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Autore: blackjessamine    08/06/2019    9 recensioni
Erano belli, i pomeriggi che tu arredavi per me, i pomeriggi dove io imparavo ad essere bambina negli anni Trenta, e poi imparavo ad avere una scatola di metallo per portare il pranzo al lavoro, e avevo una valigetta di pelle dove a volte, quando i soldi bastavano, potevo portare a casa una focaccia alle mie bambine, e poco importava se tutto, in quella valigetta, puzzava di piombo.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Radici'
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Le strade, le storie
 
 
 
 
Milano d’estate è un morbido tappeto d’asfalto semi-sciolto.
Milano d’estate l’ho conosciuta otto anni fa, io che avevo polsi sottili e capelli troppo lunghi per quel sudore ghiacciato di colpo dal getto di un condizionatore impavido.
L’ho conosciuta con i documenti fragili di una segreteria universitaria, con quel libretto fresco di stampa che stringevo fra le dita come fosse il mio biglietto d’oro per un futuro tutto nuovo, tutto mio, tutto a portata di mano.
Avevo la pelle dorata dal sole di giorni spensierati, giorni infilati come perline luccicanti su un filo di risa e camminate sulla spiaggia e corse sotto il sole per prendere l’ultimo autobus per tornare al campeggio.
Otto anni fa, a Milano, d’estate, ero innamorata: era un amore estivo, un amore effimero, ma ancora non lo sapevo, e le notti erano fatte solo del profumo del pane e del sale.
Aspettavo la prima lezione alla Scuola Guida sotto casa, e credevo d’avere il cambiamento inanellato sulle dita come ciocche di capelli. Avevo un vestito a fiori, con la gonna un po’ gonfia, e le mie scapole fra le spalle nude erano ali che credevo avrei spiegato con un sospiro lieve.
 
Eri contento del voto della mia maturità. Eri contento, e mi avevi recitato con voce flebile la prima declinazione latina.
Eri contento anche di sapermi sulla soglia dell’università, a studiare filosofia, e chissenefrega se con la filosofia non si mangia.
Chissà se poi te l’ho mai detto, che sulla strada delle storie mi ci hai messo tu.
Su quella strada d’infanzia silenziosa, di pagine sfogliate con gli occhi pieni di mondo, con le dita sporche d’inchiostro. Su quella strada che, lo ricordo solo ora, era fatta di voce, prima d’essere fatta di lettere. Era fatta del mio risveglio lento, la mattina prima della scuola, e del tuo accostare la sedia a rotelle al letto, per poter sussurrare meglio.
Vivevo di storie molto prima di imparare a leggere, prima ancora del mangiacassette e della raccolta delle Fiabe Sonore: vivevo di store quando ancora non le capivo bene, ma la tua voce era sufficiente a tenerle nella pancia, a farne una provvista per l’inverno, a tenerle buone per quando fossi stata abbastanza grande per cucirle tutte assieme.
Me le ricordo ancora, le tue storie che non erano storie, o che forse lo erano, ‘ché la verità non contava. Mi ricordo il cane Francia, con la sua stella di pelo bianco sul petto e le zampette veloci. Mi ricordo il ponte sul fiume Lambro quello da cui, dicevi, se ti sporgi dal parapetto puoi ancora scorgere lo stemma della regina Teodolinda. Io non mi sporgevo mai, perché ricordavo anche il tuo tuffo nel fiume e l’otite e quell’orecchio che non era più tornato lo stesso.
Mi ricordo quando parlavi delle mani della nonna, e dello smalto rosso che le mettevi tu: prima la punta, e poi tutto il resto. Io lo smalto rosso non lo metto quasi mai, e preferisco partire dalla base dell’unghia. Ma ci sono giorni in cui le mie dita mi sembrano un dono, una meraviglia della genetica, testimonianza di carne e sangue, e allora c’è spazio solo per il rosso sulla punta.
Mi ricordo la capretta che mungevate, e la slitta che avevate costruito da bambini, e di quella volta che avevi tirato una boccia sul tetto e avevi tirato forte e avevi colpito in testa lo zio P.
Mi ricordo anche del collegio a Bergamo, del latino e del greco che ti piacevano tanto, ma che avresti dovuto pagare diventando prete. E allora ricordo la fuga nella notte, e un passaggio chiesto ad un carro, e poi i chilometri e chilometri fatti a piedi per tornare a casa. Ricordo anche del tozzo di pane che a pranzo, in collegio, non mangiavi, e nascondevi sotto il banco, conservandolo per dopo. E ricordo il biglietto con cui cercavano di rubartelo: “ci ho sputato sopra”, e la tua fame che faceva rispondere: “ci ho sputato sopra anche io”. Io la fame non la conoscevo, e non ho mai osato chiedere chi lo avesse mangiato, poi, quel pezzo di pane.
E poi, quando ero appena un po’ più grande, ricordo le corse per andare vicino al fiume a vedere il cadavere della suora, durante la guerra. E il quadro di Mussolini che tuo padre teneva appeso a testa in giù, e il fratello più grande partigiano, quello che si era nascosto nella cappa del camino, e ci sarebbe rimasto giorni interi, se i fascisti non avessero minacciato di dar fuoco alla casa e a tutti gli abitanti. E poi il camion – il camion, sì, tu dicevi che era un camion, non un treno – diretto in Polonia, e i tre fascisti del paese che la notte dopo dovevano essere troppo presi a guardare la luna per non accorgersi del fosso in cui erano scivolati.
Ricordo anche i lunghi pomeriggi sulle tue ginocchia, e quando mi mandavi al secondo cassetto del mobile in salotto per portarti il tuo astuccio di pelle, quello con i ricordi del tuo lavoro: una lente d’ingrandimento rettangolare, la matita per correggere le bozze, squadre e righelli, e poi le lettere di piombo. Le lettere che non volevi mai farmi toccare, perché il piombo è velenoso, e io non potevo capire come qualcosa di così prezioso – lo scheletro dei libri – potesse essere pericoloso. Mi parlavi di un lavoro d’altri tempi, mi parlavi e cementavi dentro di me questa strana cosa che è il bisogno di impiegare ogni giorno a difendere le storie.
Erano belli, i pomeriggi che tu arredavi per me, i pomeriggi dove io imparavo ad essere bambina negli anni Trenta, e poi imparavo ad avere una scatola di metallo per portare il pranzo al lavoro, e avevo una valigetta di pelle dove a volte, quando i soldi bastavano, potevo portare a casa una focaccia alle mie bambine, e poco importava se tutto, in quella valigetta, puzzava di piombo.
 
Milano d’estate ha la voce allegra dei bambini l’ultimo giorno di scuola: io ho una borsa arancione, una maglia di ricambio e una scatola di metallo per portare il pranzo al lavoro.
Per lavoro, io, colleziono storie. Tu eri il loro dottore, quello che le metteva in fila, che dava loro la possibilità d’essere lette. Io le osservo, ne annoto i parametri, e le custodisco gelosamente in armadi ordinati, perché chiunque possa ritrovarle.
 
Secondo Piano: Amministrazione.
Primo Piano: Redazione.
Piano Terra: Sala Riunioni.
Ex legatoria.
Piano Interrato: Archivio.
Ex tipografia.
 
Ho le mani nere di polvere, fra uno scatolone di libri gettati alla rinfusa e l’altro.
Ho i polmoni pieni di polvere, e gli occhi pieni di meraviglia.
A Milano, d’estate, qualche volta rimpiango la mia biblioteca. Rimpiango i miei bimbi, le voci,  i colori, e il mio tentare d’essere un tramite fra le storie.
Ma a Milano, d’estate, capitano sentieri imprevisti, che sembrano portarti esattamente dove non avresti mai creduto di poter essere: un’archivista che siede ad un bancone da tipografo. I cassetti della mia scrivania improvvisata hanno tanti scomparti, ma nemmeno m’importa che le lettere di piombo non ci siano più.
A Milano, d’estate, nella cantina di una casa editrice, imparo davvero ad essere ponte.
E le strade, le storie, sono anche sotto la pelle.
 
 
 


 
Note:
Questo breve scritto fa idealmente il paio con la storia, ormai vecchissima, Contro il sole, gli occhi.
Vi chiedo di essere estremamente clementi: se, di solito, aspetto le critiche con trepidazione, per cercare di migliorare, questa volta non mi importa. Sono nuda, dietro questa breve cosa, e mi tremano un po’ i polsi, quindi vi chiedo di essere gentili. Vi sto mettendo in mano moltissimo.
   
 
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