecue; ci veniva praticamente tutta Highwood, più qualche collega di Isaias e qualche parente da lontano. Neena saliva personalmente al villaggio più sperduto della riserva, su in montagna, a prendere nonno Howakhan; lo sistemava sotto il portico sulla sua sedia preferita e il vecchio non si muoveva più di lì. Gli portavano la carne ben cotta tagliata a pezzi piccoli e una birra; lui di tanto in tanto apriva gli occhi e sorrideva, mangiava qualcosa e poi riprendeva a russare.
Isaias avvolse la coperta attorno alle gambe del vecchio.
– Va bene così, nonno?
Howakhan era un nome Lakota e il vecchio sosteneva di non averne altri. John Smith, recitava il tesserino della previdenza sociale, ma era solo un nome inventato decenni prima, quando qualcuno si era accorto che, per l’anagrafe, quell'umano di sesso maschile non esisteva.
Ma lui rispondeva sempre e solo quando lo chiamavano Howakhan.
Aprì gli occhi.
– Bene. Bene. Tuo figlio cresce, Isaias.
Heath era corso incontro agli altri ragazzi; si battevano gran pacche sulle spalle l’uno con l’altro, Jaime, i fratelli Beckwith. C’erano anche delle facce nuove; il ragazzo ci metteva poco a fare amicizia con chiunque. E dai Riley non c’era bisogno di inviti. Chiunque portasse qualcosa da bere o da mangiare — e si comportasse bene — era ben accetto.
Da un’auto scese un gruppo di ragazze colorate come farfalle. Isaias osservò il figlio abbracciare Rivkah e il nonno ridacchiò. Buck saltò addosso alla ragazza e lei lo scacciò con una pedata, ma il cane — che non era affatto permaloso — la gettò a terra e le leccò il viso, scatenando un diluvio di strilli. Heath si gettò sopra di loro, Jaime lo seguì e finì tutto in una pasticcio di risate, polvere e parolacce di Rivkah.
– Dicevi che sta crescendo? Ti dirò, nonno: a me sembra il solito testone.
Neena apparve sulla porta in quel momento, con la lettera da Pasadena in mano. Era ancora chiusa.
– Tu! Vieni, ho bisogno di parlarti.
La testa nera di Heath emerse dal mucchio ed entrambi — lui e Buck — si girarono verso la madre.
– Ti aspetto in casa.
Neena girò i tacchi e rientrò in cucina; Isaias e il nonno si scambiarono un’occhiata.
– Senti anche tu puzza di guai?
Hau – rispose il vecchio. Un attimo dopo russava, la bocca appena socchiusa. Ad Isaias parve che ridesse; oppure sognava qualcosa che gli piaceva molto.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      
Dio, fammi stare calma. Dieci… nove… otto…
Neena si chiuse alle spalle la porta della cucina, lasciando fuori la luce calda del sole al tramonto e i rumori della festa.
– Dobbiamo proprio farlo adesso? Gli altri…
– Sono stufa. Stufa marcia e non me ne frega niente degli altri. È tutto il giorno che scantoni. Adesso apri questa cavolo di lettera.
– Perché non l’hai aperta tu?
– Perché è tua, dannazione! Riguarda te e il tuo futuro, casomai non te ne fossi accorto!
– E io non la voglio aprire adesso, va bene?
 Neena batté le mani sul tavolo e si fece male, dio che male che faceva. Si guardò i palmi che si arrossavano ma fu distratta dal sapore metallico del sangue in bocca. Si era morsicata la lingua: meglio così.  Realizzò che stava per colpire Heath, stava per colpirlo davvero. Si sforzò di aprire le mani strette a pugno e le lasciò cadere lungo i fianchi.
Quando si era arrabbiata così, l’ultima volta?
– Apri quella lettera. Adesso.
Heath sbuffò.
– Manco ci dovessi andare tu, al college. Va bene, la apro. La apro.
 
La carta era color crema, elegante, e ricordava un po’ quella delle partecipazioni di nozze. Neena si sforzò di concentrarsi sui dettagli: i particolari della filigrana, il bordo frastagliato, la sfumatura color burro della tinta, mentre suo figlio leggeva, il viso come congelato, e non diceva niente. Si impose di restare calma, di non strappare di mano al ragazzo quel foglio che – forse – stava per cambiargli la vita; si morse di nuovo, stavolta apposta, l’interno della bocca, per distrarsi. Per sentire dolore da qualche altra parte.
Manco ci dovessi andare io, dice. Oh, Jen, perché non capisce? Perché?
Heath alzò gli occhi; sembrava più pallido. Neena boccheggiò come un pesce.
– E parla, accidenti!
Heath posò la lettera e si alzò con calma, le mascelle strette.
– Mi hanno preso – bisbigliò – posso tornare fuori, adesso?
Poi voltò le spalle a sua madre.
Fuori, i ragazzi si lanciavano una palla e gli adulti sfottevano Isaias attorno al barbecue; l’odore di bruciato nell’aria denunciava la prematura dipartita di una bella bistecca. Rivkah si staccò dal gruppetto delle ragazze per andare incontro a Heath e Buck le tagliò la strada, festoso.
Si avvicinava il tramonto. Correndo via, Heath aveva dimenticato la porta aperta. Neena si alzò per chiuderla.
L’ombra della casa era fresca mentre fuori, sul prato, si annunciava la calma afosa che precede il temporale.
 
C’era qualcosa di confortante nel corpo di Rivkah, rifletté Heath. C'era sempre. Quella sera, di più.
Per il barbecue si era messa un paio di infradito luccicanti e bassissime e gli arrivava a malapena sotto il mento. Sembrava più piccola, più fragile. Più… accessibile. Heath le passò il braccio attorno alla vita e fece aderire il corpo di lei al suo, fianco contro fianco.
– Mi fai cadere la birra!
– Te ne prendo un’altra. Vieni qui.
– Era per te, testone.
Rivkah lo squadrò dal basso e Heath arrossì.
– Che faccia scura. Hai litigato con lei?
– Quello non sarebbe una novità. No, è arrivata una risposta per il college. Da Pasadena.
– Non sapevo avessi scritto a Pasadena. Non che faccia differenza, intendo…
Rivkah reggeva in una mano un piatto con due costine e, nell’altra, il boccale con la birra gelata, che si copriva di piccole gocce. La schiuma bianca ebbe come un fremito.
Le mani della ragazza tremavano.
– C’è qualcosa che non va?
Rivkah esitò.
– Hanno risposto anche a me.
Certo. Normale. Anche Rivkah se la cavava bene con i libri. Probabilmente – anzi, di sicuro – era più intelligente di lui  e studiava molto di più. Poteva aspirare ai college più prestigiosi, niente di strano che avesse inviato delle domande in giro. Solo che lui non aveva realizzato che l’aveva fatto davvero. Troppo impegnato a tenere a bada i suoi, doveva essere quello.
– E?
– E mi hanno preso a Auckland.
– Auckland?  California, giusto? Ma lì non…
– Auckland in Nuova Zelanda.
Le ombre erano più lunghe. Il prato si tinse di rosso e violetto mentre il sole si avvicinava alla cresta delle montagne. Era in corso una partita di football che, a giudicare dagli schiamazzi, era entrata nel vivo. Jaime, il fratello minore di Rivkah, si girò a guardarli con il pallone in mano e gli gridò di muoversi  che stavano perdendo. Un ragazzo più forte lo placcò e lo lasciò per terra a dire parolacce.
Heath prese il boccale dalle mani di Rivkah, bevve un sorso e glielo rimise in mano. Si sentiva gli occhi di lei addosso. E la sensazione di un fastidio non bene localizzato, quando nella bocca qualcosa fa male ma non sai ancora dire dove, è più un dolore diffuso, niente di grave, non ancora, prima che il dente cominci a fare male sul serio.
Ne aveva quasi avuto abbastanza, per la giornata.
– Così lontano – disse, tanto per dire qualcosa – io non potrei mai.
Qualcosa brillò negli occhi di lei.
– Perché no?
– Che ne farei di Buck? Non so neanche se andrò a Pasadena, Riv. Non me la sento di lasciarlo.
Le pose le mani sui fianchi.
– Vieni in rimessa. Vai avanti tu e io tra un attimo ti seguo – bisbigliò nei suoi capelli.
I capelli di lei, lunghi e nerissimi, sparsi sulle lenzuole bianche. La bocca semiaperta. Ecco di cosa avevano bisogno, tutti e due. Adesso.
Rivkah gli aprì le mani strette sulla seta del vestito e le allontanò dai suoi fianchi di donna, già morbidi.
Cosa diavolo aveva sbagliato con lei?
Perché aveva sbagliato, si vedeva dal piccolo tremito del labbro inferiore, che smise subito ma c’era stato e lui l’aveva visto bene. Rivkah faceva così quando lui sbagliava qualcosa. Lo faceva stare male, e ultimamente sbagliava tutto.
Cosa aveva sbagliato stavolta, cazzo. Cosa.
– Finisci la birra, Riv. Vado a salvare tuo fratello da una figura di merda.
E scappò via da tutti quegli errori.
 
Più tardi le ragazze erano volate via come erano venute.
Con Rivkah alla fine si erano salutati in fretta ed era stato meglio così. Quanto agli  altri era stata una bella festa, dicevano, mentre andavano via mezzi brilli. Avevano mangiato da scoppiare, bevuto il giusto, giocato a football.
Heath non ne poteva più
Si infilò nella rimessa. In cucina sua madre ancora si dava da fare sulle pentole sporche e le sciacquava, e Isaias al suo fianco le asciugava e le posava sul tavolo. Li poteva vedere dalla finestra aperta: sembravano felici. Erano state accese le luci notturne e, in giardino, gli ultimi chiacchieroni tiravano tardi seduti sulle coperte, sotto il pino.
Quanto a lui, forse quella sera sarebbe stato meglio in rimessa. Era il suo regno, un capanno di legno grande abbastanza per la Jeep della Forestale e la vecchia’utilitaria di Neena, e restava ancora spazio per l’Harley. C’erano anche un banco da lavoro, due altoparlanti, un mobiletto con l’impianto stereo e un divano. Un divano letto. Heath ci aveva portato una coperta di pile morbida e calda, e su quel divano aveva passato dei gran bei momenti n compagna di Rivkha.
Voleva stare da solo, e chi avrebbe osato seguirlo in rimessa?
Jaime, ecco chi.
Piccolo rompicoglioni, ma non se ne era andato a casa con sua madre?
Heath prese uno straccio e una bomboletta dal banco degli attrezzi, si inchinò di fianco all’Harley e cominciò a darci dentro sulle cromature.
Il ragazzino prese un altro straccio, si inginocchiò all’altro lato della moto e lo imitò. Lo imitava un po’ troppo, ultimamente. Si era anche fatto crescere i capelli. Lavorarono in silenzio per un po’, panno morbido e olio di gomito.
La testa troppo ricciuta del ragazzino emerse da dietro la sella. Cazzo, aveva gli stessi occhi di Rivkah.
– Dovresti darci un taglio, con mia sorella.
Al suono della voce di Jaime, Buck mugolò e la pesante coda grigia sbatté per terra più volte. Jaime gli piaceva; piaceva a tutti, il rompiscatole, cosa che sorprendeva Heath e qualche volta gli provocava un po’ d’invidia. C’era qualcosa nel modo di fare di Jaime che lo salvava sempre dall’essere preso a schiaffi.
Anche quando diceva cose… cose come quella che aveva appena detto.
Forse non erano gli occhi di Rivkah, no. Erano più come quelli di Howakahn.
Heath riprese a lucidare la parte di piantone immediatamente sotto il manubrio.
– Dare un taglio a cosa?
– Non mi prendere per il culo.
Heath alzò gli occhi. Jaime lo fissava e non abbassava gli occhi.
– A chiunque altro avrei risposto di farsi i cazzi suoi – e riprese a lucidare.
– Come fai tu, giusto?
Heath lasciò cadere lo straccio e si alzò.
– È stata lei a mandarti?
Si alzò anche Jaime e si guardarono negli occhi.
– Stai scherzando? Se lo viene a sapere mi sgozza. No, io volevo solo…
Bene, forse doveva andare a dormire e far finire quella giornata di merda.
Heath recuperò il telo per coprire la moto e Jaime si precipitò ad aiutarlo. L’Harley si sarebbe conciata da buttar via sui sentieri non asfaltati di Highwood ma Heath l’avrebbe ripulita, un’altra volta, da capo. Doveva essere perfetta. Come tutto il resto nella sua vita.
– Ehi, non volevo farti incazzare. Lascia perdere, ok? Come se non avessi detto niente.
Heath si mosse verso la porta della rimessa; Buck lo anticipò e si tuffò nella notte profumata.
– Vado a fare una corsa con lui, non gli ho dato retta tutto il giorno. Vero, amico? E poi ce ne andiamo a dormire.
Al suono della voce di Heath, Buck tornò indietro e scodinzolò, poi corse di nuovo avanti e si fermò ad aspettare vicino alla palizzata. Il muso puntava come una freccia nella loro direzione, le orecchie dritte tese. Un refolo di vento caldo accarezzò i ragazzi e scompigliò loro i capelli. Dei lampi accesero le nubi, annunciando il temporale.
Buck aveva voglia di correre.
Jaime posò una mano sulla spalla di Heath, che non si ritrasse.
– Scusa, non volevo… Lei non mi ha detto niente. Non c’è niente da dire, in effetti, ma…
– Ma?
– Ma a volte si deve essere più giusti delle cose giuste. Qualcosa del genere.
Buck latrò, impaziente, e qualcosa si svegliò nelle vene di Heath.
Era ora di correre.
– Ci penserò su. Dì a miei che torno presto. Se te lo chiedono.
Si mise a correre verso il grande lupo grigio, che piegò le zampe anteriori e scartò di lato e latrò ancora, divorato dall’aspettativa. Heath si tolse la maglietta e la gettò per terra, poi scattò e raggiunse il lupo. I due si lanciarono sul sentiero che portava alla foresta, scesero a rotta di collo il primo tratto e poi risalirono verso i tronchi scuri degli alberi.
Si era alzata la luna e, sotto lo sguardo di Jaime, le due sagome si fecero indistinte e scomparvero, ultima a dileguarsi la schiena argentata di Buck, tradita dal riflesso lunare.
 
Dall’ombra davanti a casa, lontano dalla luce della finestra, venne il cigolio della sedia a dondolo e una piccola, calda stella arancione si accese, splendette e si spense di nuovo. Il profumo del tabacco da pipa raggiunse Jaime, portato dalla brezza estiva.
Jaime salì i tre gradini del porticato.
– Nonno! Si sono dimenticati di te?
Un grido vittorioso e un ululato raggiunsero la vecchia casa dalla foresta che lambiva l’abitato. Il vecchio non rispose e si mise più comodo contro lo schienale.
Tirò un’altra boccata dalla pipa. Poi chiuse gli occhi e sorrise al vento e alla luna.
   
 
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