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Autore: Rose Heiner    11/06/2019    2 recensioni
Lezione particolarmente noiosa di storia, una domanda del professore riesce ad interrompere il silenzio assonnato in classe: chi vi sarebbe piaciuto essere fra tutti i personaggi storici che abbiamo studiato? Nell'entusiasmo generale le risposte sono state varie e un po' scontate: Giulio Cesare o Marco Antonio per i più combattivi, Cleopatra affascina le ragazze per il potere, Seneca per chi apprezza la filosofia... ma perché nessuno mai è dalla parte dei deboli, invece? Io avrei desiderato essere Atte nell'antica Roma.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Atte, il marchio di una schiava

Nessuno sa quando sono nata. E nessuno lo saprà mai.
A Roma contano solo le date degli uomini, di quei senatori vecchi e barbuti, eternamente seduti all’assemblea, di quelli che sanno leggere il greco e di quelli che si sono sporcati le mani di sangue nel nome dell’Impero. Ai Romani non importa se una donna è nata in primavera, nel mese delle pesche: sarà nata in inverno, in una notte di pioggia e vento, se questo servirà a spiegare i suoi occhi azzurri e freddi come ghiaccio. Al mercato si dirà che proviene della Britannia, nonostante abbia tratti certamente orientali, se il suo futuro padrone pagherà per una schiava di Londinium. Verrà condotta alla sua nuova domus, senza più alcuna libertà ed entrerà a far parte del mobilio, di quel gruppo di cortigiani costretti all’obbedienza. E infine cambierà nome, l’ultimo velo di verità che le proteggeva il volto e il corpo da sguardi rapaci. Diventerà un’altra donna, una senza voce e senza storia. Una come me.
La mia, di storia, inizia con uomo, una donna e un intellettuale con i suoi sogni di moderazione e saggezza; la mia vita a Roma cominciò quando abbandonai il mio nome da provinciale asiatica e divenni Claudia Atte, della gens Claudia, liberta per desiderio del suo padrone. Claudia Atte, schiava prediletta di Nerone.
Ora voi direte: “che c’è di bello nell’essere una donna a Roma, e per di più una schiava di Nerone?”
Ma vi posso confermare che non è una sorte così tragica. Innanzitutto le donne sono come colonne a Roma: sempre lì, immobili tanto che nessuno le nota veramente, ma se una di loro decide di cadere e ribellarsi alle dure fatiche che le sono state imposte dalla nascita, tutto il tempio crolla. E a Roma non è contemplata la distruzione. Roma è nata da grandi azioni e grandi menti e tale resterà anche di fronte al tempo inesorabile che scorre. E quando non ci sarà più nulla da fare, il suo ultimo gesto sarà di restare per sempre. Roma si fisserà nell’eternità. E invece le schiave, le schiave sono essenziali ai Romani, non per vivere, ma per vivere bene. Sono le statue al Foro, che i Romani venerano per la loro fattura. Costruite per umana vanità, sono necessarie a riempire i cuori dei Romani, a farli compiacere di loro stessi e della condanna a cui li obbliga la stirpe a cui appartengono: essere i padroni del mondo. Ecco il perché delle statue e delle schiave: la prova materiale della loro arroganza e, purtroppo, della loro grandiosità.
Per quanto riguarda Nerone, lo conobbi quando aveva diciassette anni, quando studiava la saggezza e la moderazione da Seneca e quando sua madre Agrippina stava lentamente perdendo controllo su di lui. Fui amata da Nerone come si ama una donna libera: alla luce del sole, concedendole i doni più preziosi, che io, forse per stupidità, forse per orgoglio, andavo sfoggiando, come se fosse un avvenimento del tutto normale che un uomo come lui potesse scegliere una come me. Mi attirai molte antipatie a corte: Ottavia, lo moglie dell’imperatore, aveva solo undici anni, ma già era capace di odiare. Era stata istruita sul potere e sulle sue conseguenze ed era consapevole che quello che lei esercitava, seppur grande, non bastava per costringere il marito a preferirla a qualunque altra donna: nessun potere può comandare alla mente ciò che il cuore non accetta. Presto imparai che alla corte romana, questo potere era più desiderato del vino: per il potere si faceva tutto e una volta ottenuto, ebbri di potere, ci si barricava nelle proprie stanze, nella speranza che mai qualcuno venisse a reclamare tale tesoro. E se quel qualcuno arrivava? Be’ allora quel qualcuno doveva essere eliminato. Agrippina, la madre di Nerone, non aveva alcun motivo per odiarmi, tranne che io le toglievo quel potere. Fui avvisata: se non avessi obbedito, ci sarebbero state conseguenze. Se avessi ancora nutrito quel falso amore, gli dei mi avrebbero rinnegata. Agrippina mi parlò così tanto della volontà divina che finii per credere che questi nuovi dei, non miei, avevano plasmato i Romani  in modo che non esistesse per loro amore giusto, se non quello combinato per potere. Ecco perché erano così grandi i Romani, perché loro non avevano cuori vivi nel petto, ma solo l’ombra di corazze argentate e lance appuntite nelle mani. Ma Agrippina non considerò che i suoi dei infausti agivano con calma e la mia punizione arrivò molto dopo, dopo degli studi di Nerone, dopo di Ottavia e di Seneca. Arrivò quando un’altra donna fece innamorare Nerone e gli fece dimenticare chi fosse Claudia Atte. Arrivò quando l’imperatore mi esiliò ad Olbia, anche se in segreto, in una sorta di affetto riconoscente, in modo che nessuno potesse ancora ricordarsi della schiava che Nerone era stato sul punto di sposare. La mia condanna fu decisa nel giorno stesso del matrimonio con un’altra donna, Poppea, dell’uomo che mi aveva giurato una fedeltà eterna, eterna come Roma e l’impero a cui Claudia Atte ora appartiene, eterna come il fuoco nel focolare di Vesta, in cui il nostro amore doveva restare impresso. E invece adesso che le uniche fiamme sono quelle del tramonto di Olbia, dei suoi mari instancabili e delle sue spiagge solitarie, adesso che è giunta notizia che Roma brucia e il suo imperatore si è suicidato, adesso gli dei avranno avuto a loro giustizia e avranno tirato nella gola dell’Averno Claudia Atte. Adesso io, una delle tante donne romane libere ed esiliate, senza storia e senza volto per la secondo volta, potrò essere lasciata in pace da questi perfidi dei romani. Adesso che non no ho più niente, potrò vivere senza che altro mi venga tolto e, se anche la mano nera e fredda della morte verrà a riscuotere le ultime briciole della mia esistenza, sarò felice, perché potrò guardare in faccia questi dei e capire quale sorta di creature siedono in alto,  a giudicare e assegnare sofferenze e supplizi agli uomini. Sarò felice perché potrò guardarli in faccia e beffarmi di quale eterna condanna è essere un dio e quale miracolo è essere un comune mortale.
   
 
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