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Autore: Crudelia 2_0    09/06/2019    1 recensioni
Esmeralda e Phoebus sono al Valdamore quando qualcuno colpisce il Capitano. Quest'ultimo, ferito solo superficialmente, si getta all'inseguimento della gitana, che troverà aiuto nel posto più inaspettato.
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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C'è in me il dolore di un amore che fa male
E non m'importa se divento un criminale
 

 
Se n'era andato. Aveva strappato i pantaloni dalle sue mani quasi con disgusto ed era rientrato, senza guardarsi indietro, lasciandola lì in ginocchio a stringere il vuoto.
Esmeralda sentì il pianto iniziare a stringerle la gola e bruciarle le guance. Deglutì a vuoto e strinse palpebre e denti, costringendosi a pensare a momenti lieti.
Il vento soffiò sulla schiena portandole i capelli a nasconderle il viso. Quel soffio, fresco e bisbigliante, le riportò alla mente ricordi che quasi aveva dimenticato. Nei momenti di difficoltà era solita pensare alla madre che sicuramente, da qualche parte, la stava cercando, si immaginava il conforto dei suoi abbracci e delle sue carezze, l'affetto che solo i baci di una madre sanno dare. Ma in quel momento le venne in mente il mare. Se lo figurò, come se fosse davanti ai suoi occhi, grosso, spumeggiante e scosso dal vento; le labbra salate e i piedi sporchi di sabbia. Aveva visto il mare solo una volta nella sua vita, ma se n'era innamorata completamente, con la passione che caratterizzava il suo animo. Un amore pieno e divorante, da far male e stringere il cuore al solo pensarci. Sulla sabbia morbida le avevano insegnato le acrobazie più difficili, quelle che tanto piacevano ai bambini, e tra quei granelli aveva passato notti insonni a guardare le stelle.
Aveva pianto quando avevano lasciato quel luogo, conscia che una tale magia mai l'avrebbe ritrovata.
Ma poi era arrivata Parigi. Anni dopo si era riscoperta bambina. Parigi con il suo profumo di pane appena sfornato e lavanda, con i suoni del fiume e le urla della gente, con la sua lingua tanto musicale che pareva non esistesse la rabbia.
Parigi l'aveva fatta innamorare prima di se stesso e poi del suo capitano, e adesso, come un amante tradito, le buttava in faccia la realtà: nulla, nessuno in quel luogo l'amava.
Parigi era la capitale dominata dalla bellissima e impietosa cattedrale; l'acqua salata che tanto agognava, le onde burrascose e il sole bollente non li avrebbe trovati in quella città che aveva la pretesa di considerarsi la più bella del mondo.
Una lacrima scese fino alle sue labbra secche, la spazzò quasi con rabbia. Cancellò il mare dai suoi pensieri e decise di rientrare, pronta ad affrontare quell'uomo come una tempesta.
 
L'arcidiacono non dormiva. Chino alla sua scrivania, il calamaio in mano, gli occhi sgranati fissi sulle pagine gialle e polverose di un libro. Nessuno avrebbe mai pensato che un uomo tanto pacato avesse al suo interno il tormento di un mare in burrasca.
Claude Frollo aveva imparato a vestire la pacatezza come un abito. Era calata su di lui come la polvere sui mobili di una casa abbandonata, si era tanto stretta al suo essere da diventare una parte della sua anima.
Aveva presto imparato, infatti, che non sono le urla e le botte a spaventare uomini. Aveva imparato ad incutere timore soltanto alzando un sopracciglio.
Aveva altrettanto imparato, il curato, che il silenzio è amico dell'inquietudine. Amava quindi la musica, in un modo più che sconveniente per un uomo di chiesa com'era. Sapeva suonare il pianoforte, l'unico strumento accettato dalle ligie regole con cui era cresciuto. Far scorrere le dita sui tasti bianconeri era una delle sue più grandi forme di piacere.
Certo era che, in quel momento, non poteva mettersi a suonare.
La musica era da wscludere e i libri si stavano rivelando piuttosto scadenti come compagni.
Non gli rimanevano che i suoi pensieri che per quanto si sforzasse di soffocare tornavano sempre, prepotenti.
Erano ormai diverse notti che quei pensieri (non gli avrebbe dato un nome, assolutamente, non li avrebbe mai resi così concreti) gli rubavano il sonno e, di giorno, la concentrazione. Si rigirava tra le coperte inquieto, incapace di dormire, ma desideroso della beata incoscienza dei sogni.
Era giunto quindi ad una conclusione: doveva sfinirsi. Aveva digiunato, era andato a trovare le comunità più decentrate facendo lunghe cavalcate al galoppo senza mai fermarsi, rifiutando in modo quasi scortese le coppe d'acqua che gli venivano offerte, aveva scritto lettere, ordinato la sua scrivania per poi cambiare posto ad ogni cosa dopo un momento. Il suo subbuglio interiore stava iniziando ad intaccare anche l'esterno.
Tuttavia nulla aveva funzionato, lasciandogli così una sola alternativa.
Non gli avevano forse insegnato che per espiarsi è necessario pentirsi, punirsi? Cristo non aveva forse sofferto in croce prima che tutti i peccati fossero perdonati?
Dunque era deciso. Se soffrire era soluzione avrebbe sofferto.
Si alzò di scatto e si diresse verso la sua camera, non si diede il tempo di indugiare.
Aveva conservato una frusta in fondo al suo baule. Erano anni che non la usava, ma sentiva ancora chiaramente il suo sibilo prima dello schiocco sulla carne.
Si tolse la tonaca e la gettò noncurante sul letto, stava per ricevere la stessa sorte anche la camicia quando sentì la porta aprirsi.
Si fermò di colpo, come paralizzato, la schiena rigida e tutti i sensi all'erta.
Nessuno, mai, era entrato nei suoi appartamenti senza bussare, specialmente ad un'ora tanto insolita.
Tese le orecchie per cogliere qualsiasi suono.
Nulla.
O era forse un tintinnio, quello?
Cauto, aprì la porta.
Il cuore mancò un battito.
 
*
 
-Sono in debito con voi-.
Se già era scosso dalla sua visita, se così si poteva chiamare, quelle parole avevano fatto crollare del tutto il suo autocontrollo.
L'avrebbe presa lì, sulle dure pietre del balcone, con urgenza, per farle sentire il suo dolore. Era in debito? Bene, che lo saldasse dunque. Che soffrisse tra le sue braccia, sotto i suoi baci, i morsi bollenti.
Le gambe tremavano, crollò su una poltrona.
Sentiva le mani prudere tanta era la voglia di toccarla.
Prese un libro, tanto per accarezzare qualcosa, nella speranza che la ruvidezza delle pagine lo distogliesse dal pensare alla sua pelle di velluto. Lo aprì senza attenzione e iniziò a fissare le parole, una per una, senza cercare una logica.
La sentì rientrare. Nonostante facesse di tutto per non far rumore, riconobbe i suoi passi con la facilità con cui si riconoscono i propri familiari.
Come se la conoscesse da sempre.
La percepì, più che vederla, di fronte a lui. Si sforzò di ignorarla, dandosi ordini brevi e secchi.
Respira.
Non guardarla.
Gira una pagina.
Non alzare gli occhi.
Respira.
Non guardarla.
 
 
Chiuse la porta senza far rumore.
Lo vide seduto su una poltrona, un libro in mano, la fronte appoggiata ad una mano che massaggiava una tempia. Fissava le pagine con sguardo vitreo, senza interesse, come se fosse un mero pretesto per ignorarla.
Si sentì piccata da quella mancanza d'interesse.
L'aveva seguita per giorni e notti e ora neanche uno sguardo? Era abituata ad essere acclamata e applaudita, quel silenzio la feriva.
Ma aveva un debito e l'avrebbe saldato.
Gli andò di fronte, a pochi centimetri dalle sue gambe e, decisa, iniziò a slacciarsi la veste.
Lentamente, fissandolo, slacciò il primo bottone.
-Arcidiacono-
L'uomo alzò lo sguardo (finalmente!) e lo vide impallidire.
Il secondo bottone lasciò l'asola.
Si alzò di colpo, afferrandole i polsi.
-Che fai?!-, la voce strozzata.
-Non è questo che volete, il mio corpo?-, sentì pronunciare queste parole come se le avesse dette un'estranea, con le labbra curvate in un sorriso per imitare l'espressione beffarda dell'uomo. Se avesse saputo inarcare un solo sopracciglio l'avrebbe fatto.
Continuò ad aprirsi la veste, scoprendo il seno. Vide l'uomo dischiudere le labbra, ma non ne uscì nessun suono.
Incoraggiata, sentendo la presa sui polsi sempre più allentata, continuò.
-Basta!-
Si ritrovò incastrata: i polsi dietro la schiena, tra le mani bollenti dell'uomo, schiacciata al suo petto e il fiato bollente sulle labbra.
-Ma- -Smettila!-
La spinse indietro, come scottato.
Perse l'equilibrio e cadde.
Gli occhi sgranati, il seno scoperto, si ritrovò a fissarlo ancora.
Si era accasciato sulla poltrona, la testa tra le mani, sussurrando parole nella sua lingua musicale che usava per pregare.
Non osò muoversi, ascoltando quella litania sussurrata con tanta passione, tanto dolore da farla sentire quasi in colpa per il suo gesto.
-C'è una camera di là, vai a riposare-, disse l'uomo, sempre sussurrando, tanto che in un primo momento non riuscì a capire se si stesse rivolgendo a lei o ancora al suo Dio.
Non replicò, avviandosi verso l'unica porta presente. Azzardò un'ultima occhiata prima di entrare: ancora sulla poltrona, i capelli stretti tra i pugni, le nocche bianche tanta era la forza con cui stringeva.
 
 
 
Non pensava di dormire, eppure il sonno l'aveva colta regalandole ore intere di buio e silenzio. Non ricordava di aver dormito così bene da parecchio tempo, probabilmente perché al suo popolo non erano concessi materassi e cuscini di piume.
Si mise a sedere frastornata, i capelli spettinati che le ricadevano sulle spalle. Alla luce del sole, già alto, i muri di pietra non erano più così minacciosi.
Indecisa su come muoversi si osservò attorno. Sul comodino accanto al letto c'erano un grosso libro rilegato e, sorprendentemente, una mela. La prese e addentò la buccia fresca. Mentre il succo leggermente aspro le invadeva la bocca decise che non aveva da temere: se il prete avesse voluto farle del male gliene avrebbe fatto mentre dormiva, senza lasciarle la colazione.
Si alzò con energia rinnovata, mettendo in un angolo la disperazione della sera prima e quello che sembrava essere imbarazzo. Aveva agito d'impulso, guidata solo dall'istinto. Era stata avventata, se l'uomo non si fosse trattenuto? L'aveva provocato, aveva giocato. Eppure l'avevano avvertita: oggi non è ieri, tu non sei più com'eri. Non era più una bambina, ma una donna.
Attraversò lo studio e uscì nuovamente sulla balconata.
Che fare?
Se era una donna doveva trovare una soluzione. Si appoggiò al cornicione e osservò i parigini, mangiando la mela e riflettendo. Sicuramente non poteva scendere in cattedrale e uscire come niente fosse, eppure non poteva neanche rimanere lì dal momento in cui le guardie sapevano dove si trovava.
Davvero, se non fosse stato per quel prete forse in quel momento non si sarebbe goduta le carezze del sole sulle guance e il succo della mela a baciarle le labbra.
La gratitudine per l'uomo le entrò dentro a stringerle il cuore, scese verso lo stomaco e ancora più giù, in uno strano formicolio che la faceva sentire allo stesso tempo rilassata e fremente.
In ogni caso sarebbe scappata, avrebbe solo dovuto aspettare il momento giusto.
 
 
Tre cose venivamo bene ai gitani: essere delinquenti, fare baldoria e, più di tutto, essere liberi.
Il primo punto Esmeralda lo incarnava in pieno, ricercata per stregoneria e aggressione. Sebbene il terzo punto ancora le creava qualche difficoltà, fu proprio con la libertà che si prese di frugare ovunque che si apprestava a realizzare la seconda capacità innata del suo popolo.
Aveva curiosato in ogni angolo: dei numerosissimi libri si era annoiata in fretta (neanche un'immagine!), ma sull'ampia scrivania aveva trovato parecchio con cui dilettarsi. Numerose ampolle e bottigliette contenevano liquidi trasparenti o densi come fango, profumati come fiori o come le fogne. Le aveva aperte tutte, divertendosi anche a mischiarne alcune. Aveva smesso solo quando, mischiando in una piccola scodella tre liquidi diversi, si era creata una strana reazione tutta bolle, schiuma e sfrigolii che avevano corroso i malcapitati fogli vicini. Con un urletto di spavento aveva gettato la scodella a terra, incurante del buco che aveva creato nel tappeto.
Allora si era data all'esplorazione dell'unica altra stanza in cui poteva accedere. La camera da letto era illuminata da un'ampia finestra, dominata dal grande letto. L'analisi dell'armadio aveva richiesto poco tempo: era pieno di toghe, camiciole e pantaloni neri; piuttosto noioso insomma. Il baule ai piedi del letto si era rivelato impossibile da aprire, ma la frustrazione per quel piccolo inconveniente era subito passata. Lì vicino, abbandonata per terra, c'era una piccola frusta. Incuriosita la ragazza la prese tra le mani, chiedendosi per cosa mai potesse usarla, un prete. Stava toccando lievemente le piccole sfere di metallo al fondo delle corde di cuoio quando le venne un'idea che prima la fece sorridere e poi scoppiare allegramente a ridere.
 
Con un coltellino trovato sulla scrivania aveva tagliato in piccoli pezzi la frusta unendoli in modo tale che, scuotendoli, le piccole palline di metallo sbattessero tra loro. Certo, non era un suono soave come quello del suo tamburello, ma bisognava accontentarsi.
Spostò le poltrone per creare più spazio davanti al camino e iniziò a ballare in cerchio, al suono del suo nuovo strumento, immaginando i belati della sua capretta e gli applausi, le risa dei bambini e degli uomini. Iniziò a ridere, sentendosi pazza, pazza a ridere in una tale situazione, ma fortunata, così profondamente e immeritatamente fortunata ad essere viva e giovane. Avrebbe continuato a ballare e ridere all'infinito, se lo sentiva, se solo non si fosse aperta la porta.
Si fermò di colpo, gli occhi sgranati, colpevoli, il petto che si alzava e abbassava in fretta.
Frollo entrò velocemente e si fermò, le spalle alla porta. Il suo sguardo percorse la donna dalla testa ai piedi, soffermandosi forse un secondo di troppo sulle sue labbra schiuse e il seno ansante. Osservò le sue mani e corrucciò lo sguardo vedendo ciò che teneva in mano. Continuò l'analisi della stanza scrutando le poltrone nella loro posizione insolita e la scrivania, così disordinatamente violata.
Tornò a fissarla negli occhi, torvo.
-Cosa state facendo, di grazia?-
Perché, perché la sua voce così bassa squarciava sempre il silenzio come un grido?
La ragazza deglutì e prese fiato prima di rispondere, semplicemente:-Mi annoiavo-.
 
Seppe di aver fatto un errore ancor prima di finire di parlare. Vide l'uomo stringere gli occhi, improvvisamente accesi, e iniziare a camminare.  Spaventata si ritrasse il più in fretta possibile.
Nuovamente, capì di aver fatto un altro errore ancor prima che finisse di muoversi. L'uomo si fermò di colpo, una strana espressione gli passò sul viso, subito sedata.
Sospirò, si passò una mano tra i capelli e si diresse alla scrivania. Qui posò un cestino, che la ragazza ancora non aveva notato, e iniziò a sistemare ciò che lei aveva tanto superficiale toccato.
 
Esmeralda non sapeva cosa fare. Adesso si rendeva conto di essersi comportata come una bambina, ne sapeva forse qualcosa di quello che contenevano le boccette? Aveva affermato di essere in debito e poi dimostrava così la sua gratitudine?
Sentendosi umiliata dai suoi stessi pensieri si avvicinò all'uomo che nel frattempo stava osservando ogni boccetta per poi gettarla in un secchio, sospirando.
-Mi dispiace- avrebbe voluto dire altro, ma si ritrovò la gola chiusa e secca.
-Mangia- le rispose. Non l'aveva guardata, ma aveva indicato con un cenno del capo il cestino.
 
Lieta di avere qualcosa da fare, la ragazza scostò il panno scoprendo frutta, pane e, le uscì un gridolino eccitato a quella vista, una fetta di carne spennellata di miele.
Alzò la testa per ringraziarlo e si scontrò con gli occhi dell'arcidiacono. L'aveva definito brutto la prima volta che l'aveva visto, ma sicuramente non l'avrebbe fatto se avesse visto subito i suoi occhi.
Dio, che anima deve avere quest'uomo per possedere occhi del genere! Tutto il mare del mondo contengono!
Sentì i polmoni e la testa svuotarsi, dimentica di ogni pensiero.
L'uomo la fissò impassibile per qualche secondo (o qualche millennio!) per poi alzare un sopracciglio. La gitana si riscosse, sentendosi avvampare, e iniziò a mangiare. Anche perché quella stretta allo stomaco era sicuramente fame e doveva averne davvero molta perché facesse così male.
 
Passò qualche tempo in silenzio, durante il quale lei mangiava e lui finiva il suo lavoro, spostandosi poi alla finestra, dandole le spalle.
-Monsignore?-
-Si?-
-Mi stanno ancora cercando?-
-Si-
-Devo rimanere nascosta?-
-Sarebbe meglio-
-Qui?-
-Qui dovreste essere al sicuro-
-Per quanto tempo?-
-Finché le acque non si saranno calmate-
-Mi arresteranno?-
 
L'uomo si voltò, un po' spazientito da quelle domande incalzanti, ma si sentì morire sulle labbra la risposta pungente. La zingara lo stava guardando con grandi occhi lucenti, in attesa, e si stava leccando la punta di un dito per non sprecare neanche un po' del miele che le aveva portato. Deglutì. Quella vista aveva risvegliato le immagini che tormentavano i suoi sogni e che con tanta forza e impegno cercava di cancellare durante il giorno.
Si voltò di nuovo, sentendosi leggermente sudato, verso la finestra.
-Non se riesco ad evitarlo- rispose infine.
 
La ragazza si avvicinò. L'aveva visto deglutire. Era in difficoltà in sua presenza, confusa. Non era lei a dover essere spaventata? Perché allora era lui ad essere tanto schivo, evasivo?
Lo scrutò da vicino, voleva di nuovo incrociare i suoi occhi. Perché continuava ad ignorarla?
Gli tocco leggermente un braccio per attirare la sua attenzione.
-Grazie- un'altra volta le parole le erano uscite di bocca senza il suo permesso. Non vide tuttavia l'espressione dell'uomo. Anche se prima tutto quello che voleva era incrociare il suo sguardo, adesso era intenta a seguire con un dito un raggio di sole che disegnava strane figure sul petto dell'uomo. Le piaceva sentire sotto le dita la stoffa morbida e calda e, sotto di essa, il respiro sempre più veloce del prete. Arrivata al centro del petto aprì la mano, facendola aderire interamente al corpo, e iniziò una lenta carezza verso il basso. Le piaceva sentire i piccoli bottoni sotto il palmo, a intervalli regolari. Li stava contando, uno per uno, era arrivata a sette, circa a metà addome, quando si trovò, per la terza volta, con i polsi imprigionati sopra la testa  e contro il muro.
-Vuoi uccidermi, donna?!-
Adesso sentiva chiaramente il roco ansimare dell'uomo contro il collo.
Sentì le mani scendere sui gomiti, alle spalle e alla gola.
Le accarezzò le clavicole con la punta delle dita. Come riusciva in un secondo a passare dalla forza bruta del desiderio alla più tenera dolcezza d'amore?
-Non ti rendi conto di cosa mi fai?-
Aveva sostituito le dita con le labbra, una lieve carezza che stava risalendo lungo tutto il collo e poi di nuovo giù. Si costrinse a trattenere un gemito.
Le stava scostando leggermente la veste, scoprendo una spalla. Lì poggiò le labbra in un delicato e rovente bacio.
-Mi distruggerai-.
E se ne andò all'improvviso com'era venuto, lasciandola scossa contro il muro, soffocata in una morsa a metà strada tra il cuore e il basso ventre.
 
Salve!
Eccomi qui, in tempi assurdamente brevi per i miei standard, ad aggiornare!
Spero che questo capitolo vi piaccia e la storia inizi ad incuriosirvi. Se la mia Esmeralda dovesse risultare OOC non esitate a farmelo notare, provvederò a segnalarlo.
Perdonatemi le due citazioni dal musical all'interno della storia, ma non ho saputo resistere!
Detto questo vi lascio, spero in una vostra recensione, e ringrazio chiunque legga.
Un bacio,
Crudelia
   
 
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