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Autore: FireFistAce    05/06/2019    1 recensioni
A Thatch erano sempre piaciuti i fiori. Li aveva sempre osservati con piacere. I vari tipi, le differenti sfumature, il dolce profumo. Lo aiutava anche il fatto che non era allergico al polline.
[...]
Se Thatch non avesse amato la cucina più dei fiori, sarebbe certamente divenuto un fiorista. O magari un botanico.
Stupidi fiori e quella stupida e fottuta malattia incurabile che aveva ingenuamente creduto che non lo avrebbe mai colpito.
Ma ormai era troppo tardi.
Se avesse amato un po’ di più i fiori, se avesse imboccato un percorso differente, forse-
No.
Non sarebbe cambiato assolutamente niente.
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{Hanahaki Disease!AU; Amore non corrisposto}
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Haruta, Izou, Marco, Thatch
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ai wa ao to akadesu
(Please don’t let me go)

 
Successe durante un’anonima notte piovosa.
Thatch stava scrivendo, quando un colpo di tosse lo prese alla sprovvista.
Ed il suo mondo iniziò a distruggersi.
Seguì con lo sguardo il petalo blu che gli cadde in grembo, e fu sicuro di aver perso un battito appena la realizzazione di quanto appena successo si sedimentò nella sua mente.
“Ehi, tutto a posto?”
Marco, dall’altro lato della stanza, laddove stava preparando gli scatoloni per l’ormai prossimo trasloco, lo guardava con un sopracciglio arcuato, una punta di preoccupazione nello sguardo.
Thatch si sforzò di sorridere.
“Ma certo,” rispose, lasciando cadere una mano in grembo per coprire il petalo, ma facendo in modo che sembrasse un gesto naturale, “Stavo solo pensando.”
Normalmente, queste piccole bugie non funzionavano con Marco. Era come se il biondo fosse in grado di riconoscerle ogni singola volta, e per un momento il cuoco temette che Marco iniziasse a pressare sulla situazione.
Sorprendentemente, la bugia passò inosservata.
Thatch deglutì, il sorriso tirato sul volto, mentre con la mano in grembo schiacciava il petalo tra le dita. Con l’altra, si portò la tazza di caffè che riposava sulla scrivania alle labbra, prendendone un sorso.
Più tardi, mentre Marco dormiva nel letto affianco al suo, il respiro caldo e l’espressione serena, Thatch permise al rimorso di radicarsi nel suo animo.
Ma non avrebbe dovuto sentirsi così, perché non aveva mentito. Stava tutt’ora pensando a molte cose.
Come ad esempio, il modo in cui sarebbe morto.
 
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Thatch aveva visto persone morire per colpa di quella maledetta malattia.
Alcune ragazze del liceo, un giovane uomo che viveva nell’appartamento sopra il suo, estranei collassati in pubblico. Una volta era in macchina, fermo al semaforo, quando una donna che stava attraversando era caduta improvvisamente a terra in preda al dolore.
Avrebbe dovuto rendersi conto che qualcosa sarebbe successo anche a lui. Tutti quegli avvenimenti come fossero parte di un macabro presagio, un cauto avvertimento di non innamorarsi di qualcuno che non avrebbe mai potuto ricambiare il tuo sentimento.
Eppure Thatch era sempre stato un uomo attento. Forse questo era il motivo per il quale non riusciva a capire come mai stesse succedendo proprio a lui. Non era facile farlo innamorare, il suo cervello aveva sempre guidato il suo cuore verso persone in grado di restituire i suoi sentimenti.
Però, in fondo, avrebbe dovuto avere un cuore di pietra per non innamorarsi di un uomo come Marco Newgate.
 
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Le prime due settimane furono semplici da affrontare.
I petali scivolavano dalle sue labbra uno, raramente due alla volta, e Thatch era sempre abbastanza veloce da afferrarli a mezz’aria per nasconderli in tasca, continuando qualunque conversazione avesse in corso come se il suo mondo non si stesse sgretolando lentamente.
Nonostante questo, non riusciva ad evitare il dolore che provava quando nessuno notava i petali improvvisi che volteggiavano nell’aria, o come il suo alito fosse stucchevolmente floreale, né prendevano nota di come il suo fiato era ogni giorno più corto o di come un colpo di tosse di troppo scivolava via dalle labbra dischiuse.
Era una vittoria piuttosto vuota e triste, ma pur sempre una vittoria.
 
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Izou fu il primo a rendersene conto.
Thatch non ne rimase nemmeno troppo stupito. Lo stilista lo aveva sempre conosciuto meglio di come il cuoco conoscesse se stesso.
In mezzo a tutti quelli che potevano scoprire di questo suo segreto, era felice che fosse stato proprio lui. Si erano sempre guardati le spalle a vicenda, ed avevano attraversato un sacco di merda insieme - e adesso potevano aggiungere la morte alla lunga lista.
Izou guardò mentre l’ennesimo petalo cadeva sul tavolo, questa volta tinto di rosso, sporcando il panino che Thatch aveva di fronte a lui. Il cuoco lo afferrò, lesto, e lo nascose in tasca insieme a quelli che aveva espirato durante la mattina.
“Vuoi dirmi di chi si tratta?”
Izou chiese cauto, tra le mani un petalo differente da quello che l’amico si era appena intascato, la luce del sole che lo illuminava e metteva in risalto il colore blu cielo.
Thatch non incrociò lo sguardo dell’amico. Non ce n’era bisogno.
Poteva percepire la sua disapprovazione, ma la delicatezza con la quale gli prese una mano tra le proprie indicava altro.
“Lascia che ti aiuti.”
Thatch pensò al batticuore e al dolore che sentiva di meritare, e scosse la testa.
 
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Alcuni giorni erano facili da affrontare. Si perdeva nella musica e nella cucina e, anche solo per un momento, poteva dimenticarsi di Marco e dei suoi sorrisi, del sangue e dei fiori, del fatto che un giorno, presto o tardi, i suoi polmoni avrebbero ceduto.
Ma poi le cose iniziarono ad andare per il peggio quando venne chiamato per aiutare in orfanotrofio. Ma non avrebbe dovuto sorprendersi. Thatch era sempre stato bravo a sottovalutare la morte, ed ora, mentre usciva dal bagno, pensò che ne stesse pagando il prezzo.
“Te l’avevo detto che bere tutto quel tè ti avrebbe ammazzato la vescica.”
Marco lo prese in giro, rivolgendogli uno dei suoi ghigni canzonatori.
Thatch sforzò un sorriso, le narici piene dell’odore di sangue e nettare appena rigettati.
“A quanto pare.”
 
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A Thatch erano sempre piaciuti i fiori. Li aveva sempre osservati con piacere. I vari tipi, le differenti sfumature, il dolce profumo. Lo aiutava anche il fatto che non era allergico al polline.
Quando era piccolo, quando suo padre non era troppo ubriaco per uscire, veniva sempre accompagnato al parco vicino casa, specialmente la domenica mattina, e Thatch ricordava con nostalgia il vecchio guardiano del parco, che lo accoglieva sempre con un sorriso quando voleva aiutarlo a prendersi cura dei fiori che adornavano il posto.
Anni dopo, quando fu grande abbastanza per farsi la tessera della biblioteca senza aver bisogno della firma del padre, prendeva spesso in prestito libri sui fiori insieme a quelli di cucina, deciso a portare avanti entrambe le sue passioni.
Se Thatch non avesse amato la cucina più dei fiori, sarebbe certamente divenuto un fiorista. O magari un botanico.
Stupidi fiori e quella stupida e fottuta malattia incurabile che aveva ingenuamente creduto che non lo avrebbe mai colpito.
Ma ormai era troppo tardi.
Se avesse amato un po’ di più i fiori, se avesse imboccato un percorso differente, forse-
No.
Non sarebbe cambiato assolutamente niente.
 
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“È tutto a posto?”
Marco si rivolse a lui quando i petali riempirono la bocca di Thatch.
“Non hai detto assolutamente niente per, tipo, un intero minuto.”
E se la sua bocca non fosse stata impegnata ad ospitare petali e sangue, gli avrebbe risposto con una frecciatina. Invece, si limitò ad annuire rigidamente,  una mano pericolosamente vicino alle labbra per evitare che anche solo un singolo petalo potesse sfuggire.
Desiderava di poter parlare, spiegare, mentire. Anche se Marco meritava tutto tranne che menzogne. Ma dato che Thatch non aveva nient’altro da offrire, si affrettò fuori dalla stanza per chiudersi in bagno e rigettare nel cesso tutto ciò che aveva trattenuto fino a quel momento, pregando che i petali non ostruissero la tubatura.
Fuori dal bagno, Marco bussava insistente alla porta.
Thatch prese un respiro disperato.
 
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“Sono ipomee.”
Così lo saluto Izou appena entrò in casa.
Thatch concentrò il proprio sguardo sui petali blu che stavano galleggiando nella tazza dei cereali. I fiocchi di mais ed il latte divenuti rossi ormai da molto.
Non si sprecò di dire all’amico che lo sapeva già da un po’.
Ipomee blu significavano appartenenza. Eternità. Fragilità.
Amore non corrisposto.
Sangue scivolò lento lungo il mento. Izou sospirò, ed afferrò un fazzoletto.
 
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Marco quasi scoprì della sua malattia dopo due mesi.
Il biondo non aveva niente di meglio da fare quel giorno, dato che il suo ragazzo, Ace, era fuori città per lavoro, e così aveva proposto a Thatch di guardarsi un film insieme a casa di quest’ultimo, da dove se n’era andato, trasferito da un’altra parte, da poco.
Marco era giusto nel mezzo di un commento sul film che i due stavano guardando, quando Thatch iniziò a tossire.
Marco non sembrò notare l’espressione afflitta sul volto dell’amico, né con quanta urgenza stesse cercando di raggiungere la scatola di fazzoletti sul tavolo da caffè.
“Cosa c’è a terra?”
E Thatch si immobilizzò, il respiro trattenuto quasi senza rendersene conto.
I titoli di coda scivolavano sullo schermo della televisione, la musica di sottofondo che riempiva la stanza, l’aria più fredda di quanto avrebbe dovuto essere.
“A terra?”
“Sì, vicino ai tuoi piedi. Sembrano pelle di serpente. Pelle di serpenti molto piccoli... Oppure, sai, petali. Sembrano proprio petali di fiore.”
Una risposta si fece strada sulla punta della lingua del cuoco, ma i polmoni ebbero la meglio di lui. Più di una maledizione si perse in mezzo alla tosse, e quasi rabbrividì, spaventato, quando una mano calda gli diede qualche pacca sulla schiena.
“Vado a prenderti un po’ d’acqua.”
In un attimo, Marco aveva recuperato un bicchiere pieno d’acqua fresca e lo aveva piazzato tra le mani del castano. Thatch la buttò giù avidamente, pregando silenziosamente che i suoi polmoni fossero gentili abbastanza da placarsi.
“Izou ne ha portati alcuni la settimana scorsa,” disse debole, la gola dolorante. “Devo aver dimenticato di spazzarli via.”
Fu difficile comprendere la reazione di Marco. La luce che proveniva dalla tv ancora accesa sembrò illuminare un’espressione tutt’altro che felice. Thatch scelse di ignorarlo.
Era grato che le luci fossero spente. Altrimenti, Marco si sarebbe reso conto di come i suoi piedi avevano cercato di coprire macchie di sangue per tutto questo tempo.
 
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Eventualmente, la tosse divenne più frequente. I petali divennero fiori. E i fiori divennero sempre meno blu e più rossi.
 
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“Ehi, senti- Oh.”
La mano di Izou si ritrasse immediatamente dalla sua mandibola, le dita sporche di rosso. Thatch non alzò lo sguardo su Marco, decidendo invece di fissare il libro che aveva in grembo.
Incurabile. Incurabile. Incurabile.
Izou, il migliore dei tre, fu il primo ad aprir bocca.
“Marco...”
E poi udì rumore di passi che si allontanavano, ed Izou si affrettò dietro a Marco e Thatch sapeva di doverli seguire, di dovergli dire di rimanere con me, rimani con me cazzo, sto morendo, ma subito dopo stava tossendo e sputando schifo e, all’improvviso, fu come una massa patetica sul pavimento.
Izou riapparve come l’angelo che era, per aiutarlo a raggiungere il letto.
C’era qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di incomprensibile. Il cuoco poteva indovinare cosa fosse.
“Lo sapevi?”
Izou annuì, e distolse lo sguardo per sistemargli il cuscino.
Thatch giurò di averlo sentito reprimere un singhiozzo.
Come aveva già detto, lo stilista lo conosceva così bene.
 
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“Ti piacciono i fiori?”
Glielo aveva chiesto una ragazzina una volta, anni addietro, mentre Thatch cercava di riportare su carta lo spettacolo floreale davanti ai suoi occhi.
“Mh-mh.”
“E qual è il tuo preferito?”
Thatch ci pensò per un lungo attimo, poi impugnò la matita blu.

 
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“Non mi avevi detto che eravate tornati insieme.”
Era la prima volta che si ritrovavano da soli dopo quel giorno. Thatch pensò che fosse stato per il meglio, così era più facile mentire e fingere che tutto andasse bene.
Ma niente andava bene, e lui stava morendo.
Stava fottutamente morendo.
Thatch fece del suo meglio per espirare lentamente. Poteva sentire le ipomee bloccate sul fondo della gola.
“Non è come sembra.”
“Sono sicuro che lo sia.”
Il disprezzo nella voce di Marco era evidente, le labbra strette in un’unica linea. Thatch si chiese quale sapore avessero le sue labbra. Sicuramente un sapore migliore di fiori e sangue, non c’era dubbio.
“Lo è.”
Avrebbe voluto dire altro, ma dovette voltarsi per tossire.
Era tutto blu cielo.
La considerò una vittoria.
 
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Raggiunse il punto in cui parlare divenne difficile e casa sua era l’unico luogo che potesse considerare sicuro.
Quello fu il momento in cui si trovò costretto a ritirarsi da ogni tipo di lavoro, sia dall’aiuto che dava all’orfanotrofio del suo padre adottivo e sia dal ristorante dove lavorava come cuoco.
Thatch ricevette molte chiamate e messaggi da molte persone – famiglia, amici, conoscenti.
Marco.
Tolse l’ennesima notifica per la settantatreesima volta quel giorno, prima di rotolare per ritrovarsi steso a pancia in su, schiacciando petali e sangue sotto la propria schiena, la maglia bianca sporca di rosso.
Ma era troppo stanco per preoccuparsene.
 
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“Thatch,” Izou disse con decisione, dopo avergli passato un secchio pulito, “Rimango qui. Ed è definitivo.”
Avrebbe protestato, se solo fosse riuscito a respirare bene.
Izou era sempre stato un uomo scaltro.
 
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Un centinaio di chiamate finirono in segreteria.
Thatch provò a respirare a fondo per poter ritornare ai propri disegni abbozzati.
Finì per accartocciare il foglio in una mano.
Ne aveva abbastanza di fiori.
 
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Una settimana più tardi, Haruta lo guardava con rabbia. Izou gli rifilò uno sguardo dispiaciuto.
“Non vuole dirmi di chi si tratta,” Haruta scattò, costringendo il cuoco a sedersi sul divano. “Chi è? Dimmi chi è, così posso prenderlo a calci nel culo.”
Thatch distolse lo sguardo, rabbia e vergogna che si mescolavano in lui.
“Penso tu sappia bene di chi si tratta.”
In un’altra situazione, avrebbe trovato divertente lo shock sul volto di Haruta.
Il silenzio che cadde a seguito delle sue parole si allungò fino al sorgere del sole.
 
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Giorni più tardi fece il grave errore di rispondere ad una chiamata di Marco, ed il biondo era preoccupato mentre parlava, spaventato forse, e sembrava sul punto di piangere.
Ma Thatch era convinto che l’amico non si meritasse tutto questo.
Questa preoccupazione, questo dolore, e solo perché il cuoco aveva deciso di fare la cosa più stupida della sua vita seguendo il suo cuore.
Marco meritava meglio di lui.
Thatch attaccò senza dire niente e si chiuse a chiave in camera, mettendo musica a tutto volume quando qualcuno iniziò a bussare alla sua porta.
Odiava quanto contagiose potessero essere le lacrime.
 
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“Glielo hai detto?
Haruta scosse la testa, l’espressione addolorata.
“Sfortunatamente no.”
Thatch annuì. Era bello sapere che la lealtà significava ancora qualcosa per entrambi.
 
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“Quale cazzo è il tuo problema?”
Marco chiese quando Thatch decise, stupidamente, di andare a vedere chi avesse suonato alla porta.
“Sono tutti preoccupati da morire. Tha- È sangue quello?”
L’espressione inorridita di Marco fu l’ultima cosa che Thatch vide prima di chiudergli la porta in faccia. Una vista che lo avrebbe perseguitato senza dubbio per il resto della sua vita.
Thatch si lasciò scivolare a terra, la schiena premuta contro il legno della porta. Quasi soffocò nel tossire altri fiori ancora, mentre Marco chiamava il suo nome picchiando i pugni alla porta.
“Parlami,” Marco lo pregò. “Ti prego. Voglio aiutarti.”
Thatch chiuse gli occhi con tutta la forza che aveva, deglutendo le parole che voleva pronunciare.
“Vattene.” Poteva assaporare le ipomee sul fondo della lingua. “Vattene e basta.”
“Lo intendi davvero?”
Thatch premette una mano sulle labbra, le nocche bianche ed il palmo appiccicoso e sgradevole.
No. Non te ne andare. Ti prego, amami. Ti prego. Ti prego. Ti prego.
E fu solo quando il bussare si fermò e i passi si allontanarono che Thatch si permise di piangere.
 
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Quando risultò difficile anche solo uscire dal letto, Thatch scrisse.
La mano tremava e la scrittura era appena leggibile, ma si costrinse a farlo. Era l’ultima cosa che poteva fare.
Il sole era scomparso da ore quando finì e firmò l’ultima lettera. C’era un secchio ormai quasi ai piedi del letto, che riempiva la stanza con il dolce odore di sangue e fiori.
Lo sguardo di Thatch si perse sul foglio che stringeva tra le mani, e per un attimo si chiese se dovesse scrivere quelle due parole che stava morendo di dire.
Ma, alla fine, non lo fece, perché era un fottuto codardo.
No, non codardo, pensò più tardi, nel conforto delle sue coperte alle tre di notte, con il mento sporco di rosso. Disinteressato.
Haruta lo avrebbe chiamato martire altruista, o forse fottuto idiota. Thatch pensava che volessero dire la stessa cosa.
 
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“Ehi, sono io. Marco. Non ho idea di cosa ti stia succedendo, ma... Anche se Haruta dice che va tutto bene... Senti, se stai attraversando un periodo di merda, io... Sai che ci sono per te, sì? Così come tu c’eri per me quando ho attraversato il peggior periodo della mia vita. Siamo un team, mi hai sentito? Hai detto che eravamo un team. Noi... Ti amo, ok? Sei il mio migliore amico, il mio primo fratello... La mia porta è sempre aperta per te, solo... Chiamami.”
“Mi ama.”
È ciò che Thatch sussurrò ore dopo, a nessuno in particolare, prima di sputare un altro grumo di fiori e sangue.
Gocce rosse sporcarono il telefono. Thatch lo pulì con il pollice.
 
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“Devi dirglielo,” Haruta glielo disse duramente. “Non puoi lasciarlo- Non può ucciderti.”
Thatch scoppiò a ridere, ruvido e stanco. Il bisogno di strapparsi via la gola non diminuì.
Il pastello nella sua mano era color lavanda. Thatch ormai odiava ogni colore il cui nome era ispirato ad un fiore.
“Non mi sta uccidendo.”
Haruta sbuffò spazientito. “Non dirmi cazzate, Thatch.”
Ma il cuoco scosse la testa e prese un altro pastello, blu come i fiori che lo stavano uccidendo dall’interno.
Era stanco di loro.
“Non è colpa sua. Non è colpa sua se...” Il respiro si interruppe per un attimo, mentre i fiori nei suoi polmoni minacciavano di farsi strada con forza verso l’alto. “È colpa mia per essermi innamorato... Io...”
“Thatch,” Izou lo riprese, la voce fresca come il vento primaverile, “Non è colpa di nessuno. Non puoi controllare i tuoi sentimenti.”
Ma Izou aveva torto. Aveva così fottutamente torto, perché lui sarebbe morto, e quando Marco lo avrebbe scoperto lui... Lui...
Thatch sarebbe scoppiato a ridere, se solo non fosse improvvisamente collassato a causa di un attacco più forte del solito, e non riusciva a respirare- non riusciva a respirare-
 
-ç-ç-
 
“Ti amo.”
Thatch lo mormorò ad una foto che teneva tra le mani.
Il sorriso di Marco non vacillò.
I polmoni ed il cuore di Thatch facevano così male.
In un altro tempo, Marco lo avrebbe amato a sua volta e Thatch non avrebbe iniziato a morire.
In un altro tempo, Thatch non si sarebbe mai innamorato di Marco e non avrebbe iniziato a morire.
In un altro tempo, Thatch non avrebbe mai incontrato Marco.
In un altro tempo, Thatch e Marco forse si sarebbero odiati a vicenda.
In ogni altro tempo al di fuori di questo, nessuno dei due sarebbe stato martire o assassino.
Thatch odiava ognuno di essi con tutto se stesso.
 
-ç-ç-
 
I suoi polmoni cedettero all’improvviso quando Izou era fuori a far spesa, un lunedì mattina.
È così che finisce.
Fu tutto ciò che Thatch riuscì a pensare mentre le ginocchia colpivano il pavimento.
Stava morendo da solo, e solo perché aveva allontanato chiunque.
Stava morendo da solo a causa di un miserabile errore chiamato amore.
Ma all’improvviso, non stava più morendo da solo, perché qualcuno era al suo fianco.
Come mai era lì? Non avrebbe dovuto essere lì. Marco non aveva bisogno di guardare Thatch mentre spirava il suo ultimo respiro.
Di guardare mentre, indifeso, si rannicchiava tra le sue braccia.
Di guardare mentre sputava fiore dopo fiore dopo fiore-
“Chi è?”
Marco lo chiese appena sussurrando, e Thatch poté a malapena percepire il suo corpo tremare mentre lo stringeva a sé.
Tutto era rosso e blu e-
Thatch si aggrappò a Marco con tutte le sue forze, ferendolo con le proprie unghie. Ed era sicuro che ci fosse sangue sotto di esse, ma non era sicuro di sapere se fosse suo o di Marco perché i fiori continuavano ad uscire e tutto stava girando attorno a lui e... E...
Lo sguardo di Marco fu improvvisamente pieno di chiarezza. L’ultimo errore di Thatch.
“No.”
Fu tutto ciò che riuscì a dire, prima che il volume della sua voce aumentasse mentre stringeva Thatch al proprio petto.
“No, no, no, no, no! Non puoi- Io-”
Un’ipomea fece capolino tra le labbra di Thatch, un’altra sulla lingua. Avevano un sapore così dolceamaro.
Le labbra di Marco si stavano muovendo, stava dicendo qualcosa, e Thatch avrebbe giurato che i suoi occhi fossero pieni di lacrime, ma non poteva giurarlo, non mentre era tutto così sfocato e-
E le labbra di Marco furono su di lui, ma niente cambiò, anzi sembrò peggiorare, perché Marco lo amava, sì, ma non come più di un fratello, non nel modo che serviva per curarlo, e Thatch non riusciva a respirare-
Non riusciva a respirare-
 
-ç-ç-
 
Lo sguardo ceruleo di Marco fu l’ultima cosa che riuscì a vedere, le sue lacrime, le sue labbra ora sporche di sangue, e blu blu blu. C’era blu ovunque.
 
-ç-ç-
 
Questa volta, Thatch pensò che il blu non fosse poi un colore così odioso.
 
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L’Hanahaki Disease, per chi non lo sapesse, è una malattia immaginaria che colpisce quando si cade vittima di un amore non corrisposto e che fa tossire fiori, o i preferiti del malato o i preferiti della persona amata, e se non curata porta alla morte a causa dei troppi fiori nei polmoni. Purtroppo i modi per curare questa malattia sono due soltanto: se la persona che ami ti ama a sua volta, oppure rimuovendo i fiori tramite operazione, ma con essi sparirà anche il sentimento per la persona amata.
Era da tanto che volevo scrivere una storia su questa malattia, ma non mi ero mai decisa ad iniziarla, forse perché non avevo idea di chi utilizzare come povera vittima.
Il raiting è arancione solo perché c’è tanta menzione di sangue tossito/sputato/vomitato e volevo essere tranquilla.
Ad ogni modo, spero che la storia vi sia piaciuta~

PS: Secondo il Santo Translate, il titolo (Ai wa ao to akadesu) dovrebbe significare "Love is blue and red", ovvero "L'amore è blu e rosso". Io mi sono fidata di Translate, ma se qualcuno sa qualcosa di giapponese mi faccia sapere se è errato!

FireFistAce


 
  
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